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il Rimino - Riministoria

Documenti su Giuseppe Antonio Barbari
e la Nuova Scienza in Emilia-Romagna

1. Carlo Tonini, ovvero quando il Seicento provoca il «riso»

A Carlo Tonini, quando inizia a parlare del Seicento nella sua celebre storia della cultura non soltanto «letteraria» ma (si badi bene) pure «scientifica» (1884), «si desta spontaneo sulle labbra un riso» (p. 2, II parte).
Tonini spiega sùbito perché: «ci ricorre alla mente quanto di bizzarro di strano e di ridevole ebbe deformate in tal secolo Lettere ed Arti».
Con il che si vede quanto poco gl’interessasse parlare della cultura «scientifica», oltre che di quella «letteraria» che riassume nella suprema e superba sintesi del «bizzarro, strano e ridevole».
Tonini come spiegazione aggiunge che quel secolo è «delirante» per le «bizzarrie, e stravaganze, e ridevolezze» che troviamo «eziandio fra noi» (ovvero a Rimini), come fonte di «piacevole trastullo». Ma quella di Tonini non è una spiegazione, bensì una semplice ed inutile tautologia.
Tonini poi avverte il lettore che il Seicento però fu anche il secolo di Galileo, Redi, Bartoli e Segneri, quasi ad invitare ad una moderazione del «riso» nel pensare a quel periodo.
Ciononostante, resta il fatto che, delineando un bilancio così negativo proprio ad apertura d’argomento, Tonini da una parte condiziona il lettore (influenzandolo con il suo pregiudizio) nell’illustrazione della realtà locale; e dall’altro rivela pienamente in quale ambiente culturale egli si fosse formato, e come ne fosse severamente condizionato al pari comunque d’altri autori a lui contemporanei.
Non vogliamo con ciò discolpare Carlo Tonini, il che sarebbe un’impresa inutile, visto che non è mai stata tentata sul versante dei suoi strenui e dotti estimatori. Impresa che, occorre ammetterlo, avrebbe messo in discussione anche le idee di chi ne parlava esaltando al sommo grado le presunte qualità storiche del Nostro. Il qual fatto presuppone però il possesso pure di idee (scientifiche e non solamente letterarie), oltre che di una sana e robusta erudizione in chi ne tesseva gli elogi.
Non vogliamo discolpare Tonini, dicevamo, ma soltanto documentare una realtà intellettuale che si manifesta anche in momenti precedenti del nostro (nel senso di «romagnolo») Ottocento, ricordando che nel 1837 Giuseppe Ignazio Montanari definiva il Seicento un «secolo corrotto» componendo la biografia di Giuseppe Antonio Barbari (p. 318).
Giuseppe Ignazio Montanari, pubblico professore d’eloquenza in Pesaro, e poi nel Nobil Collegio d’Osimo, appartiene alla cosiddetta «Scuola classica romagnola» i cui «esponenti di spicco o epigoni» sono Paolo Costa, Dionigi Strocchi, Giulio Perticari, Bartolomeo Borghesi, Cesare Montalti, Giovanni Roverella, Francesco Cassi, Giovanni Marchetti, Giuseppe Emiliani, Eduardo Fabbri, i fratelli Ferrucci, Michele e Luigi Crisostomo, Francesca Pignocchi, Filippo Mordani, «e giù giù fino a Terenzio Mamiani e Giosue Carducci».
Così scrive Pantaleo Palmieri dal quale abbiamo ripreso l’elenco degli «esponenti di spicco o epigoni» (<http://www.aislli-2003.be/sez16.doc>), precisando giustamente che essa Scuola dovrebbe essere definita non soltanto «romagnola», sibbene «emiliano-romagnola e marchigiana», «volendone meglio individuare i confini geografici», perché i suoi illustri componenti (filologi amanti di «una filologia che non è né scienza né tecnica, sì gusto e studio della parola in un quadro storico ben definito), archeologi, trattatisti della lingua e dell’arte, furono «attivi tra Pesaro, Senigallia, Savignano, Cesena, Ravenna, Faenza e Bologna», sì in quella Bologna proprio di Carducci già ricordato.
Tonini cerca di salvare qualcosa della cultura secentesca, come si è visto: ricorda Galileo, di cui non appare il nome nell’indice dell’opera, come a sentenziare un’estraneità reale non soltanto simbolica. Ed a suggerire a noi lettori che forse quella è l’unica occasione in cui esso appaia.
Poi Tonini cita il medico e naturalista Francesco Redi, non sappiamo se per il suo Bacco in Toscana, nota celebrazione del vino di Montepulcano, o se per gli scritti scientifici sul veleno delle vipere e la generazione degli insetti, con i quali Redi pone le basi della biologia sperimentale precorrendo gli studi di Spallanzani contro la teoria della generazione spontanea. Redi è altrove, nello stesso volume, citato da Tonini per aver egli composto un sonetto in morte di Filippo Marcheselli, poeta e nobile riminese scomparso a soli 33 anni nel 1658.
Dopo Galileo e Redi, Tonini rammenta quel Daniello Bartoli autore della Storia della sua Compagnia di Gesù, e dei racconti sulle missioni presso gl’infedeli. Dello stile di Bartoli scrisse Giosue Carducci che era «magnifico» tale da paragonarsi a quello di Livio, come raccontava Natalino Sapegno aggiungendo che invece Pietro Giordani lo reputava «terribile e stupendo».
Pietro Giordani è fautore di un classicismo letterario di base cinquecentista, che fosse restaurazione dello stile illustre nella prosa senza affettati arcaismi, assumendo una posizione equidistante sia dal Purismo sia dal Romanticismo che costituivano per quegli intellettuali i drammatici corni d’altrettanto drammatici dilemmi presenti in ogni atto del vivere quotidiano: quello che per quegli intellettuali contava non era il valore del contenuto, ma il problema formale.
L’apprezzamento che s’appalesa in Tonini verso Daniello Bartoli, può a noi suggerire la linea di demarcazione che dobbiamo porre attorno alle parole di Tonini stesso, per distinguere i territori ‘illuminati’ dalla luce della Nuova Scienza su cui possono girovagare tranquillamente Galileo e Redi, dalle zone più tenebrose in cui la luce della Ragione fatica a penetrare se non del tutto è graziosamente respinta: ed è qui, in una foresta oscura, che risiedono nella placidità del continente letterario («hic sunt leones») Daniello Bartoli e l’altro gesuita ricordato in Tonini, Paolo Segneri i cui testi in prosa sono esemplari come documenti delle riproposta d’una tradizione cinquecentesca.
Dunque, nella pagina di Tonini il giudizio negativo sul Seicento, è attenuato dalla postilla in cui egli accosta il nuovo della prosa scientifica (Galilei e Redi) al vecchio che è l’imitazione dei modi classicisti che partono dal Cinquecento ed attraversano indenni sia il Seicento sia il Settecento, per poi orgogliosamente riproporsi in questo Ottocento iniziale di Pietro Giordani, o un poco più avanti nel tempo di Giuseppe Ignazio Montanari.
Uno studioso che non ama Carlo Tonini forse per motivi ideologici, Antonio Piromalli osserva correttamente che nel Nostro «classicista» s’avverte l’influenza di Pietro Giordani, autore nel 1816 della nota risposta alle celebre lettera di Madama de Staël sulla maniera e l’utilità delle traduzioni apparsa nella «Biblioteca Italiana». Giordani vi esaltava le radici classiche della nostra letteratura. Piromalli su Tonini (da lui definito «misoneista»), sostiene il Nostro offre soltanto «forme obsolete» di un «classicismo» che «è una spoglia inerte e ormai priva di funzione» (cfr. La storia della cultura, V vol. della Storia dal 1800 ai nostri giorni, Ghigi, Rimini 1981, p. 170).
Sulla Scuola classica romagnola, si legga il parere di Romolo Comandini.

Antonio Montanari


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