Enzo Biagi, l'etica della memoria
6 novembre 2007


Il cronista galantuomo Enzo Biagi con la sua lunga esperienza, ha lasciato un rigoroso insegnamento sulla necessità della lettura dei fatti e dell'interpretazione della storia.
La memoria ha una sua etica non perché conoscere gli errori ed i drammi del passato significhi evitare di ripeterli in futuro. Magari fosse così.

Non si sa bene che cosa sia la storia: se caso, provvidenza, inconsapevole ed irrazionale procedere di eventi.

Le cose succedono sempre da sole, nel bene e nel male. Ignorarle significa soltanto condividere gli orrori compiuti da chi se ne è macchiato. Conoscerle è già un mezzo per rifiutarli. Per suggerire qualcosa che potrebbe servire a tutti noi, nelle nostre scelte presenti e future. Il passato non si cancella mai.

Enzo Biagi ha vissuto il secolo che, non so perché, qualcuno ha definito breve. Sono stati decenni invece lunghi e pieni di tragedie.
Due guerre mondiali, il razzismo dall'inizio alla fine, poi la shoà nel mezzo, con quel popolo trascinato nelle camere a gas chissà per quale colpa dei loro padri o per quale follia dei loro contemporanei.

Di queste cose lui ha sempre parlato, in interviste ai protagonisti, articoli, volumi. È stato un pedagogista della notizia, sapendo che in ogni rigo di giornale o di libro si condensano drammi che possono essere ricordati attraverso un volto, una canzone o un film.
Le storie di Biagi sono state per molti italiani l'unico veicolo di formazione culturale ed intellettuale. Sapeva scrivere, nel senso che sapeva come farsi leggere. Quindi uno stile asciutto, nervoso. Perché il modo di comporre una frase è anch'esso espressione di una concezione morale. Non soltanto letteraria.
Scrivere per tutti, raccontando cose di tutti, è stata per lui una bella lezione di democrazia vissuta non come proclama retorico ma testimonianza concreta ed immediata.

Nel giorno della sua scomparsa, ci piace ricordarlo con il suo ironico interloquire, con il continuo ricordo delle sue umili origini e di sua madre che lo svergogna in classe perché ha detto una bugia alla maestra, con quella sua battuta (felice come un capolavoro filosofico) sulla signora che ammetteva: sì mia figlia è incinta, ma soltanto un pò


Enzo Biagi, cronista (11/12/2006)
Ben tornato in tivù, dunque, caro Enzo Biagi. Con l'augurio semplice semplice che la gente capisca che i cronisti non sono funzionari di partito o di governo, che sono lecite le critiche al potere e le domande ai padroni del vapore, di tutti i vapori, dal sindaco del più piccolo comune al presidente del consiglio o ad un amministratore delegato.
Con la speranza che i giornalisti combattenti per la libertà dell'Occidente non si mascherino più da spie, almeno quando non è carnevale. Ma il dramma nazionale è che da noi ci sono sempre state troppe quaresime e di conseguenza e per reazione ci sono state pure sempre fin troppe sfilate in maschera.
Per un giornalista, l'importante è raccontare e spiegare (come diceva Indro Montanelli) quello che non si è capìto, non vestire i panni di uno 007 che cerca gloria postuma non nella penna ma nei dossier riservati.
Il mondo è pieno di imbecilli. Quelli che incartano le loro fissazioni in un giornale, come se si trattasse di un caspo d'insalata al mercato, alla fine risultato figure patetiche: si credono furbi ed intelligenti, non riescono ad oltrepassare il confine della barzelletta vivente.
Biagi rappresenta la storia di un giornalismo attento ed onesto. La disattenzione è la regola di chi vuol far carriera e non vuole grattacapi. Quanti grattacapi possa procurare il lavoro del cronista, dipende non dagli oppositori di regime ma dalla demenza di chi (ad ogni livello ed in ogni ambiente) non sa difendere il lavoro dei cronisti seri, e il quotidiano granello di democrazia che quel lavoro serio porta alla mensa comune.
Ben tornato, Enzo Biagi. Ad insegnare che l'umiltà del cronista che lei ha sempre impersonato, è molto più alta delle dignità che si attribuiscono tanti, troppi fanfaroni che circolano nell'ambiente. E buon lavoro nel segno di un'informazione democratica necessaria (oggi più che mai) come l'ossigeno per la nostra vita politica. (7.11.2007)

L'«evitato speciale» (8.11.2007)
Carissima signora Bice Biagi.
Lei stamani, all'ultimo saluto pubblico a Suo padre ha detto: «Certo che c’è stato (l'editto bulgaro). C’è qualcuno che ogni tanto ha delle botte di amnesia. Lui invece non ha mai perso la memoria, né lui né noi».
È vero, ci sono in giro botte di amnesia terribili. È un drammatico gioco dei bussolotti. Il cavalier Berlusconi, allora disse: «Credo sia un preciso dovere della nuova dirigenza (della Rai) non permettere che questo avvenga».
Il «questo» che non doveva succedere più, era l'uso «criminoso» della tv di Stato, di cui era accusato Suo padre.
Adesso il cavalier Berlusconi nega. Secondo lui non aveva mai che Biagi, Luttazzi e Santoro «non dovevano fare televisione». Aveva espresso un auspicio. Ha trovato immediatamente un'obbedienza cieca ed assoluta.
L'editto c'è stato, eccome. Nella formula subdola che oggi permette al suo autore di negarlo.

Mi scusi se in aggiunta parlo di fatterelli personali. A me è successo qualcosa di simile a partire dal 2001, per merito di certe dame seguaci del verbo proveniente da Arcore. Il 14 novembre di quell'anno tenni in un'associazione cattolica una conferenza intitolata: "«La guerra non cambia niente». Dolori nella Storia e desiderio della Verità nel '900 letterario italiano".
Avevo preso la citazione del titolo da quell'«Esame di coscienza di un letterato» di Renato Serra, che mi sarebbe servito per esprimere il mio debol parere sulle circostanze di quei giorni, legate alle vicende dell'11 settembre, ed alla minaccia di una guerra globale.
Con la cautela necessaria non per opportunismo ma per realismo, mi schierai contro le guerre di esportazione della democrazia.
Apriti cielo... Da quella volta non fui più invitato da quell'associazione culturale cattolica.

Poi sono successe altre cose, legate ad esempio ad un altro tabu della destra cattolica riminese che ha tanto potere curiale: quello della falsa sommossa antigiacobina e filopapale dei marinari riminesi nel 1799. Pochissime righe apparse sul settimanale diocesano, e riprese da una storia ottocentesca, ebbero la piccata risposta di un'intera pagina sul settimanale stesso con tutta una serie di notizie non rispondenti al vero.
Poi ha dato fastidio qualche mio studio storico sulla condanna all'indice di un medico riminese del 1700 per speciale intercessione del vescovo della città.

Lentamente da quel novembre 2001 mi si è stretta attorno una cerchia di isolamento sanitario da «evitato speciale» per cui nel giornale a cui collaboravo, prima mi è stata tolta la sezione culturale, poi non mi hanno commissionato più le recensioni dei testi storici. Per cui ho preferito abbandonare dopo quasi 25 anni di lavoro, per non avere altre beghe.

Nessuno ha firmato editti, nessuna "sa" niente di quanto accaduto. Però le cose sono avvenute.
È vero, ci sono in giro botte di amnesia terribili. Quando parlavo di queste vicende mie con le persone che sanno, alla fine ero considerato come un visionario.
Il fatto drammatico è che il sire di Arcore ha fatto scuola anche su chi non ne condivide le idee. Oppure è soltanto l'ipocrisia umana che cresce in ogni terreno.

Antonio Montanari

Riministoria
il Rimino


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