Battarra, Filosofia e funghi
Si definisce «philosophus», per riassumere la propria avventura intellettuale nel secolo dei Lumi.
["il Ponte", n. 39, 1990]
Battarra si definisce «philosophus», per riassumere la propria avventura intellettuale nel secolo dei Lumi. Natura e Dio, spiega lui stesso, niente producono invano: l'uomo deve quindi scoprire l'utilità di ogni cosa esistente e meditare su quanto il Padre ha creato. Ragione e fede s'incontrano nell'indagine sulla realtà. Dopo lo scontro con il vescovo di Rimini card. Valenti, perde la cattedra che gli era stata affidata in Seminario, e si dedica soltanto all'agricoltura, alla Pedrolara di Coriano, come scrive a papa Clemente XIV.
Nel suo testamento, non volle lasciare nulla alla città, con cui aveva un conto in sospeso da venticinque anni, per delle pubbliche lezioni di Filosofia mai pagategli. Pensava che a Rimini dovesse bastare il non aver reclamato il compenso promessogli.

Ha compiuto 72 anni da appena due giorni. È l'11 giugno 1786. L'abate Antonio Battarra fa testamento. A quelli che lui chiama suoi nipoti, e che sono procugini, lascia in usufrutto le proprietà ereditate dal padre Domenico (l'attuale palazzo Turchi nel Borgo San Giovanni), ed il podere Pedrolara, a Coriano, appartenuto alla madre Giovanna Francesca Fabbri.
Per i funerali (morirà l'8 novembre 1789), dispone che non si spenda «più di dieci scudi in tutto e per tutto». Alla sua città non vuol lasciare nulla. Con la Civica amministrazione ha un conto in sospeso da cinque lustri, per quelle pubbliche lezioni di Filosofia mai pagategli. A Rimini, lui detta nel testamento, «basterà questa mia connivenza», cioè il non aver reclamato il compenso promessogli.
Infine, chiede di esser sepolto nella chiesa della parrocchia dove si spegnerà, con sopra quella lapide che lui stesso ha già scritta, in latino. (1) In essa, Battarra si definisce «philosophus», per riassumere il significato della propria avventura intellettuale nel secolo dei Lumi, quando la Filosofia è vista come indagine sulla Natura, non discussione su questioni astratte. (2) Natura e Dio, come spiega lui stesso, niente producono invano. (3) L'uomo deve quindi scoprire l'utilità di ogni cosa esistente e meditare su quanto il Padre ha creato. Ragione e fede s'incontrano nell'indagine della realtà, che spetta ad ogni filosofo. Battarra ha scritto, in altra occasione, di esser stato guidato sempre, nei suoi studi, dal desiderio di conoscere e scoprire cose originali. (4) Per lui, l'uomo dotto deve avere il gusto del nuovo, ed affacciarsi dalle stanze polverose alla vita.
Deluso da una città che, d'altro canto, lo ignorerà nel momento della sua morte, Battarra nella sua lapide scrive che lui è stato più apprezzato fuori di Rimini che nella propria patria. Ma il concetto lo esprime con durezza, in una dotta e criptica citazione biblica. Ricordandosi che, nel «Vecchio Testamento», si suggerisce di non gettare perle ai porci, Battarra dice di essere stato una perla gettata ai suoi concittadini: «margarita projecta ante suos, palma apud exoticos». Chi sa leggere, capisca, sottintende il nostro abate che, tra concittadini e maiali, fa un tutt'uno, nascondendosi nell'elegante ipocrisia del latino. Voleva così vendicarsi in eterno dei torti subìti dai riminesi.
Tra i quali, egli viene alla luce nel 1714, secondo dei sei figli di Domenico Battarra, discendente da una famiglia di San Lorenzo a Monte. Egli sarà l'unico a sopravvivere. «Scarso di beni e di fortuna» (5), ma intelligente e curioso, studia in Seminario, non solo per arricchire la propria cultura, ma per diventare sacerdote. Celebra la prima Messa a Longiano, nel settembre 1738.
In questi anni, la cultura riminese ha un protagonista assoluto in Giovanni Bianchi, l'Iano Planco che, dall'alto delle sue enciclopediche ricerche, domina la scena locale, ed avrà anche una fama europea. Battarra, come molti altri giovani, si pone sotto le sue ali protettrici, «con quell'ardore che ispiravagli la na tìa propensione» per gli studi scientifici. (6)
Ai «pingui benefizii» della carriera ecclesiastica, antepone gli interessi culturali. Nel 1741, però, Battarra ha una crisi, quando Bianchi parte per Siena dove insegnerà Anatomia: rima sto solo, teme di non poter realizzare i suoi progetti. Ma gli càpita un colpo di fortuna. Nello stesso 1741, «per opra di alcuni zelanti terrieri», a Savignano si istituisce una cattedra di Filoso fia. (7)
Che cosa fosse la Filosofia in quegli anni, ce lo spiega il primo biografo di Battarra, Michelangelo Rosa: «Insegnavansi per lo più non quelle scienze fisiche di puri fatti rigorosamente dedotti, … ma altre e diverse, che meno ambiziose di farsi interpreti della natura,… antepone vano il più facile lavorìo del supporre, fingere ed immaginare». Battarra concepiva in modo diverso quella disciplina: «egli si attenne ad un metodo semplice, e più secondo ragione; e sempre preponendo al brillante che abbaglia, il vero e positivo che istruisce». (8)
L'anno prima, il nostro abate ha conosciuto, durante un viaggio in Toscana, un naturalista di grido, il padre Bruno Tozzi, che gli ha mostrato «due grossi volumi… di disegni di funghi miniati al naturale». Racconta Battarra che, mentre camminava con gli amici per recarsi a tenere lezione di Filosofia a Savignano, sul finire di quel 1741, inciampa in alcuni esemplari di funghi. È una specie di folgorazione scientifica. Ripensa al li bro di padre Tozzi, e decide di far qualcosa di simile. Nasce così un trattato in lingua latina, intitolato «Fungorum agri ariminensis historia» (Storia dei funghi dell'agro riminese), opera che esce nel 1755, e che lui stesso arricchisce con disegni incisi su rame, non avendo soldi per ricorrere ad un collaboratore. Quei lavori piace ranno tanto a Planco, che questi ordinerà a Battarra di curare le tavole di diverse proprie opere. L'«Historia» garantisce a Battarra fama tra i dotti del suo tempo: un fungo viene battezzato «Batarrea» in suo onore. La prima tiratura si esaurisce in poco tempo, e nel 1759 esce la seconda edizione.
Nel '48, affidano a Battarra la cattedra di Filosofia a Rimini «dove lesse per sette anni, cioè sino a che il disordine dell'amministrazione, che sembra il fato perenne delle cose della Comunità, ebbe mandati in per dizione gli assegnamenti disposti dal fondatore, ed obbligato il pubblico [cioè il Comune, n.d.r.] a sopprimere una sì provvida istituzione». (9)
Rimasto disoccupato nel 1754, Battarra collabora con il card. Giuseppe Garampi che lo ricorda come un tale a suo servizio. Poi, nel '62, viene aiutato dal ve scovo, card. Lodovico Valenti, che gli affida la cattedra di Filosofia al Seminario. Mons. Valenti regge la diocesi dal '60 al '65, anni in cui fa costruire l'edificio del Seminario, a fianco del Tempio. (10)
Battarra inizia il suo primo Corso la sera del 6 dicembre 1762 in modo del tutto originale: conduce i suoi allievi, verso il tramonto, sul canale, e lì spiega le sue teorie circa «la fabbrica del Porto». La polemica sul canale agita i riminesi da quasi mezzo secolo. Il Comune ha chiesto più volte, in passato, il parere di Battarra sull'argomento. Ma sempre, egli è stato «calunniato, vilipeso». Un suo piano di lavori è stato «alterato a capriccio, e pessimamente eseguito da chi non si fece coscienza di volere… lo sconcio e il danno di lui». (11)
A chi lo accusa di aver parlato a vanvera, Battarra risponde con le prime due lezioni del Corso del 1762, citando tra l'altro anche l'autorità di Galileo. Battarra ammonisce: non prolungate i moli come propone Iano Planco. Peggiorano così i rapporti con Bianchi, già agitati in precedenza: c'è una lettera di Battarra del '57, in cui scrive al conte Sassatelli: «Le nostre rotture col Bianchi si sconvolgono sempre più». (12)
Contemporaneamente, s'incrina la fiducia del card. Valenti nel suo docente di Filosofia. Al prelato deve apparire ben strano questo insegnante il quale, anzi ché trattare i massimi problemi del pensiero, mescola questioni pratiche a discussioni di Fisica. Battarra vuol essere moderno, non ripercorre gli studi grazie ai quali «i nostri Padri… sono gloriosamente diventati uomini inutili a sé, e di non volgar pregiudizio alla Repubblica». (13)
«Una facoltà inutile all'ecclesiastico» stimava il ve scovo la Filosofia, secondo un risentito accenno di Battarra che, allargando il discorso, commentava: «Gran cattiva fonderia di vescovi pel povero Rimini è in quella benedetta Roma…». (14)
Al card. Valenti non piacciono le idee espresse dal suo abate. Battarra ritiene che la Filosofia naturale debba precedere le Scienze sacre, e sostiene in pubblico che è meglio «un cavaliere istruito ad un prete ignorante». Lentamente, egli perde allievi e cattedra. Intanto, alla Pedrolara, conduce i suoi studi di agrono mia, che diventeranno poi la sua occupazione principale, come scrive (forse con una punta di amarezza) a papa Clemente XIV, nel '73. Pubblica tra '71 e '73 saggi su canneti, viti ed olivi, e sulle «malizie de' contadini». Da quelle pagine nasce nel 1778, la «Pratica agraria», opera «che levò meritatamente tanto grido» non solo in Italia. (15)
Lui che nel 1741 aveva scritto sulle aurore boreali (argomento già trattato anche da Boscovich tre anni prima), adesso approda al tema agricolo, un pò spintovi dalle lettere dello scrittore Giuseppe Baretti dall'Inghilterra, ed un po' dalla moda francese dei fisiocratici che facevano della terra la madre dell'economia e la base di ogni ricchezza. Per Battarra, tutto è Scienza, e quindi Filosofia. Egli sostiene la necessità di un'agricoltura razionale, e nello stesso tempo si fa primo narratore «delle costumanze, vane os servanze e superstizioni de' contadini romagnuoli», nel XXX capitolo, in cui si rivelano «la mente scientifica, la coscienza e la volontà» realistica dell'autore. (16)
Intanto, nel '73, egli ha curato presso il libraio Venanzio Monaldini di Roma, la ristampa di un volume sul «Museum Kircherianum» di storia naturale, la sciato dall'erudito tedesco padre Atanasio Kircher (1601-1680). Davanti alle critiche per gli errori contenuti nell'opera, si giustifica raccontando che non ha potuto allontanarsi da Rimini, perché doveva assistere la madre novantenne. (17)
Nel '75, Linneo manda a salu are Battarra dal chirurgo Adolfo Murray che passava per Rimini. Sono peggiorati ancora i rapporti con Bianchi che, da qualche anno fino alla propria morte (1775), andava «assai volgarmente diffamando come “coprofago”» il nostro povero abate. (18)
In Battarra aumenta il disagio verso la sua città. Lo consolano i rapporti con personalità forestiere. È in corrispondenza con uomini illustri del suo tempo. Incontra nel 1782 Lazzaro Spallanzani, giunto in Romagna per raccogliere cetacei. Nello stesso anno, esce la seconda edizione della «Pratica agraria». La sua fama si è ora diffusa anche in Germania. (19)
Tra fine '86 ed inizio '87, un terremoto danneggia grandemente Rimini. I sussidi inviati dai cardinali concittadini Garampi e Banditi, denuncia Battarra, vengono spesi male e peggio distribuiti. (20)
Il 30 agosto 1789, il nostro abate è colpito da apoplessia. Scompare l'8 novembre. «I cronisti del tempo non si sono neppur curati di far menzione della sua morte nelle loro cronache». (21) «Ecclesiastico religiosissimo», lo definisce Rosa che aggiunge: «Fu di sta tura al disotto della mediocre, bruno di volto, fronte spaziosa…; facondo, arguto, motteggievole, ma ben di rado oltre la misura d'una urbana festività». (22)
«Appassionato amatore della natura», Battarra la descrive nei suoi trattati agricoli con «un linguaggio il più adatto alla comune intelligenza, ed al tempo stesso il più istruttivo», per cui «aprì a tutti la conoscenza de' più avverati principii della prima, e più nobile delle arti tutte». I suoi precetti non consistevano in «astratte teoriche» o in «dottrine puramente speculative», ma si ispiravano ai «meravigliosi progressi della Chimica odierna». (23) L'amore verso la natura, lo espresse anche imitandola «col pennello, senz'altra scorta fuori che il genio suo proprio, e l'abitudine di osservarla».
Il suo unico scopo, negli studi, fu «il pubblico bene…; in esso cercò la più dolce di tutte le ricompense». Ebbe onori e fama che non lo fecero mai insuperbire. I suoi meriti gli procurarono anche nemici, come spesso accade (annota Rosa), a chi eccelle in qualche disciplina: e Battarra non fu il solo che ebbe modo di «tacciar d'ingrati o d'ingiusti i suoi medesimi con cittadini». (24) Ma fu forse uno dei pochi, se non l'unico che, con «frizzante cinismo» come lo chiama Rosa (25), lasciò un'iscrizione sepolcrale con quelle parole così amare: «margarita projecta ante suos». Parole che traducevano un sentimento ben preciso: «Nel mondo credo che non vi sia Città così maledetta come questa nel perseguitare e calunniare i Paesani». (26)
«Indole sdegnosa e cinica», ribadisce C. Tonini, giudicando Battarra come persona la quale «a niuno la risparmiava senza riguardo», anche perché la sua mente era caratterizzata da «amenità e bizzarria». (27)
Cinismo o bizzarria? Quanto Battarra fosse basso estimatore degli uomini, lo dimostra un episodio che vede protagonista il suo cane Orione. Alla morte della bestiola, Battarra volle dedicarle, oltre che una lapide, anche un funerale che, lui stesso annota, «fu più splendido di quello del Vescovo Guiccioli morto pochi giorni prima». (28)
Nella copertina della «Historia», Battarra volle inserire due simbologie animali: lince e ci vetta, che raffigurano la prudenza necessaria quando ci si accosta ai funghi.
A proposito delle malattie che quelli velenosi provocano, Battarra spiega che egli, in quanto sacerdote, non può prescrivere, pur essendo uno scienziato, alcuna medicina. Per questo motivo (al cap. V), pubblica una lettera del riminese Iano Planco, con i consigli sanitari ed i rimedi empirici necessari per guarire dagli avvelenamenti.
Pubblico professore di Filosofia, si qualifica Battarra nella copertina della «Storia», e tale viene pure definito nel ritratto dipinto da G.B. Costa, ove il Nostro appare elegante e solenne, mentre 'spiega' alcuni funghi.
La «Storia» di Battarra si segnalò perché combatteva l'opinione corrente della generazione spontanea dei funghi dalla putredine o dal «guasto sugo nutritivo» delle piante, provandone invece la riproduzione «per semenza».
Questa «Storia» non interessa soltanto i micologi. Essa ci offre infatti uno spaccato della cultura locale nel 1700, negli anni fondamentali per la diffusione di nuovi strumenti del sapere, e di nuove opere scientifiche. Battarra è il dotto che usa la lingua dei dotti, il latino, in quell'Italia dove, come scriveva Voltaire proprio nel 1759, «si confiscano alle porte delle città i libri che un povero viaggiatore ha nella sua valigia».


NOTE
(1) Cfr. Alessandro Tosi, Notizie biografiche dell'abate G. A. B., Lega, Faenza, 1933, p. 5.
(2) Cfr. Michelangelo Rosa, Biografia di G. A. B., in «Biografie e ritratti di Uomini Il lustri di tutto lo Stato Pontificio - Serie romagnola», Hercolani, Forlì, 1894, p. 112.
(3) Cfr. G. A. Battarra, Fungo rum agri ariminensis historia, Typis Martinianis, Faventiae, 1755, p. 17. Della 2ª ed., esiste la ristampa anastatica di Ghigi, Rimini, 1990.
(4) Liliano Faenza scrive che «il B. sapeva anche di filosofia», e che «come filosofo, si limitò a compilare un manuale…». (Cfr. L. F., «G. A. B.» in Coriano, contributi per una storia locale, quaderno di «Romagna arte e sto ria», p. 57). Faenza gli rimprovera di avere nel sangue «il bacillo naturalistico», per cui «egli era più portato all'osservazione empirica che alla elucubrazione metafisica» (p. 59).
(5) Cfr. Carlo Tonini, La Coltura letteraria e scientifica in Ri mini, Danesi, Ri mini, 1884, vol. II, p. 584.
(6) Cfr. M. Rosa, cit., p. 99.
(7) Ibidem. È una cattedra pubblica (e non del Seminario, come scrive il cit. Faenza, p. 58).
(8) Cfr. M. Rosa, cit., pp. 99-100.
(9) Cfr. M. Rosa, cit., pp. 101-102.
(10) Cfr. C. Tonini, cit. p. 217.
(11) Cfr. M. Rosa, cit., pp. 108 e106.
(12) Cfr. Antonio Montanari, «Un libbro da sardelle», «Il Ponte», 6.10.1991.
(13) Cfr. Due discorsi dell'Ab. G. A. B.…, Calogerà, Venezia, 1763, p. 459.
(14) Cfr. A. Tosi, cit., p. 9.
(15) Cfr. C. Tonini, cit., p. 592.
(16) Cfr. Paolo Toschi, Roma gna tradizionale, Cappelli, Rocca S. Casciano, 1952, p. XVI. «“Vana osservanza” è un termine noto in teologia morale, certo famigliare al B. ch'era sacerdote», scrive A. Mercati in Lettere di scienziati, Archivio se greto Vaticano, 1941, p. 156, n. 1. Sui rap porti con Baretti, cfr. M. L. Astaldi, Baretti, Rizzoli, Milano, 1977, p. 219.
(17) Cfr. Mercati, cit., pp. 160-1, lettera a Clemente XIV.
(18) Cfr. G. L. Masetti-Zannini, Diporti marini di Jano Planco da Ravenna alla Cattolica, in «Romagna arte e storia», n. 5, 1982, p. 61.
(19) Cfr. il saggio di F. Venturi, L'Italia fuori d'Italia, in III vol. «Storia d'Italia», Einaudi, p. 1083.
(20) Cfr. A. Tosi, cit., p. 12.
(21) Cfr. A. Tosi, cit., p. 14.
(22) Cfr. M. Rosa, cit., p. 111.
(23) Ibidem, p. 108.
(24) Ibidem, pp. 110-112.
(25) Ibidem, p. 112, n. 1.
(26) Cfr. C. Tonini, cit., p. 593.
(27) Cfr. in C. Tonini, cit., p. 594.
Antonio Montanari

Fonte di questa pagina.
Vedere anche Grattacapi per un porto canale [Versione 2012].

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