I gagà seduti al Caffè Zanarini
Così Guido Nozzoli raccontò la "sua" Rimini.

L’11 novembre scompariva Guido Nozzoli. Era nato il 2 dicembre 1918. Proponiamo una piccola antologia di alcuni suoi scritti. Nel l967 usciva "La mia Rimini" di Federico Fellini, nel quale appare anche il racconto che Nozzoli fa del mito dell’estate cittadina.
La pagina sembra anticipare lo stile narrativo di "Amarcord" (1972): "La nostra estate cominciava sempre molto prima di quella dei forestieri, tra la fine d’aprile e i primi di maggio. Un mattino, risvegliandosi, si sentiva nella camera, mescolato all’odore della garofanina, un alito fresco che sapeva di cocomero appena tagliato. Era l’odore del mare che il levantino portava fino in città, dopo il lungo letargo dei ‘mesi morti’. Quel giorno lasciavamo i libri nel caffè della Vittoria (madre di ‘Corrado il brado’) e facevamo ‘pufi’ per andare sulla cima del porto a prendere il sole, a tirare sassi ai gabbiani e a guardare Omero che pescava i cefali con la fiocina per rimediare i soldi da giocarsi a ‘scala quaranta’. E c’era sempre qualcuno di noi che si tuffava nudo per il primo bagno, facendo finta di non patire il freddo che gli serrava le mascelle e gli macchiava la pelle di viola".
Prosegue il racconto: "Al mare - ‘a marina’ come si dice noi - ci passavo mesi sotto la custodia di mia sorella, fin dalla prima infanzia, e non ricordo neppure quando ho imparato a nuotare. Si andava giù con la sporta della colazione in tram, possibilmente sul rimorchio, tra lo sventolio delle tendine di juta che sfioravano gli alberi del viale, e si tornava su a piedi, con il costume e i sandali intasati dalla sabbia e un gran caldo tra pelle e pelle. Seguendo alla lettera le consegne della mamma, mia sorella non mi permetteva di fare il bagno se non erano passate tre ore dal pasto, non voleva che sudassi (per il pericolo della polmonite), che facessi la lotta (perché ci si poteva rompere la spina dorsale come ‘Balena’), che scavassi buche nella sabbia (per via dei reumatismi), che mi togliessi il berrettino (per non prendere insolazioni e meningite), che succhiassi le palle di ghiaccio tritato da Guerrino (per il rischio di tifo). Anzi, non dovevo allontanarmi dall’ombra della cabina - il capanno - in cui lei se ne stava a leggere i libri di Gotta o a ricamare chilometri di pizzo, mentre Pedro, Amerigo e gli altri miei amici più scatenati, passando al largo, si rotolavano sulla sabbia dal ridere facendo versacci". (…)
"Delle estati della mia infanzia, a parte l’ossessione delle malattie e i rigori di quella disciplina, ricordo con nostalgia e dolcezza le limpide mattine passate sulle secche della bassa marea a raccogliere ‘poveracce’ e ‘cannelli’ (che mia sorella mangiava crudi infischiandosene di tutte le norme igieniche imposte a me) e le brevi fughe tra i cespugli di tamerici sulle dune che erano lì, al limitare della spiaggia, e parevano lo sfondo di quelle oleografie della battaglia di Dogali appese ai muri della scuola. E ricordo i circuiti che si scavavano nella rena in cui facevamo correre a buffetti palline colorate come se fossero automobili; l’‘Idroterapico’ rimasto come al tempo di Mantegazza, con i vasi di gerani e i signori in paglietta; la Piattaforma di legno verdino che si spingeva su una trama di palafitte oltre la riva, ultimo relitto dei ‘café-chantant’ dei nostri nonni (…). Dopo cena, di tornare a marina (‘allo stabilimento’), a casa mia non si parlava neppure. La notte ‘è fatta per dormire’. Un paio di volte a dir tanto, tra luglio e agosto, si andava a prendere il gelato e magari ci si spingeva fino al ponte di ferro e la Madonna della scala lungo i greppi di via Sacramora punteggiati di lucciole, io ne prendevo due o tre da mettere sul comodino, sotto un bicchiere capovolto."
Le estati della dolce vita riminese, per i ragazzi come Guido Nozzoli, finiscono nel 1939, l’ultima ancora di pace per l’Europa. Il 10 giugno 1940, anche l’Italia è in guerra. Saltiamo al 21 settembre del 1944: "Quei partigiani riminesi che arrivarono a Rimini con le prime pattuglie alleate marciando lungo la riva di un mare immoto e deserto nel tiepido sole settembrino, si accorsero subito, sbigottiti, di non aver liberato una città, ma una distesa di rovine. In piazza Giulio Cesare le rane gracidavano nell’acqua putrida stagnante nel crateri delle bombe. Rimini era morta tra le macerie e i calcinacci. Neppure gli alberi s’erano salvati. Di intatto non c’era che una forca di legno grezzo piantata dai nazisti per impiccare tre ragazzi coraggiosi del GAP". (A loro, quella piazza è oggi intitolata).
Dopo le distruzioni della guerra, "la città con un sussulto imprevedibile, ricominciò a respirare come un corpo già spento che si rianima per una sorta di prodigio. Come Lazzaro sotto le bende. In marzo, tra un ‘bidone’ e un ‘boogie-woogie’, si pensava già a rappezzare qualche pensioncina. (…) Agli ultimi di maggio, finita la guerra anche al Nord, arrivò un autocarro di aiuti civili dalla Svizzera, su cui, tra balle e cassoni, avevano trovato posto due svizzerotte tedesche di mezza età, con gli occhi arrossati dal vento e coperte di polvere come i corridori dei vecchi giri d’Italia. Giunte in piazza, prima di scendere dal camion, cominciarono a chiedere ansiosamente alle persone che s’erano raccolte attorno: ‘Tu conosce Carlini? Essere sempre in Rimini Ovidio?’" (…).
"La Rimini tra le due guerre, dove siamo nati e cresciuti così come siamo, assomigliava ben poco a quella specie di frenetica Copacabana dei nostri giorni. Con tutte le sue pretese di modernità e di cosmopolitismo era - ce ne saremmo accorti più tardi - una cittadina provinciale di gusto quasi ottocentesco, con tante ville circondate da cespugli di oleandri e di ligustri, qualche solido albergo di stile floreale, la litoranea sonnecchiante fino al tramonto in una sua aristocratica solitudine, e una rete di viali e vialetti, per metà di terra battuta, fiancheggiati dalle cancellate e dalle siepi di qualche orto. Essendo antipatica a Mussolini - che non vi fece neppure costruire la casa del fascio ‘elargita’ anche all’ultimo paesello di Romagna - Rimini fu risparmiata, per sua fortuna, dalla deprimente retorica dell’architettura del littorio, conservando la propria faccia fino quando le bombe non gliela maciullarono con il resto del corpo. L’unica opera nuova che mutasse non sgradevolmente la sua fisionomia fu il lungomare ‘di Palloni’. Tra il porto e l’Ausa, nel tratto di spiaggia più elegante, il lungomare cancellò le dune - ‘i muntirun’ - e divenne subito il ritrovo pomeridiano dei bagnanti, l’equivalente estivo del Corso d’Augusto per i riminesi seduti a gruppo sulla lunga balaustrata all’ora del passeggio o pigramente ronzanti in uno sfarfallio di biciclette. Il centro di quel firmamento, il perno di quella giostra, era il Caffè con orchestra di Zanarini, dove si videro i primi gagà spregiatissimi dal fascismo (erano poi tutti figli di fascisti) prendere l’aperitivo seduti sul marciapiede. Tenuta quasi di rigore: la maglia a girocollo blu da cui spuntavano colletti immacolati (…). Sembrava tutto nuovo, ed erano le ultime frange dell’800".
In "Questa Romagna" (1965), Nozzoli ha pubblicato un saggio, "Il pianeta Romagna", dal quale riproduciamo l’inizio: "Questa Romagna, tanto per intenderci, dove comincia e dove finisce? Nessuno lo ha mai stabilito con precisione. Né i Romani che l'associarono a casaccio persino alla Liguria, né i Bizantini da cui ebbe il nome, né i signorotti che la fecero a brandelli, né i papi che, ricucendola, tennero gli orli abbondanti aggiungendovi Bologna e Ferrara.
I limiti che le assegnava Dante - Tra il Po, il monte, la marina e il Reno - erano invece troppo stretti, anzi del tutto fuori di misura. Se mai si poteva dire: Tra il Reno, il monte, la marina e il Conca. L'endecasillabo avrebbe perso d'eleganza, però la Romagna avrebbe riguadagnato le province di Forlì e di Ravenna: le sole, in fondo, che le appartengano.
Ma gli umori della terra romagnola non si esauriscono entro i confini amministrativi convenzionali di queste due province, anzi si spandono per un buon tratto nell'imolese in provincia di Bologna, verso Marradi in Toscana, attorno alla Repubblica di San Marino e in certi pigri paeselli del Montefeltro nelle Marche.
Per segnare almeno una linea di divisione tra l'Emilia e la Romagna, Antonio Baldini suggeriva di scendere da Bologna verso Imola chiedendo da bere ad ogni casolare: finché vi danno dell'acqua siete in Emilia, dove cominciano a darvi del vino - e' be', il bere, come lo chiamano - comincia la Romagna.
Il geografo di un'autorevole enciclopedia italiana non fornisce indicazioni molto più precise quando scrive che, pur facendo parte dell'Emilia, la Romagna continua a imporre la sua individualità, impressa più nel carattere della popolazione, in molti elementi folkloristici, nella vivace letteratura dialettale e nelle caratteristiche tradizioni musicali, che nel paesaggio geografico. Una terra senza confini, che non si riconosce dai boschi, dai monti, dai fiumi, dal clima, ma dalla gente e dalle sue abitudini. Non una regione geografica, dunque, ma una regione del carattere, un'isola del sentimento. Un pianeta inventato dai suoi abitanti".
Antonio Montanari
[Da "il Ponte", settimanale di Rimini, 10 dicembre 2000.]


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