Gino Ravaioli
Un mio articolo sul "Carlino" del 1961
["il Ponte", n. 17, 1996]
Sono passati 35 anni dalla pubblicazione di quest'articolo (avvenuta l'8 novembre 1961), nella pagina riminese del «Carlino», della quale era responsabile il prof. Amedeo Montemaggi, mio primo maestro di giornalismo.
Lo ripropongo oggi perché vi si parla di un noto quadro di Gino Ravaioli, «Macchiette riminesi» (1915), attualmente esposto con altre sue opere in una assai interessante mostra antologica presso il Museo della città. Quel quadro, di proprietà del Comune di Rimini, era allora negletto in un ufficio del Genio Civile in via Gambalunga. Faticammo molto a scovarlo. La fotografia fu fatta dall'indimenticabile Dino Minghini, con cui si lavorava in coppia per i vari servizi sul «Carlino», che riguardavano la cronaca, la cultura, la pittura e la storia della nostra città.
Ravaioli (scomparso nel 1982, a 87 anni dopo una lunga malattia), era stato mio insegnante di Disegno alle scuole medie. Non c'è spazio per dire altro. Almeno per ora.

Rimini, in questi ultimi anni, si è lentamente trasformata: è ormai quasi del tutto scomparso ogni vecchiume, e ogni cosa, dalle case umili ai palazzi più rispettabili, va assumendo un'aura di modernità. Non molti sono i ricordi, i segni tangibili della sua vita antica, dei primi decenni di questo secolo; di quando essa prese, soprattutto, a svilupparsi come centro turistico. È, infatti, del 1908 la costruzione del monumentale Grand Hotel, frequentato dalla migliore «gente bene» del tempo, da Paolo Mantegazza da Lyda Borelli, da Caruso a Marconi, da Murri a Novelli.
Ogni ricordo è stato assorbito dalla grande marea della civiltà moderna; solamente in qualche angolo buio, anche nel centro o quasi della città, è possibile trovare ancora stradette acciottolate, antiche appunto, tutte ondulate, con pozzanghere... antidiluviane. Ma poco manca, ne siamo certi, che anch'esse, le strade strette e minute che sembrano uscire da un romanzo verghiano, scompaiano: fra breve un'ondata d'asfalto e di nero bitume le ucciderà cosi, senza pietà. E noi, di certo, non staremo a rimpiangerle. A camminarvici sopra sono cattive, punzecchiano, quasi, con i loro ciottoli sporgenti. Molti però sono i ricordi che queste umili viuzze conservano, dall'epoca della loro costruzione ad oggi. Quanti anni saranno passati: cinquanta o cento? Scommettiamo. No, invece settanta o sessanta, soltanto.
Sì, detto così un sessanta non fa effetto alcuno e gli si aggiunge l'avverbio soltanto. A pensarci bene, però sessant'anni sono parecchi, moltissimi. In sessant'anni il mondo ha cambiato faccia e con il mondo, anche Rimini, fortunatamente.
Sessant'anni, dunque: e i ricordi dei vecchi corrono, come i fiumi quando sui monti c'è il disgelo. Dalla memoria emergono fatti, figure, personaggi saporosi, ricchi di comunicativa anche oggi. Quei personaggi che un brillante pittore riminese, il prof. Gino Ravaioli, tuttora insegnante nelle nostre scuole medie, ha saputo riassumere con eloquente parola in un quadro a pastello, che è intitolato «Vecchi tipi di Riminesi». Era il tempo delle osterie della «Bela sposa», «d' Munfagnin», «d' Massén» e di «Filon». È qui, in queste osterie, dove c'era veramente il vino buono, che troviamo i nostri personaggi, da «Marda» a «Ciriachèto» a «Pumidòr».
«Marda», scrisse qualche anno fa lo scrittore Alessandro Tonini, appassionato cultore di cose riminesi, discendente dei famosi [Luigi e Carlo] Tonini, i più autorevoli storici della nostra città; «Marda», dunque, «era un popolaresco frutto di illeciti amori, figlio di ignoti». Era carico, sia permesso di usare questo vocabolo, di una folta barba e di un foltissimo paio di baffi che si faceva radere, forse per motivi finanziari, solamente due volte all'anno, nelle sante ricorrenze della Pasqua e del Natale. Viveva, lavando i bicchieri e le tazze di un alloggio (con annesso caffè), chiamato realisticamente «L'unione»: era uno sguattero. Oggi, magari, lo si chiamerebbe rispettosamente cameriere.
«L'unione» era situato nella piazzetta Gregorio da Rimini, meglio conosciuta dalla tradizione popolare come quella «dal purazi», delle «poveracce» (o meglio arselle). In questo alloggio soggiornò, una notte, anche un nostro poeta conterraneo, Zvanì Pascoli che, trovandosi alla sera senza... spiccioli, per poter egualmente dormire, dette in pegno all'albergatore un suo intimo indumento.
«Marda» era un tipo tranquillo, senza velleità oratorie, e preferiva trascorrere il suo tempo a spendere i propri soldi nelle osterie. A chi gli rimproverava il suo silenzio, intercalato naturalmente solo dalle sorsate di vino, era solito rispondere, sempre con garbo raffinato: «Il Silenzio è d'oro». Una frase, questa, che sembra uscita dalla bocca di un antico saggio che, filosofando e vivendo alla meglio, passava così la sua vita; magari dormendo talora, come lui, sotto qualche ponte, come quello della ferrovia che di un balzo oltrepassa il porto-canale.
Qualcosa accumunava «Marda» a «Ciriachèto»: l'amore per l'uva grondante profumato sudore. Era, nella costituzione corporea, invece, magro, molto magro, tanto da rassomigliare ad un San Sebastiano trafitto. Girava per strada senza giubba e senza berretto; spesso e volentieri, anche senza calze e scarpe, pure d'inverno, tanto da destare in alcuni amici un vivo senso di compassione. Chi lo conobbe da vicino, ama raccontare di lui questo fatterello: durante un inverno freddissimo, ebbe la ventura di vedersi regalati un paio di pantaloni. Li andò ad impegnare al Monte di Pietà, per avere i soldi del vino quotidiano che, forse più della stoffa, lo riscaldava nel corpo, e quel che più conta, nell'animo. Beata filosofia dei nostri padri, che non conoscevano ancora le miserie catastrofiche delle bombe atomiche.
L'altro, «Pumidòr», era giornalaio, gobbo e con la voce afona, per il continuo, sommesso urlare attraverso le strade, con una certa aria di strafottenza. Era anche lui un tipo tranquillo e morì, ci dicono le cronache della gente amica, durante il tragico (e storico) febbraio del 1929, l'anno del «nevone»! Egli era spesso in compagnia di «Cicogna» che faceva un po' da «cronaca locale», con la gente, annunziando a squarciagola i prezzi del vino nuovo a seconda delle varie osterie.
E gli altri personaggi che il quadro di Ravaioli raffigura, come si fa a ricordarli tutti? Ci scusino, essi stessi, dal muto vociare del quadro a pastello, con il loro sorriso antico e distaccato, se li citiamo solo in breve.
Ecco, dunque, «Pagnòc», sensale di vino, famoso in tutta la città per le orazioni che diceva all'udire un'altrui bestemmia; ecco la «Dalcisa», assai simile alla fiorentina Cianghella del Paradiso dantesco (canto XV), di temperamento assai moderno...; ecco «Vicenzino», elegante custode delle latrine (ci si passi il termine, usato pure nei moduli governativi del Censimento), «Bindiléin», «Lisca», «Piombo»... e tanti, tanti altri.
Oggi, chi si ricorda più di loro, chi va a spolverare le memorie passate? E chi lo fa teme, come pure noi, di veder la gente sorridere di indifferenza. Sarebbe bello che a Rimini, che tante cose illustri ha orgogliosamente coltivato, si coltivasse pure il ricordo di quei silenziosi personaggi, con l'intitolare loro una strada, solo una, di quelle vecchie ancora con i sassi che saranno «ammazzati» un dì dall'asfalto, dove riecheggiava anche l'urlo della «Munaldina»: «Bambini piangete, che la mamma vi compra la cioccolata tobeler». E i bambini piangevano.
Antonio Montanari

"Riministoria" è un sito amatoriale, non un prodotto editoriale. Tutto il materiale in esso contenuto, compreso "il Rimino", Ë da intendersi quale "copia pro manuscripto". Quindi esso non rientra nella legge 07.03.2001, n. 62, "Nuove norme sull'editoria e sui prodotti editoriali e modifiche alla legge 05.08.1981, n. 416", pubblicata nella Gazzetta Ufficiale n. 67, 21.03.2001. © Antonio Montanari. [1979, 19.01.2014]. Mail