NON BASTA LA PAROLA
Piccolo dizionario del Terzo millennio

Archivio 2016


15. Teste senza risorse (2.3.2003)
14. Tanti popoli nel Popolo (16.2.2003)
13. Giovani & gelosia (6.1.2003)
12. Vecchie veline (luglio 2002)
11. L'extra non serve (maggio 2002)
10. L'Espressa (marzo 2002)
9. Carràmba che sorpresa (febbraio 2002)
8. Dante perdente (gennaio 2002)
7. Da pochi, per tutti (gennaio 2002)
6. Euro. Figlio unico (dicembre 2001)
5. Che barba, la Storia! (novembre 2001)
4. Asimmetrie mentali (novembre 2001)
3. Nené, sei bipartisan? (ottobre 2001)
2. Devoluto sara' lei (30.9.2001)
1. Global? No, global (2.9.2001)
15. Teste senza risorse
Tra le varie forme di stupidità umana c'è anche quella linguistica. Quando sentiamo ripetere che la guerra è «l'ultima risorsa», ci si drizzano i capelli in testa. Qualcuno timidamente ha tentato di sostituire a questo uso osceno della parola risorsa un termine più adeguato, opzione.
Risorsa deriva da risorgere (dal latino resurgere). Spiegano i vocabolari che risorsa è una sorgente di guadagno o di ricchezza, oppure un mezzo che può servirci per toglierci d'impaccio. I nostri politici anni fa amavano dire che la vecchiaia è una risorsa. Forse, abbiamo sempre malignato dentro di noi, lo è per chi specula sopra i bisogni che emergono (anche drammaticamente) in quella età.
Se la guerra è una risorsa per quelli che parlano soltanto deridendo chi la pensa in maniera diversa (bella lezione di democrazia!), un motivo ci deve pur essere, ci siamo detti (sempre dentro di noi). E forse il motivo è questo: vedono nella guerra l'occasione di possibili arricchimenti mediante l'uso delle armi a danno di poveri disgraziati per i quali pensano che, non avendo questi ultimi nulla da perdere, tale nulla lo possono perdere tranquillamente da morti ammazzati, condizione a cui arriverebbero direttamente da quella attuale di morti di fame.
La guerra è la morte. La morte non risorge. Ci hanno promesso di risorgere dalla morte, ma è un altro discorso che questi libidinosi della violenza non sanno capire.
Perché i politici usano la parola risorsa anziché opzione? Chi non sa parlare non sa pensare. Il pensiero deve tradursi sempre in parole. Si sbagliano le parole perché si hanno pensieri sbagliati che ci rivelano tutto il loro errore (ed orrore) anche contro il desiderio di chi li esprime. Sono teste senza risorse.
22.02.2003
14. Tanti popoli nel Popolo
Gran parlare si è fatto di popolo negli ultimi tempi, ricordando la Costituzione: la sovranità gli appartiene (art. 1), e quindi in suo nome si amministra la giustizia (art. 101). La formula secondo cui «la sovranità appartiene al popolo» fu proposta in Costituente da Amintore Fanfani per indicare (disse) che il popolo è «la fonte, il fondamento e il delegante della sovranità». (Popolo è politicamente la somma di uomini e donne, non soltanto uomini come in età monarchica: il primo voto femminile è nel referendum istituzionale del 2 giugno 1946.)
Nel famoso discorso elettorale di Dronero (12 ottobre 1919) Giovanni Giolitti proclamò: «I governi sono fatti per servire i popoli, non per dominarli». Populismo è il movimento russo di fine 1800 che intendeva «andare verso il popolo», con a fianco i terroristi bakuniniani. Il motto «Servire il popolo» ispirò un movimento maoista italiano post-68, ispirandosi ai detti del Libretto rosso del Grande Timoniere.
Nel 1977 scoppiò in Italia lo scandalo Lockheed (forniture di aerei militari). I ministri della Difesa Gui (dc) e Tanassi (psdi) furono rinviati a giudizio dalla Commissione parlamentare inquirente per i procedimenti di accusa. Il Parlamento concesse l'autorizzazione a procedere (due anni dopo sarà condannato soltanto Tanassi).
In quell'occasione Aldo Moro disse alla Camera: «Non ci faremo processare nelle piazze», cioè dal popolo. Il 9 maggio 1978 il tribunale del popolo delle Brigate rosse uccideva Moro.
Come si vede, ognuno tira il Popolo dalla propria parte. E soprattutto quanti popoli ci sono nel Popolo?
13. Giovani & gelosia
Negli ultimi tempi abbiamo constatato con piacere che c'è in giro un'attenzione particolare al nostro parlare. Nei soliti, logori bilanci di fine anno, si sono letti spunti nuovi che hanno tentato di mettere a fuoco alcune voci più usate nei vari linguaggi, dalla politica al giornalismo all'economia.
In precedenza si erano ascoltati allarmi dolorosi sulla povertà di linguaggio delle nuove generazioni. Ci siamo detti: rieccoci. Sembrava di ascoltare gli stessi lamenti che, quando eravamo ragazzi noi, i vecchi di allora lanciavano contro di noi, accusati di tutto: il complimento variava da teppisti a delinquenti soltanto perché al posto dei soliti pantaloni di stoffa ci eravamo innamorati della «stoffa di Genova», i jeans americani che erano sinonimo di «Gioventù bruciata» (titolo di un film, etichetta mentale e pregiudizio verso di noi).
Adesso dicono che ai ragazzi «manca la parola». Ricordo l'affettuoso complimento delle nostre nonne verso i loro animali domestici: «Non lo vedi, gli manca la parola». Da complimento a giudizio severo verso gli adolescenti odierni. Noi eravamo giudicati traviati oltre che per i jeans, anche per colpa dei fumetti, secondo i benpensanti. O dei fotoromanzi, per chi li leggeva (a tutte le età, però, comprese le ragazze «per sognare»).
Adesso gli imputati sono la tivù (dove urlano a pagamento storie inventate come nei fotoromanzi del bel tempo antico), Internet, i messaggini sms (ma intanto un professore ha bandito un concorso di poesia sintetica in 160 battute, chissà mai).
Non è vero che «gli manca soltanto la parola». Ai vecchi mancano spesso le orecchie per ascoltare. Ragazzi, il mondo è vostro. Perciò suscitate gelosia. Basta questa parola per capire il mondo di ieri, oggi e sempre. Il tempo corre, e non riusciamo a stargli dietro come invece fate voi. I diretti interessati che ne pensano? Vorranno scriverci qualcosa?
12. Vecchie veline
A dimostrazione di come, cambiando l'ordine temporale delle parole, muti anche il loro significato, portiamo il caso delle Veline che spadroneggiano l'estate televisiva ed hanno fatto anche una puntata rivierasca, a Riccione battuta dal vento. Chiedete a giovini sbarbatelli ed a ragazzine sognanti una simile carriera, e tutto vi diranno sui loro miti catodici: nulla serve d'arte per accedere al palcoscenico, tranne qualche convenzionale mossa ginnica contrabbandata per ballo. Non sanno cantare, a recitare impareranno in precoce età di pensionamento, poi saranno sempre aiutate dal gobbo che non è l'uomo che porta fortuna, ma un cartone scritto a grosse lettere od uno strumento elettronico dove è precisata ogni battuta che le (in)felici Veline debbono tentare con movimenti labiali non sempre coordinati.
Se poi, culturalmente parlando il vostro confidente è ben agguerrito, allora vi dirà che cugina di Velina fa Letterina, ovvero valletta di Passaparola, la cui carriera è ancor più illuminata da un esempio di recente ascesa sentimentale: è appunto una Letterina quella che ha ammaliato l'erede al trono di tale signore che è re delle tivù nazionali nonché capo del governo ed aspirante capo dello Stato (ovvero come passare in futuro, se amor non cessa, dalla calvizie di Gerry Scotti alla piazza del Quirinale).
Un tempo invece la semplice velina, senza l'ambiziosa maiuscola, era un foglio leggero che s'usava scrivendo a macchina per fare una o più copie d'un testo mediante carta carbone. Ora, con fotocopiatrici e stampanti dei computer, la vecchia velina non la ricorda più nessuno, se non un'agenzia giornalistica (con l'aggiunta dell'aggettivo «rossa»: un nome, un destino), che imperterrita ci ricorda come in anni lontani dicevansi «velinari» quei cronisti politici i quali, nel loro quotidiano «pastone» romano, si limitavano a ricopiare le notizie inviate loro dalla segreterie dei partiti.
Una cronista d'eleganze mondane, Maria Corbi, ha impietosamente esteso la categoria femminile ai «giudici-velina», battezzando tali certi «magistrati da passerella», e dimenticando la maiuscola: per forza la Giustizia è in crisi.
11. L'extra non serve
Alberto Arbasino ha l'abitudine di scrivere quasi quotidianamente una lettera ai principali giornali, trattando del più o del meno, talora del nulla (e sono le cose migliori, perché il nulla intellettualmente è la parte più consistente della nostra società: pensate a quanti milioni di telespettatori raccolga il nulla televisivo di Cucuzza e dei suoi catodici fratelli/sorelle di latte).
Orbene, commentando un articolo del prof. Giovanni Sartori che invitava a considerare non pericolosa la xenofobia perché non è odio verso lo straniero, ma soltanto paura, Arbasino ha tirato uno di quei colpi di fioretto da vero Maestro, con una battuta fulminante. Oggi si usa parlare di «extra»(comunitari), scrive Arbasino sul Corsera (17 maggio): ci dimentichiamo che «extra» era una volta garanzia di alta qualità, mentre per noi è soltanto una connotazione negativa; e che «extra»(comunitari) lo sono anche americani, giapponesi e svizzeri.
Forse abbiamo bisogno di parole nuove per esprimere vecchi concetti. E' successo, a proposito di donne «extra»(comunitarie), come le badanti. Termine che non è risultato gradito troppo (aggiungerei non tanto per chi bada quanto per chi è badato in quanto malandato: certe finezze sfuggono al nostro degrado mentale). L'on. Bossi non parla di colf, ma di serve (che non servono a casa sua, perché ha molti figli che aiutano la moglie).
Più sfumato come al solito l'on. Pierferdinando Casini: la sua è una «tata di fiducia». Come si addice al presidente della Camera. La «tata di sfiducia» l'hanno quelli dell'opposizione.
10.L' Espressa
Il nuovo direttore del settimanale L'Espresso è Daniela Hamaui. C'è chi la chiama anche direttrice, persino direttora, come pretendequalche sua omologa collega. L'Espresso diventerà l'Espressa?
Ci risiamo con l'irrisolto problema delle professioni. Attenzione, la signora vigile che vi ferma non è una vigilessa, può essere una poliziotta,od una donna carabiniere (in Romagna la carabiniera è invece lamoglie dal bel caratterino). Avvocata o avvocatessa? Senza dubbio la primaforma: l'avvocatessa sembra un po' cugina della carabiniera. Anticamente(parlo sempre per me) l'ambasciatrice era la moglie dell'ambasciatore,la signora ambasciatore c'è stata a volte (e come si saràchiamato il marito?).
A "Primapagina" di Radiotre un ascoltatore ha deliziatole mie orecchie, riproponendo un discorso che facevo sempre a scuola: l'italianoè orfano del neutro, che invece c'era (c'è) in latino. Ormai la situazione è storicamente determinata. Il neutro non si comprané al supermercato né in ditta.
Resta il problema del politicamentecorretto (come negli annunci di offerte di lavoro, che recano, per leggecredo, l'avviso: «per entrambi i sessi»).
Il discorso non è da poco. La frizzante Maria Laura Rodotà (La Stampa, 20 febbraio, «Gentil sesso messo da parte dal linguaggio») ha perorato la causa della parola persona, al posto di uomo (come terminecomprensivo di uomini e donne), in una nota come al solito gustosa che,se letta male, si vede trasudare femminismo d'altri tempi: invece rispecchiasic et simpliciter una condizione ben ritratta dalla chiusa. Si dice comunementeche «ci sono gli uomini» o «mancano gli uomini».
Commento di MLR: «E anche se mancano, per loro son soddisfazioni».
9. Non basta la parola
Carràmba che sorpresa
Voici le roi, le citoyen monsieur le roi. Il Parlamento discute per abrogare la XIII disposizione finale della Costituzione. Le cronache giornalistiche ed anche una dichiarazione emessa dal cittadino Vittorio Emanuele di Savoia su richiesta (addirittura) dei Ds, hanno definito quella XIII disposizione come «transitoria».
Errore. Le XVIII disposizioni approvate in coda alla nostra Carta fondamentale, si dividono in due tipi, come dice il titolo sotto cui sono elencate: «finali e transitorie». Finali sono considerate: la XII (divieto di riorganizzare il disciolto partito fascista), appunto la XIII (Casa Savoia), la XIV (titoli nobiliari), la XV (conversione in legge del decreto legislativo luogotenenziale del 25.6.1944 sull’ordinamento provvisorio dello Stato), e la XVIII (promulgazione ed entrata in vigore della Costituzione). Transitorie, ovviamente, sono tutte le altre.
Molti equivocano, ritenendo che tutte le disposizioni finali siano nello stesso tempo pure transitorie. No, come si è detto sulla scia di pareri autorevoli: vedi alle pagine 21 e 463 del volume «La Costituzione della Repubblica italiana illustrata con i lavori preparatori».
Dalle cronache giornalistiche non si è capito se tutta la XIII disposizione sarà cancellata: nel qual caso i Savoia potranno fondare un partito politico, e richiedere i beni in territorio nazionale già avocati dallo Stato. Un figlio di re potrebbe diventare presidente della Repubblica, perché non sappiamo distinguere tra finale e transitorio. L’unica certezza è che i giudizi della Storia sono inappellabili: i Savoia con il fascismo hanno distrutto l’Italia, dopo averla creata. E che la politica non è come Carràmba.

Postilla. La precedente nota Dante perdente ha agitato un lettore del Ponte che ha inviato, "a difesa di Rocco Buttiglione", una protesta a cui rispondo nel modo seguente.
Per segnalare le debolezze delle argomentazioni esposte, non è questo il luogo: ad un giornale basta «qualcosina». Se tutti gli articoli fossero come questa lettera, non ci resterebbe che piangere. Essa mi rammenta le grammatiche d’altri tempi (stessi luoghi), quando lo stile raccomandato era quello del Capo. Avevo ripreso definizioni ed esempi da un testo classico, il Gandiglio-Pighi, non dal manuale delle piccole marmotte. Grazie per il «giovane». Infatti ho soltanto 60 anni. Ex quo intellegi potest, etc. E, soprattutto, niente zelo, raccomandava un vecchio reazionario.
8. Non basta la parola
Dante perdente
Spesso i personaggi importanti ricorrono alle citazioni. La loro abitudine di usare parole altrui, vuole rassicurare noi ascoltatori, invitandoci ad avere fiducia nella loro cultura ed a credere alla loro vivacità intellettuale. Quella della citazione, è una particolare forma di linguaggio mascherato, che per questa caratteristica dovrebbe insospettire invece di soddisfarci. Se siamo del tutto ignoranti, il fascino di parole alate ci soddisfa come un bel piatto di cappelletti sotto le feste. Ma se si ha la sfortuna di sapere qualcosina, ci viene la voglia di passarle al vaglio di una nostra ipotetica (ed abusiva) crusca personale.
Il 17 gennaio, al GR3, il filosofo Buttiglione ha detto che i politici, in certe questioni, non debbono perdere "il bene dell'intelletto". Qui casca il prof. Rocco. Prendiamo l'Inferno dantesco, canto III, vv. 17-18: «... tu vedrai le genti dolorose/ c'hanno perduto il ben dell'intelletto». Dove questo bene non è la ragione, come intende Buttiglione, ma Iddio. (Spiegava il vecchio commento di Carlo Grabher che i dannati hanno «perduto il bene supremo dell'umano intelletto che è vedere ed intendere Dio».)
Tutta colpa dell'antico complemento di specificazione, per cui il v. 18 significa che l'intelletto ha un bene da raggiungere, non che è esso stesso un bene. La paura del nemico, ci spiegavano i testi di latino della nostra età paleolitica, può indicare che noi abbiamo timore del nemico, oppure che il nemico ha timore di noi. Il bene dell'intelletto è un genitivo particolare, detto in sintassi latina oggettivo: "petitio consulatus" indica il "petere consulatum". Così il bene dell'intelletto rimanda allo scopo fondamentale della nostra umana sapienza, superare il limite, avviarsi verso l'Infinito spirituale e temporale di Dio.
7. Da pochi, per tutti

Un amico stuzzica via e-mail: aere civium (coi soldi dei cittadini) hanno battezzato l’iniziativa di cinque imprese riminesi a sostegno dell’arte; trattandosi di azione promossa da privati, non è proprio la definizione azzeccata.
OK. Per i Latini, infatti, il civis è il cittadino non come il singolo inteso nella sua sfera privata (da cui l’odierna privacy, o meglio privatezza), bensì come parte dello Stato: per questo fatto, il denaro dei cittadini è quello dell’intera Comunità (ammesso, beninteso, che tutti paghino il dovuto di tasse ed imposte: sul qual fatto nutro i miei dubbi senili). Da civis si origina civilis (che giova al bene pubblico; ciò che è dello Stato): i Latini avevano già ben presente il conflitto d’interesse fra pubblico e privato (il Bellum civile di Cesare, mica è uno scherzo: ci fondò una dittatura, Rubicone superato).
Leopardi scrisse le canzoni civili, spiegò correttamente una mia allieva all’esame di Stato, interrotta da una commissaria scandalizzata: ma come, civile vuol dire beneducato, Leopardi ha scritto poesie beneducate? (Il presidente mi portò al bar, intimandomi: adesso lei chieda d’interrompere gli esami di quell’analfabeta della nostra collega…)
Nei secoli passati, i privati (benestanti) erano chiamati i Particolari. Tutti i cittadini del Comune (della Commune, anzi), erano detti Communisti. Spesso (molto spesso) accadeva che i secondi dovevano sovvenzionare i primi (mica fessi). A Rimini i nobili (ed i borghesi arrampicatori) del ‘700 facevano conversazione privata al teatro pubblico a spese del Pubblico (Municipalità).
L’iniziativa riminese per l’arte, di pochi per tutti, ha un alto senso civico, il che attenua l’arbitrio lessicale nella definizione.
6. Euro, figlio unico
Di lire, ormai ne abbiamo le tasche piene anche in senso metaforico: il passaggio dalla nostra moneta a quella comunitaria avviene tra le più sciocche polemiche (il Tesoro è sotto accusa: lucra tre lire ogni 25 mila per il kit famigliare!). Quando non si ha nulla d'intelligente da dire, ci si attacca agli avanzi del piatto (vedi Libero del 16): quelle tre lire sono arrotondate in base a legge dello Stato italiano.
La parola lira è antica, deriva da libra (anzi da libbra, unità di peso presso i romani, in precedenza, pare, oggetto atto alla pesa stessa, quindi imparentata con bilancia). Ma libbra è pure unità di misura inglese (Dio salvi la Regina), grammi 453,59.
Le monete hanno fatto la Storia, più che le armi. Non per nulla gli inglesi (Dio salvi la Regina), memori dei loro trascorsi di grandezza, non hanno ancora adottato l'euro. Come potevano mettersi al nostro pari, loro, che con l'Impero e la sterlina hanno dominato per un ben pezzo il mondo? Vada per l'Impero che non c'è più, ma guai a perdere la sterlina (Dio salvi la sterlina, si sono detti). Adesso Tony Blair sembra ripensarci.
E se i soldi fanno andar in sù l'acqua del mare, chi li manipola ha caro il proprio dominio politico. In Afghanistan sono corsi a milioni i verdi dollari americani. E poi, dietro ai dollari, le armi. Dio protegga l'euro, che non sia veicolo altro che di pace.
Se la lira aveva le sue sorelle (le lire), l'euro è stato dichiarato figlio unico (niente fratelli euri). Accettiamo la piccola regola, ricordando che l'euro è anche figlio di un sogno di pace continentale, dopo le tragedie del 1939-45.
5. Che barba (la Storia!)
Aumentano i barboni italiani, soprattutto fra i giovani. Sono i clochard, gli homeless, i senzatetto. Li hanno battezzati così nel secondo dopoguerra per la loro abitudine di non curare l'onor del mento. Che invece era abbondantemente obbligatorio nell'Afghanistan talebano, per via di una sentenza (hadit) di Maometto: «Lascia la barba e regola i baffi», compromesso tra ascetismo e salvaguardia delle attività artigianali. Da noi i barbieri, secoli fa, avevano altre pretese, lavoravano da chirurghi, senza reciprocità di mestieri con i colleghi.
Dal 13 novembre, forbici al lavoro a Kabul, finché dura la libertà (anche di radersi). Racconta Igor Man: «Che strano: dopo l'8 settembre i soldati che avevano smesso la divisa e s'erano rifugiati in Roma si facevano crescere la barba, ingenuamente convinti di salvarsi, così, dai tedeschi a caccia di ‘disertori badogliani’».
Il capello ha segnato la Storia. I gentiluomini europei sino al 1789 hanno indossato parrucche od elaborato trecce con fiocco (il codino). Oggi codino e parruccone indicano chi ha mentalità retriva o reazionaria, resta fedele al passato e rifiuta il nuovo. Ma i giudici inglesi portano tuttora parrucche in tribunale, ed i codini sono un uso elegante che da sportivi, attori o cantanti è passato a gente normale (i cinesi li hanno avuti sino all'inizio del secolo XX).
I capelli alla marine li chiamavamo all'Umberto (primo, re d'Italia). I barbudos a Cuba erano i seguaci di Fidel Castro.
I primi capelloni nostrani furono considerati i rivoluzionari degli anni Sessanta, parenti stretti dei teppisti. Qualche musicista od artista li ha salvati dall'infamia. Capello proprio e pregiudizio altrui.
4. Asimmetrie mentali
Quando non sappiamo spiegare una cosa nuova, prendiamo una parola vecchia e la rigeneriamo. Dopo l’11 settembre c’è stata la necessità di etichettare la reazione militare alleata al terrorismo. Bush per primo ha avuto le sue incertezze: per tranquillizzarci, dalla crociata è passato alla libertà duratura.
Si parla di guerra giusta, lecita, necessaria. Persino intelligente, grazie alle armi usate. I morti accidentali ci sono perché stavano lì dove dovevano arrivare il missile o la bomba che sono innocenti, oltre che intelligenti.
Questa guerra, dicono, è asimmetrica: i contendenti non agiscono allo stesso modo, non c’è esercito contro esercito, ma si deve reagire alla diabolica fantasia del terrorismo invisibile.
Enzo Bettiza ha scritto che pure l’Europa è asimmetrica, perché "alla guerra asimmetrica stiamo dando risposte asimmetriche". Siamo infatti divisi in due: in primo piano l’Occidente atlantico (Londra, Parigi, Berlino), e nelle "retrovie di scarto l’Occidente mediterraneo e scandinavo" che non sa come comportarsi.
L’Europa dunque, secondo Bettiza, dovrebbe seguire compatta la politica di Bush. E se la stessa guerra giusta, lecita fosse asimmetrica non soltanto verso il nemico ma nella sua essenza, fosse cioè condotta male rispetto ai fini che si prefigge? (Intanto si ritorna a parlare di consiglieri militari da inviare in Afghanistan, come per il Viet-Nam.)
Non basta inventare formule per spiegare il mondo. Noi avemmo le convergenze parallele, uno sproposito logico e geometrico, una strategia politica che ad Aldo Moro costò la vita per mano delle BR le quali vollero essere asimmetriche rispetto al sistema democratico: loro lo definivano "bloccato", come fecero pure alcuni smemorati politici dopo la fine del terrorismo.
3. Nené, sei bipartisan?
La parola bipartisan è da un po’ che la si usa, ma negli ultimi giorni è apparsa in un contesto diverso da quello iniziale. Hanno principiato a proporcela con un valore incerto, ovvero molto soggettivo. Era una richiesta della maggioranza (“dateci ragione qualche volta”) verso l’opposizione. Ma poteva essere anche un trucco della minoranza verso il governo (“trovarci d’accordo su qualcosa, può farci comodo”). Fu così che bipartisan fu intesa come nuovo inciucio, frutto più di accordi sottobanco che di manifestazioni dichiarate di consenso.
Dopo l’11 settembre, il problema del terrorismo ha in apparenza riproposto la situazione del 1999 per l’impegno italiano sui Balcani, quando premeva di mettere assieme (d’accordo?) Berlusconi con D’Alema, allora capo del governo. Fu un meccanismo che Stefano Folli definisce bizantino. Le operazioni in Afghanistan però sembrano qualcosa di diverso. Ed allora diventa differente anche la parola bipartisan nell’uso che ne è stato fatto negli ultimi giorni.
Come una calamita attira la limatura di ferro, così bipartisan si avvolge di significati di un’emergenza che accomuna sottolineando però ancor più le differenze dinanzi a problemi molto gravi. Le opinioni politiche non sono uniformi (sale della democrazia), nemmeno all’interno del polo ulivista (sale dell’intelligenza: “la varietà delle opinioni è segno di benevolenza divina”, diceva Maometto, come leggo in M. L. Rodotà che riprende da Flaiano). Ed allora scopriamo che bipartisan finisce per essere una pura emissione di voce.
Tre settimane fa, avrei scritto diversamente, tirando in ballo come antefatti la solidarietà nazionale, il compromesso storico, il trasformismo (1876), il connubio cavurriano (1852). Ma oggi la situazione internazionale toglie le certezze sul passato, ci impone le domande sul futuro, mentre un’altra parola sta diffondendosi: neneismo (né con gli uni, né con gli altri), usata quasi come offesa verso chi avanza obiezioni sulla campagna militare in Afghanistan.
2. Devoluto? Sarà lei
Pure le parole subiscono le mode. Tramontano e sono rottamate anch’esse come le auto, ed ahinoi, stando ai giornali, come il “personale in esubero”. Oppure  trionfano nelle classifiche delle più usate (od abusate?). Una di queste è devolution, inutile traduzione inglese dell’italianissima devoluzione, dal latino (rieccolo!) devolvere. Il defunto ha devoluto i suoi enormi beni ai parenti mesti, lieti che finalmente il gran giorno (suo e loro) fosse arrivato.
Insomma, roba di soldi. Come appare chiaro dalle intenzioni di chi prima intona “Roma ladrona” (tranne che nel giorno del san Paganino bicamerale), e poi si muove con il motto: “qua il malloppo”.
Al coro secessionista del “separiam, separiam”, il passato governo ha risposto con quello finora muto (tipo Butterfly) che dovrebbe però acquistar parola il 7 ottobre con il referendum confermativo -e non abrogativo- della legge sul federalismo, per modificare l’articolo 117 della Costituzione.
Una guerra di devoluzione combattuta nel 1667-68, rilancia su di noi bagliori sinistri: la volle Luigi XIV di Francia alla morte del suocero Filippo IV di Spagna per far ereditare alla propria moglie una parte dei Paesi Bassi spagnuoli, ottenendo alla fine dodici città fiamminghe. Fu l’inizio delle guerre d’Europa, con quel periodo detto dell’equilibrio che mise a ferro e fuoco tutto il Continente, a vantaggio di Parigi.
Di questa guerra di devoluzione oggi nulla forse sanno neppure i laureati in Storia (presi dallo sociologia del campionato di calcio e dall’evoluzione dei costumi da bagno). Ma il suo ricordo per nulla tranquillo, ci può avvertire che sul prossimo referendum del 7 ottobre, è necessario informarsi. Riusciranno i nostri politici ad illustrarci la differenza tra  federalismo e devoluzione?
[Antonio Montanari, il Ponte, 30.9.2001]
1. Global? No, global
"Fare un salto", mi hanno detto in una banca, significa che l'impiegato sarebbe stato assente per tutta la mattinata. Le parole non riescono spesso a rendere il concetto che ci frulla in testa, perché le giriamo come vogliamo.
Per "global" si azzuffano non soltanto i politici: è un bene, un male? Una novità, o no? E’ stato "global" l’impero romano con il virgiliano imporre costumi di pace, usando clemenza a chi cedeva e sgominando chi si opponeva ("Eneide", VI, 852-3). Anche per Marco Polo, Colombo, Garibaldi o Marconi la realtà fu globale. Ma lo è stata pure per guerre moderne ed epidemie antiche. E lo è per l'economia ("uno starnuto a Tokio, è temporale a Londra").
"Global" non è invenzione di questi giorni. Nel 1969 Marshall McLuhan pubblicò un saggio sul "villaggio globale", cioè elettronico.
Oggi abbiamo quello telematico, con Internet. Ma i messaggi sono destinati ad un povero bambino del Nepal costretto a lavorare in una cava di pietre del Nepal o a quello nostrano obeso per eccesso di merendine? "Global" è l'esportazione che arricchisce le nostre imprese, ma anche il lavoro minorile nei Paesi "in via di sviluppo" per prodotti destinati a noi, è la nuova economia che ad esempio in Perù fa rispuntare la TBC perché gli ospedali (obbedendo al Fondo Monetario Internazionale) sono ora imprese di mercato, e non attuano prevenzione. Il Perù, dove si paga per donare il sangue ad un malato. Dove una donna muore con il figlio perché senza soldi per il necessario taglio cesareo (vedi G. Vaccaro, "Missioni Consolata", 7-8/2001).
In Gran Bretagna hanno aggiunto al termine capitalismo l'aggettivo compassionevole. Sono parole povere quelle che abbisognano di un abbellimento. [Antonio Montanari, il Ponte, 2.9.2001]


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2303, 18.08.2016/Agg. 19.08.2016 Antonio Montanari, 47921 Rimini. Via Emilia 23 (Celle). Tel. 0541.740173