Riministoria-il Rimino
Fossoli, il silenzio sulla strage.
Vi morirono Rino Molari, Walter Ghelfi e Edo Bertaccini.

12 LUGLIO 1944. Sessantotto prigionieri italiani del lager di Fossoli sono uccisi al poligono di tiro di Cibeno (Carpi). Tra loro ci sono Edo Bertaccini di Coriano (frazione di Forlì), capitano dell’ottava brigata Garibaldi, un ferroviere di Rimini, Walter Ghelfi, ed il santarcangiolese Rino Molari, professore di scuola media. Sulla drammatica vicenda ritorna un libro appena uscito presso Mondadori, «Le stragi nascoste» di Mimmo Franzinelli, dedicato al tema precisato nel sottotitolo: «L’armadio della vergogna: impunità e rimozione dei crimini di guerra nazifascisti, 1943-2001».
11 luglio 1944, vigilia dell’eccidio: alle ore 19 il vicecomandante del lager Hans Haage, chiama «i nomi delle persone che l’indomani sarebbero partite ‘per il nord’; la modalità dell’appello, nominativo invece che numerico, indicava che qualcosa di straordinario stava per accadere». I repubblichini hanno piazzato una mitragliatrice che domina la piazza dell’appello. Questo comprova, scrive Franzinelli, la «compartecipazione dei fascisti alla preparazione dell’eccidio». Otto prigionieri ebrei sono stati intanto portati al poligono di Cibeno, distante circa tre chilometri, per scavare una fossa: è larga dieci per cinque metri, profonda un metro e mezzo.
L’indagine di Franzinelli ricostruisce quanto accaduto in Italia del dopoguerra a proposito degli eccidi come questo di Fossoli. Per mezzo secolo, scrive, la magistratura militare ha negato giustizia; soltanto dal 1994 si sono avviate istruttorie «seguite al tardivo invio dei fascicoli processuali alle procure militari territoriali». In un armadio di legno con le ante appoggiate contro una parete (l’«armadio della vergogna» del sottotitolo), 695 fascicoli sui crimini nazisti (che provocarono dai 10 ai 15 mila morti), furono occultati a Roma presso la procura generale militare, in uno stanzino inaccessibile, a partire dalla seconda metà degli anni Quaranta.
Il fascicolo di Fossoli reca il n. 2 (apre la serie quello sulle Fosse Ardeatine). Come per gli altri, nel 1960 fu decretata la sua «archiviazione provvisoria», durata fino al 1994, quando tutti i documenti furono rinvenuti casualmente nel corso di indagini su Erich Priebke, dal procuratore militare del Tribunale militare di Roma, Antonino Intelisano. Il Consiglio della magistratura militare definì illegale l’occultamento dei 695 fascicoli, con una relazione approvata di misura il 23 marzo 1999: fu «una votazione che spaccò in due il Consiglio», osserva Franzinelli.
Per la vicenda di Fossoli, il gip militare della Spezia, il 10 novembre 1999, decretò l’archiviazione del procedimento nei confronti di Hans Haage (deceduto), Karl Friedrich Titho (per insufficienza di prove per sostenere l’accusa), e di altri indagati «per essere gli stessi rimasti ignoti non essendo stata possibile la loro esatta identificazione». Il tenente Titho comandava il lager, ma «il vero padrone di Fossoli», scrive Franzinelli, era Haage, sergente maggiore, descritto da un recluso come un nazista fanatico.
Sulle responsabilità dell’eccidio, la sentenza del 1999 dice che essa «è da ricondurre al Comando supremo» tedesco, «nella persona, allo stato, di soggetti ignoti». A Titho, l’ordine ricevuto poté sembrare non illegittimo «proprio perché inserito in una organizzazione dalla disciplina particolarmente rigida e severa, nella quale l’obbedienza era cieca ed assoluta».
Contro Titho ed Haage, un ordine di cattura era stato emesso nel 1954 dal Tribunale militare di Bologna. La successiva richiesta di estradizione per Titho fu bloccata dal ministro degli Esteri Gaetano Martino e dal Tribunale supremo militare, con la motivazione che i fatti a lui attribuiti apparivano di «carattere politico». La posizione fu condivisa dal ministro dell’Interno, Paolo Emilio Taviani.
L’interprete di Fossoli, Karl Gutweniger, lavorò anche a Bolzano. Arrestato dagli americani, fu rinchiuso nel campo di concentramento di Rimini da dove fuggì nel luglio 1946. Fu condannato il 13 dicembre dello stesso anno, in contumacia, dalla Corte d’assise straordinaria di Bolzano a 12 anni per collaborazionismo: «egli beneficiò di cinque anni di condono e scontò solo tre anni di libertà vigilata».
Franzinelli, a proposito «di sopraffazioni e di violenze gratuite da parte» tedesca contro la popolazione italiana, riporta un memoriale dell’ex segretario del fascio di Riccione: «per carità di Patria», questi scrisse, doveva rimanere ignorato un episodio di violenza usata da soldati germanici a donne «ed anche alle giovinette», nell’imminenza dell’abbandono delle postazioni difensive.
Tra le «stragi nascoste», Franzinelli elenca pure quella di Fragheto, agosto 1944: 80 persone fucilate, 30 case distrutte; i 17 giovani fucilati a Cesena per inadempienza del servizio militare; i 33 italiani fucilati a Galeata. A Fossoli passò anche lo scrittore Primo Levi («Io so cosa vuol dire non tornare. / A traverso il filo spinato / Ho visto il sole scendere e morire; / Ho sentito lacerarmi la carne /Le parole del vecchio poeta:/ “Possono i soli cadere e tornare: / A noi, quando la breve luce è spenta, / Una notte infinita è da dormire”»).
Riuscì invece a non arrivarci un altro riminese, Giuseppe Babbi, arrestato il 18 marzo 1944 dai fascisti italiani in territorio neutrale, a San Marino, e trasferito al carcere di Bologna: qui incontra Ghelfi e Molari. Della sua vicenda s’interessò la diplomazia alleata che riuscì a salvargli la vita.
Walter Ghelfi, che aveva raggiunto l’Ottava brigata Garibaldi sull’Appennino tosco-emiliano, fu carcerato, torturato e ridotto in misere condizioni fisiche, ma «non tradì i suoi compagni in arme». Rino Molari insegnò lettere nell’anno scolastico 1943-44 a Riccione, dove fece amicizia con don Giovanni Montali, suo compaesano. Trasportò materiale clandestino. Una spia della Repubblica di Salò lo fece arrestare il 28 aprile 1944.
Tonino Guerra in quell’anno cerca di applicare la lezione appresa da Rino Molari. Ricevuti in consegna dei manifestini lasciati proprio da Molari (nel frattempo ucciso) ad un fabbro, Guerra è fermato da un fascista del suo paese, portato poi a Forlì, quindi a Fossoli («e sono stato nella stessa baracca dove era stato Rino Molari quattro o cinque giorni prima, la numero 19»), infine in prigionia in Germania per un anno.

[Per altre notizie, vedi «I giorni dell’ira», Cap. VIII, qui sotto.]

La storia del campo: dalle SS a Nomadelfia
A Fossoli, nelle vicinanze di Carpi, in provincia di Modena, nel maggio 1942 è insediato il campo di concentramento fascista per prigionieri di guerra “n. 73", gestito dalle autorità militari italiane e destinato all'internamento di sottufficiali inglesi catturati in Nord Africa. L'8 settembre 1943 il Campo viene occupato dai nazisti, attratti dalla posizione geografica che rende la zona un comodo snodo ferroviario. Dal dicembre dello stesso anno funziona come "Campo di concentramento provinciale per ebrei", sotto la gestione della Prefettura di Modena. Sul finire del gennaio 1944 le autorità tedesche avocano a sé la giurisdizione del campo che diventa campo poliziesco di transito per deportati politici e razziali, rastrellati in varie parti d'Italia. Ha così inizio una serie di trasferimenti: dalla stazione ferroviaria di Carpi partono 7 convogli destinati ai più tragici lager del Nord Europa.
Accanto al Campo Vecchio amministrato dalle Prefettura di Modena e gestito da italiani con prigionieri che non venivano deportati; c’era il Campo Nuovo gestito dalle SS tedesche del tenente Karl Titho e del sergente maggiore Hans Hage, con prigionieri ebrei e politici destinati alla deportazione.
Il campo di Fossoli rimase in attività per circa sette mesi, durante i quali vi passano circa 5.000 deportati di cui la metà ebrei: un terzo dei deportati ebrei dal nostro Paese. Il primo grande trasporto, composto quasi tutto di ebrei, è quello segnalato da Primo Levi, che partì da Fossoli il 22 gennaio 1944. Dopo la fine della guerra, il Campo è utilizzato lungamente a scopo abitativo: dal 1947 al 1952 è occupato dalla comunità cattolica di Nomadelfia (che significa dal greco: “Dove la fraternità è legge"), e dal 1953 alla fine degli anni '60 dai profughi giuliani e dalmati (Villaggio San Marco).
A Fossoli avvennero alcuni gravissimi delitti ad opera delle SS, il più grave dei quali è la fucilazione di 68 deportati, partigiani e antifascisti, il 12 luglio 1944. Sull'episodio, ecco la testimonianza di Alba Valech Capozzi (deportata da Fossoli a Birkenau, e liberata dagli Alleati a Dachau il 1° maggio 1945), tratta dal suo volume "A.24029":
«Quel giorno lavorammo preoccupate. Neppure a mezzogiorno i venti ebrei erano rientrati. Nelle baracche regnava un gran nervosismo. Si facevano i commenti più disparati. Tutti eravamo inquieti. Non tornarono neppure la sera, quando ci adunammo sullo spiazzo per il controllo. Pensammo li avessero ammazzati. Eravamo tutti in fila, ma regnava un'atmosfera pesante e perfino il maresciallo Hans aveva il viso oscuro. Anche a mensa io avevo notato qualcosa di strano. Un parlottare serio e serrato fra i tedeschi e delle animate discussioni. Io non avevo compreso nulla di quello che si diceva, ma avevo collegato quelle discussioni con l'assenza dei venti ebrei. Avevo provato a chiedere di loro, ma avevano risposto solo con grida e con pugni sui tavoli. Non avevo insistito ed appena terminato il lavoro ero corsa subito al campo.
Scuro in viso Hans terminò il controllo, poi si portò in mezzo allo spiazzo e disse: "Quelli che ora chiamo, prenderanno la loro roba ed andranno a dormire in un'altra baracca. Domattina partiranno per la Germania ed andranno in un campo di lavoro dove staranno molto bene". Cominciò l'appello. Erano settanta. (…) I settanta si erano frattanto riuniti, con tutta la loro roba. Vidi Fritz, l'interprete, parlare animatamente con loro, mentre si avviavano verso la baracca. I venti ebrei non erano ancora rientrati. Uno ad uno quei settanta vennero poi a salutarci tutti, e quella notte al campo, si fu più preoccupati per i venti ebrei che per quei settanta politici. La mattina seguente, andando in cucina, vidi che gli ebrei erano rientrati al campo. Stavano in gruppo fra la cucina e la mensa. Erano tutti pallidi.
"Signor Vita, signor Vita, - chiamai, rivolgendomi ad uno di loro, - ma dove siete stati? Qui al campo eravamo tutti in pensiero". Il Vita non rispose. Scosse solo la testa con aria desolata. "Alba, Alba, venga qua", gridò il cuoco. Un tedesco si avvicinava. Erano circa le otto. Presi il bricco del caffelatte e mi avviai alla mensa. Uno dei tedeschi aveva un braccio fasciato.
"Capùt, capùt", dissi indicandogli il braccio. Intendevo chiedere se si fosse fatto male; nella speranza di attaccare discorso e saper qualcosa. Mi guardò meravigliato ed accennando di sì con la testa, rispose: "Molto, molto capùt". Uscii impressionata dalla mensa. Vidi i muratori che venivano al campo per lavorare. Anche loro avevano delle facce strane. "Che è accaduto?" chiesi ad uno di loro. "Li hanno ammazzati tutti, ma stia zitta, per carità", mi sussurrò.”
Fonti:
www.deportati.it/campi/fossoli
www.fondazionefossoli.org
www.itc-belotti.org
www.nomadelfia.it
www.comune.modena.it

I giorni dell'ira.
Settembre 1943 - settembre 1944 a Rimini e a San Marino

VIII. L'arresto di Giuseppe Babbi


La vigilia di San Giuseppe, Babbi è avvicinato dal maresciallo dei Carabinieri di Serravalle, che gli comunica la necessità di parlargli in caserma. "Qualunque cosa lei abbia da dirmi, può dirmela qui", replica Babbi. Il maresciallo "prese mio padre per un braccio e per il collo e lo trascinò fino alla stazione ferroviaria di Serravalle, dove c’era il trenino fermo con accanto poliziotti italiani ed un militare delle SS tedesche. Mio padre fu caricato a forza sul treno che partì verso Rimini", racconta ancora Andrea Babbi. "Alla stazione di Dogana il treno si fermò; il maresciallo scese con i Carabinieri, lasciando mio padre in mano alla polizia italiana, anche se il treno era ancora nel territorio neutrale di San Marino." L’arresto di Giuseppe Babbi, prosegue il figlio, mise "in crisi il gruppo degli antifascisti che lui frequentava".
L’altro figlio di Babbi, Angelo, la mattina del 19 al Commissariato di Rimini apprende la notizia che l’indomani suo padre sarebbe stato trasferito a Bologna. Verso le 10.30 del giorno 20, riesce a vederlo alla stazione ferroviaria di Rimini. Giuseppe Babbi viene avviato verso il treno quando si accorge della presenza del figlio, a cui fa segno di allontanarsi. Soltanto a fine aprile Angelo Babbi può avere il permesso per un colloquio col padre nel carcere di Bologna, alla presenza degli agenti: "... però noi parlavamo in dialetto. Mio padre mi disse che l’avevano interrogato più volte e che con lui c’erano... un ragazzo di Rimini, Walter Ghelfi e il prof. Rino Molari di Santarcangelo".
Una delle ultime volte che Angelo Babbi si reca a Bologna dal padre, la famiglia Molari gli affida un pacco da consegnare al professore. "Ma fui costretto a portarlo indietro, perché sia Molari che Ghelfi erano già stati portati nel campo di concentramento di Fossoli di Carpi, dove entrambi furono fucilati", nella notte fra il 12 ed il 13 luglio. Babbi invece viene liberato il 17 luglio. Babbi ha cinquant’anni, Molari trentatré e Ghelfi ventidue. (Dal febbraio del ’44 alla liberazione, nel campo di Fossoli transitarono migliaia di prigionieri: inglesi, ebrei, italiani, antifascisti, intellettuali cattolici come Molari. Vi passò anche lo scrittore Primo Levi.)
Babbi, scrisse Oreste Cavallari, "con poca istruzione e molta miseria, si era fatto da sé con forte carattere e forte personalità. Tutti, anche gli avversari politici, ne riconoscevano la forza d’animo e la purezza d’ideali". Nato a Roncofreddo nel 1893, si era trasferito nel 1904 con la famiglia a Rimini, dove lavora prima come commesso di farmacia e poi, dal 1913, come ferroviere. Si dedica all’attività politica ed a quella sindacale. "Nel 1921 contrastò duramente le tendenze filofasciste" di don Domenico Garattoni e dell’avvocato Mario Bonini, "costringendoli... a presentare le dimissioni dal Partito Popolare", scrive lo storico Piergiorgio Grassi. Sturziano, davanti al problema agrario Babbi sostiene idee per allora "molto audaci", differenziando nettamente il partito popolare "dal comportamento degli agrari e delle forze economiche, appoggiate da il Resto del Carlino, che si preparavano a chiedere l’intervento delle squadre fasciste di Leandro Arpinati". Nel 1923 per la sua posizione di antifascista viene espulso dalle Ferrovie e si trasforma in rappresentante di commercio nel settore dei mobili. Nel ’43 riprende la sua attività politica, in modo clandestino, "chiamando a raccolta gli antichi popolari e qualche giovane dell’Azione Cattolica in vista della fondazione di un nuovo partito", scrive ancora Grassi.

Su Walter Ghelfi abbiamo poche notizie: ferroviere, il 13 marzo ’44 raggiunge l’Ottava brigata Garibaldi sull’Appennino tosco-emiliano. "Per il suo coraggio, per la sua fede, per il suo altruismo che lo faceva eccellere sugli altri, fu nominato Commissario Politico di Compagnia", si legge ne Il Garibaldino del 16 agosto 1945. In aprile fu catturato nei pressi di Santa Sofia. Carcerato, torturato, si riduce in misere condizioni fisiche, ma non ‘parla’: "non tradì i suoi compagni in arme".
Rino Molari è un docente di lettere di Santarcangelo che nell’anno scolastico ’43-44 insegna a Riccione, dove fa amicizia con il parroco di San Lorenzo in Strada don Giovanni Montali, suo compaesano. Poi entra in contatto con l’antifascismo del Cesenate e della Valmarecchia. Trasporta materiale clandestino. Al Provveditorato agli studi di Forlì, per le sue idee, lo giudicano un "elemento poco raccomandabile". Una spia della Repubblica di Salò, Giuseppe Ascoli (alias "capitano Mario Rossi") figlio del generale Ettore Ascoli, lo fa arrestare il 28 aprile ’44.
Tonino Guerra in quell’anno cerca di apprendere e di tradurre in realtà la lezione politica e morale di Rino Molari. Ricevuti in consegna dei manifestini lasciati da Molari (nel frattempo ucciso) ad un fabbro, Guerra è fermato da un fascista del suo paese, portato poi a Forlì, quindi a Fossoli ("e sono stato nella stessa baracca dove era stato Rino Molari quattro o cinque giorni prima, la numero 19"), infine in prigionia in Germania per un anno.
A don Montali, come scriverà don Domenico Calandrini, "la guerra civile... barbaramente spense il fratello e la sorella, trucidati in casa vecchi e stanchi, e gettati nell’attiguo pozzo, per rabbia contro il vecchio prete che non s’era fatto sorprendere ed arrestare in canonica". Ha ricordato Maurizio Casadei che don Montali "una volta, ritornando da un viaggio trovò il soffitto della camera sfondato dalle pallottole sparate dalla strada. Poi, dopo che i fascisti nel marzo 1944 arrestarono per attività ‘sovversiva’ il professor Rino Molari […] la situazione si aggravò. Sospettato di essere un cospiratore e di aiutare partigiani e prigionieri alleati, don Giovanni dovette fuggire, vestito in borghese, a San Marino, prima a Valdragone e poi a Montegiardino". Quando la mattina del 15 settembre ’44, i greci liberano San Lorenzo, nel pozzo vicino alla chiesa si scoprono i corpi di Giulia e Luigi Montali. Avevano cinquantanove e sessantasei anni.
Nel Giornale di Rimini del 2 settembre ’45 si legge che a Giuseppe Ascoli "e ad altri due o tre individui in costume da ufficiali e sottufficiali dei bersaglieri […] si imputa il bieco assassinio" dei due fratelli Montali. Ascoli, come si è visto, è il collaborazionista che fece arrestare il prof. Molari. Gli assassini si sarebbero vantati della loro impresa poco dopo "nel ristorante dell’albergo riccionese dove risiedevano i comandanti del battaglione". Secondo Amedeo Montemaggi (vedi Il Ponte, 9 ottobre 1988), in quei giorni "si incolparono falsamente i tedeschi o i bersaglieri".
Ho ascoltato due nipoti di don Montali. Don Michele Bertozzi: "Don Montali forse sapeva qualcosa di grosso, ma non mi volle mai dire niente". La signora Maria Teresa Avellini Semprini: "Luigi Montali forse era stato colpito al cuore, difficile stabilirlo perché il corpo era in stato di decomposizione. Giulia aveva invece ricevuto una fucilata alla testa". La signora Avellini era stata allieva di Rino Molari nel ’43-44, e rammentava che cosa era stato raccontato allora dell’arresto del suo insegnante: "Alla pensione Alba, dove Molari era ospite, si presentarono dei fascisti che si sedettero al ristorante, parlando a voce alta fra loro: "Come ci pesa questa divisa...". Molari avrebbe detto: "Trovate la maniera di buttarla via, venite con me...". Così, con l’inganno, Molari venne arrestato".

Don Walter Bacchini sino al giugno ’44 è cappellano di don Montali a San Lorenzo in Strada. Una domenica durante l’omelia sostiene che la gente non la si nutre con il ferro dei cannoni, ma con il pane. Un giovane lo denuncia al fascio di Riccione. Provvedimenti su di lui non vengono presi, ma lo segnalano a Forlì: "Ci fu a Riccione, mi hanno detto, una specie di riunione per il caso provocato da me. Forse per la mia giovane età o per la stima che aveva preso molti nei miei confronti, la cosa fu messa a tacere". L’unica traccia dell’episodio rimase in un certificato militare, ove fu annotato che don Bacchini "aveva manifestato sentimenti antifascisti". Quell’atteggiamento di rivolta contro la dittatura, mi ha spiegato don Walter in un lungo, amichevole colloquio, "non era dovuto a me in particolare, ma al fatto di aver avuto la fortuna di essere stato accanto ad un campione della libertà come don Giovanni Montali".
Ha scritto lo stesso don Montali il 15 febbraio 1945: "Venuto il fascismo, non mi lasciai spostare da esso neppure di un pollice dal mio programma. Ebbi l’onore di parecchie dimostrazioni ostili da parte di esso: ne ricordo una molto clamorosa nel 1932 a S. Lorenzino, ove erano convenute tutte le autorità di Riccione, con otto automobili senza contare quelli che si servirono della bicicletta. Ne ebbi un’altra, anch’essa molto clamorosa, ai 10 giugno 1940, alla sera, per aver sostenuto che l’Italia non doveva entrare in guerra a fianco della Germania, perché il mondo non le avrebbe lasciato vincere la guerra. Nello stesso anno fui denunziato dal Segretario politico di Riccione alle autorità di Forlì, presso le quali dovei andare a difendermi personalmente ed ebbi l’onore di essere diffidato. Parecchi anni addietro, nella speranza di potermi annoverare tra i fascisti, da un amico mi fu proposta la tessera ad honorem, che naturalmente rifiutai, dicendo che l’avrei presa se la tessera desse ingegno. Nei miei discorsi dal pergamo o dall’altare, il più delle volte vigilati da emissari del fascio, ho parlato spesso della dignità dell’uomo, della libertà che Dio ha concesso all’uomo quale "maggior don che Dio fesse creando"".

A San Marino il 23 marzo ’44 il segretario repubblichino Giuliano Gozi pubblica un proclama in cui si parla del "conforto che mi viene anche dalla piena fiducia personale del Duce". "I fascisti sono tenuti strettamente all’ordine e alla disciplina, astenendosi in modo assoluto da qualsiasi atto di violenza", sentenzia Gozi. Parole. Che nascondevano le violenze fino ad allora perpetrate, e che saranno smentite dai fatti successivi.
Il primo aprile inizia la reggenza di Francesco Balsimelli e Sanzio Valentini, proprio nel semestre più drammatico per la Repubblica. Nello stesso mese di aprile, racconta Montemaggi, "si acuiscono le tensioni col Governo fascista italiano, il quale rimproverava a San Marino di esser diventata asilo di migliaia di disertori, di renitenti alla leva, di antifascisti". Ezio Balducci, gran diplomatico di San Marino, è "perseguito da mandato di cattura e denunciato al Tribunale speciale fascista". Ai repubblichini dà fastidio che Balducci abbia raggiunto un "tacito accordo" (come lo definisce Balsimelli) con i nazisti, per salvaguardare sul Titano ebrei ben conosciuti dai tedeschi. I repubblichini italiani erano più pericolosi dell’apparato germanico. Ciononostante, nel dopoguerra, Balducci cercherà di difendere Tacchi, dicendo che il federale riminese aveva avallato le dichiarazioni sammarinesi, secondo cui non esistevano ebrei nella Repubblica. Ma che bisogno aveva San Marino di una conferma dai fascisti riminesi?

Primo maggio ’44. Clandestinamente, viene celebrata la festa del Lavoro. "Quando i fascisti trovarono i cantieri deserti andarono su tutte le furie", testimonia Gildo Gasperoni: "Come cani arrabbiati passarono minacciosi per le case degli operai ad intimar loro di recarsi a lavorare, minacciando persecuzioni verso tutti coloro che non avessero ubbidito". Proprio quella mattina Gasperoni viene arrestato con un tranello: il maresciallo Tugnoli, comandante i carabinieri di Borgo, lo invita in caserma per informazioni. "Ingenuamente, in buona fede", ammette Gasperoni, "lo seguii". Giunto in caserma, venne subito rinchiuso in camera di sicurezza.
Secondo Gasperoni, a farlo arrestare è stato il col. Marino Fattori, per vendicarsi del "successo di resistenza operaia" del Primo maggio. Ma c’era anche un altro motivo: Gasperoni ha combattuto in Spagna con i ’rossi’. "Udii una conversazione del maresciallo con il carabiniere: gli diceva che il giorno dopo alle nove sarebbe venuto a prelevarmi il colonnello Fattori per portarmi in Italia a render conto dei miei ‘crimini’ consumati in Spagna contro i nostri fratelli italiani che combatterono a fianco delle truppe di Franco", spiega Gasperoni.
L’arrestato trascorre una nottata insonne. Al mattino successivo, mette in atto il progetto di evasione. Attende che siano aperti i catenacci della porta, dà un improvviso spintone, e tra lo stupore dei carabinieri, "con due balzi mi trovai" all’ingresso. Esce dall’edificio, ruba l’auto che doveva tradurlo in Italia, fugge verso la Baldasserona a nascondersi "nella cripta dove la leggenda afferma che dormisse" il Santo fondatore della Repubblica. Si dà alla macchia e poi viene ospitato da diversi amici.
Quattro giugno. Gasperoni viene nuovamente catturato, assieme a quattro riminesi (Decio Mercanti, Giuseppe Polazzi, Leo Casalboni ed Elio Ferrari), al cimitero di Montalbo. Ha scritto Mercanti: "Cominciò a piovigginare. Avevamo appena iniziata la riunione quando appaiono, all’improvviso, il figlio del maggiore Fattori e due altri fascisti, con i mitra spianati; ci costringono ad alzare le mani e a stare con le spalle al muro. Pochi minuti dopo arrivano i Carabinieri sammarinesi armati...": con loro c’è anche Fattori padre. "Io ero l’ultimo della fila, vicino alla scarpata. In un momento di disattenzione dei fascisti", precisa Mercanti, "tentai di fuggire quando Gatti mi sparò...; allora mi saltarono addosso i Fattori; fui picchiato e colpito fortemente al petto con il calcio del fucile".
Li interroga Paolo Tacchi assieme a Marino Fattori. Gasperoni è trattenuto a San Marino e sarà presto liberato. Per gli italiani si prospetta la fucilazione: vengono tradotti prima a Rimini e poi consegnati dalle SS in mano della Gestapo a Forlì. Mercanti riesce a fuggire per strada verso il 15 giugno durante un allarme aereo, mentre veniva condotto al palazzo di Giustizia. Ferrari e Casalboni dovevano essere fucilati il 29 giugno: si erano già scavati la fossa quando un bombardamento mise in fuga il plotone di esecuzione. Li aiutò a scappare il frate che li aveva assistiti spiritualmente.

Don Montali ha scritto: "Cercato a morte, il 20 giugno ’44 scappai a San Marino, dove mi tenni per lo più nascosto per evitare di essere preso e consegnato". Don Ferdinando Zamagni ricorda che in settembre al convento di Valdragone ebbe occasione di incontrare don Montali "in incognito, perché era stata decretata la sua eliminazione dai fascisti". Il parroco di San Lorenzino era costretto a non farsi vedere perché anche nella neutrale San Marino lo avrebbe potuto raggiungere la vendetta fascista.
La gente sapeva come era stato preso Babbi, ceduto dal governo sammarinese ai repubblichini italiani dopo un lungo tergiversare; e sapeva che era stato liberato soltanto perché del suo caso era stata interessata la diplomazia alleata.
Edizione integrale de "I giorni dell'ira".
Antonio Montanari

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