Antonio Montanari

Parigi, 13 luglio 1789. Ippolito Pindemonte.

Il 13 luglio 1789, nelle ore che precedono la presa della Bastiglia e l’inizio ‘ufficiale’ della Rivoluzione francese, il poeta Ippolito Pindemonte si trova a Parigi.
Lo stesso giorno egli scrive una breve cronaca degli ultimi avvenimenti e le previsioni sulla "strage ch’è per accadere", all’abate Giovanni Cristofano Amaduzzi che vive a Roma.
Quando nel 1788 Ippolito Pindemonte progetta di intraprendere un lungo viaggio in Europa, ad imitazione di quello (più breve) compiuto l’anno precedente in Svizzera e in Germania dal suo amico Aurelio De’ Giorgi Bertòla, non immaginava che, nell’estate successiva, avrebbe assistito allo scoppio della Rivoluzione francese.
A Parigi, "città magica e immensa" (1), Pindemonte frequenta gli ambienti aristocratici e colti che gli sono congeniali. In essi riscontra tratti di quell’anglofilia che poi attribuisce anche alla situazione politica:
"Lingua Inglese, vestiti, mobili e utensili Inglesi, Tè all’Inglese, i Wiski, i Iockeis, i Giardini all’Inglese, ed il Pantheon, e il Renelagh, e il Vauxhall: molti già vogliono un po’ d’Inglesismo anche ne’ teatri, e moltissimi domandano agli Stati Generali, che si terranno tra breve, una costituzione Inglese, o che sia su quel gusto. Pare però, che, secondo l’usanza loro di perfezionare cio [sic] che dagli altri ricevono, vogliano i Francesi correggere il sistema politico dell’Inghilterra, come i lor Filosofi, e massime il d’Alambert, sciogliendo il problema della precessione degli Equinozi, dieder l’ultima mano al sistema fisico mondiale del gran Neutono". (2)
Nella cultura europea della prima metà del XVIII secolo, ad inventare il "mito dell’Inghilterra" è stato Voltaire con quelle "Lettere filosofiche" (1734) che forse Pindemonte conosceva. Nella "Lettera VIII" si legge:
"Ciò che in Inghilterra diventa una rivoluzione, negli altri Paesi non è che una sedizione. […] I Francesi pensano che il governo di quest’isola sia più tempestoso del mare che la circonda: ciò è vero, ma accade quando a cominciare la tempesta è il re, quando egli vuol rendersi padrone della nave di cui non è che il primo pilota. Le guerre civili di Francia sono state più lunghe, più crudeli, più feconde di delitti di quelle d’Inghilterra; ma di tutte le guerre civili nessuna ha avuto per oggetto una saggia libertà". (3)
Voltaire confrontava i due Paesi per proporre il modello inglese in ambito politico: "La nazione inglese è l’unica della terra che sia giunta a regolare il potere dei re […]". (4)
Pindemonte invece rampogna i francesi: "Ma come sì gran Nazione degnarsi di far la scimia d’un altra?". (5)
Gli Stati Generali a cui accenna Pindemonte, si sono aperti il 5 maggio ’89 a Versailles. All’evento egli inneggia con il poemetto "La Francia":
"Venni di Senna a le famose rive
E udii le voci; e illustri detti e forti
Bevea l’orecchio cupido, e rinati
Sovra labbra novelle antichi sensi".
Pindemonte si augura che si avveri un suo sogno: Libertà, con le sorelle Leggi, rende felice il secolo e la Natura tutta.
Il clima esistente in Francia nel periodo che precede la convocazione degli Stati Generali, è descritto da un corrispondente parigino di Amaduzzi, Chardon de la Rochette, trasferitosi a Roma, dove compone la lettera datata "6 avril 1789":
"Signore,
"prima di partire da Parigi per venire qua a passare la quaresima come son usato fare, ricevei la gratissima sua de’ 4 febrajo. Mi portai due volte all'albergo del sig. Pindemonte e non ebbi la fortuna d’incontrarlo ma scrissi sopra una cartella i di lei complimenti. […]
"In tutte le province si fanno le elezioni de’ deputati agli Stati Generali e per conseguenza regnano in ogni parte del regno de’ torbidi, delle dissociazioni ma quel gran fuoco si va spegnendo poco a poco. Già dappertutto i preti e i nobili hanno rinunziato a’ loro privilegi ed esenzioni di dazi.
"Speriamo con fondamento che quelli Stati non solo ritorneranno il nostro regno all'antico splendore il quale si era già svanito per l'ignoranza o la malvagità di certi ministri; ma stabiliranno una Costituzione che ne renda gli abitanti felici e sicuri sotto la protezione delle leggi troppo spesso calpestate da chi ne doveva essere il sostegno". (6)
Le speranze di Chardon de la Rochette non s'avverano. Il 13 luglio Pindemonte assiste ai torbidi di Parigi. Così egli ne scrive all’abate Amaduzzi:
"Vi mando alcuni versi da me composti ultimamente intorno alla Francia; e non vi celo che oltre il piacere di farli leggere a voi, vorrei aver quello di sapere che se n’é fatta menzione nelle Effemeridi, e ciò assai prontamente prima che cangino affatto le circostanze, che gli fecero nascere, già cangiate in grandissima parte. Ieri a tre ore delle sera fu licenziato con lettera di sigillo il Sig. Necker, che partì subito per le sue terre nella Svizzera. Cangiamento di quasi tutto il ministero: il Baron di Breteuil capo del Consiglio delle Finanze. Non potrei dipingervi la costernazione nell’una parte del Popolo, e il furore nell’altra. Moltissimi han preso le armi stamani, e si dice che vogliano muoversi alla volta di Versailles: gran quantità di truppe fu fatta venire, sicché vedete la strage ch’è per accadere. Tutte le botteghe in Parigi son chiuse, e pochissimi ardiscono uscir di casa". (7)
Gli antefatti. Il 9 luglio i tre Ordini riuniti in assemblea plenaria si proclamano Costituente. L’11 luglio Luigi XVI, su pressione di Maria Antonietta e del proprio fratello minore conte di Artois, tenta il colpo di Stato e licenzia il ministro delle Finanze e degli Interni Jacques Necker (1732-1804), un protestante ginevrino, grande banchiere e fortunato speculatore che aveva ricoperto l’incarico dal ’76 all’81 e poi era stato richiamato nell’87.
Il re forma un governo di guerra, composto da persone note per le loro posizioni tradizionaliste o reazionarie, come il barone di Breteuil.
La destituzione di Necker provoca manifestazioni e scontri. Una parte delle guardie della "Maison du roi" passa dalla parte dei dimostranti. Il duca di Broglie, comandante delle truppe regie (composte di svizzeri e tedeschi) che debbono convergere su Parigi per sciogliere l’Assemblea, le ferma temendo che esse, una volta giunte nella capitale, si schierino con gli insorti.
13 luglio. Mentre la borghesia parigina crea d’urgenza una milizia volontaria affidata a Marie-Joseph La Fayette, gruppi di popolani iniziano a procurarsi armi. Agli Invalidi gli insorti si impadroniscono di trentaduemila fucili. Il moto insurrezionale si estende, con assalti ai granai dei conventi e distruzione dei posti del dazio alle porte della città.
Vengono destituite le autorità municipali. Al loro posto, s’insedia la "Commune", un comitato di "elettori", cioè di rappresentanti dei quartieri che avevano scelto i deputati parigini del Terzo stato. Sono in massima parte esponenti della media borghesia.
14 luglio. È il giorno dell’assalto alla Bastiglia, la fortezza-prigione divenuta simbolo dell’assolutismo monarchico. Ospita in tutto sette carcerati: quattro falsari, due seguaci del marchese De Sade ed un nobile inglese mentecatto.
Jean Baptiste Humbert, operaio presso il signor Belliard, orologiaio del re, narra così quegli eventi:
"Seppi nel corso della mattina che agli Invalides si distribuivano armi […]. Giungemmo agli Invalides verso le due circa, e vi trovammo una gran folla. […] Seguii la folla per giungere alla cripta dove si trovavano le armi. […] la folla era così fitta che tutti quelli che risalivano erano costretti a lasciarsi cadere all’indietro fino in fondo alla cripta. […]
"Molte persone erano già prive di conoscenza; allora, tutti coloro che si trovavano nella cripta provvisti di armi approfittarono di un consiglio che venne dato di costringere la folla disarmata a fare dietro-front spingendola con le baionette. L’idea ebbe successo […]. Uscendo dal municipio, sento dire che si assedia la Bastiglia. […] erano le tre e mezzo circa; il primo ponte era abbassato, le catene spezzate; ma la saracinesca sbarrava il passaggio, si cercava di fare entrare dei cannoni a forza di braccia, dopo averli smontati precedentemente […]. Trovammo chiusa la porta posteriore del ponte levatoio; dopo due minuti circa uno venne ad aprire e chiese che cosa volessimo: "Che la Bastiglia si arrenda", gli risposi […]". (8)
Il 16 luglio Necker viene richiamato alle sue vecchie funzioni. Il giorno dopo, il re si reca a Parigi dove riceve la coccarda tricolore, simbolo dell’"alleanza" fra popolo e sovrano.
Pindemonte, ispirato dagli eventi a cui ha assistito, scrive l’ode "Sopra i Sepolcri dei Re di Francia nella chiesa di S. Dionigi". Nella scena tetra del tempio, mentre il poeta sente in sé "pietà più che sdegno" davanti a quegli infracidati Divi", irrompe una "donna pazza":
"È Tirannia cui da Parigi scaccia
Il redivivo scatenato Franco".
Essa guida una strana processione di cui fan parte Crudeltà (dalle vesti tutte macchiate di sangue), Ingiustizia (che tende un orecchio e si tura l’altro), Menzogna, Timor, Sospetto "e l’Arcano Col lungo manto in su la testa avvolto".
Sulle tombe dei sovrani Tirannia "Dirottamente a lagrimar si ferma". Il poeta chiude la sua ode con un’invocazione libertaria:
"O voi, custodi, ad agio suo lasciate
Che del suo fato ella si lagni e pianga:
Poscia di queste pietre una voltate,
E a forza in quel sepolcro entri e rimanga".
Nei giorni successivi Pindemonte, "fu più volte fermato per istrada dalla plebe in tumulto, e una volta dové scendere di carrozza e andarsene a piedi, orrore!, per recarsi a ottenere licenza di farsi aristocraticamente trainare da bestie". (9)
Pindemonte giustifica le atrocità alle quali aveva assistito a Parigi, in questa lettera che scrive da Londra ad Isabella Albrizzi:
"Non le pare che i Francesi vengano accusati molto ingiustamente? Certo che hanno spiegato una gran ferocia; ma qualunque altro popolo, io credo, sarebbesi in simili circostanze inferocito egualmente, e forse non ve n’ha alcuno, per dolce che sia di natura sua, che la mancanza di pane e il timore d’una carestia non renda furioso. Ora pare che vi sia più d’ordine e di calma in Parigi, e il suo amico francese può viver tranquillo, giacché il re stesso, a fine ch’ei non perda i suoi vitalizii e le sue pensioni, si è privato delle sue fibbie d’argento, non meno che tutti i membri dell’assemblea nazionale. Da questa dipende ora il destino della Francia, giacché non ha altri ostacoli ad operare, che quelli che possono nascere nel mezzo di essa. Quali lodi non meriterà se giunge a stabilire un saggio governo? Ella sa che questa nazione, tra cui mi trovo, solamente nel corso di molti secoli e con grandissimo stento si procurò quella libertà, di cui gode ora, e che una molto scarsa dose di saviezza e di provvidenza fu da lei posta nel complesso di tanti accidenti, che alla presente situazione sua la conducessero. La Francia all’incontro avrebbe, per così dire, fatto sì gran viaggio con un solo passo". (10)
Da Londra Pindemonte scrive il 28 ottobre anche ad un altro corrispodente, a proposito del confronto tra Francia ed Inghilterra:
"In tutte le Nazioni, ma particolarmente in Francia corre gran differenza tra quello che molti veggono esser dovrebbe, e quello che di fatto è: questa differenza è assai minore nell’Inghilterra. […] È da credere, che la Francia, quando avrà un governo migliore, al che ora s’adopera, offrirà anch’Ella un corpo di nazione più coerente e più unito. Che se di ciò avrà grande obbligo a’ suoi scrittori, questi però hanno un grande obbligo agli scrittori Inglesi, di cui anche in questo sono discepoli. E basta leggere il "Governo Civile" di quel maestro nelle scienze speculative, l’immortal Locke, per veder che certi principj non son tanto recenti, quanto per avventura altri pensa". (11)
Locke è il filosofo alla moda negli ambienti illuministici ed in quelli riformistici di ispirazione cattolica, come documentano anche alcuni scritti di Amaduzzi. (12)
Il 16 novembre ’89 Pindemonte, sempre dall'Inghilterra, indirizza a Bertòla un’epistola ove tra l’altro troviamo scritto:
"Piacemi assai che abbiate letto volentieri il mio poemetto sulle cose di Francia […]. Ciò solo che si potrebbe far ora sarebbe andar rintracciando le cause della Rivoluzione, non difficili a rintracciarsi, ma la cui esposizione, ove fosse ben fatta, recar potrebbe molto diletto. Tutto il rimanente convien porsi in qualche distanza d’esso per vederlo, e però lasciar correre qualche tempo. […] Or non è egli vero che l’Europa non fu mai forse così commossa e agitata, come ora è? giacché in alcune parti, ove nulla accade, v’ha però il timore non sia per accader qualche cosa, e quest’Isola è forse la sola parte veramente tranquilla, senza moti presenti, e libera dal timor de’ futuri. Io però dico che questo è il ‘porto del mondo’, come dice il Tasso dell’Isoletta d’Armida". (13)
Bertòla due anni prima ha pubblicato la "Filosofia della Storia", un testo che riassume le sue esperienze culturali vissute fin ad allora. (14)
Nel capo IV del libro III, sotto il titolo "Rivoluzioni" si legge: "L'Europa già più non le teme, l'Europa in cui le rivoluzioni ordinarie finanche son oggi più rare assai, gagliarde assai meno; perché maggior semplicità nel principio delle costituzioni è rinchiusa; perché nelle forme sociali regna maggior perfezione; perché un franco e spedito maneggio di massime, tratte principalmente dalla sperienza molteplice de’ secoli andati, è divenuto più familiare ad un tempo e più sistematico". (15)
Al capo V dello stesso libro III, Bertòla si dimostra fiducioso su di un futuro tranquillo per l'Europa, garantito da quei governi illuminati che "potran lor forza e prosperità mantenere per un giro di secoli". (16)

NOTE
(1) Cfr. E. M. Luzzitelli, "Ippolito Pindemonte e la ’fratellanza’ con Aurelio De’ Giorgi Bertòla", Bastogi, Foggia 1987, p. 99. Lettera a Bertòla da Parigi, 7 aprile 1789.
(2) Cfr. Luzzitelli, op. cit., p. 86. Lettera a Michele Sagramoso da Parigi, 7 novembre 1788.
(3) La citazione è tolta da F. Gaeta-P. Villani, "Documenti e testimonianze", Principato, Milano 1967, p. 431.
(4) Ibidem, p. 430.
(5) Dalla lettera cit. a Sagramoso da Parigi, 7 novembre 1788: v. sopra nota 2.
(6) Lettera n. 189 del c. 15, Epistolario Amaduzzi, BFS.
(7) Lettera n. 135 del c. 28, Epistolario Amaduzzi, BFS. Sulle "Effemeridi" del 1789, 1790 e 1791 (presso BFS), non abbiamo trovato la recensione di quei versi di Pindemonte. Amaduzzi è stato uno dei principali collaboratori delle "Effemeridi" romane, la cui raccolta savignanese reca le annotazioni di mano di Amaduzzi stesso, relative agli articoli di cui egli era autore.
(8) Il brano è tolto da "La storia moderna attraverso i documenti", a cura di A. Prosperi, Zanichelli, Bologna 1974, pp. 114-115.
(9) Cfr. G. Mazzoni, "Abati soldati attori autori del Settecento", Zanichelli, Bologna 1924, p. 298: il cap. da cui citiamo, è dedicato a "Un’ode d’Ippolito Pindemonte", quella appunto "Sopra i Sepolcri dei Re di Francia", riportata integralmente alle pp. 302-304.
(10) La lettera è senza data. Cfr. Luzzitelli, op. cit., p. 40, ove si rimanda a B. Montanari, "Della vita e delle opere d’Ippolito Pindemonte", Lampato, Venezia 1834, p. 105.
(11) Cfr. Luzzitelli, op. cit., pp. 40-41. Lettera a Sagramoso.
(12) Sui rapporti tra il pensiero di Amaduzzi e quello di Locke, si veda la scheda che chiude la prima parte del presente lavoro.
(13) Cfr. Luzzitelli, op. cit., pp. 100-101. La lettera è scritta da Bath.
(14) Come osservò Carducci, la definizione di "Filosofia della Storia" appariva in Italia per la prima volta con il lavoro di Bertòla.. L'opera è divisa in tre parti, rispettivamente dedicate alle cause dei fatti, ai mezzi con cui essi si manifestano, ed agli effetti che producono. Già avanti di scrivere quel libro, Bertòla si è fatto la fama di uomo che non era "solamente poeta", ma anche "‘filosofo ed artista’ come voi dite di Leonardo da Vinci", gli scrive Pindemonte nel 1780: cfr. Luzzitelli, op. cit., p. 89. Nel 1776, in un articolo delle "Effemeridi" (p. 108), Amaduzzi aveva chiamato Bertòla "Vate filosofo".
(15) Cfr. p. 255 della II ed., Silvestri, Milano 1817.
(16) Ibidem, p. 270.
La raccolta epistolare che presentiamo è pressoché inedita: per ultimo ne ha trattato in modo parziale ma organico, con un breve riassunto di tre pagine apparso nel 1904, lo storico romagnolo Gaetano Gasperoni nello studio intitolato "La Storia e le Lettere nella seconda metà del secolo XVIII" (Tipografia Editrice Cooperativa, Jesi).
L’abate Amaduzzi, originario di Savignano sul Rubicone (località posta lungo la via Emilia tra Cesena e Rimini), è il destinatario anche delle altre missive in cui troviamo narrati gli eventi, esposti i loro echi nel nostro Paese, ed illustrate le opinioni su quei fatti. La cronaca è occasione per osservazioni e commenti di natura politica e di taglio filosofico, che ritroviamo pure in lettere scritte dallo stesso Amaduzzi ai suoi corrispondenti.

Abbreviazioni usate nel testo.
BFS = Biblioteca dell'Accademia dei Filopatridi di Savignano sul Rubicone
BGR = Biblioteca Civica Gambalunghiana di Rimini
c. = codice di manoscritti

Su Amaduzzi, presentiamo questa scheda:
Amaduzzi, abate "philosophe"
Giovanni Cristofano Amaduzzi è passato ingiustamente alla storia più come dotto ricercatore delle cose antiche, che come indagatore accurato del suo tempo. Una curiosità tutta settecentesca verso la realtà in divenire, ed un’attenzione acuta al farsi delle vicende politiche, portano Amaduzzi a meditare sul ruolo dell'uomo all’interno della società.
Non erudito nevrotico ma attento "philosophe", fu il nostro abate. L’esame dei rapporti che costituiscono la trama della società stessa, è poi lo spunto per una riflessione su come realizzare i cambiamenti che migliorano l’esistenza dei singoli individui, considerati uniti da un vincolo di solidarietà che pone le sue basi nell’etica cristiana, e che si esprime giuridicamente con il concetto di "patto".
Questa attività di "philosophe", Amaduzzi la realizza in tre importanti e spesso trascurati "Discorsi filosofici": "Sul fine ed utilità dell’Accademie" (1776), "La Filosofia alleata della Religione" (1778), e "Dell’indole della verità e delle opinioni" (1786).
Nato a Santa Maria di Fiumicino (Savignano) il 18 agosto 1740, Amaduzzi è indirizzato al Seminario di Rimini dallo zio paterno, don Giovanni, parroco del suo paese. A 15 anni, passa alla scuola riminese di Iano Planco, dove studia Greco e Filosofia, materia nella quale, come lui confessa, si pone "con giovanile ardore a cozzare con gli ultimi avanzi dell’Aristotelico rancidume". Planco lo avvia a Roma, dove Amaduzzi trova un protettore ed amico nel cardinale santarcangiolese Lorenzo Ganganelli, il futuro Clemente XIV. Amaduzzi ha 22 anni, Ganganelli 57. Fra la visita ad un museo e la consultazione di una biblioteca, Amaduzzi ha anche tempo per allacciare rapporti con altri studiosi.
Dotato di un carattere vivace e battagliero, Amaduzzi per le sue idee politiche e religiose, nella Roma di Clemente XIII (1758-69) non ha vita facile. Agli occhi di molti lo rendono sospetto i rapporti che intrattiene con ecclesiastici chiamati giansenisti. La propensione da lui dimostrata verso i cambiamenti politici che in Francia sono sostenuti dagli scrittori illuministi, ne fa un personaggio pericoloso. Lo accusano infatti di essere indifferente ed eretico in materia di Religione.
Planco, ex allievo della Compagnia del Collegio di Rimini, è anch’egli contro i "Loyolisti": al suo pupillo Amaduzzi, raccomanda di prender contatto con mons. Giovanni Bottari, considerato il capo degli antigesuiti. L’abate dà ascolto al dotto maestro. I rapporti fra Amaduzzi e Bottari saranno frequenti e cordiali. In casa Bottari, è spesso ospite mons. Scipione de’ Ricci che nel 1780 viene nominato vescovo di Prato e Pistoia: con lui, Amaduzzi entrerà in una fitta corrispondenza.
La carriera di Amaduzzi, per quanto folgorante, nei suoi inizi è stata tuttavia in salita. Il suo ingresso nella Stamperia di Propaganda Fide, avviene per gradi: dopo essere stato fatto lettore di Greco alla Sapienza nel ’69, l’anno successivo viene nominato da Clemente XIV soprintendente alla Stamperia, al posto di Costantino Ruggeri, contro il parere del Prefetto di Propaganda Fide, cardinal Castelli. Amaduzzi non piace a Castelli, che lo ritiene antigesuita. In base a tale opinione, Castelli ha già respinto un precedente intervento a favore dell’abate, fatto da papa Ganganelli.
Cura articoli per riviste, anche se a malincuore, perché (come confida) sulle gazzette non si può disgustare nessuno. In Arcadia, pronuncia i tre "Discorsi", che fanno scandalo. Mentre cresce la sua fama nel mondo letterario italiano come erudito e pensatore illuminato, gli ambienti conservatori gli si mostrano ostili.
L’argomento del primo "Discorso" (1776, "Sul fine ed utilità dell’Accademie"), si può riassumere in questa citazione: "Lo scopo principale, che aver debbono le Accademie", è quello "di detronizzare gli errori dominanti" [p. 12], proseguendo nell’opera svolta dai Lincei (1603-1630), "la primogenita di tutte le Accademie scientifiche, che fu cuna d’una miglior Filosofia".
Questa "miglior Filosofia" ha iniziato a combattere contro l’"irragionevole autorità" ed il "cieco dispotismo" che caratterizzano la cultura del XVII secolo. L’esempio italiano dei Lincei è stato poi ripreso nel resto d’Europa (a Parigi nel 1638, a Londra nel 1662), sempre con lo "stesso fine glorioso di porre sul trono la verità, e la ragione" [p. 18].
La filosofia è una scienza "sperimentale" [p. 6], che ci mostra "essere la semplicità il carattere della natura" [p. 29]. A questa semplicità deve ispirarsi anche l’attività letteraria. Per tale motivo, Amaduzzi rifiuta il "ridicolo ammasso di metafore, e quella gonfiezza di stile, che or dicesi seicentismo" [p. 23].
Sul piano filosofico, il primo "Discorso" vuol confutare superstizioni ed errori, in base al principio di ragione. In campo letterario, condanna pedantismo ed imitazione in nome del "buon gusto". Il concetto di "buon gusto" è una categoria critica già presente in Muratori, in un saggio del 1708 ("Riflessioni sopra il buon gusto…"), dal quale Amaduzzi ricava anche altri due aspetti di questo primo "Discorso": il tema dell’importanza delle Accademie, e la critica alla cultura barocca.
Amaduzzi definisce la Filosofia "dono prezioso del cielo", per sottolineare che non esiste nessuna contraddizione tra ragione e Religione [p. 21], i "due lumi" che "assistono l’uomo", come si legge nel secondo "Discorso" (1778, "La Filosofia alleata della Religione"), nel quale l’autore spiega che, se la ragione "insegna di dubitare", tuttavia non si può procedere sempre "dubitando in tutto". Amaduzzi così critica il "dubbio metodologico" di Cartesio.
La Religione, spiega Amaduzzi, domina un territorio all’interno del quale la ragione deve sottomettersi [p. 6]. Però, la stessa Religione ha bisogno della ragione. È questo l’aspetto più illuministico di Amaduzzi: "Se si rinuncia ai principi della ragione, la nostra Religione diverrà ben presto assurda e ridicola" [p. 7].
La Filosofia a cui Amaduzzi pensa, è quella che segue "lo spirito riformatore dell’immortale Bacone". È la stessa Filosofia che ha introdotto "la più regolata analisi della mente umana", per conoscerne limiti e capacità [p. 10]. Tale Filosofia (con Cartesio, Galileo e Newton), "sbandì tutto il meraviglioso, tolse i prestigi dell’ignoranza, detronizzò la superstizione…, seppe discuoprire le forze della natura, e spiegarne gli arcani, e i fenomeni più astrusi".
La parte centrale del secondo "Discorso", è il tema della conoscenza, dove Amaduzzi attua una sintesi tra sensismo, Cartesio e Pascal [pp. 15-17].
Questa Filosofia non soltanto insegna la verità della Scienza, ma educa anche a quel senso di "umanità" e alla "civile tolleranza" che sono "diramazioni legittime della Cristiana carità", rafforzando "il patto sociale" e migliorando le condizioni di vita degli Stati [pp. 10-11]. Dall’accordo tra Filosofia e Religione, secondo Amaduzzi, discendono quelle riforme che mutano la società, e che "onorano e l’umanità, e la Religione insieme" [p. 11].
La coscienza ci detta le regole secondo ragione da seguire nel nostro comportamento, culminanti nel "gran principio della morale, fondato nel non fare ad altri ciò, che non si vorrebbe per se medesimo" [pp. 27-28]. Il rispetto dei diritti altrui è quel principio di giustizia che costituisce la regola del "patto sociale", e che contribuisce "alla pubblica felicità" [p. 28]. I doveri di giustizia "debbono essere comuni a tutti i popoli", per cui i popoli stessi debbono aiutarsi tra loro [pp. 29-30].
Il tema politico viene esteso da Amaduzzi anche al concetto di Stato. Il depositario della "sociale autorità" è il principe, ma il suddito è pur sempre però "un suo simile, ed un suo fratello" [p. 30].
È interessante l’esame che Amaduzzi fa dei miglioramenti introdotti nella vita degli Stati dal superamento delle vecchie regole e strutture (tortura, schiavitù, diritti feudali…), e con iniziative quali gli interventi per le libertà di commercio, o per la cultura, l’economia e la salute pubblica (come quella dell’inoculazione del vaiolo) [pp. 32-35].
La nuova Filosofia, dunque, crea secondo Amaduzzi anche una nuova società. Amaduzzi fa un parallelo tra "tirannia feudale" ed età della superstizione, per dimostrare che i "lumi filosofici" [p. 37], liberano non solo gli uomini sotto il profilo politico, ma anche la stessa Religione dall’ignoranza, in un processo unitario di miglioramento globale della società. La vera Religione, scrive Amaduzzi, ha precetti "tutti alla ragione conformi" [p. 39]. E i "veri studiosi della Filosofia esser non possono nemici della Religione", come dimostrano Bacone, Newton, Pascal e Locke. Pascal è citato in questo secondo "Discorso" per ben due volte. Il suo nome era pericoloso da pronunciare, essendo legato alla condanna del Giansenismo, da parte di Clemente XI (1713). Nel 1734, il "Saggio sull’intelligenza umana" di Locke era stato messo all’Indice.
Le idee, contenute nel secondo "Discorso", procurano ad Amaduzzi una denuncia all’Inquisizione. Ma la pratica non ha corso. Lo salvano la protezione e l’amicizia del sammaurese padre Agostino Giorgi, consultore del Santo Ufficio.
La teoria della conoscenza, formulata da Amaduzzi sulle orme di Locke, nel terzo "Discorso" (1786, "Dell’indole della verità e delle opinioni"), è molto più semplificata rispetto a quella presentata nel secondo. Amaduzzi ricerca la strada per arrivare alla verità, con spirito di armonia tra fede e ragione, tra scienza e fede, tra natura e Dio, onde evitare che, in nome di quella verità, si commettano ingiustizie.
Amaduzzi, verso la fine del terzo "Discorso" [pp. 44-45], spiega come nasce l’errore che porta poi a quelle che sono chiamate le "opinioni". Ma egli precisa anche che ci sono "opinioni" che poi diventano verità. Ciò è accaduto, dice, pure in tempi recenti, quando alcune "opinioni" sono state dimostrate essere "verità trionfanti", mediante "più squisite osservazioni" [p. 54]. È questa l’idea di una cultura che può sempre progredire, secondo il concetto vichiano delle tre età, e mediante il principio galileiano che, per stabile "un grado di vera scienza", occorre un "corredo di esperienze sufficienti" [p. 48].
Le verità di cui Amaduzzi tratta in questo ultimo "Discorso", sono di vario tipo: si va da quelle politiche ed economiche (in linea con il riformismo illuminato), a quelle scientifiche od artistiche (con il concetto del "bello ideale" ripreso dal padre Francesco Soave, il traduttore italiano del "Saggio" di Locke [1785]).
Pronunciato questo terzo "Discorso", Amaduzzi scrive ad un suo corrispondente, Girolamo Pompei (1), che ha intenzione di stampare la sua dissertazione, "senza assoggettarla alle mutilazioni di Frati superstiziosi, e fanatici".
Dopo quel terzo "Discorso", cominciano altre grane per Amaduzzi. L’abate Luigi Cuccagni lo accusa di non conoscere la lingua greca che insegna, di essere "impudente e fanatico…, nemico di tutti ed anche di quelli dai quali suole desinare tutte le settimane", e di non perdonarla "a veruno, se non forse a quei che sono come lui nemici del Papa, di tutto il clero e di Roma". Pio VI (il cesenate Braschi, succeduto a Ganganelli nel ’75), sostenendo che "conveniva lasciare una certa libertà ai letterati" su alcune questioni, lo scagiona.
Amaduzzi si difende con una "Rimostranza umile al trono pontificio" che, su consiglio di amici pavesi, non affida alla stampa, ma invia come lettera privata a Pio VI. Il documento richiama dottrine illuministiche sull’origine del potere politico, lette in chiave cattolica: predisposto da Dio "allo stato sociale", l’uomo obbedisce ad un capo voluto da Dio stesso come suo rappresentante; questo capo deve difendere gli uomini, ma se ciò non avviene, ognuno ha diritto di respingere gli attacchi altrui, però "senza turbare l’ordine sociale".
Amaduzzi vuole ribellarsi alla "cabala" ordita contro di lui da "alcuni falsi zelanti", e conferma la sua ortodossia, rifiutando l’etichetta di eretico che gli è stata appioppata. Egli sa che la sua posizione contro i "Loyolisti" è ben nota, e non soltanto a Roma.
"Nemico della bugia", come si definisce nella "Rimostranza", con un carattere comune agli "uomini vivaci e liberi" della sua terra, Amaduzzi però non può ignorare che i rapporti con mons. Ricci ed i cosiddetti pensatori "pistoiesi" considerati giansenisti, lo potevano far sospettare di allontanamento dalla dottrina ufficiale di Roma. Per questo, rivendica la sua fedeltà alla linea della Chiesa. Diversa è la questione politica: se in questo campo ha sentimenti differenti da quelli del papa, tuttavia si dichiara convinto "che il Santo Padre non sarebbe giammai per farmene un delitto", perché l’uomo non può essere privato del diritto a ragionare.
La "Rimostranza" è inviata al papa il 18 settembre ’90. Pio VI siede sul trono di Pietro da 15 anni. Tutto questo lungo periodo non ha cancellato le astiosità accumulatesi attorno alla figura di Amaduzzi, dopo la morte del suo protettore Clemente XIV, avvenuta il 22 settembre ’74. Quando papa Ganganelli soppresse l’ordine dei Gesuiti il 21 luglio ’73, Amaduzzi fu considerato l’ispiratore della bolla "Dominus ac Redemptor" con cui il provvedimento venne sancito.
L’"atleta dell’antigesuitismo", è stato definito il nostro abate per il suo gran daffare con i "pistoiesi". Le lettere che Amaduzzi scrive a Planco testimoniano che era addentro alle segrete cose. Aveva potuto dichiararsi sicuro dell’abolizione della Compagnia già nel ’69, quando papa Ganganelli era afflitto ed angosciato sino all’insonnia per colpa dei "Loyolisti". Nel febbraio ’72, assicurava che il papa non dimostrava più incertezze. Nell’aprile ’73, annotava che il pontefice, "ilare e brillante", faceva trasparire "sicurezza e tranquillità". Pubblicata la "bolla", Amaduzzi il 7 agosto scrive a Planco che "finalmente si comincia a veder chiaro…".
Amaduzzi è denunciato al papa per aver inviato uno scritto a mons. Ricci. Pio VI lo assolve. Il 18 agosto 1794, Pio VI con la bolla "Auctorem fidei" condannerà invece tutte le idee espresse da mons. Ricci. Ma in quel tempo, Amaduzzi era già scomparso.
Nelle lettere a mons. Ricci, Amaduzzi si è scagliato spesso contro la "corrutela", l’"anarchia ecclesiastica e politica" di Roma, fino a scrivere nell’86: "Quant’è mai dura la condizione dei nostri tempi. Le verità cattoliche debbono essere reputate eresia e le riforme debbono passare per innovazioni scandalose ed illecite". Con mons. Ricci, Amaduzzi ha assunto il ruolo di ‘talpa’ in Vaticano, inviando a Pistoia notizie che poi Ricci passa agli "Annali ecclesiastici" di Firenze, organo dei cosiddetti giansenisti italiani che propugnavano una linea riformatrice, alla vigilia del grande sconvolgimento dell’89. Dopo gli eventi francesi, Amaduzzi osserva che "tutto il mondo è in combustione… Le cose peraltro sono così complicate che se uno piange l’altro non ride e v’è solo da sospirare per tutti".
Amareggiato, egli si ritira tra i suoi quattromila volumi che destina alla "Comunità di Savignano", con un testamento rogato dal notaio Bassetti il 19 gennaio 1792, due giorni prima di morire.

NOTE
(1) Cfr. lettera del 4 febbraio 1786, c. 28, Epistolario Amaduzzi, BFS.

Antonio Montanari
(c) RIPRODUZIONE RISERVATA

"Riministoria" e' un sito amatoriale, non un prodotto editoriale. Tutto il materiale in esso contenuto, compreso "il Rimino", e' da intendersi quale "copia pro manuscripto". Quindi esso non rientra nella legge 7.3.2001, n. 62, "Nuove norme sull'editoria e sui prodotti editoriali e modifiche alla legge 5 agosto 1981, n. 416", pubblicata nella Gazzetta Ufficiale n. 67 del 21 marzo 2001. Antonio Montanari, 47921 Rimini, via Emilia 23 (Celle). Tel. 0541.740173
Pagina 292, creata 04.08.2000. Rev. grafica, 18.05.2014