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il Rimino - Riministoria

Le ombre di Galileo.
1. La Bologna di Giovanni Antonio Davia, vescovo di Rimini dal 1698

La «bisciabuova» è termine di area settentrionale che indica la tromba d'aria. Esso appare nel sottotitolo di un dialogo su Le forze di Eolo, scritto da Geminiano Montanari ed uscito a stampa soltanto nel 1694 dopo la sua morte, avvenuta il 13 ottobre 1687, a 54 anni.
All'inizio dell'opera, l'autore ricorda che verso la fine dell'agosto del 1686, in casa sua a Padova (dove si era trasferito da Bologna nel 1678), convennero il signor Abate Giovanni Antonio Davìa, «virtuosissimo cavaliere bolognese», ed il «canonico Ulisse Giuseppe Gozzadini, dottissimo e gentilissimo cavaliere anch'egli bolognese», futuro vescovo di Imola.
I tre iniziano a discutere, come dichiara lo stesso Davìa, «degl'effetti meravigliosi insieme et horridi ch'ha prodotti il gran turbine succeduto» la settimana precedente (il 29 luglio), appunto la «bisciabuova» della quale lui stesso ha visto durante il viaggio «horrende reliquie» nelle campagne attorno a Padova.
Montanari rammenta ai due ospiti bolognesi che gli era «sempre dolce la rimembranza di quegli anni nei quali» ebbe l'onore di servirli entrambi con le sue «deboli lezioni», nelle quali l'«acutezza» dei loro ingegni «se bene all'hora ancor teneri», gli dava «continua occasione d'imparare forse nientemeno di quel che voi stessi da me riportaste».
Originario di Modena, Montanari era arrivato a Bologna nel 1662 come astronomo dell’osservatorio privato del marchese Cornelio Malvasia (1603-1664), che sorgeva a Panzano nei pressi di Modena. Ottenuta due anni dopo (1664) la cattedra universitaria di Scienze Matematiche, aveva fondato nel 1665 un’accademia scientifica, da lui detta «della Traccia» per indicare lo scopo che attribuiva al filosofo: rintracciare «per l’istessa via dell’esperienza la vera cognizione della natura». Con la sua salita in cattedra comincia a Bologna nel campo delle Scienze esatte lo sperimentalismo «galileiano», che già quattro anni prima (1660) grazie al celebre medico Marcello Malpighi (1628-1694) aveva investito il settore biologico.
La nuova filosofia sperimentale è diffusa negli ambienti colti di Bologna proprio quando la città è «in una fase di lento ma inesorabile declino economico e sociale», e la vita culturale è sottoposta da oltre un secolo ad un rigido controllo sull’insegnamento e sulla produzione libraria da parte dell’Inquisizione. Così annota Marta Cavazza la quale aggiunge che la parola «traccia», usata per indicare la nuova accademia, «significa impronta, segno, vestigio, tutti termini cari a Bacone», al cui metodo Montanari aderisce apertamente come dimostra una sua lettera alla Royal Society del 30 aprile 1670. Qui egli ricorda anche la sua accademia domestica «dei dodici filosofi».
Montanari inizia la sua carriera intellettuale a vent’anni, quando va a Firenze per studiare Giurisprudenza. Laureatosi nel 1656 all’Università di Salisburgo, si reca poi a Vienna, dove conosce il fiorentino Paolo del Buono, uno degli ultimi allievi di Galileo, matematico al servizio dell’imperatore, sotto la cui guida studia Matematica ed Astronomia. Durante un nuovo breve soggiorno a Firenze, in compagnia del cardinale Leopoldo de’ Medici e di alcuni membri dell’accademia del Cimento, esamina con il cannocchiale il sistema di anelli di Saturno. La loro vera natura era da poco stata svelata dall’olandese Christiaan Huygens (1629-1695), sostenitore di un’idea di universo diversa da quella tradizionale, sino ad ipotizzare anche per gli altri pianeti forme di vita come quelle presenti sulla Terra.
Montanari torna a Modena nel 1661 quale filosofo e matematico del duca Alfonso IV, grazie ai buoni uffici di Cornelio Malvasia. Alla morte del duca estense nel 1663 Montanari si trasferisce a Bologna in casa di Malvasia. Continua studi e ricerche astronomiche presso la specola di Panzano.
Prima Bologna e poi a Padova, con la fondamentale collaborazione della moglie Elisabetta Dürer, si dedica all’ottica pratica ed alla molatura di lenti per cannocchiali. Alcuni esemplari li invia a Parigi al ligure Giovan Domenico Cassini (1625-1712), un altro protetto di Cornelio Malvasia che lo aveva invitato alla specola di Panzano, e poi introdotto nell'ambiente scientifico di Bologna. Gli studi astronomici del capoluogo emiliano primeggiano in Europa grazie a Cassini sino al 1669. In quell’anno egli si reca per volere di Luigi XIV nella capitale francese, come direttore dell’Observatoire Royal appena inaugurato. Qui svolge un impegnativo lavoro di indagine sul Sistema solare, utilizzando cannocchiali di lunghissima focale. Tre anni prima, nel 1666, è stata fondata, nella stessa capitale francese, l’Académie Royale des Sciences, sulla scia dell’inglese Royal Society riconosciuta ufficialmente dal re Carlo II nel 1662 dopo più di un decennio di attività privata. Ma mentre quella parigina era finanziata dal ministro delle Finanze Jean-Baptiste Colbert (1619-1683), a Londra la corona lasciava vivere l’istituzione mediante l’autotassazione dei soci.
(Voltaire osserva nelle sue Lettere inglesi, 1734: «La Società Reale di Londra manca delle due cose più necessarie agli uomini: le ricompense e le regole. A Parigi l’appartenenza all’Accademia rappresenta una piccola fortuna sicura per un geometra, per un chimico; a Londra, invece, si deve pagare per entrare a far parte della Società Reale».)
In Italia ed in Francia (dove la sentenza di condanna di Copernico era fatta osservare con rigore anche maggiore che nello Stato della Chiesa), Cassini si dedicò con esiti positivi alla ricerca di prove della validità del sistema eliocentrico. Egli esaminò soprattutto la questione se la fisica peripatetica potesse essere applicabile anche in Astronomia.
Cassini era subentrato a Bologna nel 1650 al gesuita milanese Bonaventura Cavalieri (1598-1647), amico di Galileo di cui diffuse le idee. Dalla lista delle sue lezioni impartite nel 1643 ricaviamo che Cavalieri insegnò le basi del sistema copernicano, a soli dieci anni dalla condanna di Galileo. Alla sua morte, la scuola galileiana bolognese non presenta più personalità di rilievo, mentre emergono figure di spicco non nello Studio, ma fra i Gesuiti, come l'anticopernicano ferrarese Giovanni Battista Riccioli (1598-1671) ed il bolognese Francesco Maria Grimaldi (1618-1663).
Segnale d’opposizione all'anticopernicanesimo gesuita, è la pubblicazione a Bologna delle opere di Galileo, anche se incomplete, mancando ovviamente Il dialogo dei massimi sistemi, la cui stampa a Firenze nel 1632 aveva provocato la condanna dell’anno successivo.
Nel dialogo sulla «bisciabuova», Davìa introduce un'osservazione che riassume il modo di operare del suo maestro: «...non haverò punto di rossore d'andarvi spesso repetendo quel 'non lo so' che su' nostri primi anni ci havete tante volte insegnato con tanto profitto del nostro intendimento».
Ma la formula del «non lo so» non è un'invenzione di Montanari, bensì di Galilei, come leggiamo nel «Dialogo IV» dei Massimi sistemi dove la formula, di stampo socratico, è definita come «savia ingenua e modesta parola». Essa si contrappone alla saccenteria dei peripatetici. E quando il tolemaico rappresentante del dogmatismo aristotelico, Simplicio, usa pure lui con tono ironico quella frase, il copernicano Salviati sembra inquietarsi nel rispondergli: «Come non lo sapete?».
La formula del «non lo so» riassume un percorso personale che rappresenta bene il clima bolognese nel quale Davìa si è formato alla scuola di Montanari seguendo un metodo che, riferendosi al caso della «bisciabuova», lo stesso Davìa riassume così: esaminare «capo per capo gli effetti prodotti dal turbine, per ridurgli a questi principii, che mi sembrano tanto evidenti che se alcuno degli effetti che vengono narrati non paresse poter spiegarsi con essi, io mi sento di già disposto a dubitare più tosto della verità della relazione che della dottrina».
Attraverso le frasi di Davìa, Montanari indica il problema più importante per la spiegazione dei fenomeni naturali, come risulta da queste sue parole che arrivano immediatamente dopo quelle di Davìa: «Della verità de' fatti non bisogna mai tanto fidarci che non si lasci luogo al sospetto degli equivoci che ponno pigliarsi nell'osservare; ma dev'esser però il sospetto sempre tanto minore quanto più disappassionati ed insieme intelligenti sono i relatori...». Nello stesso tempo, Montanari avverte: «tanto più bisogna star dubbioso delle dottrine, e formarne sempre concetto più tosto minore che maggiore del merito». E spiega che per finire «nel baratro dell'ignoranza» basta poco, come il prestar troppa fede a certi autori.
Ciò indica come ancora il dogmatismo aristotelico non fosse merce rara nella ricerca scientifica di fine Seicento e in una città come Bologna a proposito della quale Montanari, prima di emigrare a Padova, stila un amaro bilancio della sua esperienza: «ho introdotto in questa città la fisico-matematica, fatto allievi, coltivatala con esperienze ed Accademia in casa mia a mie spese, fuorché i primi due anni che la feci in casa del sig. ab. Serpieri, ed oltre le pubbliche e private lezioni, e la perpetua applicazione state e inverno alla mia professione, ho servito al pubblico in negozi di pubblico interesse senza verun guiderdone».
E mentre il Senato bolognese fa correre il rischio allo Studio di cadere «in mano ai preti», Montanari in altro scritto, i Pensieri fisico-matematici, si dichiara «stufo di queste pazzie» e di non voler «più certo far accademie pubbliche» a sue spese «per dar gusto ad ingrati».
A Bologna, Montanari non ha avuto una vita facile, probabilmente anche a causa della sua netta presa di posizione contro l'astrologia, che volle ridicolizzare con una burla, inventando un almanacco, Frugnolo degli Influssi del Gran Cacciatore di Lagoscuro, che risultò più azzeccato di quello dell'astrologo "ufficiale" della città.
L'astrologia sopravvive ufficialmente a Bologna per tutto il Settecento, quando il docente di Astronomia dell'Università ha ancora l’obbligo di compilare il Taccuino per uso dei medici felsinei: l’ultima testimonianza al proposito risale al 1799, quando l’incarico è affidato al «cittadino dottore» Luigi Palcani Caccianemici (1748-1802).
Quando Montanari se ne va a Padova nel 1678, Davìa è poco più d’un ragazzo: è nato il 13 ottobre 1660, secondogenito di una famiglia borghese originaria di Domodossola, trasferitasi a Bologna nel 1630 e nobilitata in virtù della propria ricchezza. Prima è stata ammessa nel grado senatorio locale e poi ha acquistato un marchesato dal re d’Inghilterra. Quando invece nel 1686 Davìa si reca a Padova e s’intrattiene con il maestro sulla «bisciabuova», è già uomo fatto. Cinque anni prima si è recato in viaggio di studio a Parigi (dove si trova Cassini) ed a Londra. Nella capitale inglese, è stato accolto con una seduta in suo onore dalla Royal Society. L'anno dopo, nel 1687, è inviato dal papa Innocenzo XI come internunzio in Belgio dove resta sino al 1690, quando è consacrato vescovo.
Tra gli allievi di Geminiano Montanari a Bologna c’è stato anche un giovane proveniente dalla diocesi di Rimini ed originario di Savignano, Giuseppe Antonio Barbari che conobbe e frequentò Davìa. Nato nel 1647, Barbari aveva quindi tredici anni più del futuro vescovo della nostra città. Del quale poteva essere maestro, più che compagno di studi, soprattutto perché nel 1678 Barbari ha pubblicato a Bologna L’Iride, un’opera oggi del tutto dimenticata ma allora considerata importante nella polemica contro il dogmatismo aristotelico. Di essa si conserva un esemplare nella British Library di Londra. Forse è lo stesso donato nel 1680 al segretario della Royal Society, Robert Hooke da Marcello Malpighi, autore di quello che Ezio Raimondi ha definito «il più bel discorso di metodo, dopo quello galileano, che ci sia venuto da uno scienziato italiano», cioè la Risposta apologetica del 1689 ma apparsa negli «Opera posthuma» (1697-1698) pubblicati a Londra, dove era già uscita la sua Opera omnia (1686-1687), dalla stessa Royal Society. La quale aveva iscritto Malpighi nel 1669 tra i soci onorari, dopo averlo invitato due anni prima ad entrare in corrispondenza con essa. Mentre all’estero lo venerano, in Italia gli avversari lo perseguitano: nel 1689 un gruppo di facinorosi irrompe nella sua villa di Corticella provocando la perdita di scritti e strumenti. Come scrisse Giovanni Ciampoli, che era stato avviato agli studi matematici da Galileo, e fu amico di Federico Cesi il fondatore dei Lincei, dinanzi al «sapere» sta sempre il «potere»: ogni novità, come lui stesso sperimentò, provoca nemici da tutte le parti.
In rapporto con Barbari è stato il bolognese Luigi Ferdinando Marsili (1658-1730) che tra 1679 e 1680 va a Costantinopoli con l’ambasciatore della Serenissima Pietro Civran, ricavando dal viaggio il materiale per le «Osservazioni intorno al Bosforo tracio, overo Canale di Constantinopoli» che pubblica a Roma nel 1681 dedicandole alla regina Cristina di Svezia. Continuerà a viaggiare molto, percorrendo una carriera militare di cui oggi ci si ricorda ben poco: il suo nome è soprattutto legato alla fondazione a Bologna (1714) dell’Istituto delle Scienze per il quale s’ispirò ai modelli dell’Académie parigina e della Royal Society londinese. All’Istituto arriveranno carte e materiali sia di Barbari (post mortem) sia del vescovo Davìa.
Attraverso il collegamento con Bologna, Rimini (come le altre città della Romagna) mantenne tra fine Seicento ed inizio Settecento un legame con l’Europa più avanzata, del quale abbiamo perso non le tracce ma la consapevolezza.

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Al prossimo capitolo.

Antonio Montanari


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