Antonio Montanari

Alle origini di Rimini moderna. 3
Mappe tra politica e cultura

9. Uomini nuovi tra idee vecchie
10. Sebastiano Vanzi, una fama senza tramonto
11. La Malatestiana, prima di Cesena
12. Strade del potere e della cultura
13. Amarcord Petrarca, libri e politica
14. Fiere, terremoti, fami e pestilenze
15. Anche la carestia serve a far soldi
16. Guerre lontane, miseria in casa
17. Gli itinerari del sapere

9. Uomini nuovi tra idee vecchie

Il presidente di Romagna Francesco Guicciardini scrive a Niccolò Machiavelli da Faenza il 7 agosto 1525: “Di nuovo non intendo niente che abbia nervo, e credo che ambuliamo tutti in tenebris, ma con le mani legate di dietro per non potere schifare [schivare] le percosse”. Osserva M. Palumbo: è un pensiero pessimistico: quell'ambulare “appartiene fatalmente al regno esclusivo delle tenebre né esiste possibilità di invertire il senso di marcia del destino”.
Per Girolamo Savonarola invece le tenebre potevano rovesciarsi nel loro opposto attraverso la riscoperta di Cristo: “La fratellanza, la solidarietà, la redenzione presuppongono il suo sacrificio, che s'immette come un cuneo nelle maglie della storia e si propone come un ideale da abbracciare senza riserve”. Questa rigenerazione riguarda non soltanto l'individuo, ma l'intera collettività: “dico a voi, che volete vivere bene: Ambulate dum lucem habetis, - camminate mentre che avete la luce”, predica Savonarola.
Il 26 dicembre 1525 Guicciardini ancora a Machiavelli confessa che sulle cose pubbliche non sa che dire, “perché ho perduto la bussola”. Poi aggiunge: “conosceremo tutti meglio i mali della pace, quando sarà passata la opportunità del fare la guerra”. La bussola perduta è un'efficace immagine della crisi della coscienza italiana, combattuta tra le armi e gli affari, con in mezzo l'arbitro della Politica che non risolve i problemi se non con la violenza. Gli affari e le ricchezze che ne derivavano, nel corso di questo secolo, scrive N. Bazzano, sono minacciati da un'inflazione che caratterizza la vita economica. Peggiorano anche le condizioni dei contadini, come testimonia la rivolta di quelli tedeschi tra 1525 e 1526. Paura e disprezzo dei ceti superiori, spiega V. Beonio Brocchieri, ricadono sui lavoratori della terra.
In Italia come nel resto d'Europa “i nobili, per diritto o consuetudine, hanno la possibilità di amministrare la giustizia civile o penale”, scrive Bazzano, introducendoci ad un argomento di grande importanza per la storia del cinquecento: l'organizzazione dello Stato. Essa avviene, leggiamo in A. Musi, attraverso corpi scelti di funzionari che rappresentano la nascente borghesia degli affari. Lo Stato alimenta anche la “civiltà della carta bollata”. Con avvocati e magistrati che costituiscono una parte delle borghesie del secolo. Come troviamo in un celebre storico, F. Braudel, il denaro distingue il ricco dal povero già come un pregiudizio di nobiltà.
Il cronista ducentesco Salimbene da Parma aveva osservato che i nobili vivevano allora in campagna e nei loro possedimenti, mentre i borghesi erano nei borghi cittadini, dai quali derivava il loro titolo. I nobili invece erano detti “cives”, cittadini, anche se stavano fuori della mura dei centri urbani. Tra i borghesi emerge, scrive C. Di Girolamo, una ricca borghesia degli affari capace di inserirsi in profondità sia nel possesso fondiario sia nelle istituzioni del governo cittadino.
Sono “uomini nuovi” per usare la definizione classica che riguarda quanti come Catone e Cicerone, in Roma antica, erano giunti alle prime cariche della Repubblica senza alcuna raccomandazione da parte degli antenati. Contro la “gente nuova” venuta dal contado nella città di Firenze, si scaglia Dante (Inf., XVI, 73-74) accusandola di aver fatto soldi in fretta e di aver prodotto orgoglio e sfrenatezza. Bernardino Daniello da Lucca, un commentatore di Dante vissuto nel sec. XVI, spiega che la “gente nuova” è quella nuovamente venuta dal contado ad abitar in città. E che i guadagni “sùbiti” di cui parla Dante, sono quelli non leciti ed ingiusti, come ad esempio i frutti dell'usura.
Un “uomo nuovo” che fa una straordinaria carriera come studioso di Diritto partendo proprio da Rimini è Sebastiano Vanzi.
Nato in una famiglia non nobile della periferia riminese, forse in un contesto di proprietari fondiari immigrati già da qualche generazione dalla Toscana, egli ben rappresenta la società del tempo.
In Vittorio Spreti (“Enciclopedia Storico-Nobiliare Italiana”, VI) si legge che la sua antica famiglia era originaria da Scorticata. Francesco, figlio di Gaspare, detto anche Avanzi, andò ad abitare nel 1505 a San Clemente, dove sposò Bernardina Bellino. “Morì nel 1544 lasciando vari figli, fra i quali Lodovico e Sebastiano. Quest'ultimo si diede alla carriera ecclesiastica che percorse brillantemente”, divenendo vescovo di Orvieto.
Il filosofo olandese Ugo Grozio (1583-1645) in una lettera del 1631 inserisce citazioni tratte da scritti di due giuristi italiani, il bolognese Ippolito Marsili (1450-1529) e mons. Vanzi, autore di un trattato sulle nullità processuali, concluso nell'anno giubilare 1550 ed apparso in prima edizione a Lione nel 1552. Sino al 1625 il volume, che gli dà fama internazionale di giurisperito, è pubblicato 24 volte: oltre che a Lione (4), anche a Venezia (14), Colonia (5) e Spira (1). Appare poi a Colonia (5) fra 1655 e 1717.
Lione è il secondo centro tipografico della Francia dopo Parigi, ed una delle principali piazze finanziarie d'Europa per le sue fiere importanti e l'industria tipografica che era d'esportazione. Lione, senza università e Parlamento, gode di grande libertà. Da Lione partono assidue relazioni con Basilea e i paesi renani. Essa fu “quasi una città italiana” dalla fine del Quattrocento sino agli inizi della guerra di religione (1562), come osserva J.L. Fournel. Nel corso del secondo Cinquecento, Lione e Venezia si affermano quali centri dell'editoria giuridica internazionale con un mercato librario esteso all'intera Europa.
Vanzi, prima di diventare Vescovo di Orvieto il 17 aprile 1562, lavora a Roma sotto Paolo IV (1555-1559) quale Luogotenente dell'Auditore Generale della Camera Apostolica, e Referendario (prima carica dopo quella del Prefetto) delle due Segnature, una delle quali è un vero tribunale. Pio IV (1559-1565) lo fa Auditore della Sacra Rota e suo Consultore. Nell'indice della raccolta dei «Tractatus Universi Juris», Venezia 1584, contenente la sua opera al IV tomo, egli è presentato come «romanus».
Dopo la nomina a Vescovo, Vanzi partecipa al Concilio di Trento, occupando uno dei quattro posti di Definitore. Gli affidano l'esame di delicate questioni. Circa l'obbligo per i Vescovi di risiedere in una determinata diocesi, lo ritiene fondato non su precetto divino ma sul diritto canonico. Per i matrimoni segreti, Vanzi ritiene che possano essere invalidati in caso di frode. Nella sua storia dei Concili (1714) il riminese mons. Marco Battaglini (1654-1717) sottolinea il «chiarore della Scienza legale» di Vanzi.
Vanzi scompare nel 1571 a 57 anni, si legge nell'aggiunta all'epigrafe collocata nel 1562 «a cornu Evangeli» nella cappella di San Girolamo del Tempio malatestiano, sotto il busto di Vanzi (appena fatto Vescovo), in segno di riconoscenza per averla riccamente dotata. Nel 1556 la città lo ha già onorato con un «monumento» per celebrare gli amplissimi meriti che, conseguiti negli studi e con scritti giuridici, hanno onorato la sua patria. A lui, vivente, è stata così dedicata la sesta tomba nella fiancata destra dello stesso Tempio di Sigismondo.
Essa è preceduta dalle quattro “malatestiane” (i poeti Basinio Parmense e Giusto de' Conti, il filosofo greco Giorgio Gemisto Pletone, e Roberto Valturio). E si trova tra quella dei medici Gentile e Giuliano Arnolfi (1550), e quella (vuota) per Bartolomeo Traffichetti (1581), medico. Queste tre tombe simboleggiano la scelta politica di dimenticare le vicende malatestiane, considerate fonti soltanto di disgrazie.
Il 2 febbraio 1556 il Consiglio generale di Rimini decide di aggregare Sebastiano Vanzi nel numero dei Nobili della città.


10. Sebastiano Vanzi, una fama senza tramonto

La fama di Sebastiano Vanzi come giurista di gran vaglia continua sino ai giorni nostri. Se ne parla tra gli studiosi di Diritto in tutto il mondo. Soltanto a Rimini Vanzi, che fu vescovo di Orvieto ed uno dei quattro Definitori del Concilio tridentino, è una figura completamente sconosciuta.
Documentiamo le più recenti citazioni di Vanzi quale autore del trattato sulle nullità processuali ("De nullitatibus sententiarum"), uscito in prima edizione a Lione nel 1552. Nel 1991 in un trattato di Diritto penale, Franco Cordero lo chiama "specialista dell'argomento". Tra 1997 e 2010 un docente statunitense, Richard H. Helmhoz, ne esamina il pensiero in ben tre saggi e cinque volumi di Storia del Diritto.
Nel 2006 un saggio di Andrea Landi definisce Vanzi “autorità indiscussa del processo romano-canonico”, osservando che i suoi dati biografici sono “pressoché totalmente sconosciuti”. Landi ricorda che “fin troppo pedissequo seguace” di Vanzi è Biagio Aldimari (o Altomari) che dà alla stampe un trattato analogo a Napoli (1700-1709) ed a Venezia (1701-1710). Nel 1720 c'è l'edizione di Colonia. Dopo di che, Vanzi non è più pubblicato. Ma non dimenticato.
Landi ricorda quanto Vanzi afferma nella prefazione: “egli avrebbe operato nella convinzione di essere utile ai pratici nello sforzo di semplificazione di una materia dispersa in mille rivoli e dopo aver più volte posto mano al suo progetto” senza riuscire a portarlo a termine. Soltanto nel lungo periodo di Sede vacante della Chiesa di Roma, dopo la morte di Paolo III avvenuta il 10 novembre 1549 e sino all'elezione di Giulio III (7 febbraio 1550), il nostro Vanzi può mettere in ordine idee e pagine sino ad allora raccolte. Finalmente, “non distratto da tutti gli altri affari” che doveva gestire a Roma, arriva a dare alla luce il suo volume.
Vanzi, nella dedica del suo lavoro indirizzata al vescovo di Perugia e Spoleto Fulvio Corneo (nipote per parte di sorella del nuovo papa Giulio III), con somma modestia definisce il “Tractatus” una cosa di poco conto (“ineptiae”), completata (appunto nel 1550) soltanto per proprio uso personale, perché non lo riteneva all'altezza di eventuali lettori (“quia pro aliis dignum non putarem”).
Lo stesso tono di grande modestia, è nella prefazione indirizzata “ad Lectorem”, dove Vanzi dichiara di aver voluto soltanto raccogliere con un breve e facile compendio un qualche argomento delle nullità, disperso in molti volumi delle leggi. Nel titolo che introduce al sommario, il trattato è detto “utilis et frequens”, ovvero utile e copioso.
Il 1550 è l'anno in cui papa Giulio III riapre lo “Studium Urbis”, l'università romana, chiuso dopo il sacco del 1527. Dove Vanzi possa aver frequentato gli studi giuridici, non è dato di sapere con certezza. Si può soltanto ipotizzare la sua presenza nell'Alma Mater bolognese, grazie al fatto che nel suo trattato troviamo temi affrontati in quell'università da un maestro del Diritto che vi insegna tra 1537 e 1541, il milanese Andrea Alciato (1492-1550), caposcuola del più maturo Umanesimo giuridico, in cattedra pure ad Avignone e Bruges. Vari volumi di Alciato escono a Lione, dove egli frequenta il “principe” di quei librai, Sébastien Gryphe, un esperto uomo d'affari ed agente della compagnia dei suoi colleghi veneziani, come si legge in un'opera di L. Febvre e H. J. Martin sulla “nascita del libro”.
La carriera di Vanzi a Roma comincia quando Vescovo di Rimini è Giulio Parisani di Tolentino (1550-1574), nipote e successore del Cardinal Ascanio che ha retto la diocesi dal 1529, avendo poi come coadiutore lo stesso congiunto. Ascanio è ricordato per i molti ruoli svolti a Roma. Dove muore nel 1549. Se Vanzi compie la brillante carriera che conosciamo, la scoperta delle sue qualità intellettuali ed un orientamento didattico per i suoi studi, li possiamo accreditare al Cardinal Parisani.
Vanzi affronta la questione del rispetto della legge, intesa quale base di una società in cui esista uguaglianza giuridica fra tutti i cittadini, come sostenuto da Tommaso Moro (1478-1535). In lui c'è l'atteggiamento razionalistico che poi si ritrova in Ugo Grozio (1583-1645). A cui si deve l'idea di un diritto naturale al quale ispirare la costituzione politica degli Stati, seguendo l'ammaestramento di Erasmo da Rotterdam (1466?-1536) che nel 1516 con la “Institutio principis christiani” esorta a considerare i sudditi quali uomini liberi, legati da una specie di patto al loro principe.
Nella prospettiva giuridica presente in Vanzi, si riflette la disputa del suo tempo tra il principio di autorità e l'atteggiamento critico che s'interroga sul senso delle strutture giuridiche, come attesta proprio Alciato. La politica è vista come un sistema di leggi, non quale narrazione del passato come in Machiavelli.
È il ritorno al principio di Tommaso d'Aquino, della legge “humana” quale ordine che si realizza in vista del bene comune, mediante il “diritto delle genti”. Dal quale sono dettate le regole, la cui violazione è punita dallo “jus civile”.
Vanzi, spiegando nella premessa che sovente le dispute nel tribunali sboccano in un labirinto che spaventa quanti chiedono giustizia, richiama il tema della crisi del Diritto comune, un processo storico dal carattere europeo, centrato sull'analisi dei rapporti di potere, che si concluderà alla fine del Settecento.
L'opera di Vanzi comincia richiamando il passo ciceroniano del “De Officis” sulla necessità di definire ciò di cui si parla: “Omnis enim, quae a ratione suscipitur de aliqua re, institutio, debet a definitione proficisi; ut intelligatur, quid sit id, de quo disputetur” (I, 2). Il richiamo ad un classico latino è uno slancio umanistico presente in tutta la nuova cultura giuridica del suo tempo (osserva A. Padoa Schioppa, 2007), come dimostra Alciato, grande rinnovatore degli studi giuridici, per cui è definito “immortale” da G. Tiraboschi (1777).
Alciato sostiene la necessità di una preparazione filosofica per i giuristi. I richiami umanistici alla ragione in età rinascimentale (come nel caso di Vanzi), esprimono l'ansia di “scoprire e additare un mondo nuovo [...]: un mondo libero, aperto a una vita nuova dello spirito”, scriveva nel 1920 il filosofo Giovanni Gentile, citato da Nicola Gradini (2010).
Nella storia delle "Chiese d'Italia" (V, 1846) don Giuseppe Cappelletti prete veneziano, descrive mons. Vanzi vescovo di Orvieto come "diligentissimo di regolare la sua diocesi secondo le costituzioni" tridentine: "intraprese due volte la visiti della diocesi, e due volte conseguentemente ne celebrò il sinodo, nel 1564 e nel 1568; eresse il seminario dei chierici, a cui diede in dote le rendite delle due cappelle di Santa Lucia e de' santi Cosma e Damiano, che sono nella chiesa di santa Cristina in Bolsena, e similmente le rendite della chiesa di san Bernardo fuori di Orvieto. Nell'anno 1567, rizzò nella cappella del santo corporale un altare, sotto la invocazione del santo Sepolcro, la dotò di un capitale di mille scudi d'oro, e ne diede il patronato alla sua famiglia, coll'obbligo di mantenere in Perugia sei giovani di Orvieto a studiare la filosofia".
Nella cappella del Corporale, nel 1571 Ippolito Scalza scolpì la tomba del vescovo Vanzi. Ad Orvieto si conservano ancora le sacre vesti da lui indossate al concilio tridentino.
Alla famiglia del vescovo appartengono altri personaggi che agiscono sulla scena di Rimini. Da suo fratello Ludovico deriva il pronipote Ignazio, bibliotecario in Gambalunga tra 1711 e 1715. Ad un ramo collaterale appartiene Angelo, teologo e il priore di Sant'Agostino (1618) che nel 1622 curò un'edizione del trattato sull'usura di Gregorio da Rimini, vissuto nel sec. XIV.


11. La Malatestiana, prima di Cesena

Il progetto di costituire una biblioteca aperta al pubblico e utile agli studenti poveri, è testimoniato nel 1430 per iniziativa di Galeotto Roberto Malatesti, che segue una intenzione dello zio Carlo, morto l'anno prima. A Carlo un canonico Maestro di Grammatica ha lasciato in eredità una casa che Galeotto Roberto vende per realizzare il progetto. Nasce così la prima biblioteca pubblica d'Italia, come riconosciuto (2010) da C. S. Celenza e B. Pupillo della Johns Hopkins University.
È del 15 febbraio 1432 il "breve" di papa Eugenio IV sulla fabbrica del convento di San Francesco. Forse si riferisce anche ai lavori necessari per realizzarvi la biblioteca. Risale al 1475 il testamento di Roberto Valturio che lascia la propria biblioteca alla libreria del convento dei frati di San Francesco di Rimini, ad uso degli studenti, degli altri frati e dei cittadini, con la clausola che si trasferiscano tutti i libri in altra stanza nel solaio, adatta all'uso di libreria.
Il documento è pubblicato per la prima volta da Angelo Battaglini nel 1794. Da esso si ricava che nel 1475 esiste già una libreria del convento di San Francesco, posta al piano terreno. Essa, osserva Battaglini, era già diventata copiosa a spese di Sigismondo, ma giaceva "in piano a terra pregiudicevole a materiali sì fatti". Il trasporto al piano superiore avviene nel 1490.
Battaglini conclude: Rimini "dovette dunque non meno a Sigismondo suo Principe, che al suo cittadino Roberto Valtùri l'acquisto fatto d'una pubblica Biblioteca". Sigismondo, come ricorda per primo Valturio nel "De re militari", dona alla biblioteca monastica francescana "moltissimi volumi di libri sacri e profani, e di tutte le migliori discipline". Sono testi latini, greci, ebraici, caldei ed arabi che restano quali tracce del progetto di Sigismondo per diffondere una conoscenza aperta all'ascolto di tutte le voci dell'antichità greca e latina.
Dunque nel 1455 la biblioteca del convento di San Francesco esiste già. Valturio ricorda pure che a lui ed a molti altri era stato affidato da Sigismondo l'incarico di procurare i testi per le nuove biblioteche che il signore della città voleva realizzare.
1490. L'iscrizione di questo anno (e non 1420 come si era in un primo tempo letta), ora nel Museo cittadino, ricorda il trasferimento della biblioteca francescana al piano superiore del convento da quello a terra, troppo umido per conservarne i materiali.
Il testo latino è: "Principe Pandulpho. Malatestae sanguine cretus, dum Galaotus erat spes patriaeque pater. Divi eloqui interpres, Baiote Ioannes, summa tua cura sita hoc biblioteca loco. 1490" ("Sotto il principato di Pandolfo. Mentre Galeotto, nato dal sangue di Malatesta, era speranza e padre della Patria. Per tua somma cura, Giovanni Baioti teologo, la biblioteca è stata posta in questo luogo. 1490"). Giovanni Baiotti da Lugo, frate francescano e guardiano del convento, è un teologo.
Dell'iscrizione non è stata mai fornita sinora la corretta trascrizione. Infatti si è letto come "sum" quanto va trascritto come "summa".
Nel 1560 la biblioteca è costituita da due file di plutei di venti elementi ciascuna. Circa centocinquanta opere sono nella prima fila, circa centoventitre nella seconda. Questi dati risultano da un inventario (molto confuso) del 1560, conservato a Perugia e pubblicato nel 1901 da Giuseppe Mazzatinti.
Ricordiamo una notizia relativa al 1511, e contenuta in un testo settecentesco manoscritto di padre Francesco Antonio Righini: dai libri conventuali di San Francesco risulta che la biblioteca era stata trasferita a Roma per ordine del papa Giulio II ("sic jubente Pontefice"). Righini cita un diario del bolognese Paride Grassi, cerimoniere pontificio, relativo al soggiorno riminese presso i francescani del papa stesso.
Il testo di Righini forse allude ad un trasferimento parziale, dato appunto che nel 1560 la biblioteca era costituita da due file di plutei di venti elementi ciascuna. Padre Righini è passato alla storia con la fama di falsario per una storia legata alla beata Chiara da Rimini. Inventò la scoperta d'un manoscritto datato 1362, ma in realtà del 1685, come rivelato dai raggi ultravioletti.
All'inizio del secolo XVII, precisa Antonio Bianchi (in “Storia di Rimino dalle origini al 1832”, Rimini 1997, a cura di Antonio Montanari, p. 146), "della preziosa libreria, che i Malatesti, per conservarla ad utile pubblico, avevano dato in custodia ai frati di San Francesco", restano soltanto quattrocento volumi per la maggior parte manoscritti.
Questo "rimasuglio" di quattrocento volumi (in realtà molto meno, circa 283, per l'inventario del 1560), va perduto secondo monsignor Giacomo Villani (1605-1690), perché quelle carte preziose finiscono in mano ai salumai ("deinde in manus salsamentariorum mea aetate pervenisse satis constat").
Federico Sartoni (1730-1786), come riferisce Luigi Tonini (“Rimini dopo il Mille”, p. 94), sostiene invece che i frati vendettero la libreria alla famiglia romana dei Cesi, alla quale appartengono i fratelli Angelo, vescovo di Rimini dal 1627 al 1646, e Federico, fondatore dell'Accademia dei Lincei nel 1603.
L'illustre storico Augusto Campana nel celebre studio sulle biblioteche italiane (1931), scrive al proposito della presenza dei padri francescani nella biblioteca malatestiana: "È possibile, ma è prudente darlo solo come possibile, che questa libreria - per servirmi delle parole del Massèra - fosse affidata ai frati di San Francesco". Prosegue Campana: "Ad ogni modo presso di quelli, verso la metà del quattrocento, dovette stabilirsi una notevole raccolta di libri", poi arricchita da Sigismondo (come abbiamo già visto). Quindi Campana non mette in dubbio l'esistenza di una pubblica biblioteca malatestiana "ad communem usum pauperum et aliorum studentium", ma segnala che è prudente (seguendo Massèra) considerare possibile una sua gestione da parte dei frati.
Il che però contrasta fortemente con il testamento di Valturio del 1475 che si rivolge direttamente a quei frati. Se non l'avessero gestita loro, Valturio non avrebbe scritto quanto leggiamo nelle sue volontà (in ben tre stesure), dove sempre si parla della "libreria del convento dei frati di San Francesco". Le carte d'archivio parlano chiaramente, e fanno decadere l'osservazione di Massèra e la conseguente cautela di Campana.
Massèra incolpa i Conventuali riminesi d'aver lasciato "disperdere le ricchezze raccolte", non conoscendo la notizia di Righini del 1511, secondo cui la biblioteca era stata trasferita a Roma "sic jubente Pontefice".
I frati vendettero liberamente la libreria alla famiglia romana dei Cesi, come pare sostenere Sartoni? Forse essi furono costretti non dico dal vescovo romano, ma dalle loro misere condizioni che risultano da molti documenti conservati nell'Archivio di Stato di Rimini. E se il vescovo Cesi, invece, avesse voluto di sua spontanea volontà salvare la preziosa biblioteca malatestiana, minacciata di dispersione come quella di Brescia o di distruzione come quella di Pesaro nel 1514? L'unica che resta è quindi quella, magnifica, di Cesena, voluta da Novello Malatesti, educato a Rimini come Sigismondo da Elisabetta Gonzaga, moglie dello zio Carlo. Lei riversa su di loro i frutti di una formazione di stampo umanistico, maturata nella famiglia d'origine e presso la corte riminese.
Carlo nel 1397 a Mantova, quale capitano della lega antiviscontea, fece rimuovere un'antica statua di Virgilio, con un gesto ritenuto da Coluccio Salutati oltraggioso verso la poesia, e da Pier Paolo Vergerio indegno d'un principe che pretenda di amare gli studi e la storia. Aveva voluto soltanto segnalarsi al potere ecclesiastico.


12. Strade del potere e della cultura

Leon Battista Alberti a metà del XV sec. ridisegna l'esterno della chiesa di san Francesco a Rimini per trasformarla nel tempio voluto da Sigismondo Pandolfo Malatesti. Realizza un'idea coltivata nel suo "De re aedificatoria". Le opere dell'antichità, vi leggiamo, sono dei modelli da cui molto si può apprendere per pensarne di nuove. Nella facciata del tempio, Alberti mette in pratica il principio teorico scandendo lo spazio con quattro semicolonne ispirate al vicino Arco di Augusto. L'esempio del passato diventa novità e fonde in un'immagine originale il richiamo alla Storia.
L'edificio progettato da Alberti sovrasta la città allo stesso modo in cui il suo signore domina la scena politica aldilà della cerchia delle mura. Il valore ideale del richiamo al mito iconografico degli imperatori non è un vano esercizio di retorica finalizzato a scopi di propaganda politica. Esso incarna il sogno di rinnovare nel tempio un progetto universalistico che, oltre le strade della politica, cerca di costruire un ponte ideale con quanto dal passato poteva ritornare nel presente. In un territorio meno ovvio e bellicoso delle rivalità fra governanti, quello della cultura.
È un sogno umanistico in piena regola, non gretta amministrazione di un patrimonio condizionato da condotte militari e trattative diplomatiche. Le armi degli eserciti e le insidie dei canali politici cedono il passo a un progetto grandioso, simboleggiato dall'operazione architettonica eseguita da Alberti nel tempio riminese.
Nella cui fiancata destra che guarda verso Roma, trovano ospitalità i sarcofagi di studiosi e letterati proprio per dimostrare quel sogno umanistico che fa della cultura non uno sterile strumento della politica, ma l'habitat naturale di una corte e della vita cittadina.
Da questa premessa deriva pure la scelta di apporre su entrambe le sue fiancate l'adattamento di una celebre iscrizione greca di Napoli. Essa documenta l'alta cultura umanistica presente in àmbito malatestiano riminese. Sigismondo, “scampato a moltissimi e grandissimi pericoli nella guerra italica”, dedica il tempio (“un monumento illustre e caro”) “a Dio immortale ed alla città”. Di Sigismondo il testo elogia il valore delle sue imprese, ma non dimentica la “buona fortuna” che lo ha assistito. L'accenno alla “buona fortuna” rimanda a testi contemporanei, confermando lo spirito umanistico proiettato con meraviglioso vigore nel tempio.
Nel 1453 nell'orazione tenuta a Vada (quando Firenze conferma a Sigismondo la guida del proprio esercito prima che si concluda la guerra italica a cui si riferisce l'iscrizione), Giannozzo Manetti spiega che un capitano ideale deve avere quattro doti: scienza delle armi, virtù, autorità e “”la prosperità, cioè la buona fortuna, e come vulgarmente si dice la ventura”.
Alberti nel “Della famiglia” ammaestra che “tiene giogo la fortuna solo a chi se gli sottomette”, per dimostrare il primato della “virtù”. Su questo primato concorda anche Basinio Basini in un'epistola poetica dedicata proprio a Sigismondo, anche se non dimentica il ruolo avuto dalla “buona fortuna” nelle guerre condotte dal signore di Rimini. Di essa tratta pure nel poema “Hesperis” a lui offerto. È quella “buona fortuna” di cui si legge nella tradizione greca.
Alberti umanista, ha scritto Ezio Raimondi, reinventa la romanità nel tempio di Sigismondo con una “dimensione grande” che, proponendosi come risposta “alla miseria dell'uomo”, “rinasce con un volto tutto riminese, adattata a un territorio in cui la pietra si porta dentro anche il senso dell'acqua”.
La nascita del tempio di Sigismondo è una grande pagina di storia non soltanto locale, che può essere letta correttamente se la inquadriamo in quel grande libro della cultura italiana composto nell'arco di due secoli: non soltanto il Quattrocento del Malatesti, ma anche quel Cinquecento che vede il tramonto della sua signoria. La vicenda artistica dell'edificio dell'Alberti dimostra che le strade di potere e di cultura sono sempre affiancate, anche nei momenti in cui il declino del primo elemento tenta di offuscare il valore della seconda realtà.
Sulle signorie padane Gian Mario Anselmi ha scritto una pagina fondamentale quando ha osservato che esse permettono alla cultura ed alla letteratura rinascimentali di raggiungere “uno sviluppo che le colloca al vertice della storia italiana ed europea del tempo”. Per comprendere come ciò avviene, Anselmi delinea una mappa culturale e politica, dominata dalla diagonale che lega le corti francesi a Milano, Mantova, Parla e all'area estense con il centro a Ferrara. Scendendo verso Sud incontriamo Bologna, Ravenna e la Romagna in direttrice con lo Stato della Chiesa e con Roma.
Uscendo da questa mappa di grande suggestione, per Rimini resta da osservare soltanto che va citato anche il ponte con l'Oriente che Sigismondo getta in un momento difficile. Dopo la presa di Costantinopoli, Sigismondo tenta un simbolico abbraccio culturale tra Oriente ed Occidente. Nel 1461 aderisce all'invito del sultano dei Turchi ad inviargli uno dei migliori artisti della sua corte, Matteo de' Pasti, con l'incarico di fargli un ritratto. A lui Sigismondo affida per Maometto II una copia del “De re militari” di Valturio. In una elegante epistola latina stesa dallo stesso Valturio, Sigismondo dichiara di voler far partecipe il sultano dei propri studi ed interessi.
Matteo de' Pasti, arrestato in Candia prima di giungere a destinazione, è trasferito a Venezia dove è processato e liberato il 2 dicembre 1461 dopo esser stato riconosciuto innocente. Contro Sigismondo i suoi avversari inventano un'altra gravissima accusa: d'aver invitato Maometto II a combattere il papa. In tal modo lo accreditano in un solo botto come nemico della Religione, dello Stato della Chiesa, delle signorie e dell'Italia tutta.
L'accusa e la vicenda che la genera, dimostrano quanto si diceva prima: le strade del potere e della cultura corrono parallele.
Pletone, teologo a Costantinopoli, era giunto a Firenze per il Concilio nel 1439. La sua “concezione cristianeggiante del platonismo” sarebbe stata trasformata “con un cumulo di bugie e di contumelie” da Giorgio di Trebisonda (osservava G. De Ruggiero) nella leggenda di un riformatore religioso che annuncia la fine delle tre grandi religioni: ebraica, cristiana e maomettana. Gemisto sognava uno Stato ideale come incarnazione della repubblica di Platone, vero idolo dei nostri umanisti. Sigismondo recupera a Mistra le ossa di Pletone il 16 agosto 1464 a dodici anni dalla sua morte, per farle collocare nel terzo sarcofago esterno del Tempio.
Dopo la conquista di Costantinopoli da parte di Maometto II (29 maggio 1453), quando sembra accentuarsi la necessità del dialogo fra mondi in apparenza divisi su tutto, Sigismondo continua ad agire da filosofo umanista. Il suo compito non è quello d'ordinare sistematicamente il pensiero precedente, ma di cogliere nel suo divenire gli spunti sui quali costruire quello futuro.
Per comprendere quanto di umanistico offrano le idee ed i progetti culturali di Sigismondo, è utile rammentare con lo storico della Filosofia Paolo Rossi “che le verità presentate come ovvie nei manuali sono in realtà dei risultati; che quei risultati hanno alle spalle processi lunghi e complicati; che dietro ciascuno di quei risultati sono presenti, contrasti, difficoltà, tentativi di individuare le crisi e di uscire da esse; che anche il passato (e non solo l'avvenire) è pieno di cose imprevedibili”.
La figura di Sigismondo rassomiglia molto a quella dell'Alberti che, come scrisse Francesco De Sanctis, è l'ideale sintesi dell'uomo nuovo, quale si andava allora elaborando in Italia. E che si proietta su tutto il Cinquecento.


13. Amarcord Petrarca, libri e politica

Durante il XVI sec. a Rimini succedono due fatti in apparenza non legati tra loro. C'è una nuova testimonianza della quattrocentesca biblioteca Malatestiana nel convento dei francescani, a fianco del tempio voluto da Sigismondo: è l'inventario del 1560, conservato a Perugia e pubblicato nel 1901 da Giuseppe Mazzatinti.
E poi c'è l'arrivo in città di imprenditori forestieri (lombardi per A. Rigazzi, 1567 c., bolognesi secondo C. A. Del Frate, 1716). Essi fanno soldi e li investono anche nella cultura. Il loro cognome è Gambalunga, il più famoso diventa Alessandro che tra 1610 e 1614 costruisce il palazzo in cui “nella stanza da basso” colloca una biblioteca divenuta pubblica, la prima in regione e la terza in Italia, dopo l'Ambrosiana di Milano (1609) e l'Angelica di Roma (1614). In Emilia si aprono molto dopo le biblioteche di Modena (1750), Ferrara (1753), Bologna (Universitaria, 1756), Parma (1769) e Piacenza (1778).
Alessandro è nipote di un maestro muratore approdato poi alla mercatura, e figlio di un commerciante “da ferro” arricchitosi sia con gli affari sia con le doti di quattro matrimoni. Sua madre è forse la terza moglie, Armellina di Angelo Pancrazi. Nel 1583 circa a trent'anni si laurea in Diritto civile e canonico a Bologna per fregiarsi del titolo, più pregiato di quello nobiliare che ha acquisito e che oggi è giudicato dubbio.
Sul “tronfio quanto spiantato ceto patrizio locale” (come sta scritto nel sito web della Biblioteca Gambalunga, con uno stile che sembra di Piero Meldini), leggiamo quanto il bolognese Angelo Ranuzzi, referendario apostolico e governatore di Rimini, annota nel 1660 con un “eloquente e malizioso ritratto”: “Vi sono molte famiglie antiche e nobili che fanno risplendere la Città, trattandosi i Gentiluomini con decoro et honorevolezza, con vestire lindamente, far vistose livree et usar nobili carrozze: nel che tale è la premura et il concetto fra di loro, che si privano talvolta de' propri stabili, né si dolgono di avere le borse essauste di denari per soddisfare a così fatte apparenze”.
Nel 1617 Alessandro Gambalunga fa testamento: la sua libreria dovrà essere aperta a tutti e quindi passa al Comune, ci sarà un bibliotecario (“persona di lettere idonea ed atta”) stipendiato con i propri soldi e nominato dai Consoli della città. Altra somma destina per gli acquisti di nuovi libri, la legatura ed il restauro di quelli in essa conservati. Il 9 agosto 1619 nomina lui stesso il bibliotecario, un dottore in legge suo amico, Michele Moretti, che diventa pure amministratore dei suoi beni. Il 12 agosto successivo, Alessandro Gambalunga scompare lasciando 1438 volumi. Moretti resta in carica sino al 1649.
La Gambalunga non è soltanto la terza biblioteca pubblica d'Italia ma, come scrive la storica Paola Delbianco, è pure la prima ad essere civica, ovvero appartenente ad una amministrazione cittadina. Così Rimini ospita la prima biblioteca pubblica e la prima biblioteca civica italiana. Non è soltanto un primato culturale, ma pure politico dal momento che ogni fenomeno che riguarda la vita intellettuale di un luogo è influenzato dalle linee amministrative che in esso prevalgono. Non per nulla oggi in Italia si parla di fuga dei cervelli. E nella Bologna del 1400, come osserva Ezio Raimondi, la crisi dell'Università dipende da “uno stato di cose assai più largo e complesso” che impediscono a quella città di avere “la pace necessaria per l'affermazione graduale, paziente di una cultura e d'una scuola”.
Su come nasce l'idea di biblioteca pubblica in Europa, si cita Richard de Bury (1287 [1281?]-1345), vescovo di Durham, cancelliere inglese nel 1336. Ogni cosa scritta, leggiamo in Mario Praz, su di lui “esercitava un'attrazione irresistibile”. Non si tratteneva nell'acquistare libri, ma molti ne ricevette anche dai monasteri con cui era in contatto. E dai quali essi tornavano a rivedere la luce grazie a lui che andava liberamente a frugar nei nascondigli. Dove giacevano indisturbati, dimenticati ed anche guastati dal tempo.
Il Francia la biblioteca del Capitolo di Rouen è accessibile agli stranieri, e pubblica, almeno in una certa misura, prima del 1428, anno in cui i canonici prendono misure per rimediare agli inconvenienti provocati da un accesso troppo esteso. La biblioteca che rivendica ufficialmente il titolo è aperta soltanto nel 1644: è quella detta "Mazarine" dal nome del cardinal Giulio Mazarino.
Già nel 1437 l'umanista fiorentino Niccolò Niccoli, possessore dei libri di Boccaccio, aveva ordinato nel testamento che gli ottocento manoscritti che formavano la sua biblioteca personale fossero destinati ad uso pubblico. Ma il modello italiano più celebre è quello non portato a compimento, e dovuto a Francesco Petrarca. Girolamo Tiraboschi scriveche egli, “trovandosi l'anno 1361 in Venezia e non essendo alieno dal fissare ivi stabil soggiorno, fece a quella repubblica la generosa offerta di tutti i suoi libri, chiedendo per sé e per essi una casa in cui poterli disporre, e dare in tal modo cominciamento a una pubblica biblioteca che poi avrebbe col tempo e colle altrui liberalità acquistata gran fama”.
Petrarca si era rivolto al doge Lorenzo Celsi con una supplica scritta di sua mano, per donare i suoi libri (come si legge in una traduzione del 1768 di M. A. Laugier) “con patto che non saranno né venduti, né distrutti, e che saranno custoditi in luogo a coperto dell'acqua e del fuoco, per comodo dei Nobili Veneziani, che ameranno le scienze. Questi libri non sono né in gran numero, né molto preziosi; ma spera, che questa Città ve ne aggiungerà degli altri; che molti particolari ed anco forestieri a suo esempio aumenteranno questa raccolta; di modo che si potrà pervenire col tempo a formare una Biblioteca simile alle Biblioteche antiche e celebri: ciò che ridonderà in onore di S. Marco. Se ciò succede, Francesco goderà di aver dato principio a tanto bene: dimanda non una casa grande, ma una casa onesta, dove vi sia un alloggio anco per lui, risolvendo di rimanervi il restante di sua vita; di che non è certo, ma lo spera”. Il progetto non va in porto, per cui Petrarca nel 1368 si trasferisce a Padova.
Come è stato osservato da L. Chines e M. Guerra, Petrarca è il primo intellettuale della nostra tradizione letteraria a cui appartenga il senso della trasmissione della cultura. E proprio con lui nasce la definizione di “biblioteca pubblica”. Di ciò troviamo l'eco nelle vicende della Malatestiana di Rimini nel 1430.
Ma tra queste vicende e le idee del Petrarca c'è un'altra specie di ponte da ricordare. Nell'ottobre 1364 il poeta esprime a Pandolfo II ed al fratello Malatesta Ungaro il suo dolore per la morte del loro padre Malatesta Antico, di cui attesta il grandissimo ricordo lasciato con la sua vita piena di gloria. Nel 1372 il Malatesti invita il poeta a Pesaro. La risposta (negativa) contiene le condoglianze per la morte della moglie e del fratello di Pandolfo, e l'annuncio dell'invio delle proprie rime volgari, il "Canzoniere", che definisce "cosucce" (nugellae).
In casa Malatesti era ben presente pure il ricordo di Pandolfo II a frequente colloquio con il Petrarca tra i suoi libri, che Pandolfo diceva essere il posto ideale del poeta. Pandolfo era in sintonia massima con Petrarca che considerava lo studio unico mezzo per diventare immortali. Anche il Malatesti ama i libri. Lo documenta Petrarca. Finiranno bruciati nel 1514 assieme ai documenti di famiglia. Pandolfo nella biblioteca del poeta di cui è ospite, non vede soltanto la proiezione di un'ansia ben descritta da Petrarca, ma soprattutto la tensione spirituale necessaria nel costruire il presente e progettare il futuro. Era già un umanista.


14. Fiere, terremoti, fami e pestilenze

Una "fiera delle pelli" si tiene fin dal 1500 a Rimini tra Borgo San Giuliano e le Celle, per la ricorrenza di sant'Antonio dal 12 al 20 giugno, dal ponte di Tiberio o della Marecchia (con le botteghe di legno) sino al torrione del monastero del Monte della Croce alle Celle, posto lungo la strada per Cesena (lato a monte) poco dopo il bivio con la via per Ravenna.
La "fiera delle pelli" è seguìta da quella di san Giuliano nata nel 1351 nell'omonimo Borgo (dal 21 giugno, vigilia della festa del santo, sino al 22 luglio). Il calendario resta stabile fino all'inizio del 1600, quando soprattutto a causa delle carestie, le due fiere sono spostate fra settembre ed ottobre, inglobando pure quella di san Gaudenzio nata in ottobre nel 1509.
Sino al 1538 la fiera di san Gaudenzio si svolge fuori dalla porta di San Bartolo, verso la attuale Flaminia uscendo dall'arco d'Augusto, che apparteneva al quartiere di Sant'Andrea ed anticamente aveva fatto "l'ufficio di porta, e perciò fu detto porta di San Genesio, e di San Bartolo" (L. Tonini). Dopo il 1538 la fiera è spostata alla piazza maggiore, nell'antico foro romano, "propter ruinam" dello stesso Borgo di San Gaudenzio, provocata "dalle ultime guerre con i Malatesti" (C. Tonini).
All'inizio del secolo la crisi economica ha unificato ad ottobre (poi tra 8 settembre ed 11 novembre), in una "fiera generale" i tre appuntamenti tradizionali: delle pelli, di san Giuliano e di san Gaudenzio.
Nel 1627 esse, sempre come "fiera generale", sono anticipate dal 15 agosto al 15 ottobre, e nel 1628 ritornano dall'8 settembre all'11 novembre. Nel 1630 è sospesa la "fiera delle pelli" per la pestilenza, preceduta da due anni di carestia. Nel 1656 nasce la fiera di sant'Antonio sul porto, dal 6 all'11 luglio, riscoperta di recente (M. Moroni, 2001).
Già nel 1613, narra Adimari, cinquanta mercanti tra forestieri e cittadini, hanno chiesto una nuova fiera in primavera, "mossi dalla bona commodità del vivere et negotiare, et conversare et fare esito delle loro mercantie in questa città". Nel 1656 c'è questa iniziativa che si ripete nel 1659, ma è sospesa nel 1665 per volere del governatore di Rimini. Riprende il 22 maggio 1671 per undici giorni (cioè sino al primo giugno), con l'autorizzazione di papa Clemente X del 13 agosto 1670.
Nel 1678 l'apertura è posticipata al 3 agosto, per sperimentare, come si legge in un atto comunale, "se in questo tempo potesse prendere quell'augmento che hoggi giorno fa' conoscere l'esperienza non ritrovarsi, a causa forse di venire in tempo scarso di monete per non essere seguiti li raccolti". Non sono d'accordo i doganieri: in agosto con la franchigia per la fiera riminese, non pagherebbero dazio le barche che ritornano dalla fiera di Senigallia. Il 10 maggio 1681 la fiera sul porto è sospesa. Ogni anno era andato "diminuendo il concorso" di mercanti e compratori per cui non portava "se non incomodo" ai commercianti di Rimini.
Nel 1691 la fiera riprende. L'anno precedente il prefetto delle "Entrate" ha scritto al Consiglio: sono andate in disuso e sono state tralasciate le due fiere tradizionali, quella d'ottobre dalla porta del Borgo di san Giuliano alla Madonna del Giglio, e l'altra di maggio sul porto. Nel giro di un secolo l'appuntamento autunnale di san Gaudenzio era passato dal Borgo di porta romana a quello di san Giuliano. Il prefetto proponeva di "rimettere ò l'una ò l'altra", con un calendario adatto sia alla città sia ai mercanti forestieri.
Il 17 giugno 1690 il Consiglio civico ha approvato (25 contro 12) di ripristinare alla fine del maggio 1691 "la fiera che si faceva nel Porto", seguendo concessioni e privilegi papali del 1670. Il segretario comunale Felice Carpentari il 18 ottobre 1690 ha suggerito un posticipo al 6 luglio, in deroga agli ordini di papa Clemente X del 1670, "parendo che in detto tempo si rendesse più facile l'introduzione, e più numeroso il concorso" dei mercanti. Ed il Consiglio ha approvato (34 contro 6).
Il 14 febbraio 1693 non è però giunta ancora l'autorizzazione allo spostamento della data quando in Consiglio si approva (32 contro 11) un nuovo memoriale del prefetto delle "Entrate" che invita ad osservare il vecchio calendario di fine maggio. Lentamente le fiere riminesi vanno di nuovo "in disuso". Soltanto nel 1726 si riapre quella sul Porto in onore di sant'Antonio.
Abbiamo ricordato la rovina del Borgo di San Gaudenzio. Va citata pure quella del Borgo Nuovo di San Giuliano nel 1469.
Quando il pontefice scalpita, considerandosi beffato da Roberto Malatesti che non ha mantenuto la promessa di prendere Rimini in nome della Chiesa. Paolo II invia a giugno i propri soldati. Roberto, dopo la morte del padre Sigismondo non si getta immediatamente nella mischia, ma prima accetta di amministrare la città assieme a Isotta ed al fratellastro Sallustio. Isotta e Sallustio nel 1466 sono stati dichiarati da Sigismondo eredi di tutti i suoi beni. Il governo di Isotta, Roberto e Sallustio passa alla storia per il bando che concede la libertà di commercio d'importazione a tutti i mercanti cittadini e forestieri.
Nel 1469 Rimini vive un momento drammatico che avrà conseguenze gravissime. Il Borgo Nuovo di San Giuliano, è letteralmente cancellato (come racconta L. Tonini). Nell'agosto le truppe papali entrano in città attraverso il fiume Marecchia. Roberto riesce a ricacciarle indietro, impedendo loro di proseguire verso l'antico foro romano.
Dal Borgo Vecchio di San Giuliano (che s'estendeva dal ponte di Tiberio sino alle mura poste dietro l'omonima chiesa), i pontificii bombardano Rimini, e poi ripiegano nella campagna dopo aver distrutto con le fiamme quasi completamente il Borgo Nuovo. La gloria militare di Roberto risplende nelle cronache che ne esaltano il valore per aver combattuto ferocemente con le poche forze armate a disposizione. Ma il destino della città è segnato in maniera terribile dal quel fuoco che avvolge il Borgo Nuovo.
Questi avvenimenti, accaduti tra giugno ed agosto 1469, cambiano il volto della città. Ad essi però non è stata prestata la necessaria attenzione.
Nel 1469 Rimini è dapprima bombardata con 1.122 colpi dalle truppe pontificie appostate lungo il Marecchia , e poi vede bruciare gran parte del Borgo Nuovo di San Giuliano che sorgeva dalla cinta malatestiana dietro la chiesa omonima lungo un chilometro e mezzo sino alle Celle "ove le strade per Bologna e per Ravenna fanno trivio" (L. Tonini).
Il Borgo Nuovo è attestato dal 1248, ed era sede della fiera che prendeva nome dal luogo (vedi Statuti del 1351).
Sull'analogo episodio del 1356 accaduto nel Borgo Vecchio, L. Tonini, partendo dall'Annalista Cesenate, scrive: "ai 17 di Ottobre Francesco Ordelaffi Capitano di Forlì venne coi cavalli e coi fanti forlivesi e cesenati sin al Borgo San Giuliano di Rimini, facendovi abbruciar molte case, e traendone molti uomini e molta preda".
I bombardamenti e la distruzione del Borgo Nuovo di San Giuliano non sono elementi di sfondo come purtroppo appaiono a chi (e sono quasi tutti quelli che ne hanno scritto) riduce la storia ad una serie di fatti diplomatici e di illustri biografie. Essi si presentano invece come un totale sconvolgimento la cui portata è avvertibile soltanto se li collochiamo in un contesto più ampio di quei fatti diplomatici e di quelle biografie che solitamente sono presi come contenitori con cui spiegare tutto.
L'aspetto economico di questo contesto consiglia di ricordare un dato non secondario. Il Borgo Nuovo sembra timidamente rifiorire all'inizio del 1500 proprio con quella "fiera delle pelli" che abbiamo ricordato all'inizio. Le case distrutte riaffiorano dopo una fiumana del XIX sec. (L. Tonini).


15. Anche la carestia serve a far soldi

Li chiameremo politici per farla breve. Sono i Signori della città, quelli che comandano in nome dei privilegi. Dovunque, nel corso del Cinquecento, esiste una struttura sociale a piramide, "in cui il ricco tende a divenire sempre più ricco ed il povero sempre più povero" (G. Angelozzi).
La solidità della piramide è garantita dal ferreo controllo che una ristretta nobiltà esercita attraverso la gestione del potere politico. Il luogo in cui ciò avviene, è il Consiglio Generale della Comunità, spiega G. Tocci che aggiunge: in Romagna l'età della decadenza è più lunga che altrove. Al patriziato, sempre più chiuso nel ruolo di percettore di rendite agrarie, s'oppone il mondo in crisi di artigiani e mercanti. Quanti stanno al centro (come gli ufficiali e gli uomini di legge) preferiscono guardare con simpatia ai nobili ricchi ed ai potenti rappresentanti del potere romano.
Sotto i nobili in questa piramide, scrive Angelozzi, ci sono i benestanti, detti pure "gentiluomini privati", intendendo con ironia il loro ruolo di persone che badano soltanto agli affari propri e non a quelli della comunità. Poi, sul loro stesso piano, si pongono i liberi professionisti, ricchi di soldi e forti per prestigio sociale. Alla base della piramide, con i piedi di tutti gli altri sulla testa, stanno i lavoratori delle campagne e delle città. Tra di loro si annidano i poveri, tali non per colpa loro, ma a causa del sistema politico che li emargina nella miseria.
Spesso succede, conclude Angelozzi, che il povero si trasformi in bandito o vada ad alimentare il mondo vario ed inquietante dei cosiddetti vagabondi. I quali sono il terreno su cui sbocciano periodiche sommosse per il pane. Per le rivolte sociali, dormono sonni poco tranquilli quanti hanno qualcosa da perdere.
Tocci definisce indecifrabile il mondo degli oziosi, dei vagabondi e degli emarginati, sui quali potevano piovere gli aiuti della pubblica carità, ma per i quali non si adoperava nessuno al fine di recuperarli ed inserirli nella vita sociale attraverso il lavoro. Infine, osserva Tocci, ci sono le voci del dissenso che si fanno rare e prendono la via dell'esilio. Esse mugugnano per due secoli, colpite infine da accuse di eresia.
In una società sostanzialmente immobile come quella romagnola, conclude Tocci, risulta bloccata sino alla fine del Settecento pure la vita economica, nonostante una lunga serie di interventi pubblici per migliorare terreni, corsi di fiumi, traffici marittimi. Come osserva M. Dall'Aglio, nel Ravennate dal 1578 inizia la bonifica per colmata delle valli di Mezzano e di San Vitale. Tra 1550 e 1580, "tutta la bassa pianura emiliano-romagnola è un immenso cantiere".
Il contesto politico-economico della Romagna è fondamentale per comprendere nella loro verità certi fatti accaduti a Rimini, ed ai quali è stata sempre dedicata un'attenzione molto superficiale, per cui il discorso storico si riduce ad elenchi di cose o persone, aridi come un listino di commercio.
Al proposito Carlo Tonini ci offre un esempio illuminante. Nel secondo volume del suo "Compendio della Storia di Rimini" (apparso nel 1896), parlando della carestia che colpisce la città ed il suo territorio nel 1569, egli ricorda il pubblico intervento "per togliere il pericolo che i poveri morissero di fame". A questo episodio non aggiunge neppure dieci parole per riassumere quanto distesamente invece ricorda nel sesto volume, parte prima, della "Storia di Rimini" che egli pubblica nel 1887 per completare l'opera avviata da suo padre Luigi nel 1848. Qui, dunque, Carlo Tonini s'indigna nel raccontare la carestia del 1569.
Mentre il Consiglio cittadino il 25 luglio 1569 prende quei provvedimenti per evitare una sorte tragica ai poveri, si ripete la solita storia "di quelli, che dalle calamità pubbliche trassero profitto per arricchire", scrive il Nostro. La corruzione era talmente diffusa che pure "tra i moderatori della cosa pubblica trovavasi il mal seme": i Consoli non facevano il loro dovere e tuttavia volevano tutto il compenso stabilito. Sino al maggio 1570, ogni domenica ai poveri si offre pane cotto per il peso di uno stajo. (Secondo il "Vocabolario romagnolo-italiano" di Libero Ercolani, uno stajo equivale in Romagna a 12,5 kg.)
Nel racconto del "Compendio" tengono banco le preoccupazioni internazionali. Per le minacce ottomane si fortificano i porti, obbligando al lavoro gli uomini dai 16 ai 60 anni, ed alle collette consuete (ovvero tributi) che invece riguardano tutti dai 14 anni in su, esclusi i miserabili e le donne. Le collette si rendono necessarie pure per aiutare il re di Francia che deve combattere contro la setta degli Ugonotti. I quali sono di tendenza calvinista ed organizzati militarmente. Tutta la Romagna è chiamata a sborsare 50 mila scudi d'oro. Scrive il pio Carlo Tonini: "Non doveva parere ingiusto ai nostri il concorrere a tali spese, trattandosi di cose di religione; ma certo è che troppo frequenti erano le domande di denaro per tale effetto".
Se le carestie passano (il raccolto del 1570 è buono), la corruzione resta. Il malcostume è relegato però in secondo piano per quel dannato vizio della penna che preferisce le notizie rumorose. Come quella che Carlo Tonini offre quando racconta che nel 1573 ci si dedica a combattere "contro la perniciosa peste del lusso nelle donne". Non ci si accorgeva che il lusso femminile era l'effetto e non la causa dell'ingiustizia politica e sociale.
E poi sarebbe parso irriverente verso chi deteneva il potere, immaginare che certe idee contro sprechi ed esibizioni immorali, potessero trovare la via breve della discussione in famiglia, anziché quella lunga e tortuosa del dibattito pubblico. Forse quest'ultima strada era scelta con un intento propagandistico che poteva fare effetto, ma non necessariamente implicare pure di ritenere ogni spreco quale atto di offesa verso i bisognosi.
Come si suol dire, le vie dell'Inferno sono lastricate di buone intenzioni. Su di esse i potenti scommettono reputazione ed equilibri politici anche nei secoli successivi. Nel novembre 1792 a Rimini i Consoli propongono un quesito al Cardinal Legato Niccolò Colonna di Stigliano, "relativo alla seguita contravenzione della Legge sopra i Matrimonj disuguali", entrata in vigore in agosto: un Nobile ha sposato "una zitella di bassa estrazione, e maggiormente avvilita dall'esercizio di Cantastorie sopra un pubblico teatro". La donna era senza dote cospicua o eredità, e le nozze sono quindi avvenute soltanto per "passione". Nel frattempo l'Europa brucia non per amori impossibili tra nobili e plebee, ma per le armi. Il cronista Zanotti narra: il matrimonio incriminato è allietato da un figlio.
Le carestie si ripetono periodicamente. Ad esempio, due secoli dopo, tra 1765 e 1768 anche a Rimini il cosiddetto popolo minuto è costretto alla fame sino al pericolo di vita. (Ne ho parlato su “il Ponte” del 14 marzo 1999.) I poveri rappresentano allora il venti per cento della popolazione.
Gli interventi d'emergenza per loro decisi dall'Annona cittadina, sono ostacolati dalla burocrazia pontificia che non crede alle necessità di Rimini: anziché attribuirle alla mancanza di grano per scarsi raccolti, le considera prodotte da cattiva amministrazione e suggerisce persino di mangiar erba e frutta al posto del pane. La Sacra Congregazione del Buon Governo non è ben disposta nei confronti della città, al punto di negare una sovvenzione per soccorrere i bisognosi. Da Roma, commenta un cronista del tempo, arrivano soltanto indulgenze. Il cardinal Giuseppe Garampi scrive ai Consoli riminesi che nella capitale si considerava esagerato ogni nostro bisogno.


16. Guerre lontane, miseria in casa

Un'incisione a stampa del 1657 mostra un nobile che riceve l'omaggio del contadino il quale gli reca i prodotti della sua fatica. Sullo sfondo, dietro lo sfarzoso copricapo del signore, un'immagine allegorica riassume il senso politico della rappresentazione: una tela di ragno imprigiona la mosca. Il signore è quel ragno, il contadino la mosca.
Anche nella Romagna tra 1500 e 1700 il contadino vive nella condizione riassunta dall'incisione del 1657. Qualche decennio prima, nel 1615, il poeta modenese Alessandro Tassoni (1565-1635), celebre autore della "Secchia rapita" e buon conoscitore per esperienza diretta della diplomazia romana, pubblica anonimo ed alla macchia un testo politico antispagnolo. In esso denuncia la fatale infelicità d'Italia per aver perduto dopo l'impero anche "il viver politico", cioè il senso di appartenenza ad una comunità da governare in unità e libertà. Il titolo del testo è "Filippiche", lo stesso delle orazioni di Demostene contro Filippo il Macedone (IV sec. a. C.).
Tassoni accusa la politica italiana: aderiamo alle armi straniere "per seguitar la fortuna del più potente". Quelle armi portano gloria ai sovrani incensati dalle storie dei loro Paesi d'origine, e miseria ai popoli anche lontani dalle battaglie, e talora dimenticati nei libri che raccontano quei tempi. Un esempio tutto nostro. Carlo Tonini (1887) scrive che a Rimini nel giugno del 1531 c'è un passaggio di truppe imperiali, del quale non sa spiegare l'occasione ed il motivo. Se avesse preso in mano qualche volume, si sarebbe accorto della confusione italiana in cui Rimini è di riflesso coinvolta.
Il 12 agosto 1530 Firenze si è arresa alle truppe imperiali che fanno tornare al potere i Medici. Carlo (1500-1558) V è stato incoronato dal papa a Bologna con due cerimonie, il 22 ed 24 febbraio 1530, per distinguere il potere italiano da quello imperiale. Sullo sfondo c'è l'accordo di Cambrai del 5 agosto 1529, la pace detta delle due dame perché negoziata da Luigia di Savoia madre di Francesco I re di Francia e da sua cognata Margherita d'Austria, vedova di Filiberto II di Savoia zia di Carlo allora re di Spagna, Austria e Germania. Essa assicura alla Spagna il dominio sull'Italia.
Quella pace, osserva L. A. Muratori, fece esultare, "come se dopo tante tempeste fosse giunto il sospirato tempo sereno. Ma non fu così". Da quelle tempeste è stata indirettamente colpita anche Rimini. Qui, dal 1512 al 1515 si registrano ripetuti passaggi di francesi e spagnoli. Questi ultimi sono descritti da Muratori (sotto la data del 1529 e riferendosi a Genova e Milano) come gente bruttissima e orridissima a vedersi, senza scarpe e calzoni: avevano nome di soldati, ma si dimostrarono eccellenti ladri pure nelle case dei poveri, per colpa del loro re che non li pagava.
Per l'operazione militare di Firenze sono impiegati fanti tedeschi, spagnoli e pontifici. Sistemati i Medici al potere, le armate non restano disoccupate. Adesso lo scontro è tra Carlo V ed il papa che rifiuta l'ordine (21 aprile 1531) di dare l'investitura dei ducato di Ferrara ad Alfonso d'Este. E che vorrebbe Modena e Reggio per i suoi parenti. Carlo V muove i suoi soldati verso Bologna e Modena, dove arrivano il 25 giugno. Sono quelli transitati appunto nello stesso mese a Rimini, e ricordati da Tonini. Sono quelli che, secondo l'attento cronista modenese e ricco borghese Tommasino de' Bianchi detto il Lancellotti (1473-1554), nei mesi precedenti hanno rovinato la Romagna e la Toscana, portandovi oltre la paura anche la fame.
All'inizio di giugno un bell'esercito del papa è presente in Romagna, si diceva per andare a Ferrara, mentre s'indirizza a Bologna, scrive Tommasino de' Bianchi che dà la colpa della prima falsa notizia ai fiorentini, che sono ingegnosi: dicono una cosa e ne fanno un'altra, come sottolinea un proverbio per cui essi prevedono le cose prima che succedano, mentre i senesi dopo che sono accadute...
Il 18 giugno è giunto a Bologna il nuovo Commissario del papa, quel fiorentino di Francesco Guicciardini, su cui Tommasino de' Bianchi osserva: si dice che egli farà tanta giustizia che punirà anche i peccati veniali come quelli mortali, seguendo il modello imposto da governatore a Modena, Reggio, Parma a Piacenza.
Da Bologna nel frattempo è arrivata un'altra notizia. La fonte era degna di fede. Una porca aveva fatto un porcellino con il volto umano, per cui era stato mostrato al governatore della città che lo aveva fatto ritrarre per informare Roma.
Il 28 giugno il capitano dell'esercito spagnolo arriva a Modena. La sera prima è passata l'artiglieria con munizioni e molti carri di “robe del campo”, assieme ad un corteo di duemila femmine a cavallo che portavano cani, sparvieri e “cose assai non convenienti a soldati”. Soldati e fanciulle vogliono mangiar e bere bene, scrive il teologo Lodovico Vedriani (1605-1670) nella sua storia della città (1666). I poveri non ricevono il pane che è spedito ai militari, precisa Tommasino de' Bianchi. Dall'anno precedente nella Romagna ferrarese stanziano quattromila militari spagnoli a spese dei Comuni, si legge nella “Storia di Lugo” di G. Bonoli (1732).
Il primo marzo 1557 arrivano a Rimini ventimila uomini dell'esercito francese, il cui comandante corre a Roma per cercar i soldi delle paghe destinate ai suoi uomini che nel frattempo lascia nelle nostre campagne. Essi depredano e rovinano, narra C. Clementini nel "Trattato de' luoghi pii", "con istrage delle viti, et arbori d'ogni sorte, e degli edifici", non rispamiando neppure i luoghi sacri come la chiesa di san Giuliano o la parrocchiale della Villa di santa Giustina.
Le provviste preparate dalla città erano soltanto per sei giorni. I soldati vi rimangono per ventidue. "Non mancava formento, ma perché i Francesi hauevano demoliti, et abbrigiati i molini, era impossibile macinare, e questo cagionò grandissimi, e pericolosissimi tumulti". Per rimediare ai quali, l'autorità pubblica prende a forza a Chierici e Secolari le farine accantonate per uso proprio, ma è un debole ripiego. I ravennati, per tener lontani i francesi dalle loro case, aiutano i riminesi inviando del pane destinato a quella truppa. Alla cui partenza si fanno i conti: la città era in un mare di travagli con una grossa perdita di biade, farine e vini.
Nella storia di Forlì pubblicata nel 1661 da Paolo Bonoli si ricorda quanto accaduto nel 1527 con i soldati di Borbone che per procurarsi viveri scorrevano confusamente dappertutto. Erano fanti quasi tutti spagnoli “che sbandati cercavano foraggio”. Meldola è saccheggiata. Il fenomeno, quindi, riguarda tutta la nostra regione con gravi conseguenze sul piano economico, delle quali ci si dimentica privilegiando una narrazione tutta legata ai fatti diplomatici o alle biografie di personaggi illustri in sede locale o nei piani alti della politica.
A Forlimpopoli nel 1530, come si legge nella sua storia composta da M. Vecchiazzani (1568-1674) e pubblicata a Rimini nel 1647, contro le ruberie degli spagnoli non può nulla neppure il vescovo di Cesena, che era pure nunzio apostolico e commissario dell'esercito. Dovrebbe trattarsi del cardinale Pompeo Colonna, vescovo commendatario o sussidiario di Cesena. E così si decide di dare un piccolo sussidio a tutti gli abitanti del territorio. Soltanto con l'arrivo del giovanissimo (19 anni) cardinal Ippolito de' Medici, cessano le molestie degli spagnoli.
Nel 1559 dopo la pace di Cateau-Cambrésis, l'ambasciatore veneziano Michele Suriano, di ritorno da Madrid, scrive che nel mondo comandano in tre, Spagna, Francia ed il “Signor Turco”. La Spagna in Italia domina sino al 1748, pace di Aquisgrana.


17. Gli itinerari del sapere

La magnificenza del Tempio malatestiano ci interroga con un discorso senza tempo che parte a metà del Quattrocento ed arriva sino ai nostri giorni.
Il suo progettista, Leon Battista Alberti, nasce a Genova (1406), figlio di un esule fiorentino. Si trasferisce prima a Venezia e poi a Padova. Si laurea nel 1428 a Bologna in diritto canonico. Quattro anni dopo inizia a lavorare a Roma, alla corte di papa Eugenio IV che segue nei suoi viaggi. Poi soggiorna a Firenze varie volte, soprattutto tra 1439 e 1443, come scrive Silvia Medde. Nel 1438 è al concilio di Ferrara. Infine c'è l'approdo al progetto riminese del Tempio voluto da Sigismondo Pandolfo Malatesti.
Come osserva Ezio Raimondi, per Alberti la vita non è soltanto quella grandezza che gli umanisti chiamano (con una parola latina) dignitas, ma è pure miseria. La sua disincantata visione degli uomini, prosegue Raimondi, lo porta a fare i conti con l'imperfezione del proprio essere, dalla quale trae il senso della fatica dell'esistenza.
Secondo Loredana Chines, il pensiero di Alberti prelude a quello di Leopardi e di Pirandello. È un pensiero che si nutre di opere classiche e medievali, per teorizzare una specie di naufragio dell'esistenza. Per Alberti, l'uomo non è alla ricerca di un porto sicuro e di quiete, ma di un ruolo da vivere. Per questo fatto, l'uomo è costretto ad assumere una maschera, nel perenne fluire dell'esistenza.
L'esempio della modernità di Alberti (che, secondo Roberto Cardini, ha un volto fatto come un mosaico composito), suggerisce di leggere la storia di Rimini costruendo un itinerario poliedrico e variegato, per sottolineare i suoi collegamenti con la grande cultura europea, tra Quattrocento e Cinquecento.
Proprio la vita di Alberti nei diversi luoghi ricordati, prima del suo approdo riminese, ci suggerisce come sia necessario servirsi di mappe geografiche per comprendere le singole storie della cultura e della politica.
Andando indietro di qualche decennio rispetto ad Alberti, incontriamo un musicista francese, Guillame Du Fay che nel 1409 ha circa tredici anni e si esibisce a Cambrai con i pueri cantores. Tra 1414 e 1418 si trova al Concilio di Costanza dove conosce Carlo Malatesti di Rimini, procuratore speciale di Gregorio XII (Angelo Correr) per il quale il 4 luglio 1415 legge la bolla di rinuncia, stando seduto al fianco dell'imperatore Sigismondo che presiede la sessione conciliare (XIV) intitolata “Sede Apostolica vacante”, per sottolineare la svolta ai fini della chiusura del Grande Scisma (1378-1417).
A Costanza si trovano pure il patriarca di Costantinopoli Giovanni Rochetaillée [De Rupescissa], ed un arcidiacono bolognese nominato nel 1413 amministratore “loco episcopi” della diocesi di Brescia, Pandolfo, figlio di Malatesta I di Pesaro, che nel 1417 sarà presente nel conclave da cui esce eletto Martino V, e che nel 1424 sarà inviato come arcivescovo alla diocesi di Patrasso che dipendeva da Costantinopoli. (Due notizie in margine. Dall'ottobre 1418 e sino al 1424 Pandolfo è vescovo di Coutances in Normandia, nei duri momenti della conquista inglese nel corso della guerra dei cento anni. La città di Brescia in cui egli opera “loco episcopi” come amministratore, era governata da Pandolfo III di Rimini, fratello di Carlo.)
Carlo e Malatesta I sono parenti. Carlo nasce da Galeotto I il quale è zio di Pandolfo II padre di Malatesta I. A consolidare la parentela, oltre gli affari e le imprese mercenarie, sono state due sorelle di Camerino, Gentile da Varano sposatasi con Galeotto I (1367), ed Elisabetta con Malatesta I (1383). Quest'ultimo è anche padre di Cleofe la quale nel 1421 sposa Teodoro Paleologo di Bisanzio, figlio di Manuele II imperatore d'Oriente che Carlo Malatesti incontra il 16 giugno 1415 a Costanza.
Del matrimonio fra Cleofe e Teodoro Paleologo, forse concluso con la morte violenta della giovane, non hanno scritto la storia i contemporanei. A noi non è giunta nessuna narrazione utile a completare gli scarsi documenti sopravvissuti, tra cui quattro lettere della stessa Cleofe alla sorella Paola.
Di quelle nozze ci resta un mottetto di Guillame Du Fay. Il quale dedica due analoghi componimenti al fratello di Cleofe: nel 1426 quando diventa vescovo di Patrasso e nel 1437 quando scompare. Du Fay è ordinato prete nel 1428 a Bologna. Nel 1429 figura cantore nella cappella papale. Poi va presso la corte di Amedeo VIII di Savoia, quindi a Firenze, a Cambrai e nel 1450 torna in Italia, a Torino ed a Padova.
A Bologna ed a Padova tra 1496 e 1501 troviamo il polacco Niccolò Copernico, nipote del vescovo di Warnia che lo instrada alla carriera ecclesiastica, facendolo studiare diritto canonico. Da Bologna nell'anno giubilare 1500 egli si reca a Roma. Non ci sono documenti, ma è inevitabile pensare che è passato per Rimini. Magari visitando la cappella dei pianeti del Tempio, dato che a Bologna aveva cominciato ad occuparsi di astronomia (G. P. Brizzi). Suo maestro qui è il ferrarese Domenico Maria Novara, famoso come autore di pronostici astrologici (U. Bellocchi). Ricordiamo che irriducibile avversario dell'astrologia è Leon Battista Alberti il quale “insisteva su una natura retta da leggi e princìpi razionali, al di là delle oscure influenze astrali” (F. Cardini-C. Vasoli).
Dopo Roma, si reca a Warnia (dove dal 1487 godeva del beneficio di un convento). Torna in Italia, si ferma a Padova per frequentare corsi di medicina, infine nel 1503 a Ferrara si addottora in diritto canonico. Tra 1503 e 1506 fa un secondo soggiorno a Padova.
Come annota G. M Anselmi, Ferrara nel Quattrocento è un fondamentale centro di studi umanistici, con una vocazione internazionale che la proietta verso il Nord, collocandola più vicina al cuore dell'Europa che al cuore dell'Italia pontificia. Mentre Bologna, prosegue Anselmi, svolge un ruolo di snodo culturale: il transito, anche fugace, di tanti intellettuali come Copernico non è effimero. Tutti si arricchiscono e tutti lasciano un segno. Come Erasmo da Rotterdam che, scrive Anna Pizzati, frequenta gli studi prima a Parigi ed Oxford, poi a Bologna (per più di un anno), Lovanio, Padova, Cambrigde. Peter Burke ricorda che l'umanista Beato Renano, nella vita del proprio maestro Erasmo, ricorda che questi aveva un gran desiderio di visitare l'Italia, dato che “nessun altro posto al mondo è più colto di questo Paese sotto ogni aspetto”. Pizzati aggiunge: la cultura umanistica (prima della Riforma) ha un carattere internazionale che fa da forza centrifuga, incentiva i viaggi di studio ed agisce come fattore di unità culturale degli intellettuali. Della cosiddetta “peregrinatio academica”, lo studio di Bologna (osserva Brizzi) per tutto il Cinquecento resta una delle tappe fondamentali.
Sui rapporti di Rimini con Ferrara si può ricordare che nel Trecento essi passano anche attraverso le scelte matrimoniali dei Malatesti. Il Guastafamiglia, ovvero Malatesta Antico, sposa (1320 c.) Costanza d'Este, figlia di Azzo VIII e Beatrice d'Anjou, figlia del re di Sicilia. Il loro erede Malatesta Galeotto (detto Ungaro) prima impalma Violante d'Este (1345) e poi la di lei sorella Costanza (1362).
Il legame di Rimini con Bologna nel 1574 è rafforzato dal vescovo Giovanni Battista Castelli, originario di quella città dove studiò ed insegnò diritto civile. Come attesta Carlo Tonini (1888), a lui il 31 ottobre 1579 fu dato il possesso del palazzo del Cimiero, già sede del Seminario, divenendo così residenza dei vescovi di Rimini. Lì era stato ospitato nel 1529 papa Clemente VII diretto ad incoronare Carlo V proprio a Bologna. Da Bologna arriva nel 1606 un altro vescovo, Berlingero Gessi, addottoratosi in quell'ateneo in diritto, e protagonista della vita pontificia, come nunzio a Venezia e governatore di Roma.
Antonio Montanari

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