Vitelloni riminesi nati a Roma.
Il ricordo di Alberto Sordi ne ripropone la leggenda.
[2003]

Archivio 2013

Proprio cinquant’anni fa escono nelle sale cinematografiche «I vitelloni» di Federico Fellini con Alberto Sordi imposto dal regista: l’ambiente del cinema gli è contrario, lo considerano «collezionatore di insuccessi e antipatico al pubblico». La società che distribuisce il film «pretende per contratto che il nome di Alberto Sordi non compaia nei manifesti». Lo ricorda Tullio Kezich nella biografia di Fellini.
Quella situazione testimonia come i simboli nascano fortissimamente anche quando tutto vi si oppone. Proprio con «I vitelloni» fiorisce il successo del comico romano che allora contemporaneamente si esibiva con la rivista di Wanda Osiris, in giro per l’Italia, per cui Fellini doveva rincorrerlo di città in città.
Già il titolo era una parola nuova. Ancora Kezich: sul termine vitellone, si apre un dibattito filologico. Esso sarebbe marchigiano e non romagnolo, più legato al lessico familiare di Ennio Flaiano, il quale ne scrisse nel 1971 ricordando come dalle sue parti ed ai suoi tempi fosse usato «per indicare un giovane di famiglia modesta, magari studente, ma o fuori corso o sfaccendato».
Nascerebbe cioè non dal «vidlòn» riminese, ma dal «vudellone» (grosso budello) del centro-Italia, «persona portata alla grosse mangiate», scriveva ancora Flaiano, «e passato in famiglia a indicare il figlio che mangia a ufo, che non produce, un budellone da riempire», insomma.
Commenta Kezich: «A Rimini questo tipo di giovinastri vengono tuttora chiamati ‘birri’».
All’estero il titolo del film deve ovviamente cambiare: sono ragazzi pigroni per gli inglesi, scioperati per i tedeschi, inutili in Spagna. Soltanto i francesi accettano l’originale, ovviamente accentato, «Les vitellonì».
Dunque Alberto Sordi diventa il simbolo di certa gioventù indigena, lui «romano de Roma», con l’etichetta del nome per antonomasia ricalcata fuori di qui, in un film tutto girato in mezz’Italia.
Così nascono i miti. C’è un accumulo di circostanze ed invenzioni che poi si addensano soltanto sopra chi le interpreta e le mostra al pubblico. Così Sordi è diventato per tutti, sino alla sua scomparsa, l’Albertone Vitellone.
In occasione dell’uscita del film, Fellini spiegava a «Cinema nuovo» (leggiamo da «A come Amarcord. Piccolo dizionario del cinema riminese» di G. M. Gori): «Mi è venuta la tentazione di giocare ancora uno scherzo a certi vecchi amici che avevo lasciato da anni nella città di provincia dove sono nato. [...] Così da qualche giorno mi sono messo a raccontare quello che ricordavo delle loro avventure, le loro ambizioni, le piccole manie, il loro modo particolarissimo di passare il tempo».
Secondo Kezich, «è inesatto affermare che il regista racconta nel film i proprî ricordi: Federico non arrivò a diventare un vitellone, se ne andò prima e il gruppo rievocato nella vicenda, del quale faceva parte anche il pittore Demos Bonini, era formato da giovani che avevano otto o dieci anni di più, portavano grandi cappotti, cappelli da uomo, sciarponi, baffetti e cappelli curati. Un gruppo che mai avrebbe permesso a Federico o a Titta [Benzi], adolescenti liceali, di avvicinarsi per fare comunella».
Quando nel 1967 uscì «La mia Rimini» di Federico Fellini, un lungo capitolo scritto da Guido Nozzoli vi rappresentava «L’avventurosa estate dei birri». Niente vitelloni. La vecchia parola birri splende con tutta la forza di una tradizione che rifiuta il nuovo conio del film con Sordi.
Il birro, spiega Nozzoli, «è il giovane intraprendente, spavaldo, apparentemente cinico, un po’ esibizionista e aggressivo» che negli intervalli delle sue avventure amorose estive «combina scherzi quasi sempre eccessivi e molesti, organizza cene da olio santo, qualche volta si azzuffa e rompe l’anima alla gente» con il cosiddetto «lampézz»: un «tormentino inflitto con una serie di battute un po’ assurde e di piccole punzecchiature apparentemente correttissime da cui la vittima presa di mira – conoscente o no – resta invescata un po’ per volta, col rischio di mattire senza accorgersene. O è una ripetizione incessante e allucinante della stessa battuta, dello stesso motivo».
Tutto, conclude Nozzoli, finì con la guerra: «Dalle macerie stava uscendo una città nuova, intraprendente, un po’ disordinata. Irriconoscibile». Le estati dei birri erano finite. Continuavano però gli anni dei vitelloni, con regìa di Federico Fellini. Proprio cinquant’anni fa. Con l’Albertone nazionale diventato emblema di storie che la fantasia e la leggenda dicono legate a Rimini, ma ad una Rimini che però rappresenta il Mondo. Vi pare poco?
Antonio Montanari

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