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Accademia dei Lincei riminesi

TRA ERUDIZIONE E NUOVA SCIENZA
I LINCEI RIMINESI DI GIOVANNI BIANCHI (1745)
NOTE AL TESTO
Versione definitiva aggiornata, 19.05.2004

1 Cfr. alle pp. 353-407, tomo I (in seguito «autobiografia latina»). Un ritratto psicologico di Planco, presentato come fatto dall’amico estensore «anonimo», è alla p. 403. Era troppo fedele il ritratto rispetto all’originale perché l’autore fosse altri dal personaggio presentato in quelle pagine. Su questo testo, cfr. A. MONTANARI, Modelli letterari dell’autobiografia latina di Giovanni Bianchi (Iano Planco, 1693-1775), «Studi Romagnoli» XLV (1994, ma 1997), pp. 277-299. Una seconda autobiografia di Planco, anch’essa anonima, è nei Recapiti del dottore Giovanni Bianchi di Rimino, Pesaro 1751. La parola «recapito» ha il significato di considerazione, reputazione, stima. Sulla paternità dei Recapiti, cfr. le «Novelle letterarie» (in seguito «Nov.») di Firenze, XIX, 30, 28 luglio 1758, col. 480. Di altre autobiografie inedite diremo infra. Per una completa biografia di Bianchi, cfr. A. FABI, DizionariobiograficodegliItaliani (DBI), X, Roma 1968, pp. 104-112. Nel tomo II, I dei Memorabilia, Bianchi pubblica le biografie di due riminesi, Marco ed Andrea Battaglini: cfr. alle pp. 121-132 e 133-156.
2 Cfr. nei citt. Recapiti, p. III. La data del 24 luglio, relativamente alla nomina, si ricava dalle Schede Gambetti (in seguito SG), ad vocem, in Biblioteca Civica Gambalunghiana di Rimini (BGR). Nel fasc. 218 del Fondo Gambetti, Miscellanea Manoscritta Riminese, Bianchi Giovanni (FGMB), in BGR, Bianchi scrive a proposito della sua chiamata a Siena: essa era avvenuta «senza nessun mio previo impegno». (I testi sono riportati fedelmente rispetto agli originali: eventuali integrazioni sono inserite fra parentesi quadre; le parole sottolineate sono rese in corsivo; sono sciolte le abbreviazioni. Le parti illeggibili od indecifrabili della trascrizioni, sono state sostituite da questa indicazione: <...>.) Le «Nov.», III, 5, 2 febbraio 1742, col. 77, scrivono che a Bianchi era stata conferita «la Cattedra di Professore di Storia Naturale e di Anatomia nell’Università di Siena», «sul riflesso della di lui nota dottrina». Nel fasc. 150, FGMB, è conservata una sua domanda per ottenere che «il settore Anatomico» fosse «a lui onninamente sottoposto nelle cose di Anatomia»: il che fa pensare a contrasti ed a rivalità tra colleghi di Facoltà. Planco era noto allora anche per altri studi scientifici, come il De conchis minus notis liber, Venezia 1739, sui Foraminiferi. (L’opera ha una seconda ed. arricchita a Roma nel 1760: cfr. la nota di G. C. Amaduzzi in «Nov.», XXVI, 3, 17 gennaio 1766, coll. 35-38.) Circa l’importanza europea di questo testo, cfr. le «Nov.», IV, 15, 12 aprile 1743, col. 229: qui leggiamo che Bianchi, per le sue scoperte in questo campo, venne definito «Linceo» da Gian Filippo Breynio, professore di Storia Naturale in Danzica. (Tale giudizio è anche nell’autobiografia latina, pp. 377-378: «vere Lynceum, vel Lynceis oculis instructum».) Sulle «Nov.», I, 27, 1 luglio 1740, col. 426, si ricorda un neologismo introdotto da Bianchi nel De conchis, «acquistizio», per indicare «cessazione di moto, o sia quiete dell’acque» che dura «ordinariamente» un’ora. Circa il De conchis, va detto che Bianchi «ricusa di esporre l’opra sua in vendita» perché «l’ha destinata in dono a que’ soli, che degni di tal’onore saranno» da lui reputati, come leggiamo in lettera del 3 agosto 1739 di un suo corrispondente di San Vito al Tagliamento, Anton Lazzaro Moro (1687-1764), Fondo Gambetti, Lettere autografe al dottor G. Bianchi (FGLB), ad vocem, BGR. Moro è autore di un interessante studio, De’ crostacei e degli altri marini corpi che si trovano su’ monti, Venezia 1745, in cui è ripetutamente cit. il De conchis. In esso si studia il problema dell’origine dei fossili e, quindi, delle montagne: secondo Moro la crosta terrestre è stata cacciata «dal fondo del mare insù [...] da sotterranei fuochi» (p. 245). Dal carteggio con Planco, ricaviamo che questi non concordava con le ipotesi di Moro. Le minute di lettere di Bianchi a Moro si trovano in Minutario, 1739-1745, MS-SC. 969, BGR: le più importanti sono quelle del 14 dicembre 1739, c. 16r; 21 marzo 1740, c. 74v; 18 aprile 1740, c. 92r; e 3 maggio 1740, c. 100v. Bianchi conobbe personalmente Moro a Venezia nel 1740 (cfr. G. BIANCHI, Viaggi 1740-1774, conosciuti anche come Libri Odeporici, SC-MS. 973, BGR, 4 agosto). In altra pagina dei Viaggi (8 agosto 1740), Planco così si esprime sul volume di Moro: «L’opera dunque sarà lunga, ma non so poi se da per tutto sarà squisita, attesocché non sembra il Sig. Abate gran filosofo, ne molto informato della materia che ha intrapreso a trattare». (Non è qui il luogo di spiegare l’ingeneroso giudizio di Bianchi su Moro, per il quale rimando anche ai seguenti testi: A. L. Moro. Epistolario con bibliografia critica, catalogo dei manoscritti e tre opere inedite, a cura di P. G. SCLIPPA, Pordenone 1987; A. L. Moro, Contributi per una ricerca, Maniago 1988; e A. L. Moro, Carteggio (1735-1764), Firenze 1993.)
3 Cfr. A. MONTANARI, La Spetiaria del Sole - Iano Planco giovane tra debiti e buffonerie, Rimini 1994, passim. La Spetiaria del Sole è il negozio del padre di Giovanni, il farmacista Girolamo Bianchi (1657-1701). Sulla giovinezza di Planco, cfr. ID., «Lamore al studio et anco il timor di Dio», Precetti pedagogici di Francesco Bontadini commesso della «Spetiaria del Sole» per Iano Planco, suo padrone, «Quaderno di Storia n. 2», Rimini 1995: mentre Bianchi nell’autobiografia latina si racconta come un ragazzo prodigio, tutto rivolto agli studi, e dotato di capacità eccezionali, in famiglia lo considerano un perdigiorno che frequenta cattive compagnie. Anche l’immagine che della sua stessa famiglia emerge dall’epistolario esaminato in quest’ultimo saggio, è diversa rispetto a quella che Planco ci offre nelle pagine autobiografiche. Per il periodo universitario, cfr. ID., Giovanni Bianchi (Iano Planco) studente di Medicina a Bologna (1717-19) in un epistolario inedito, «Studi Romagnoli» XLVI (1995, ma 1998), pp. 379-394.
4 Cfr. il fasc. 109, FGMB.
5 Cfr. il fasc. 48, FGMB. Bianchi, il 22 novembre 1717, era stato nominato «Consigliere della Università di Bologna per la Nazione della Marca Inferiore», come si ricava da SG, ad vocem, BGR.
6 Cfr. il fasc. 310, FGMB: esso contiene numerose stesure di autobiografie planchiane, in gran parte inedite. Altre se ne trovano nei fascc. 134-135, FGMB. La data del 1715 si ricava dai citt. Recapiti, p. I.
7 Davìa (1660-1740) era stato traslato alla Chiesa riminese nel 1698. Fu poi Nunzio in Polonia ed in Austria fino al 1706. Nel 1712 era stato fatto cardinale. Nel conclave del 1730 non fu eletto papa per un solo voto (cfr. alla nota 176). Suo fratello Francesco sposa Laura Bentivoglio che, come vedremo, sarà allieva di Planco a Rimini. Qui Laura, assieme al figlio Giuseppe, nato nel 1710, è «relegata dal marito, noto per la sua vita sregolata e stravagante» (cfr. la biografia di Giuseppe Davìa, a cura di G. P. BRIZZI, DBI, vol. XXXIII, Roma 1987, pp. 130-131). Il 29 settembre 1722 Laura Bentivoglio scrive a Bianchi: «Il mal Animo de Riminesi contro di me ò per meglio dire contro al loro prossimo in generale, che per verità è tale; non mi giunge nuovo avendolo riconosciuto dal primo giorno, che la mala sorte qui mi portò»: cfr. FGLB, ad vocem. In questa stessa missiva, la dama bolognese augura a Bianchi «una cattedra a Padova essendo, il luogo appunto per» lui. Planco aveva soggiornato a Padova nel 1720, legandosi d’amicizia con Giambattista Morgagni ed Antonio Vallisnieri. La Cattedra a cui accenna Laura Bentivoglio è quella di Medicina teorica: essa gli fu soffiata dal professor Giacomo Piacentini (cfr. G. BILANCIONI, Carteggio inedito di G. Morgagni con G. Bianchi, Bari 1914, pp. 129-130; e A. TURCHINI, Il tentativo di I. Planco di salire sulla Cattedra del Cicognini nel 1740, «Quaderni per la Storia dell’Università di Padova», 1972, pp. 91-105).
8 Leggiamo nei Recapiti, p. I, che «molte volte recitò diverse sue dissertazioni il Bianchi esponendo con filosofiche, e pellegrine dottrine le Ode greche di Pindaro». La prima dissertazione è svolta nella sessione inaugurale dell’accademia: «Plancus, qui Pindarum esplicans, secundus post Deviam ipsum, locutus est in primo congresso», come lui stesso scrive nell’autobiografia latina (p. 356). Ne seguirono altre tre. Nelle Odi di Pindaro, «andava egli rintracciando l’antiche dottrine filosofiche, e le antiche storie della Grecia»: così in G. C. AMADUZZI, Elogio di Monsig. Giovanni Bianchi di Rimino, apparso anonimo sull’Antologia romana (tomo II, 1776, p. 227). Il testo delle dissertazioni su Pindaro è nel fasc. 340, FGMB. L’interesse di Bianchi per la letteratura greca è testimoniato pure dai testi conservati nel cit. FGMB, fascc. 341, 342, 343 (varie traduzioni) e 315 (versione in latino della Vita di Epicuro di D. LAERZIO). In F. VENTURI, Settecento Riformatore. I. Da Muratori a Beccaria, Torino 1998, p. 333, leggiamo che Giovanni Lami, nelle «Nov.», «combatté contro lo stanco latino dei gesuiti, per un rinnovamento degli studi classici che intendeva ritornare al greco».
9 Nella biografia di Bianchi scritta in D. PAULUCCI, Memorie di uomini illustri, SC-SM. 356, BGR, si confonde l’accademia vescovile riminese con quella dei Lincei, quando si racconta che di quest’ultima venne «fatto segretario in età d’anni 22», cioè nel 1715. Sull’attività di docente a Siena, cfr. il fasc. 150, FGMB. Nei fascc. da 151 a 157, ib., sono conservate sette lezioni anatomiche.
10 Nell’autobiografia latina, pp. 395-397, c’è ampia traccia delle polemiche in ambito accademico senese; e delle accuse lanciate da Planco contro chi in quell’Università praticava la «cartacea Anatomia», fonte di tanti errori in capo medico. (Galileo aveva parlato di «astronomia cartacea».) Scrivono le «Nov.», XI, 5, 30 gennaio 1750, col. 65, che Bianchi «fu Professore primario d’Anatomia a Siena, e non incontrò molto il genio di que’ Cittadini».
11 Per valutare la decisione di Bianchi, vanno considerate queste parole scrittegli dall’amico padre teatino Paolo Paciaudi (di cui parleremo anche infra), al momento della sua decisione di recarsi a Siena: «Se fusse o Firenze o Pisa direi: andate pure... Ma Siena, Siena che decoro può recarvi? [...] bisognerà che vi apprestiate a sostenere le maledicenze dell’invida genìa de’ paesani di Siena professori della vostra scienza. Già si sa che dove il Forestiero è solo a primeggiare ha da essere inquietato da’ Nazionali»: cfr. M. D. COLLINA, Il carteggio letterario di uno scienziato del Settecento, Firenze 1957, p. 8. E’ interessante l’inedita risposta di Bianchi: «Io come Filosofo non mi sono mai affezionato a niuna cosa in particolare; ma essendomi dilettato di varj studi, colà io attenderei a quelli che io potessi, dove qui io non posso per così dire attendere ad alcuno, tutto il giorno essendo occupato in cure tediose di malati senza alcun profitto. Questa è una città che dà ai Medici il medesimo incomodo che Roma, e ogni altra gran città, ma il premio è senza alcun paragone infinitamente minore, e ciò per le ragioni di cui dissi; ma passiamo ad altre cose» (cfr. Minutario, MS-SC. 969, cit., 26 luglio 1741).
12 L’opera studia le piante più rare note agli antichi, cercandone il corrispondente nome moderno. Nato nel 1567, Colonna aveva 24 anni quando la pubblicò. Bianchi ha iniziato a lavorare al progetto editoriale del Fitobasano nel 1739: cfr. SG, ad vocem, dove si cita il Rescritto Apostolico per avere e ritenere per sei mesi le Opere di Fabio Colonna che sono in Biblioteca Gambalunga, per farle ristampare, 21 ottobre 1739. Il permesso gli è procurato da mons. Antonio Leprotti (di cui si dirà): cfr. lettera di Bianchi, 15 novembre 1739 (SC-MS 963, Lettere autografe a mons. A. Leprotti, BGR, c. 336). Il 26 novembre Bianchi scrive a Leprotti per chiedere un permesso più ampio : «Se m’otterrà la grazia di potermi servire in casa de’ Libri della Biblioteca Gambalunga l’averò per molto favore, e sarà una cosa molto comoda a miei studi perciocché nell’ora che si tien aperta quella Libreria io il più non ci posso andare» (ib., cc. 337-338). Il 10 dicembre (ib., c. 341) ribadisce: «lascio alla bontà di lei la cura con tutto il suo agio però di procurarmene un generale, che non sia ristretto ad alcun libro particolare, e che si distenda per ogni tempo, ristringendosi solo che io debba lasciar la ricevuta di ciascun libro che prenderò in mano dal Bibbiotecario, e che io debba restituire il libro preso dopo un determinato tempo di quattro o sei mesi, e nel rescritto [...] si potrebbe dire che ponessero brevemente conceditur ut petitur o qualch’altra formula brevissima». (Nella lettera del 26 novembre, Bianchi riferisce della difficoltà di trovare notizie sui Lincei e su Federico Cesi. Intorno ai Lincei, per comporne la breve storia da premettere al Fitobasano, scrive: «Credo che basterà quello che s'era trovato finora. Al più si potrebbe vedere se si potesse ritrovare uno di quegli Anelli col Lince che loro serviva di divisa, il quale si potrebbe far incidere». Bianchi suggerisce di svolgere la ricerca a Firenze, «appresso gli eredi del Galileo»: il quale, aggiunge, era «stato condannato in Roma» nel 1631, l'anno dopo la morte del «Principe Cesi autore dell'Accademia». In realtà la condanna di Galileo è del 1633, per il Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo uscito nel febbraio '32. Bianchi, nella «Lynceorum Notitia», premessa al Fitobasano, p. 13, scrive: «Item Anulum ipsum Lynceum Galilaei Florentiae apud Equitem Scalandrorum reperiri audivi». Come annota P. DELBIANCO in una delle schede del catalogo Le Belle Forme della Natura. La pittura di Bartolomeo Bimbi (1648-1730) tra scienza e ‘maraviglia’, dell’omonima mostra cesenate (Modena 2001), p. 147, nello stesso 1744 esce un’altra edizione del Fitobasano, a Milano, sempre però con il nome del tipografo fiorentino Pietro Gaetano Viviani: un esemplare è custodito in BGR. In M. P. DONATO, Gli “strumenti” della politica di Benedetto XIV: il Giornale de’ Letterati (1742-1759), «Dimensioni e problemi della ricerca storica», n. 1/1997, nota 39, ripreso da <http://biblos2.let.uniroma1.it/Deposito/articolo.27635.1.html>, si legge che «Bianchi aveva editato il Fitobasano lavorando su una copia prestatagli da Leprotti: cfr. la sua lettera a Lami, del 26.2.1744, in BRF, ms. ricc. 3707, c. 24; e “Novelle Letterarie”, 1746, col. 71». Copia ms. della lettera a Lami del 26.2.1744 è nel Minutario, 1739-1745, cit., c. 328v: «il Fitobasano di F. Colonna che molto mi premeva giacché è di Monsignor Leprotti». Bianchi scrisse a Leprotti il 15.10.1743: «Io sto ora scrivendo una spezie di Storia de’ Lincei, che io voglio stampare insieme con la Vita di Fabio Colonna, la cui prima opera che si chiama il Fitobasano, di cui, siccome dell’altre opere sue tutte ella mi favorì l’esemplare, io ora ho cominciata a far ristampare con mie note, e per questa ragione io sono venuto a Firenze per aver comodo di consultare libri per cavarne la Storia de’ Lincei, il qual comodo io non aveva a Siena» (cfr. SC-MS 963, cit., c. 537). Sul prestito delle opere di Colonna a Bianchi da parte di Leprotti, cfr. pure la già cit. scheda di DELBIANCO nel catalogo Le Belle Forme della Natura, p. 147.
13 Nel breve articolo, scritto probabilmente dallo stesso Planco, ed apparso sulle «Nov.», VI, 53, 31 dicembre 1745, coll. 842-846, per presentare le leggi lincee di Planco, si ricorda che «il Signor Giovanni Bianchi, Gentiluomo Riminese, e Professore Primario di Medicina nella Città di Rimino» aveva nell’anno precedente pubblicato «a sue spese» il Fitobasano (che reca nel sottotitolo: «Plantarum aliquot historia»), premettendogli «la Storia dell’Accademia de’ Lincei» (cfr. A. MONTANARI, L’anello di Galileo. E’ di Iano Planco la prima storia a stampa dei Lincei, «Il Ponte, settimanale cattolico riminese», XXVII, 25, 30 giugno 2002, p. 17). Tali spese assommarono a «cinquecento e più ducati», come si legge in una sua lettera: cfr. G. L. MASETTI ZANNINI, Carta e stampa nel Settecento, «Bollettino dell’Istituto di Patologia del Libro “Alfonso Gallo”», XXXI, 1972, fascc. I-IV, p. 123. Le stesse «Nov.», V, 33, 14 agosto 1744, coll. 513-516, avevano presentato l’edizione planchiana del Fitobasano, scrivendo: «Il celebre Sig. Giovanni Bianchi Ariminese, il quale tre anni sono fu chiamato dalla Munificenza dell’Altezza Reale del presente Gran Duca nostro Gloriosissimo Sovrano a professare l’Anatomia nella illustre Università di Siena, dà frequente occasione co’ suoi dotti scritti d’adornare queste Novelle, facendo egli onore a se stesso, e all’Italia nostra insieme». Nella seconda parte dell’articolo (V, 34, 21 agosto 1744, coll. 529-537), leggiamo che «dopo la morte del Cesio, e dopo l’accidente occorso l’anno dopo in Roma al Galileo, [...] cominciò l’Accademia a mancare». Si osservi la prudenza con cui si fa riferimento alle vicende di Galileo: non si parla di condanna ma di «accidente». (Nello stesso anno, sulle «Nov.», V, 15, 16 aprile 1744, col. 236, Lami scrive poi che si poteva abolire il Tribunale dell’Inquisizione, «essendo i Vescovi più che sufficienti a riparare a qualche piccolo errore, ed inconveniente, che potesse nascere alla giornata, non essendo necessario che un Magistrato instituito in certo bisogno e in certe circostanze, debba durare ancora cessato quel bisogno, e quelle circostanze». «Era troppo», osserva VENTURI: «Lami fu costretto a far appicciccare sulle righe incriminate qualche anodina affermazione, coprendo così le sue idee troppo ardite»: cfr. il cit. Settecento Riformatore. I., pp. 344-345, e M. A. MORELLI TIMPANARO, Autori, stampatori, librai per una storia dell’editoria in Firenze nel secolo XVIII, Firenze 1999, pp. 60-63. Nell’esemplare esistente in BGR, si trova il testo originale senza correzione. Sul tema cfr. M. INFELISE, I libri proibiti, Roma-Bari 1999, pp. 33 e 37.) Una prima anticipazione del Fitobasano planchiano, è contenuta nelle «Nov.», IV, 40, 4 ottobre 1743, coll. 625-628, in cui si narra che Bianchi vi stava allora lavorando in Firenze «in tempo di vacanze» dell’Università. Su questa edizione del Fitobasano, cfr. i fascc. 165-166 e 174-175, FGMB. (Sul totale insuccesso fiorentino dell’impresa editoriale, Lami parla a Bianchi il 26 dicembre 1744, FGLB, advocem: «neppure uno è venuto a ricercare il suo Fitobasano, che è un’opera degnissima, e di più da Lei illustrata, e adorna a meraviglia». Il progetto della ristampa delle «opere rarissime di Fabio Colonna», è illustrato da Bianchi ad Angelo Calogerà il 4 gennaio 1740 (cfr. Minutario, MS-SC. 969, cit., c. 30r.) Nel «Lynceorum Catalogus», a p. XXVII della premessa al Fitobasano, Bianchi scrive su Cesi: «Telescopium, Microscopiumque vel invenit, vel inter primos eorum usum propagavit, eaque his nominibus donavit». Di qui l’accusa a Planco di aver errato, sottraendo a Galileo il merito dell’invenzione del cannocchiale: cfr. D. VANDELLI, Considerazioni sopra la Notizia degli Accademici Lincei, Modena 1745, p. 42. Vandelli, docente «delle Matematiche» nell’Università di Modena, inoltre accusa Bianchi (ib., pp. 3-4) di aver omesso il nome di Alessandro Tassoni nel «Lynceorum Catalogus». Vandelli porta come fonte autorevole L. A. Muratori, anche se riconosce che quel nome manca nell’elenco ufficiale del 1625. Forse si tratta dello stesso elenco di trenta nomi, una cui copia è inviata a Bianchi da G. Bottari l’8 aprile 1750, FGLB, ad vocem. A Vandelli, Bianchi risponde con una Lettera nelle «Nov.», firmata con lo pseudonimo di Simone Cosmopolita ed apparsa in ben dieci parti nel tomo VII (1746, nn. 5, 10, 14, 15, 16, 17, 18, 22, 23, 25), coll. 71-76, 153-159, 215-222, 232-240, 242-249, 262-270, 276-284, 342-350, 357-360, 387-393. Al tema Bianchi accenna pure all’inizio di un’altra Lettera contro Vandelli (sopra un’iscrizione ravennate), nelle «Nov.», VIII, 13, 31 marzo 1747, coll. 202-207, dove riferisce che, nella «famosa Libreria dell’Eminentissimo Signor Cardinale Alessandro Albani», esisteva «l’Archivio dei Lincei con altri bellissimi documenti inediti di quella celebre Accademia»: in essi «non vien mai mentovato il Tassoni».La notizia dello scritto di Vandelli era stata data dalle stesse «Nov.», VII, 53, 31 dicembre 1745, coll. 846-847. (Sulla polemica tra Bianchi e Vandelli, cfr. M. MAYLENDER, Storia delle Accademie d’Italia, III, Bologna 1929, pp. 470-471; ed E. SCHETTINI PIAZZA, Bibliografia storica dell’Accademia Nazionale dei Lincei, Firenze 1980, pp. 28-31.) Nel cap. XX della «Lynceorum Notitia», premessa al Fitobasano, Bianchi, in base a «carte fogheliane» (cioè di Martino Fogel di Hannover), elenca anche tre lincei riminesi del XVII sec., Francesco Gualdi, Francesco Diotallevi, Francesco Battaglini: su di loro, cfr. C. TONINI, La coltura letteraria e scientifica in Rimini dal secolo XIV ai primordi del XIX, Rimini 1884, ed. anas. 1988, a cura di P. DELBIANCO, passim. Tonini riporta la smentita di monsignor Gaetano Marini a tali nomine lincee sia per Battaglini (p. 87-88), sia per Diotallevi (p. 192), sia per Gualdi (p. 133). Sulle «carte fogheliane» e sul caso di Tassoni, cfr. G. G. GABRIELI, Contributi alla storia dell’Accademia dei Lincei, Roma 1989, pp. 247-257; a p. 643, si scrive di «molto vaghe e malsicure notizie» divulgate da Bianchi riprese da quelle carte; a p. 469, inoltre, si parla dei tre riminesi, da Bianchi «enumerati fra i lincei, o piuttosto fra gli “amici dei Lincei”, ma che nulla», secondo GABRIELI, «ebbero a fare con l’Accademia»: Battaglini è qualificato poeta, Diotallevi, «dotto patrizio», e Gualdi «dotto archeologo ed antiquario collezionista, possessore d’un famoso Museo di antichità e curiosità naturali». Su come Bianchi si fosse procurate tramite il nobile di Livonia Diedrick Zimmermann le «carte fogheliane», oltre al carteggio (FGLB) dello stesso Zimmermann, cfr. pure la lettera di Bianchi a mons. Leprotti (Minutario, SC-MS 969, cit., e Lettere, SC-MS 963, cit., 21 aprile 1740). Il 26 novembre 1739 aveva scritto a Leprotti della difficoltà di trovare notizie sui Lincei e su Federico Cesi, aggiungendo che era stato vescovo di Rimini un Angiolo Cesi «il quale doveva esser Fratello dell’Autore dell’Accademia de’ Lincei». Angelo Cesi, realmente fratello di Federico (cfr. G. BENZONI, ad vocem, DBI, XXIV, pp. 239-243), fu vescovo di Rimini dal 1627 al 1646: il suo ricordo, scrive Bianchi, gli era stato tramandato da un’avola paterna morta nel 1709 ad ottantacinque anni d’età, nata quindi nel 1624. Circa la «Lynceorum Notitia», premessa al Fitobasano, in lettera senza né data né destinatario (cfr. Minute di lettere 1717-1770, SC-MS. 965, BGR, c. 130), Bianchi osserva come essa esamini «le principali gesta di que’ valorosi uomini, e il principio, e il progresso della Filosofia moderna che i Lincei suscitarono sulla scorta del Galileo, del Cesio, del Colonna, e di tant’altri valorosi uomini di quel consesso». Il cit. GABRIELI, pp. 247-248, ricorda che Planco per stendere la «Lynceorum Notitia» si servì, oltre che delle 162 «carte fogheliane», anche della manoscritta Brevis historia Academiae Lynceorum di Giovanni Targioni Tozzetti, bibliotecario fiorentino, composta nel 1740. In una lunga lettera a Planco (20 giugno 1752, FGLB, ad vocem, e GABRIELI, cit., pp. 270-272), Targioni Tozzetti ipotizza che quel manoscritto fosse stato inviato a Bianchi «verisimilmente senza il suo nome» da monsignor Leprotti a cui il fiorentino l’aveva in precedenza inoltrato. Invece Leprotti il 18 novembre 1739 (FGLB, ad vocem) aveva espressamente dichiarato che l’«Istoria dell’Accademia dei Lincei» trasmessagli era «del Sig. Targioni di Firenze». Al che Bianchi il 26 successivo rispose: «Unita alla Sua gentilissima de’ 18 del presente ricevo i fogli del Sig. Targioni contenenti le notizie intorno l’Accademia de’ Lincei» (Minutario, SC-MS 969, cit., cc. 1r/v). Bianchi non cita, nella «Lynceorum Notitia», il lavoro di Targioni che così osserva in quella sua unica lettera inviatagli: «Mi trovo spesso a vedere alcuni far uso di mie fatiche e scoperte, senza che io glie le abbia gentilmente comunicate, e neppure si degnano nominarmi: io non me ne offendo punto, anzi, confesso il mio peccato, internamente mi sento qualche accesso di superbia». Nella cit. lettera del 26 novembre Bianchi osserva che, dopo la morte di Cesi e la condanna di Galileo, l’Accademia dei Lincei «patisce una grande eclisse, contuttocciò» il suo nome si andava mantenendo, poiché «verso l’anno 1650» apparve un volume con scritti di alcuni accademici lincei (apertamente dichiarati tali [Johannes Terrentius, Johannes Faber, Federicus Caesius]) e dello stesso Colonna: è un trattato su piante, animali e minerali messicani, curato dal medico napoletano Marco Antonio Recchi (XVI sec.), e pubblicato a Roma nel 1651, in cui appare pure un elogio di Galileo (datato 1625). Questo volume reca nel frontespizio Nova plantarum, animalium et mineralia mexicanorum historia a Francisco Hernandez ... compilata, dein a Nardo Antonio Reccho in volumen digesta... (Francisco Hernandez visse dal 1517 al 1587). Segue un altro frontespizio calcografico: Rerum medicarum Nouae Hispaniae thesaurus, con indicazioni tipografiche («Romae MDCXXXXVIII»). L’Historia vera e propria occupa la prima parte (pp. 1-459). Seguono le aggiunte di J. Faber (pp. 460-840), le Annotationes et Additiones di Colonna al testo di Recchi (pp. 841-899), ed infine le Phytosophiae Tabulae «Principis Federici Caesi Lyncei» (pp. 901-952), edite «primum a Lynceis», con imprimatur del 1628 e presentazione di Francesco Stelluti datata 1651, in cui si ricorda il principe Cesi come istitutore «Academiae nostrae». Il volume, ideato dallo stesso Federico Cesi, uscì postumo a causa di «intoppi, contrarietà e lentezze» che s’aggiungono alla sua scomparsa, per opera di Francesco Stelluti, «l’unico superstite dell’avventura del 1603» (cfr. E. RAIMONDI, Scienziati e viaggiatori, «Storia della Letteratura Italiana, V. Il Seicento», Milano 1967, p. 238). Di N. A. Recchi e di questo volume (BGR, segn. CT 722) Planco parla nella «Lynceorum Notitia» alle pp. XVI-XX.
14 Planco scrive che la relativa deliberazione del Consiglio civico fu presa «il dì ultimo di Ottobre»: cfr. nei citt. Recapiti, p. IV. Infatti, il 31 ottobre 1744, come si legge in AP 875, Atti Consigliari 1735-1745, Archivio di Stato di Rimini (ASRi), c. 160v: i voti favorevoli furono 42 e i contrari 3. (Sul tema, cfr. pure i fascc. 176 e 179, FGMB.) Lo stipendio universitario di Siena era di trecento scudi fiorentini annui: quello assegnatoli a Rimini è inferiore di cento scudi annui (cfr. il fasc. 310, FGMB). L’offerta della cittadinanza nobile e dello stesso stipendio annuo di duecento scudi gli era già stata fatta in precedenza: nel cit. fasc. 310, FGMB, leggiamo che Bianchi «rifiutò l’oferta, e volle andare, e leggere la notomia pubblicamente in Siena per tre anni, insegnando insieme colà diverse altre cose privatamente [...]». Quest’offerta precedente (cfr. AP 875, cit., c. 99r, 23 settembre 1741) aveva ricevuto in Consiglio 34 sì e 10 no. Un’annotazione nella stessa c. 99r reca: «Adì 7 ottobre 1741 non ebbe effetto, per alcun modo per non aver egli accettato». Giuseppe Garampi il 16 marzo 1743 scrive a Bianchi, FGLB, ad vocem: «[...] ho udito alcuni (già suoi parziali) ora essere alquanto mutati da quel buon animo che prima per essolei nutrivano contuttociò gran fidanza io averei che venendo ella in Rimini potesse e colla sua presenza e col suo discorso facilmente rivoltarli in suo favore. Oltredicché forse alcuni ch’ella avea già contrarii spererei che ora non le potessero fare ostacolo alcuno».
15 Cfr. il fasc. 256, FGMB. L’incarico di «medico primario condotto della città», inizialmente confermato di sei anni in sei anni, diventa a vita il 28 agosto 1769: cf AP 877, Atti del Consiglio Generale, 1766-1777, ASRi, p. 126.
16 Cfr. nei citt. Recapiti, p. IV.
17 Cfr. l’epistola (che ritengo inedita) del 28 aprile 1750, FGLB, advocem: «Scrivo a favore di V. S. Ill.ma con tutto il calore immaginabile per la cattedra consaputa di Notomia [...] pel buon esito dell’affare».
18 Cfr. MASETTI ZANNINI, Carta e stampa, cit., passim.
19 In una lettera al libraio e stampatore veneziano Giovanni Battista Pasquali, a cui Bianchi chiese un piano di organizzazione della stamperia (MASETTI ZANNINI, Carta e stampa, cit., p. 121), Planco scrive: «Bisognerebbe nel tempo che si fa il torchio, e gettare i caratteri, far fare un’insegna di legno da mettere nel frontespizio, ed io penso di metterci una Lince, o sia un Lupo Cerviero con attorno le lettere che dicano Lynceis Restitutis. [...] Io le mando la figura della Lince, che posi nel Fitobasano, perché serva di norma come ha da essere l’animale nel legno, che bisogna vedere che abbia gli occhi vivaci, e che sia fiero, e che non paia un Gatto» (ib., p. 134). Sulla stamperia di Lami e sulle difficoltà dallo stesso incontrate in Firenze, cfr. M. A. MORELLI TIMPANARO, Autori, stampatori, librai per una storia dell’editoria in Firenze nel secolo XVIII, Firenze 1999, passim.
20 Cfr. MASETTI ZANNINI, Carta e stampa, cit., p. 120, nota 13. La lettera è del 1736.
21 Planco collaborò assiduamente alle «Nov.»: cfr. la mia comunicazione Lettori di provincia nel Settecento romagnolo. Giovanni Bianchi (Iano Planco) e la diffusione delle «Novelle letterarie» fiorentine. Documenti inediti, «Studi Romagnoli» LI (2000, ma 2003), pp. 335-377.
22 Cfr. MASETTI ZANNINI, Carta e stampa, cit., p. 125 (dove si ricorda dell’orgoglio di Bianchi «di emulare il Lami»), e p. 127 («Non mi è stato possibile sapere se il Bianchi avesse avuto in animo di stampare un giornale letterario-scientifico, sull’esempio, tanto per citarne uno già ricordato, di Lami, ma, nel caso, ci sarebbe da chiedersi se sarebbe stato in grado, considerazioni finanziarie a parte, di sostenerlo, dato il suo carattere esclusivista e litigioso pur a fronte di tanti meriti, e la tendenza, del resto già evidente nella scelta dei “suoi” Lincei e nelle vicende del sodalizio, a contenere nella sua cerchia illustre, ma assai ristretta, quella collaborazione»). Sul ruolo svolto da Lami con le «Nov.», cfr. il cit. VENTURI, Settecento Riformatore. I.,p. 334 («All’interno della cittadella della cultura egli contribuì non poco a stabilire una nuova scala di valori, che conduceva ad una vita più attiva e impegnata, meno teologica e più logica, meglio indirizzata ad una puntuale conoscenza dei fatti e delle cose, più cosciente dei propri limiti e delle proprie reali possibilità. Dopo l’appassionata difesa da lui compiuta della necessità e superiorità d’una vigile critica in ogni campo, religioso, storico, filosofico, non fu più possibile tornare indietro ad una pura e semplice compiacenza erudita, ad un accademico e letterario accumularsi di bei concetti, di belle parole e di belle notizie»).
23 Secondo Pasquale Amati, l’accademia planchiana faceva rivivere quella trecentesca eretta a Rimini da Jacopo Allegretti, la quale fu la prima a sorgere in Italia ed in Europa: cfr. in Bibliografia generale corrente d’Europa, vol. I, Cesena 1775, p. 5.
24 Il volume apparve nel 1688. Il resto dell’opera «è conservato manoscritto» in BGR: cfr. P. DELBIANCO, La Biblioteca Gambalunghiana, in Storia illustrata di Rimini, a cura di P. MELDINI e A. TURCHINI, IV, Milano 1991, p. 1126.
25 Su caratteri e limiti culturali dell’impresa, e circa i rapporti fra Garuffi e Muratori, cfr. A. TURCHINI, Giovanni Bianchi (Iano Planco), l’ambiente antiquario riminese e le prime esperienze del card. Garampi (1740-49), pp. 390-391, in L. A. Muratori storiografo, Atti del Convegno Internazionale di Studi Muratoriani, Modena 1972, Firenze 1975.
26 Nel Genio de’ letterati, si veda il piano editoriale illustrato a p. 119 del II tomo.
27 Questo titolo viene quasi sempre riprodotto come Biblioteca, ma sia nell’unico volume a stampa così chiamato, sia nei rimandi che troviamo all’interno del Genio de’ letterati, alle pp. 9 e 119,la dicitura corretta è quella che abbiamo riportato. La Bibbioteca è divisa in 130 titoli, «i quali contengono moltissime Erudizioni, Istoriche, Poetiche, Morali, varie, e di sagra Scrittura» (pp. 4-5). Secondo quanto Garuffi scrive nel Genio de’ letterati, la Bibbioteca costituisce l’opera iniziale di un ambizioso piano editoriale, i cui titoli pubblicati egli elenca nel suo articolo a p. 119.
28 Cfr. il cit. Modelli letterari, p. 294. Della figura e del ruolo di Garuffi a Rimini, ci siamo occupati nel cit. G. B. studente di Medicina, pp. 385-386.
29 Cfr. MASETTI ZANNINI, Carta e stampa, cit., p. 121, nota 16. Sulla situazione della Civica Biblioteca riminese, cfr. A. MONTANARI, Il contino Garampi ed il chierico Galli alla «Libreria Gambalunga». Documenti inediti, «Romagna arte e storia», n. 49/1997, pp. 57-74. (Francesco Garampi, fratello di dieci anni maggiore del cit. Giuseppe essendo nato nel 1715, il 9 maggio 1733, FGLB, ad vocem, scrive a Bianchi: «Vi è poi in Venezia, come forse le sarà noto, una scelta Libreria di opere le più rare, e moderna, e che senza riguardo a spesa si va aumentando da tutte le parti, aperta al pubblico con assiduo Bibliotecario». La frase nasconde un polemico riferimento alla «Libreria Gambalunga», mancante dei libri usciti negli ultimi cinquant’anni, e trasformatasi in un «ridotto da ciarle».)
30 Sul tema, cfr. A. MONTANARI, Per soldi, non per passione. «Matrimonj disuguali» a Rimini (1763-92): tra egemonia nobiliare ed ascesa borghese, «Romagna arte e storia», n. 52/1998, pp. 45-60; ID., Il pane del povero. L’Annona frumentaria riminese nel sec. XVIII, «Romagna arte e storia», n. 56/1999, pp. 5-26.
31 Cfr. MAYLENDER, op. cit., p. 473.
32 Cfr. R. MEROLLA, Lo Stato della Chiesa, in Letteratura italiana, Storia e Geografia, II, II, L’età moderna, Torino 1988, p. 1071.
33 Cfr. la Relazione delle solenni esequie... al cardinale Da Via, s.l. (ma Venezia)1740, p. IV («L’anno 1726 rinunziò liberamente il Vescovado [...], e portossi ad abitare in Roma», dove fu «impiegato in moltissime di quelle Congregazioni, spezialmente del S. Officio, e dell’Indice, della quale ultima divenne anche prefetto»). Il testo apparve anonimo: secondo le «Nov.» (XIX, 30, 28 luglio 1758, coll. 477-478), lo scritto, edito a Venezia, è opera di Bianchi (parte III del Catalogo dei suoi scritti, su cui cfr. ritorno infra). Questa Relazione fu recensita dalle stesse «Nov.», I, 22, 27 maggio 1740, coll. 349-351. Nello stesso anno della morte di Davìa, 1740, un sacerdote riminese, don Matteo Ugolini, pubblica in suo ricordo un’altra Orazion funerale (stampata ad Urbino presso Girolamo Mainardi). In G. FANTUZZI, Notizie degli Scrittori Bolognesi, tomo III, Bologna 1783, p. 252, si parla soprattutto della madre del cardinal Davìa (Vittoria Montecuccoli), e se ne ignora persino la data della morte.
34 Cfr. A. ROTONDÒ, La censura ecclesiastica e la cultura, «Storia d’Italia», V/II, Torino 1973, pp. 1487-1488. Qui si legge una lettera di Davìa ad Eustachio Manfredi (del 12 dicembre 1722) da cui abbiamo ripreso il giudizio riportato, e su cui ritorniamo infra, alla nota 37. Per collocare storicamente il giudizio di Davìa, si consideri che, nei Primi disegni della repubblica letteraria d’Italia di L. A. Muratori (1703), «l’esortazione conclusiva ai filosofi con-temporanei aveva già un’implicazione di razionalismo sperimentale, che rivelava l’influenza di Locke e preannun-ziava il nuovo corso il-luminista»: cfr. F. DIAZ, Politici ed ideologi, cit., p. 108. Si ricordi pure che, nelle muratoriane Rifles-sioni sopra il buon gu-sto (1708), il cap. XV ha come titolo: «Filosofia universale necessaria a tutte le Scienze ed Arti. [...] Sempre filoso-fare». Su questi temi ed i loro riflessi a Bologna ed a Rimini, cfr. il cit. G. B. studente di Medicina, p. 388.
35 Cfr. la cit. Relazione delle solenni esequie..., p. VI. Bianchi ricorda pure che «questo valoroso e magnanimo Cardinale [...] studiossi di rendere ornati gli animi de’ Cittadini d’Arimino suoi Sudditi, e degli altri con ottime Discipline» (p. V).
36 Così Bianchi scrive in una breve autobiografia contenuta nel cit. fasc. 310, FGMB, risalente al 1734, e non al 1740, come troviamo in A. TURCHINI, Scienziato, maestro e uomo di cultura, in «Giovanni Bianchi, Medico Primario di Rimini ed archiatra pontificio», a cura dello stesso TURCHINI e di S. DE CAROLIS, Verucchio, 1999, p. 17, ove inoltre si fa partire la scuola privata planchiana non, come vedremo, nel 1720 (cfr. i citt. Recapiti planchiani, p. II), ma nel 1726.
37 Dalla cit. lettera di Davìa, merita di essere ripreso il passo conclusivo, in cui Davìa si scusa di essersi «un po’ diffuso sul libro» di Locke, «per averlo letto e perché mi è sembrato averne trionfato allorché l’ho tolto dalla mente e dalla mano del mio Leprotti, ch’ella ben sa non essere ignorante nelle materie particolarmente dove gioca la mente». Oltre che a riportarci direttamente all’ambiente riminese, il documento ci obbliga ad aggiungere che il «rigorissimo piglio censorio» del Davìa, è presente pure nelle sue funzioni alla Congregazione dell’Indice, come risulta dal caso di mons. Celestino Galiani (1732), in cui Davìa torna a discutere del pericolo costituito da Locke: allargando l’orizzonte tematico, è utile ai nostri fini rammentare che Galiani fu definito, oltre che lettore di Locke, anche giansenista, eretico ed ateo, con una significativa intercambiabilità di termini per delineare l’unico concetto di seguace della nuova Filosofia. (Cfr. ROTONDÒ, op. cit., p. 1486-1487.) Sulla fortuna di Locke nel 1700 e la diffusione del suo pensiero da parte di G. C. Amaduzzi, cfr. A. MONTANARI, Amaduzzi, Scipione De’ Ricci ed il ‘giansenismo’ italiano, «Il carteggio tra Amaduzzi e Corilla Olimpica, 1775-1792», a cura di L. MORELLI, Firenze 2000, pp. XXVIII-XL. Mons. Celestino Galiani conobbe Bianchi e fu in corrispondenza con lui (cfr. ad vocem «Galiano», FGLB). Il 21 marzo 1732, invitandolo ad un viaggio nella Magna Grecia, Galiani gli scrive: «Qui ella rivedrebbe que’ galantuomini, che tant’ammirarono a Roma la sua erudizione». Ed il 19 settembre 1752: «L’Abate don Ferdinando Galiano mio nipote girando per l’Italia per conoscere e trattar le persone che più si distinguono nella letteratura, non ho potuto permettere, che egli passasse per costà senza che in nome suo e mio fosse ad inchinarsi a V. S. Ill.ma, che trà letterati della nostra Italia occupa un luogo tanto distinto. [...] Mi era dimenticato dirle, che ’l detto Abate Don Ferdinando, oltre ad altre sue operette assai spiritose, è autore del libro anonimo sopra le monete, che uscì quì l’anno passato, dedicato alla Maestà del Nostro Re delle due Sicilie: opera dotta e ben ragionata, che ha meritata la pubblica approvazione [...]». L’unica lettera esistente in FGLB di Ferdinando Galiani a Planco, reca la data del 3 aprile 1753: «Ho voluto sottoporre alla sua censura quell’opera della moneta, che uscita senza nome di autore al principio, si è poi fatto noto essere un mio saggio giovenile: né ho voluto scriverLe prima d’aver riscontro d’esser questa giunta a Venezia. Ora il mare, la distanza de’ luoghi, ed altri accidenti hanno fatto che non prima di questi giorni io abbia avuto riscontro dal Pasquali d’essergli giunto un ballotto di libri tra’ quali è questo, ch’io mi prendo l’ardire d’offerire a V. S. Ill.ma. Potrà compiacersi di farlo da persona conosciuta riscuotere in suo nome da esso Pasquali, a cui così stà ordinato. Lettolo, niente mi sarà più caro che il sentirne il suo savio (e se fosse possibile) acre giudizio. Nel tempo stesso io La prego a farmi erede di quella amicizia, che con pacifico possesso da tanto tempo è goduta da Monsignor mio Zio. [...] Di cose letterarie qui ci è poco o nulla di nuovo».
38 Bianchi ricorda con riconoscenza Leprotti anche per la pratica di Anatomia che gli fece fare in età giovanile, e che considerava un tirocinio dimostratosi utile ai successivi sviluppi della sua carriera, come si è ricordato alla nota 2: «non poco onore, ed utile ho io riportato essendo io stato [...] spontaneamente senza verun mio previo impegno dall’Imperial Consiglio della Reggenza di Toscana a professarla pubblicamente nell’Università di Siena prescelto» (fasc. 218, FGMB).
39 Cfr. P. MELDINI, Il medico di parrocchia, in San Vito e Santa Giustina, contributi per la storia locale, a cura di C. CURRADI, Rimini 1988, pp. 175-187. Contro tale divieto si esprime nel 1761 l’accademico linceo G. P. Giovenardi con una dissertazione «sopra l’utilità della scienza medica a Parochi spezialmente di campagna, recitata [...] la sera del 23 febbraio 1761 nell’Academia dell’E.mo Sig. Cardinale Valenti Vescovo di Arimino» (cfr. il ms. in due copie in Fondo Gambetti, Miscellanea Manoscritta Riminese, BGR[FGMMR], Giovenardi, don Giampaolo). Il padre Giustiniano Orsini scriveva il 7 febbraio 1747 a Bianchi (FGLB, ad vocem): «Il mio stato di sacerdote della Dottrina cristiana parerà forse men convenevolmente a tali studi, ma l’avere ne’ miei primi anni udito in Padova mia patria il non mai abbastanza lodato Antonio Vallisnieri primario professore di medicina in quell’Università a declamare contra rimedio sì barbaro [i vescicatori, n.d.r.]scuserà facilmente la lettura che ho triplicamente fatto della sua dotta dissertazione [...]». Contro l’abuso dei «vescicatorj», Bianchi si pronuncia in una seduta accademica del 1746: cfr. infra la dissertazione n. 4. La lettera di padre Orsini è in G. L. MASETTI ZANNINI, Vicende accademi-che del Sette-cento nelle carte inedite di I. P., in «Accademie e Biblio-teche d’Italia», XLII, 1-2, Roma 1974, p. 88. Sui rapporti tra Medicina e Religione, cfr. infra la lettera di padre Giuseppe Merati a Bianchi. (Nel 1826 vede la luce a Milano, sotto forma di dialogo, Il paroco istruito nella medicina, un trattatello in due voll. di Giacomo Barzellotti che si proponeva di fornire al «paroco» un’istruzione medica che gli consentisse di essere di «utilità spirituale e temporale» ai suoi popolani.)
40 MELDINI ricorda (Il medico di parrocchia, cit., p. 186, nota 66), che il testo è attribuito a Giovanni Antonio Battarra (del quale parleremo infra), la cui forma mentis e pratica filosofica sono però molto lontane dal modo di pensare che traspare da questo scritto. Atteso che, come lo stesso Meldini osserva, la grafia non è quella di Battarra; e che «il vuoto formalismo e il rigido conservatorismo» dello scritto «mal s’accordano con le opinioni pubbliche del Battarra», oltre che pensare, come fa Meldini, «se il velenoso scritto è davvero opera sua [...] a un ignoto e poco edificante sfondo di rivalità personali e colpi bassi», si potrebbe ipotizzare pure la funzione satirica del testo, con un rimando a polemiche circolanti tra il clero riminese. La dott. Simona Minzoni mi segnala che in due lettere di Battarra a Bianchi (FGLB, ad vocem) si parla di problemi anatomici: «la sera dei 22 Aprile scorso notomizzai un cadavere d'un affogato per mio esercizio e d’uno de’ miei che vuol attendere all’arte chirurgica» scrive il 28 maggio 1743; mentre il 23 settembre 1743, Battarra chiede a Bianchi di procurargli una licenza per sezionare i cadaveri «per esercizio mio e de’ miei scolari, dovunque io mi trovassi».
41 Cfr. il cit. Modelli letterari, pp. 290-292, non soltanto per le esperienze di Planco, ma pure per il contesto generale italiano. Gassendi «era un Canonico Cattolico, che la sapeva lunga (comm’ella dice)», scrive Giuseppe Garampi a Bianchi il 31 ottobre 1753 (FGLB, ad vocem). Gassendi «ripropone gli atomi e il vuoto come princìpi primi di tutte le cose all’interno di una nuova ontologia»: cfr. M. MAMIANI, La struttura dell’universo: particelle, forze e spiriti, «Storia della Filosofia. 4. Il Settecento», a cura di P. ROSSI e C. A. VIANO, Roma-Bari 1966, p. 4. «Critico del dogmatismo degli aristotelici, degli occultisti, dei cartesiani, Gassendi era vicino a posizioni libertine e teorizzava uno scetticismo metafisico che costituiva la premessa per l’accettazione consapevole del sapere ‘limitato’ della scienza»; secondo una «tesi centrale» di Gassendi, «la nuova scienza non è interessata né alle scolastiche quidditates rerum né agli arcana naturae dei maghi del Rinascimento: è conoscenza fenomenica del mondo»: cfr. P. ROSSI, La filosofia meccanica, «Storia della scienza moderna e contemporanea», Milano 2000, pp. 248-249. Su pensiero di Gassendi, Bianchi e la Nuova Scienza in ambito locale, cfr. A. MONTANARI, Nei «ripostigli della buona Filosofia». Nuovo pensiero scientifico e censure ecclesiastiche nella Rimini del sec. XVIII, «Romagna arte e storia», 64/2001, pp. 35-54.
42 Cfr. Lynceorum Restitutorum Codex,SC-MS. 1183, BGR, c. 2r. Il passo testuale è il seguente: «...ad eam autem rem nulla potior utiliorque reperitur exercitatio quam diligenter inquirere quid de re quaque doctissimi philosophi atque eruditissimi viri senserint: quorum tamen placitis et naturae ipsius investigatio, et propriae meditationes accedant, et sententiam collatio de rebus omnibus, et singulatim disserendi usus in eam partem quae verior sit». Cfr. MONTANARI, Modelli letterari, cit., p. 297; TURCHINI, G. Bianchi, l’ambiente antiquario, cit., p. 414. Il Codex è un manoscritto, in cui le «leggi lincee», sotto la data del 19 novembre 1745, occupano le cc. 2/3r. Seguono, bianche, le cc. 3v/19v. Il testo riprende dalle cc. 10r a 21r, con la cronologia del periodo 1749-1755. Quindi mancano in esso le notizie sul periodo 1745-48. Sul contenuto del Codex, cfr. MASETTI ZANNINI, Vicende accademiche, cit., p. 79, nota 47, dove è presentato un elenco dei fogli volanti che vi si trovano allegati.
43 «Academia Aristocratica esto».
44 Secondo Galileo, ogni esperimento deve essere misurabile, ripetibile e rivolto a stabilire un nesso di causa ed effetto tra due fenomeni. L’atteggiamento del «dotto» appare anche nella prefazione di Bianchi al Fitobasano, così riassunta dalle «Nov.», V, 34, 21 agosto 1744, col. 535: Planco «dice esser meglio ristampare i libri buoni antichi, che il pubblicarne de’ nuovi di dottrina comune, i quali non fanno altro che ingombrare le pubbliche, e le private Librerie, con perdita di tempo, e di danari per gli studiosi». Nel cit. Elogio di Bianchi scritto daAmaduzzi sull’Antologia romana, si legge: «Fu tenace della sua opinione, alla quale di rado rinunciava».
45 Cfr. A. FABI, Aurelio Bertòla e le polemiche su Giovanni Bianchi, «Quaderni degli Studi Romagnoli» n. 6, Faenza 1972, pp. 15-16.
46 Cfr. Giudizio libero, s. d. (Rimini 1776?), p. 1. Lo scritto è attribuito da FABI, Aurelio Bertòla e le polemiche, p. 16, a Francesco Ferrari.
47 Si allude qui alle Notti Clementine del Bertòla, su cui cfr. A. MONTANARI, Le Notti di Bertòla, Storia inedita dei Canti in memoria di Papa Ganganelli, Rimini 1998.
48 Cfr. A. M. BORGOGNINI, Riflessioni..., Lucca 1776, p. 9.
49 Bertòla dalla natìa Rimini, a dieci anni, nel 1763, è collocato, per le scarse risorse economiche della famiglia, nel seminario di Todi. Quando Pasini (1720-1773) diventa vescovo di quella città, lo accoglie presso di sé, essendovi un rapporto di parentela tra loro due. A quindici anni, Bertòla è mandato in monastero, a diciassette pronuncia i voti da olivetano. Sulla figura di Bertòla, cfr. A. MONTANARI, Biografia di Aurelio De’ Giorgi Bertòla, «Il carteggio tra Amaduzzi e Corilla Olimpica, 1775-1792», cit., pp. 389-398; ID., La filosofia della voluttà, Aurelio Bertòla nelle lettere di Elisabetta Mosconi, Rimini 1997; ID., Un «Diario» inedito di Aurelio Bertòla, «Quaderno di Storia n. 1», Rimini 1994; ID., Bertòla redattore anonimo del Giornale Enciclopedico. Documenti inediti, «Romagna arte e storia», n. 50/97, pp. 127-130; ID., Aurelio Bertòla politico, presunto rivoluzionario. Documenti inediti (1796-98), «Studi Romagnoli» XLVIII (1997, ma 2000), pp. 549-585.
50 Cfr. la Lettera pubblicata nelle «Nov.», XX, 10, 9 marzo 1759, coll. 153-157. Sulle successive edizioni della Lettera, cfr. DE CAROLIS, Opere mediche edite, in Giovanni Bianchi, Medico Primario..., cit., p. 81.
51 Cfr. «Il Caffè», 1764-1766, Torino 1998, p. 770. L’articolo di Verri è del 1766. Cfr. pure C. CAPRA, I progressi della ragione. Vita di Pietro Verri, Bologna 2002, pp. 228-229. Sullo scritto planchiano del 1759, cfr. S. DE CAROLIS, La produzione pubblicistica su questioni mediche, in Giovanni Bianchi, Medico Primario..., cit., pp. 45-46.
52 Secondo Condillac, «in quanto «cause fisiche», le «qualità» esistono realmente «nei corpi», ma esse danno soltanto «occasione alle impressioni che provocano sui nostri sensi»: cfr. G. PAGANINI, L’io e le idee, in Storia della Filosofia. 4. Il Settecento, cit., p. 248. Bianchi è completamente al di fuori del dibattito su questo tema.
53 L’epistola è in B. FADDA, L’innesto del vaiolo, Milano 1983, p. 192-193.
54 Questa notizia è in MONTANARI, Le Notti di Bertòla, cit., p. 75, nota 85.
55 Cfr. MAMIANI, op. cit., p. 5.
56 «Per Bianchi, la Filosofia è come il collante delle Scienze, un fattore che unifica e garantisce nell’indagine sulla realtà. Non è una disciplina a sé stante, con un suo sistema di conoscenze, sul tipo di quello che Amaduzzi formula nei suoi tre Discorsi». Cfr. A. MONTANARI, I compiti del giovane Amaduzzi alla scuola riminese di Iano Planco, «Riminilibri», 5, marzo 1994. Sui rapporti tra Bianchi ed Amaduzzi, cfr. A. MONTANARI, Giovanni Cristofano Amaduzzi e la scuola di Iano Planco, Centro Studi Amaduzzi, Accademia dei Filopatridi, Savignano sul Rubicone, III, 2003, consultabile in Riministoria, <http://digilander.libero.it/monari/spec/amaduzzi.684.html>; ID., Giovanni Cristofano Amaduzzi, illuminista cristiano, «Romagna arte e storia» n. 67/2003, pp. 67-88.
57 Cfr. Illuminismo e spirito sistematico di Condillac, in Che cos’è l’Illuminismo? I testi e la genealogia del concetto, Milano 1997, pp. 306-314.
58 Cfr. Enciclopedia o dizionario ragionato delle scienze, delle arti e dei mestieri (1751-1772), a cura di A. PONS, Milano 1966, pp.78-92.
59 Cfr. S. MORAVIA, Filosofia e scienze umane nell’età dei lumi, Milano 2000, p. 5. Qui segnaliamo il cap. I, «Filosofia e medicina in Francia nel XVIII secolo» ed il cap. II, «Epistemologia e medicina in Cabanis».
60 Cfr. il cit. fasc. 218, FGMB: è il prologo ad una dissertazione anatomica di Bianchi riguardante, come vedremo, il celebre caso di Giambattista Pilastri (su cui cfr. pure i fascc. 203, 204, 206, FGMB; Codex, cit., cc. 17v-18r; ed infine la Storia medica d’una postema nel lato destro del cerebello, pubblicata nella Raccolta d’opuscoli scientifici e filologici di A. CALOGERÀ, tomo XLVI, Venezia 1751, pp. 169-200). Nel «prologo Pilastri» del fasc. 218, FGMB, Bianchi tesse pure un elogio dello studio dell’Anatomia, sul quale ritorneremo. Come lui la pensava anche padre Giuseppe Merati; cfr. la lettera del 7 settembre 1759 (FGLB, ad vocem), riportata in Vicende accademi-che, cit., p. 106: «La scienza anatomica io dico, che sia il fondamento della medicina, e un medico senza tale scienza il comparo a un corpo senz’anima». Nella stessa lettera leggiamo: «Non so se ne’ tempi trasandati o ne’ presenti vi sia stato, o viva anatomico, che abbia separati ed anatomizzati tanti cadaveri quanti ne ha incisi, e minutamente osservata ogni minutissima cosa Vostra Signoria Illustrissima. Credo che tutte le volte si sia posto all’opera abbia alzata la mente a Dio e ammirata la sua onnipotenza, come avvenne a me una volta nel leggere solamente un libro che trattava delle vene del nostro corpo». Sul caso Pilastri, cfr. il recente S. DE CAROLIS, Ripicche e polemiche fra medici del Settecento: Giovanni Bianchi ed il caso clinico del “contino” Pilastri, «Il Bollettino dell’Ordine dei Medici … della Provincia di Rimini», IV (2003), 2, pp. 11-19.
61 Cfr. il fasc. 219, FGMB. Il prologo è relativo alla dissertazione lincea (n. 18) del medico ed accademico dei Lincei planchiani G. D. Zamponi, sulla riproduzione dei vermi negli intestini del corpo umano.
62 Questo pensiero di Bianchi deriva dal «galileismo malpighiano», secondo cui la «filosofia è il fondamento della medicina, senza la quale questa vacilla»: cfr. E. RAIMONDI, Ragione ed erudizione nell’opera del Muratori, ne I sentieri del lettore, II, Bologna 1994, p. 141. (Il testo in origine è apparso ne I lumi dell’erudizione. Saggi sul Settecento italiano, Milano 1989, pp. 79-97.) In questa sua pagina, Bianchi accusa i medici della Marca, dove Zamponi esercitava la professione, di agire in base a «ciancie» e «fanfaluche», usando unicamente «purganti eccedenti» e «vescicatorj», «per li quali, si può dire, che essi piuttosto scortichino, che medichino i loro clienti». Ma le cose non dovevano andare diversamente anche altrove, se Amaduzzi scrive a Corilla Olimpica il 26 aprile 1777 da Roma: «I Medici e i Chirurgi, i quali hanno sin ad ora storpiato ed ucciso il genere umano impunemente»: cfr. p. 49 del cit. Carteggio tra Amaduzzi e Corilla Olimpica, 1775-1792.
63 Sono fogli del fasc. 310, FGMB. Nel primo (già cit., del 1734), l’Accademia vescovile è detta «di Filosofia, e di Scienze»; nel secondo, «di scienze, e d’erudizione».
64 Cfr. V. FERRONE, Scienza, in Illuminismo, Dizionario storico, Roma-Bari 1997, p. 339.
65 Cfr. W. TEGA, Dalla ‘raison par alphabet’ alla scienza generale. Geografie del sapere in Francia tra XVIII e XIX secolo, in L’età dei Lumi, Saggi sulla cultura settecentesca, a cura di A. SANTUCCI, Bologna 1998, p. 121: nasce così una «vera classificazione che pretendeva di ricomprendere, entro un quadro alla fine unitario e pacificato nell’obbedienza a una sola legge universale, i diversi ordini di fatti e le varie discipline, le quali erano destinate ad aggiornare il loro statuto e il loro ambito in rapporto allo sviluppo proprio di ciascuna e a quello di tutte le altre, fino a quando non fossero tutte transitate dallo stato congetturale e approdate finalmente a quello positivo» (ib., pp. 113-114).
66 Sull’argomento, cfr. A. MONTANARI, Notizie inedite su Iano Planco, BGR, segn. C 1908, op. 4. Parte di questo materiale è stato utilizzato nella cit. Spetiaria del Sole. Per documentare gli studi filosofici di Bianchi, cfr. i fascc. 332, 337 e 339, FGMB, contenenti rispettivamente un Elogio di Locke, 1705; un testo di Newton, 1717, ed i Principi matematici della Filosofia Naturale (anonimo, ma dello stesso Newton). Per alcuni testi filosofici della biblioteca planchiana, cfr. il cit. Modelli letterari, pp. 290-292. I Cataloghi e indici della Biblioteca di Giovanni Bianchi sono in SC-MS. 1352, BGR.
67 Segue la constatazione che se la Filosofia è «la medicina delle malatìe dell’anima», «chi non ne profitta è sempre un Filosofo imperfetto». Cfr. il cit. Elogio. Su Amaduzzi filosofo, vedi la ristampa anastatica de La Filosofia alleata della Religione, Rimini 1993, con appendice a cura di A. MONTANARI, del quale cfr. pure il capitolo G. A., ‘talpa’ giansenista a Roma, in Lumi di Romagna, Rimini 1992, pp. 35-41.
68 Cfr. la cit. Bibbioteca, pp. 57-58.
69 Il Discorso di D’ALEMBERT si può leggere in Enciclopedia o dizionario ragionato delle scienze, delle arti e dei mestieri (1751-1772), cit., ed anche in D’ALEMBERT-DIDEROT, La filosofia dell’Encyclopédie, Bari 1966.
70 Cfr. MASETTI ZANNINI, Carta e stampa, cit., p. 127. Viene da chiedersi quanto la vicenda della condanna all’Indice abbia pesato sull’ampliamento dell’accademia riminese, aldilà di questi aspetti legati alla psicologia ed al comportamento di Bianchi.
71 Cfr. il fasc. 65, FGMB.
72 Cfr. il cit. Modelli letterari, p. 278. Bianchi, «preso da gravissimo increscimento di dover fare cogli altri perdita di tempo così inutile, e nauseosa con animo veramente virile, e coraggioso, abbandonò quelle Scuole, risoluto di voler essere egli stesso Maestro assai migliore di se medesimo»: G. P. GIOVENARDI, Orazion funerale in lode di Monsig. Giovanni Bianchi, Simone Occhi, Venezia 1777, p. XI. (P. AMATI, a proposito di questa Orazione, scrive nel III vol. della cit. Bibliografia generale, p. 393, che in essa si vedono «alcune verità odiose».) Il titolo di monsignore spettava a Bianchi quale archiatro pontificio.
73 Da una lettera a Bianchi di Stefano Galli (di cui diremo infra), si ricava che una serie di notizie sulla Medicina era materia comune per tutti gli allievi della scuola planchiana: «di medicina non ne mostro per niente, e ne ho solo qualche idea per quello che ho sentito dire da lei, quando avevo l’onore ed il vantaggio d’esserLe scolaro», Roma 6 aprile 1754 (FGLB, advocem). Questa lettera denuncia senza mezzi termini la crisi della pratica medica: «sono qui i medici tali, che io prego Dio di non averne bisogno. Quelli che hanno maggiore credito fanno cure alle volte che sembrano strane fino a me [...]». Padre Paciaudi aveva espresso parere analogo, quattro anni prima: «a Roma più de’ medici che del male si ha da temere»: cfr. COLLINA, op. cit., p. 99.
74 Cfr. GIOVENARDI, op. cit., p. XXVII. Lo stesso G. P. Giovenardi si adopera, alla morte di Planco, per la riapertura della sua scuola privata, assieme al di lui nipote, il dottor Girolamo Bianchi e a don Filippo Zambelli: cfr. la lettera di G. P. Giovenardi a Girolamo Bianchi del 14 dicembre 1775 (Planco era morto il 3 dicembre dello stesso anno), con allegati il testo ms. di un volantino e la relativa edizione a stampa nella cit. cartella Giovenardi, don G. (1172), FGMMR. Il volantino, diretto «a’ Studiosi Giovani Riminesi, ed amanti della soda letteratura», annunciava l’apertura di una «pubblica Scuola di Medicina, e lingua Greca» dotata dell’«ereditata sceltissima, e copiosissima Libreria in ogni genere di Scibile», e con «il comodo di potere fare le sezioni Anatomiche in quest’Ospedale» di cui Girolamo Bianchi era medico. Don Filippo Zambelli è qualificato nel volantino come allievo dell’«incomparabile Defunto» Giovanni Bianchi. Nella minuta di tale documento (di mano di Giovenardi, come si legge in un foglietto allegato), Bianchi è invece detto «immortale maestro». (Il vescovo di Rimini Andrea Minucci, 1778-1779, pubblica un Progetto di letteraria Accademia che si erige in Vescovado, di cui in BGR cfr. l’esemplare con segn. 11.MISC.RIM.CLIX.60. L’accademia doveva risvegliare «il genio, il gusto, e l’amore delle scienze».)
75 Cfr. «Nov.», VIII, 41, 13 ottobre 1747, col. 652: è la recensione di un trattato sui fulmini di S. Maffei, nella quale è citato Bianchi che «ad una perfetta cognizione delle cose della Natura accoppia una vasta intelligenza di lingue erudite, e una piena notizia di tutte le cose di antichità».
76 Da SG, ad vocem, si ricava che la nomina avviene su raccomandazione del cardinal Legato Mario Bolognetti. Ma dal fasc. 117, Comentario della vita dell’Ab. Giovanni Antonio Battarra (che sembra essere uno scritto autobiografico), in SC-MS. 227, Miscellanea Ariminensis Garampiana, Apografi, BGR, apprendiamo che tale nomina non fu fatta perché Bianchi non possedeva i requisiti richiesti dalle disposizioni testamentarie che finanziavano quella Cattedra, cioè «non era prete». I candidati erano due, Bianchi e Stefano Galli: entrambi furono fatti ritirare, anche se Galli aveva titolo a concorrere. Poi la scelta cadde su G. A. Battarra. Altre notizie al riguardo si ricavano dalle lettere di G. Garampi, FGLB, ad vocem. Garampi si adoprò, sua sponte, affinché Bianchi rinunciasse a favore di Galli, alla cui «povera famiglia» tornava utile «questo piccolo sussidio» della Cattedra (lettera del 6 marzo 1751). Circa l’assegnazione della Cattedra medesima, in AP 874, Atti del Consiglio Generale, 1746-1760, ASRi, c. 98v, si trovano i memoriali presentati dallo stesso Battarra e da un altro concorrente, don Filippo Baldini. Battarra dichiara di avere tutti i requisiti richiesti per «avere studiata la Logica, con tutta la Filosofia, ed altre Scienze intorno dieci anni sotto del celebre Sig. Dott. Giovanni Bianchi, e di più avendo insegnata pubblicamente la Logica, e tutta la Filosofia nella Terra di Savignano per quattro anni continovi». Pure don Baldini cita Bianchi quale suo attuale docente di Lingua greca. (Al tempo, leggiamo nel cit. Comentario, la città di Rimini era «divisa in due Fazioni per certe ridicole ettichette insorte fra la Nobiltà, le quali per quanto fossero piccole tuttavia divisero ed innasprirono gli animi de’ Cittadini; gli uni s’appellavano Tabbarrini, e i contrari dicevansi Tabbarroni».)
77 Cfr. nei citt. Recapiti, p. IV. I nomi di questi venticique allievi si ricavano da un elenco manoscritto compilato da Bianchi in altro documento del cit. fasc. 310, FGMB: sedici frequentano le lezioni di Logica, tre di Greco e sei di Medicina. Ecco i loro nomi (da noi ordinati in ordine alfabetico): 1. Aldini Gioseffanton (Cesena, Logica); 2. Almeri Michele (Rimini, Logica); 3. Baldini, dottore in teologia ([Filippo], abate, Rimini, Greco); 4. Bartolucci Antonio («cirusico del Pubblico», Rimini, Medicina); 5. Bedinelli Francesco Paolo (Pesaro, Medicina); 6. Brunelli Cesare (Rimini, Logica); 7. Brunelli dottor Giambattista (Rimini, Medicina); 8. Fabbri Luigi (abate, Rimini, Greco); 9. Ferri (abate, Montescudo, Logica); 10. Franciolini Curio (Iesi, Logica); 11. Gaspari (abate, Montescudo, Logica); 12. Genghini Giuseppe (Rimini, Logica); 13. Gervasi, padre («maestro di studi agostiniano di Napoli», Greco); 14. Gori (abate, Santarcangelo, Logica); 15. Graziosi ([Ubaldo], abate, Montescudo, Logica); 16. Maltagliati Gaetano (Rimini, Medicina); 17. Melli Paolo (abate, Rimini, Medicina); 18. Menghi (abate, Santarcangelo, Logica); 19. Morelli (abate, Rimini, Logica); 20. Preti (abate, S. Giovanni in Marignano, Logica); 21. Tassini Andrea (abate, Pesaro, Logica); 22. Tononi (abate, Coriano, Logica); 23. Vasconi Girolamo (abate, Coriano, Medicina); 24. Zangari Giovanni (Rimini, Logica); 25. Zavagli Antonio (Rimini, Logica). Circa la loro provenienza geografica, tredici sono di Rimini, uno di Iesi, due di Santarcangelo di Romagna, tre di Montescudo, due di Coriano, uno di San Giovanni in Marignano, due di Pesaro ed uno di Cesena. (Questo documento reca in IV ed ultima facciata: «1751. Prehensationes Inutiles Pro Cathedra Logicae», di cui si è detto alla nota 76.) In altro testo (databile al 1734, fasc. 310, FGMB), Bianchi scrive soltanto di avere allora venticinque allievi, «tra quali molti sono forastieri che si trattengono in Rimino per udirlo». Nei Recapiti (del 1751), alle pp. VI-VII leggiamo: «Qui si dà un catalogo degli scolari, che più si sono distinti, e che sono usciti dalla scuola fatta dal Bianchi in Rimino, tralasciandosi di mentovare quegli scolari, ch’ebbe in Siena, e che si distinguono». Da tale «catalogo» riportiamo solamente i singoli nominativi, mettendoli in ordine alfabetico e numerandoli. Tralascio ogni altra notizia in esso inserita da Planco, e segnalo con (*) i dieci medici presenti nell’elenco: 1. Baldini Giuseppe (*); 2. Barbari Innocenzo; 3. Barbette Gregorio (*); 4. Bartoli Giuseppe; 5. Battaglini Andrea; 6. Battarra Giannantonio; 7. Bentivegni Girolamo; 8. Bentivoglio Davìa Laura; 9. Bonelli Innocenzo; 10. Bonioli Antonio; 11. Brunelli Giambattista (*), già cit. in fasc. 310; 12. Bufferli Pier Crisologo (*); 13. Buonamici Niccola; 14. Cella Giovan Maria; 15. Cenni Lucantonio; 16. Colonna Daniello (*); 17. Draghi Paolo Andrea (*); 18. Fabbri Francesco; 19. Fabbri Giovanni; 20. Fosselli Mauro; 21. Galli Celestino; 22. Galli Stefano; 23. Garampi Giuseppe; 24. Ghigi Pietro; 25. Giovenardi Gianpaolo; 26. Giovenardi Mattia; 27. Godenti Pietro; 28. Graziosi Ubaldo, già cit. in fasc. 310; 29. Lapi Pier Paolo; 30. Legni Francesco (*); 31. Marcaccini Francesco; 32. Massa Niccolò; 33. Mastini Severino; 34. Mussoni Pietro; 35. Pasini Francesco Maria; 36. Pecci Carlo; 37. Piceni Giuliano; 38. Pizzi Gian Carlo (*); 39. Righini Cassiano (*); 40. Santini Lorenzo Anton (*); 41. Serpieri Giulio Cesare; 42. Torri Cesare; 43. Vitali Giuseppe; 44. Zampanelli Marino. Bianchi omette i nomi di Lorenzo Ganganelli, su cui cfr. alla nota 188, e di Antonio Maria Brunori, ricordato invece da GIOVENARDI, op. cit., p. XXX, come «soggetto di merito, ed elegante Poeta» che «fu per molti anni valente Maestro di Belle Lettere in questo Seminario». In epoca successiva, furono allievi di Planco anche il cit. G. C. Amaduzzi (1740-92), Francesco Bonsi (1722-1803) e Gaetano Marini (1742-1815). L’unica donna presente nel «catalogo» è la già ricordata bolognese Laura Bentivoglio Davìa, «di profonda dottrina, e di grande erudizione», come scrive G. P. GIOVENARDI, op. cit., p. XXXII. Secondo il cit. BRIZZI, anche Giuseppe Davìa fu allievo di Planco. (Il 15 novembre 1755, «Giuseppe Senator Davia» ringrazia Bianchi «per l’eruditissimo discorso sopra l’Arte Comica», grazie al quale ha «avuto nuovo motivo di commendare il suo bel talento»: cfr. FGLB, ad vocem). Ai nomi riportati nella presente nota va aggiunto anche quello ricordato alla nota 74, di don Filippo Zambelli. Ricordiamo infine che di Innocenzo Barbari, il 14 aprile 1757 Bianchi scrive che era stato uno dei suoi primi scolari, e che allora era «Curato di S. Maria del Mare» a Rimini: cfr. Lettere a Giuseppe Garampi, SC-MS 208, BGR, c. 1678. In tale lettera leggiamo pure che Innocenzo Barbari discende dalla famiglia a cui appartiene Giuseppe Antonio Barbari di Savignano, che «fu in Bologna scolaro del Montanari, e credo anche del Cassini, e fu condiscepolo ed Amico del Guglielmini, col quale tenne carteggio per cose fisico-mattematiche, e specialmente per cose astronomiche finché visse il Guglielmini». Giuseppe Antonio Barbari (1647-1707) fu autore de L’iride, opera fisicomatematica, testo che «si ritrova stampato in Bologna l’anno 1678 avendo nell’anno 1677 il Guglielmini stampata una lunga dissertazione sopra una fiamma volante osservatasi in Faenza, ad imitazione della quale il Barbari dovette stampare questo suo libro dell’Iride». Questa è un’opera oggi del tutto dimenticata ma nel XVII sec. considerata importante nella polemica contro il dogmatismo aristotelico. Di essa si conserva un esemplare nella British Library di Londra. Forse è quello donato nel 1680 al segretario della Royal Society, Robert Hooke, da Marcello Malpighi (1628-1694). Nel 1692 Barbari era stato invitato alla cattedra di Matematica dell’università bolognese. In un documento pubblicato su Internet (web.tiscali.it/ghirardacci1/santi/celli/celli.htm), riguardante la beatificazione di Gregorio Celli, si leggono varie notizie sulla famiglia Barbari. Nel 1757, il nostro don Innocenzo aveva 49 anni. Si ricordano pure un Giovanni Antonio Barbari cittadino verucchiese di anni 47, ed il «Signor Capitano Gio. Antonio Barbari da Verucchio morto due anni sono in circa, in età di ottanta, e più anni».
78 Leggiamo nell’autobiografia latina, p. 399, che «et privatim Philosophicas, et eruditas [exercitationes instituit]».
79 Cfr. le «Nov.», VI, 53, 31 dicembre 1745, coll. 842-846. In GABRIELI, op. cit., p. 1650, ci sono alcuni errori relativamente all’elenco del nucleo originario dei Lincei riminesi: manca Mattia Giovenardi; si parla di Stefano «Gallo» anziché Galli, di G. P. «Giovernardo» anziché Giovenardi; manca la data di nascita di Battarra (1714); è errata la data di morte di Garampi (1742, anziché recte 1792); si cita il medico «Barbetto» anziché Barbette. Tale elenco si dice ripreso da D. CARUTTI, Breve storia dell’Accademia dei Lincei, Roma 1883 (pp. 99-103, 190 ss., 225-227), che non abbiamo però potuto controllare. Dei rinnovati Lincei riminesi, GABRIELI parla anche a p. 1632, sostenendo che essi vissero «meno d’un decennio, soccombendo un’altra volta all’immaturità dei tempi ed alla mancanza di potenti protettori». Nel 1752 Bianchi invia a Lami una «nuova lista de’Lincei» da inserire nel tomo del 1745 in ristampa: ma Lami rifiuta «perché ne nascerebbono degli assurdi, e degli anacronismi, essendovi registrati de’ Lincei posteriori di tempo alla vecchia nota già pubblicata», e perché Lami è d’accordo «co’ Superiori, per non incontrare difficoltà, che le Novelle passate si ristampassero tali quali erano, senza mutazione alcuna»: cfr. lettera di Lami, 21 aprile 1752 (FGLB, ad vocem).
80 Sulla figura di Stefano Galli, cfr. MONTANARI, Il contino Garampi ed il chierico Galli alla «Libreria Gambalunga», cit.: Bianchi definisce Galli «uomo erudito specialmente nelle lingue de’ dotti, Greca e Latina»; cfr. «Nov.», X, 29, 18 luglio 1749, col. 461.
81 Su G. P. Giovenardi, cfr. la biografia contenuta nel fasc. 117, FGMB. Egli fu parroco nella «ricca Pieve de’ SS. Vito e Modesto» a San Vito: cfr. G. URBANI, Raccolta di Scrittori e Prelati Riminesi, SC-MS. 195, BGR, p. 764. Le «Nov.», IV, 46, 15 novembre 1743, coll. 731-733, presentando di un’iscrizione trovata a San Vito e spedita in copia da Bianchi al periodico fiorentino, scrivono che G. P. Giovenardi era «uomo erudito, ed eloquente, e nelle Lettere Latine, e Greche molto versato»: qui si osserva pure che la parrocchia di San Vito sorge «sulle sponde del famoso Rubicone», detto allora Luso (od Uso). Le «Nov.», VII, 50, 16 dicembre 1746, col. 790, ribadiscono che il Luso era «il vero Rubicone degli Antichi», mentre i Cesenati identificavano lo stesso Luso nell’Aprusa (Ausa) di Plinio. (Plinio, Naturalis historia, III, xv, scrive: «Ariminum colonia cum amnibus Arimino et Aprusa, fluvius Rubico, quondam finis Italiae». Riprendo il testo dall’ed. pisana del 1977, libri I-V, p. 325.)
82 Sulla figura di Mattia Giovenardi, cfr. A. MONTANARI., Due maestri riminesi al Seminario di Bertinoro. Lettere inedite (1745-51) a Gio-vanni Bianchi (Iano Planco), «Studi Romagnoli» XLVII (1996, ma 1999), pp. 195-208. Mattia Giovenardi non risulta aver tenuto alcuna dissertazione ai Lincei, mentre dalle sue lettere a Bianchi, ricaviamo notizie di vari progetti: «Io le mando qui rinchiusa la dissertazione, la quale non può arrivare all’eccellenza di quella del Sig. Canonico Pasini, ne meno di quella del Sig. Abbate Galli e quel che è peggio, avrà più borra, che quella del Coprofago sì per cagione del mio debole talento, e poco sapere; oltre sì ancora perché è stata composta in tempi freddissimi, e tra l’orribile sibilo degli Aquiloni che regnano su questo monte» (Bertinoro, 11 dicembre 1745, FGLB, ad vocem): di Galli, è la dissertazione n. 2; non risulta dai documenti alcuna dissertazione di Pasini. (Il «Coprofago» è Battarra, autore delle dissertazioni nn. 1, 7, 21: forse era detto così perché, vestendo di nero, richiamava l’immagine, per i suoi nemici, dello scarabeo stercorario, come autorevolmente mi è stato spiegato.) Bianchi chiede a Giovenardi di «impinguare e ripulire nelle vacanze di queste feste» il testo inviatogli (lettera di Giovenardi, 18 dicembre 1745). Il 10 maggio 1746 Giovenardi scrive a Planco: «Io avrei intenzion di fare un’altra dissertazione, quando a lei piaccia, sopra i nicchj de pesci impietriti, che si ritrovano nelle viscere de monti». Il successivo 24 novembre Giovenardi invia da Bertinoro «una dissertazione intorno l’origine de monti, ed un frammento di pesce impietrito da me ritrovato sul monte de capuccini di questa città». Nel 1748 progetta una dissertazione «o sopra la gravità de corpi, o sopra la loro inerzia» (10 febbraio); poi la stende «intorno l’inerzia» (2 marzo e 12 marzo).
83 Egli diventa «Pro Scriba» quando Galli si trasferisce a Roma: cfr. il diploma accademico di G. Lami (1750), allegato al ms. 1183, BGR. Sul diploma adottato da Bianchi, cfr. GABRIELI, op. cit., p. 1644. Sulla medaglia coniata per Bianchi, cfr. p. 1647. (DE CAROLIS, nella cit. Produzione pubblicistica..., p. 36, riferisce invece di due versioni della stessa medaglia.) Essa mi pare ricalcare, per la disposizione dell’immagine di Planco, quella di G. B. Della Porta, riprodotta da GABRIELI nella tav. XXI.
84 Nelle «Nov.», VIII, 4, 27 gennaio 1747, col. 59, a proposito di un’iscrizione che Garampi gli aveva inviato in copia, Bianchi lo definisce «cavaliere erudito nostro Paesano, che ora si ritrova in Roma».
85 Cfr. il cit. TURCHINI, G. Bianchi, l’ambiente antiquario, passim. Sulla figura di Garampi, cfr. L. TONINI, Biografia del Card. Giuseppe Garampi, a cura di E. PRUCCOLI, Rimini 1987; ed oltre i citt. Il contino Garampi ed il chierico Galli alla «Libreria Gambalunga», e Lumi di Romagna, pp. 27-33, v. anche P. DELBIANCO, Il fondo Eredi Garampi, in La Biblioteca Civica Gambalunga. L’edificio, la storia, le raccolte, a cura di P. MELDINI, Rimini 2000, p. 50, ed U. DELL’ORTO, La Nunziatura a Vienna di G. G. 1776-1785, Città del Vaticano 1995.
86 «Egli per dare più spedita opera agli studj» si recò «a Firenze ove gli venne fatta ben presto la conoscenza del Lami, grande Filologo del suo tempo, il quale, trovato lui giovanetto di grandi speranze, lo ebbe subitamente nella sua amicizia, e messolo più addentro nello studio delle lettere, e nella cognizione delle antichità, già fin dall’allora predisse a quanta fama un dì sarebbe salito. Poco appresso passato a Modena, non diversamente fu accolto dal gran Muratori, col quale troviamo già esser stato anche prima in qualche letterario carteggio [...]»: cfr. L. TONINI, Biografia del Card. Giuseppe Garampi, cit., p. 21.
87 Nel fasc. 121, FGMB, si trova un certificato del 1734 che attesta la frequenza per sei anni della scuola di Planco, ed i meriti del giovane Santini (originario di Savignano), il quale fu superiore a tutti gli altri alunni. Su Santini presentiamo altre notizie infra, alla nota 104.
88 Nel 1761 Barbette diviene «Primo medico» di Macerata: cfr. lettera del 2.7.1761 di G. Bertozzi a Planco (FGLB, ad vocem).
89 Cfr. nei citt. Recapiti, p. VII. In questo scritto (1751), ci sono ulteriori precisazioni per gli accademici dei Lincei: Barbette, ad esempio, era allora Primario di Orvieto; Stefano Galli, mansionario della Cattedrale di Rimini; Gian Paolo Giovenardi, arciprete di San Vito; Mattia Giovenardi, professore pubblico di Filosofia in Santarcangelo; Giuseppe Garampi, pro-archivista di San Pietro a Roma. Garampi, ricevuti e letti i Recapiti, il 24 marzo 1751 (FGLB, ad vocem) osserva a Bianchi che, sotto il nome di «Archivista di San Pietro», s’intende «quì propriamente l’Archivista della Chiesa ò Capitolo. Ma l’Archivio del quale io sono Prefetto chiamasi il Secreto Apostolico Vaticano, a differenza pure di altri Archivi Apostolici che sono quì in Palazzo». Lo stesso Garampi il 16 marzo 1743 (ib.) aveva scritto a Bianchi su Barbette: «Io non faccio caso che Barbette abbia in mano molta nobiltà che medica». Circa Giovanni Maria Cella, nella cit. lettera del 14 aprile 1757 a G. Garampi (SC-MS 208, BGR) leggiamo che Cella allora era «Mastro di Casa del Sig. Andrea Battaglini», e che «si compiaceva di cose matematiche». G. RIMONDINI, Il carteggio tra Giovanni Bianchi e Tommaso Temanza, introduzione a «Delle antichità di Rimino di Tommaso Temanza», ed. anast., Rimini 1996, pp. 32-33, nega che Cella sia stato discepolo di Bianchi ed un «insigne matematico» (come invece presentato in C. TONINI, La coltura letteraria e scientifica, cit., II, p. 267): «Era un famigliare dei Battaglini con funzioni ammnistrative, che aveva avuto da monsignor Marco Battaglini, vescovo di Cesena e tutore di Andrea, il compito di istruire il giovane nipote negli studi elementari, e specialmente di insegnargli la geometria». Ma lo stesso Rimondini riporta (p. 32) che, nella già ricordata biografia di Andrea Battaglini, apparsa nei Memorabilia di Lami (II, I, p. 133, Firenze 1747), Bianchi loda Cella «quale viro egregio et in mathematicis erudito». Pure nella mentovata autobiografia latina (p. 374), Bianchi aveva definito Cella come «viro in mathematicis erudito».
90 Il titolo completo recita: Delle uova e dei nidi degli uccelli. Aggiunte in fine delle Osservazioni, con una dissertazione sopra varie specie di cavallette,Venezia 1737. Sulla figura di Zinanni ed i suoi rapporti con Bianchi, cfr. infra la nota 109.
91 Su Cenni, cfr. il cit. Due maestri riminesi.... Nei citt. Recapiti, p. VII, si ricorda che Cenni nel 1751 era «maestro di rettorica nel seminario di Bertinoro». Prima di diventare accademico, è stato «tiro per aliquot annos» (ms. 1183, cit., c. 13r). Il tirocinio doveva durare almeno due anni secondo la legge VIII dei Lincei. Nel 1764 Cenni fonda a San Marino, dove faceva il maestro di scuola, l’«Accademia dei Titani», assumendo il nome di Climeneo Cretense. Il motto accademico dei Titani era «Decus et Libertas».
92 La notizia della presenza del medico Luigi Masi tra i Lincei riminesi, si deve a MASETTI ZANNINI (cfr. le citt. Vicende accademiche, p. 72). Ad una lettera del 21 aprile 1771 (FGLB, advocem), lo stesso Masi allega un Compendio de’ Requisiti propri, da cui apprendiamo che si era laureato a Macerata nel 1756, e si era poi specializzato a Bologna, conseguendo il 30 agosto dello stesso anno «la Matricola» a Roma. Fu studioso di Anatomia, ed esercitò a Roncofreddo, Longiano e Forlimpopoli. Nel Compendio, ricorda pure la sua associazione ai lincei planchiani.
93 Nei citt. Recapiti, p. VI, è qualificato «segretario di monsig. Governatore di Narni». Francesco Fabbri, originario di Gatteo, fu uditore all’Università di Cesena nel 1760, quando vi pubblicò presso Biasini un testo, le Exercitationes Physiologiae, letto nel corso di una disputa tenutasi nel mese del medesimo anno presso la chiesa di San Francesco della stessa Cesena. Nel febbraio 1767 fu eletto «pubblico Maestro» di Gatteo. (Cfr. SG. 178, 179, 180, cartone 82, BGR.) In FGLB si conservano quattro sue lettere a Bianchi. Con quella del 30 maggio 1751 Fabbri ringrazia per la nomina ad accademico dei Lincei: «L’onore che V. S. Illustrissima mi ha compartito della Patente di codesta sua ristaurata Accademia, non è dovuto al mio essere, ed io l’ho ricevuto da una parte con obbligo infinito, ma con pari mortificazione dall’altra». In quella del 13 settembre 1755 tratta delle beghe per la questione del Rubicone. L’ultima (10 dicembre 1766) è da Roma.
94 Anche di lui sappiamo che fu «tiro» (c. 14v, ms. 1183, BGR, cit).
95 Cfr. E. PRUCCOLI, L’Alberoni e San Marino nei carteggi di I. Planco, in Annuario XXIII della Scuola Secondaria Superiore della Repubblica di San Marino, San Marino 1997, p. 284. La frequenza di Giuliano Genghini alla scuola di Bianchi è attestata da C. TONINI, La coltura letteraria e scientifica, cit., II, p. 347.
96 Questo si legge alle pp. 7 e 9 del De monstris, opera di cui diremo.
97 Cfr. nelle citt. Vicende accademiche, passim. Lami, in una lettera a Bianchi (FGLB, advocem,14 luglio 1753), scrive su Coltellini: «è un birro, ed una spia, che non posso patire: ma son costretto a dissimulare alquanto, perché mi ha fatto anche de’ favori». Nel 1757 Coltellini fa ascrivere Bianchi all’accademia cortonese di Botanica e Storia Naturale, della quale era segretario. Nell’occasione, le «Nov.», XIX, 4, 27 gennaio 1758, coll. 52-57, pubblicano una breve ma esauriente biografia di Planco, dove si dice pure che egli faceva «in Rimino coltivare a sue spese due Giardini Botanici di piante rare».
98 La notizia della nomina di Lami ad accademico linceo, è data dalle «Nov.», XI, 51, 18 dicembre 1750, col. 801: «Varie Accademie sono concorse nel presente anno ad onorare il mio caro amico Signor Dottor Giovanni Lami, Pubblico Professore Fiorentino, e Bibliotecario della Riccardiana, poiché nel mese di Maggio passato fu ascritto all’Accademia de’ Lincei di Rimino, restituita già dal celebre Signor Dottore Giovanni Bianchi [...]». Il 7 dicembre 1745 Lami aveva scritto a Bianchi (FGLB, advocem): «Mi rallegro da dovero del ristabilimento che V. S. Ill.ma ha fatto in casa sua dell’Accademia de’ Lincei, e vedrò se è possibile di pubblicare nelle Novelle in quest’anno le sue leggi, come Ella desidera».
99 Cfr. ms. 1183, BGR, cit., c. 14r.
100 Abbiamo inserito Battarra tra gli scienziati e non tra i filosofi, per motivi che risulteranno poi evidenti.
101 Bianchi lo ricorda nell’autobiografia latina (p. 390) come «peritissimus».
102 Ai Lincei planchiani furono forse tenute anche altre dissertazioni oltre a quelle che abbiamo inserito nell’elenco (v. il già cit. caso di Mattia Giovenardi). Questa nostra ipotesi è confortata pure da uno scritto di Bianchi del 1761, di cui diremo infra, significativamente intitolato Congressi letterari della nostra Accademia [fasc. 75, FGMB].
103 La notizia, scoperta da TURCHINI, G. Bianchi, l’ambiente antiquario, cit., p. 415, è nei citt. Viaggi 1740-1774, SC-MS. 973, c. 312v (che più opportunamente si dovrebbero definire Diari, perché presentano pure notizie riminesi, come questa). Circa «l’utilità della lingua greca», è interessante ricordare una lettera di Garampi a Bianchi del 19 dicembre 1750 (FGLB, ad vocem), dove leggiamo: tale lingua è «necessaria specialmente» agli ecclesiastici che debbono studiare, e vogliono farlo «fondatamente», le Sacre Scritture, le Opere dei Padri e la Storia ecclesiastica, «che sono i fondamenti della buona teologia».
104 Cfr. sempre nei citt. TUR-CHINI, G. Bianchi, l’ambiente antiquario, p. 416, e BIANCHI, Viaggi 1740-1774, SC-MS. 973, c. 318v, 27 maggio 1746: qui leggiamo che, nella «solita Accademia de Lincei» radunatasi in casa di Bianchi, Garampi «parlò molto eruditamente», alla presenza di «varj, e tra gli altri un Padre dell’Ordine de’ Minimi Viniziano d’origine Greco, che tornava dall’aver predicato a Roma nella sua Chiesa di S. Andrea delle Fratte», il Padre Lettor Condopulo. Nello stesso ms. 973, Viaggi, c. 474r, 15 Agosto 1763, Bianchi ricorda di aver scritto un memoriale al cardinal Legato «acciocché provveda per un affronto fattomi dal Conte Sartoni nella nostra Accademia Letteraria Santiniana», cioè fondata da Lorenzo Antonio Santini (defunto, come diremo tra breve, nel 1752), non però presso i Lincei planchiani (come invece scrive M. SASSI, Tre viaggi di Iano Planco a Ravenna, «Ravenna Studi e Ricerche», VI/II, Ravenna 1999, p. 48), dato che nello stesso passo si legge più avanti: «io non sono mai più andato a quella Accademia, né mai più sono capitato in casa Rigazzi, dove capitò il Conte Sartoni». (Il conte Giovanni Antonio Rigazzi, nel ms. 973, è già cit. in precedenza.) Su questa «Accademia Letteraria Santiniana», possiamo ricavare qualche vaga notizia da una lettera di Francesco Legni a Bianchi, 3 giugno 1752 (FGLB, ad vocem): «Mi spiace molto la perdita del Sig. Dottore Santini, e parmi poter credere, che siasi da lui eretta una Accademia con un titolo così vile, e che sia morto per l’esaggerazione della nobiltà dell’Asino, quando non avesse voluto alludere in tal foggia a suoi seguaci, ed incomiare così transversalmente li medesimi, instillando loro di più maggior fervore di premere le vestigia d’un così nobile soggetto». Sulla dissertazione di Santini circa la «nobiltà dell’Asino», ricordiamo quanto scritto da Bianchi sulle «Nov.», tomo XIII, n. 35, 1 settembre 1752, coll. 551-552: Santini «credendosi dileggiato da alcuni in Rimino, dove esercitava la Medicina, per esser nativo di un paese, dove si trovano molti buoni Asini, recitò verso la fine di Aprile dell’anno presente una sua molto lunga, ed erudita orazione sopra la nobiltà dell’Asino». Aggiunge Bianchi: Santini «e perché s’era affaticato molto nel comporre, e nel recitare, questa sua enfatica, e paradossica, orazione, essendo egli anche tisicuzzo, e tristanzuolo della persona anzi che nò; e per aver anche riscosso poco applauso da questa sua fatica, poco dopo d’un male s’infermò, e su’ primi dì di maggio si morì. Per la qual cosa questi animali, se fossero capaci, dovrebbero professargli perpetue obbligazioni, ed inalzargli un Mausoleo, giacché un raro esempio per la gloria loro s’è morto». Sembra di leggere quel Boccaccio che il giovane Bianchi aveva imitato componendo novelle licenziose che inviava a certi amici lontani, con l’ordine di bruciale dopo la lettura. Sull'intera vicenda, cfr. A. MONTANARI, Asini elogiati e cani celebrati, «Il Ponte, settimanale cattolico riminese», XXIX, 1, 4 gennaio 2004, p. 22, consultabile in Riministoria, <http://digilander.libero.it/ilrimino/att/2004/887.asini.html>.
105 Manca il giorno. La notizia si ricava dalla prima edizione a stampa uscita presso Pasquali a Venezia, 1746; ad essa seguì la pubblicazione nella calogeriana Raccolta d’opuscoli scientifici e filologici, XXXVII, Venezia 1747, pp. 361-408. Planco critica l’abuso dei vescicanti, «preparazioni farmaceutiche ad uso topico dotate di un’intensa azione irritante, il cui principio attivo veniva estratto da un particolare genere d’insetti coleotteri, le cantaridi (che Planco chiama “cantarelle”)»; essi venivano utilizzati «per le forme patologiche più disparate», anche se inizialmente erano stati applicati per la sola peste bubbonica: cfr. DE CAROLIS, La produzione pubblicistica..., cit., p. 42. Sul testo della lettura accademica, cfr. i fascc. 194, 195, 196, FGMB. Il mentovato Vandelli, nel proseguire la sua personale campagna contro Bianchi, lo attacca anche per questo scritto: nelle Risposte (1747) che tengon dietro alle Considerazioni già ricordate, lo rimprovera per aver egli preteso «di proscrivere un rimedio trovato dalla venerabile Antichità, e praticato da i più sperimentati Professori». L’edizione veneziana è recensita dalle «Nov.», VIII, 2, 13 gennaio 1747, coll. 24-27: «Noi vediamo in questa Dissertazione [...] il primo frutto prodotto alla pubblica luce dell’Accademia de’ Lincei».
106 Cfr. la lettera del 27 gennaio 1747 (FGLB, ad vocem).
107 Cfr. n. VIII, 13 gennaio 1747, coll. 24-27. Successivamente (VIII, 25, 23 giugno 1747, coll. 392-394), le «Nov.» riferiscono l’uscita della dissertazione nel tomo XXXVII «del Calogerà»: così annota lo stesso Bianchi in fondo al volume della rivista fiorentina. Tutta la raccolta delle «Nov.». esaminata è quella esistente in BGR, e proviene dalla biblioteca personale di Giovanni Bianchi, come attestano le scritte di sua mano in fine dei singoli tomi, con annotazioni di articoli propri e citazioni che lo riguardano, oppure relative a cose riminesi.
108 Cfr. la lettera del 20 maggio 1747, FGLB, ad vocem. Si tratta dell’unica epistola di Vandelli conservataci nei carteggi planchiani. In essa si sottolinea pure il «ridicolissimo titolo di Patricio Riminese».
109 Cfr. il fasc. 221, FGMB. Qui manca la data in cui fu inviata la dissertazione. E’ possibile ipotizzarla esaminando l’epistolario di Zinanni diretto a Bianchi (FGLB, ad vocem). In base a tale epistolario, si può avanzare l’ipotesi che Zinanni abbia inviato a Planco due dissertazioni differenti fra loro; però abbiamo il testo soltanto di una: cfr. A. MONTANARI, «Giuseppe di Prospero Zinanni», accademico dei Lincei planchiani, «Ravenna studi e ricerche, Società di Studi ravennati», VIII/1-2, 2001, pp. 109-128. Il 22 marzo 1746, Zinanni scrive: «Ho provato piacere in sentire dalla sua ultima scrittami che abbia rinnovato in di lei casa l’Accademia de’ Lincei, e da ciò fà vedere il desiderio che ha, di accrescere i Letterati, e la gloria della di lei patria. Li sono altresì tenuto dell’esibito mi fa di aggregare a così universo Congresso e per prima occasione le trasmeterò una mia dissertazione, la quale se conoscerà meriti di esser letta, la farà legere, e quando no la rimanderà». Il successivo 12 aprile Zinanni invia a Bianchi, tramite un padre francescano che da Ravenna scende a Pesaro, la «promessa dissertazione. Questa forse non avrà la fortuna d’incontrare l’agradimento degl’Academici come bramerei, e ciò per eser parto di uno che non ha l’abilità che si richiede. S’ella la stima cosa, che non meriti d’esser letta, la tratenghi dando a lei tutta la libertà fuorche di essere stampata». Il problema della datazione nasce dalla lettera del 25 marzo 1747, dove Zinanni scrive: «Subito che avrò comodo non mancherò di trasmettervi qualche cosa del mio (benché di debolezza) per la loro Accademia». Ed il 7 maggio: «Benché tardi le trasmetto la promessali Disertazione; ciò non è pervenuto da difetto di volontà, ma bensì per esser stato molto tempo poco bene, e poi dopo occupato in varie cose per mons. de Reomur. Ciò che debbo pregarla si è che prima di far leggere in Accademia la disertazione le dia un’occhiata, e se le riesce non meritevole di legersi in un congresso così virtuoso, a darla alle fiamme, che ne sarò contentissimo». (Il «Reomur» di cui parla, è il naturalista René-Antoine Ferchault de Réaumur, con cui fu in corrispondenza.) Zinanni (1692-1753), dopo essersi dedicato agli studi di Meccanica, si rivolse a quelli di Botanica prima e a quelli delle Scienze naturali poi, concentrandosi in particolare sulle uova degli uccelli, come dimostra il già cit. titolo del suo libro del 1737, e come si ricava anche dalle lettere inviate a Bianchi. Postume sono altre opere, pubblicate a Venezia, con studi sulle piante dell’Adriatico (1755) e sui testacei paludosi e terrestri dell’Adriatico e del territorio di Ravenna. Il suo ricco museo, allestito nel suo palazzo in Ravenna, andò disperso dopo la sua scomparsa, avvenuta il 23 ottobre 1753. (Notizie ricavate dal sito Internet: <http://www.racine.ra.it/ginanni/storia1.htm>.) Giuseppe Zinanni è cit. quattro volte da Bianchi nel De Conchis: alla p. 22 (dove è detto «vir Nobilissimus, ac de Historia Naturali optime meritus»); a p. 39 (per materiale inviato da lui a Planco «liberaliter»), a p. 40 (per lo stesso motivo) ed a p. 44 (per un’osservazione scientifica fatta da Zinanni e comunicata a Bianchi). Il 6 febbraio 1754 Stefano Galli scrive da Roma a Bianchi: «m’è sommamente dispiaciuto di sentire, che sia mancato il Signor Conte Francesco Ginanni uomo tanto benemerito della Storia naturale» (FGLB, ad vocem). Sulla sua figura, cfr. F. BALDASSINI, Intorno all’opera del conte Giuseppe Zinanni di Ravenna sulle uova e nidi degli uccelli e intorno la sua anteriorità a M. Gay nell’antivederne l’importanza, Bologna 1854. Nel 1754, nella Societas Litteraria Ravennatensis, a Zinanni subentra lo stesso Planco: cfr. le citt. Vicende accademiche, p. 74 e pp. 107-108. Nelle«Nov.», XV, 6, 8 febbraio 1754, coll. 91-94, parlando dell’elezione di Bianchi al posto di «Ginanni» nella «Società letteraria» ravennate, si scrive che l’accademia ravennate «a pieni voti» ha chiamato Bianchi a prendere il posto di Giuseppe Zinanni, «Cavaliere nobilissimo», che aveva dimostrato «perizia grande» sulle cose naturali, delle quali ha lasciato «un copioso Museo» in uso a due suoi nipoti, vincolandone «la proprietà dopo la loro morte a’ Padri gesuiti di questa Città, acciocché si conservi per sempre». L’accademia ravennate ha eletto Planco «lusingandosi che egli potrà soddisfare pienamente a tutte le intenzioni della Società, per esser egli, come a tutto il Mondo è noto, molto versato negli studi, che erano i prediletti del defunto Cavaliere». La scelta di Planco, conclude l’articolo, «consola non poco» la Società Letteraria, «e le fa per certo modo esser meno sensibile la perdita del defunto erudito Cavaliere, e tanto benemerito degli Studi della Naturale Istoria, considerando che questi appo di essa torneranno a vivere nella persona del dotto Soggetto al defunto surrugato». Le «Nov.», XV, 8, 22 febbraio 1754, coll. 123-126, pubblicano un’epistola scritta da Francesco Maria Ginanni al padre Lettore don Pierluigi Galletti, Bibliotecario ed Archivista della Badia Fiorentina, in cui si dice che il segretario della Società Letteraria, abate Luigi Amadesi «propose parecchi soggetti, acciocché uno eleggere se ne dovesse per la Classe di Filosofia in luogo del defunto Conte Giuseppe Ginanni, noto alla Repubblica delle Lettere per le singolari scoperte da lui fatte nella Storia Naturale: e fu di concorde sentimento prescelto il celebre Signor Dottore Giovanni Bianchi di Rimino, il quale degnamente riempirà quel posto». La lettera dà poi informazioni sul regolamento della Società Letteraria Ravennate, eretta nel 1752: le dissertazioni di un socio, prima della pubblicazione dovevano essere proposte all’esame degli altri tre della sezione di appartenenza (Storia Ecclesiastica, Storia Civile e Filosofia), per riceverne un giudizio del quale tener conto.
110 Si vedano le cc. 10-21r nel cit. ms. 1183, BGR.
111 Come osserva DE CAROLIS, Il medico al lavoro, in Giovanni Bianchi, Medico Primario..., cit., p. 58, «la storiografia medica più recente è concorde nel ritenere degni di nota», tra tutte le opere d’argomento medico pubblicate da Bianchi, «solo i suoi studi teratologici», tra i quali «l’opera più importante» è appunto il De monstris. Il testo ms. è in fasc. 185, FGMB. L’opera, come si è detto, nel 1749 esce in due edizioni. La prima reca nel testo la data del 30 aprile 1748. La seconda contiene due Appendici, datate al primo dicembre 1748, di cui dà conto Lami nelle «Nov.», XI, 12, 20 marzo 1750, coll. 179-183. Nella prima Appendice si «descrive un uovo coll’immagine del Sole impressa nel ventre di esso, il qual uovo nacque in Rimini». La seconda Appendice riguarda invece «la sezione del capo d’un Cavalierino di Cesena di nove in dieci anni, il quale era figliuolo unico del Sig. Conte Alessandro Pilastri»: questo è l’argomento di cui Bianchi tratta con la dissertazione n. 21, del 28 maggio 1751. L’anticipazione dell’uscita del De monstris è data dalle «Nov.», IX, 42, 18 ottobre 1748, col. 667, all’interno della lettera del dottor Giovanni Calvi da Cremona, dove Bianchi è detto «uomo di celebre dottrina» che aveva scoperto un vitello bicipite con un corpo solo, ed un gatto bicorporeo ed una testa: «Può essere, che questo grand’Uomo faccia stampare una sua lettera che ha intitolato De Monstris, ac de Monstruosis quibusdam, la quale non può essere se non molto buona». Una recensione dell’opera è nelle «Nov.», X, 1749, nn. 30, 31, 33, coll. 477-480, 489-492, 518-521.
112 Nelle «Nov.», XIV, 23, 8 giugno 1753, coll. 353-362 è commemorato monsignor Giuseppe Pozzi (scomparso l’anno precedente): in una nota datata Bologna, si cita una lettera di Pozzi a Bianchi del 1726 sui «canali cistepatici», alla quale Bianchi rispose con altro testo. Lettera e risposta sono stampate a Bologna nel 1726 ed in Olanda due anni dopo, in appendice ad un’opera di G. B. MORGAGNI, Epistulae anatomicae duae. Nello stesso articolo, leggiamo, col. 355: «Bianchi avea parlato in quella Accademia [di Bologna, n.d.r.]nel mese di Febbraio di quell’anno per l’occasione della sezione del cadavere di una donna morta d’idropisia di petto, avendo egli fatta una Dissertazione sopra di quel male». Le «Nov.» ricordano poi che Bianchi aveva dedicato a monsignor Pozzi il De Monstris, ma dimenticano quanto avevano scritto in XI, 12, 20 marzo 1750, coll. 179-183, cioè che esistevano due diverse edizioni dello scritto planchiano. Nel 1753 le «Nov.» infatti riferiscono: «Questa Pistola [il De Monstris, n.d.r.], benché sia stata stampata in Venezia l’anno 1749 con tutto ciò essa è in data dell’ultimo dì d’Aprile dell’anno 1748 alla quale, perché la stampa indugiava a farsi, il Signor Bianchi aggiunse una poscritta in data del primo dì di Dicembre del medesimo anno 1748». Come si è già visto le due Appendici, datate al primo dicembre 1748 sono presenti soltanto nella seconda edizione. (Giuseppe Pozzi, essendo nato nel 1697, era di poco più giovane di Bianchi. Aveva diritto al titolo di monsignore, come capiterà anche a Planco, per la carica di archiatro che non obbligava al celibato: anzi, le biografie di Pozzi ricordano due suoi matrimoni.)
113 Su questi aspetti si sono soffermati vari studiosi: cfr. DE CAROLIS, Il medico al lavoro, cit., p. 58.
114 Ecco quanto spiegano le «Nov.», X, 30, 25 luglio 1749, col. 477-480, di questa seconda specie: sono mostri «prodotti nell’uovo ab initio da Domineddio secondo la sentenza degli sviluppi; oppure che una qualche virtù plastica abbia prodotte, e vada producendo queste parti di più, che si trovano ne’ Mostri» che hanno un dito, un braccio, un piede o qualche altro membro o viscere in più. (La recensione delle «Nov.» prosegue nei nn. 31 e 33, 1 e 15 agosto 1749, coll. 489-492 e 518-521.) L’espressione «virtù plastica» richiama «le tendenze legate alla tradizione del platonismo»: cfr. P. ROSSI, La scoperta del tempo, «Storia della scienza moderna e contemporanea», cit., p. 559. Sull’origine dei fenomeni mostruosi, Bianchi formula ipotesi che oscillano tra il discorso rigorosamente scientifico ed affermazioni che, in apparenza, ai nostri occhi, sembrano negarlo, quando presuppone che alcuni di quei casi siano provocati «a natura ipsa ludente». Ma sono immagini che appartengono alla cultura del suo tempo. Quello che ancor oggi noi chiamiamo «lo scherzo di natura», per indicare qualcosa fuori dell’ordinario, ci rimanda etimologicamente al «ludus» quale gioco o scommessa, cioè ad esempio alle possibilità combinatorie dei dadi, per dimostrare appunto che la realtà, tra le sue varianti, ha oltre la perfezione anche l’errore, il mostro o la mostruosità. (Infine può esistere un altro significato: «ludere» come ingannare, quasi a sostenere che la natura voglia prendersi beffa degli uomini, violando le regole che essa stessa ha imposto.) ROSSI, in altro lavoro, ci ricorda che la teoria medievale degli «scherzi di natura» è presente in studi naturalistici del primo Settecento, a proposito dei fossili: «Alla tesi dei lusus naturae, degli scherzi o giochi della natura avevano aderito studiosi innumerevoli», egli scrive ne I crostacei, i vulcani, l’ordine del mondo, «Anton Lazzaro Moro (1687-1987), Atti del Convegno di Studi», Pordenone 1988, p. 14. Circa il complesso discorso sulle cause dei mostri, Bianchi nella sua catalogazione sembra riecheggiare la sintetica classificazione già prospettata da F. LICETI, De monstrorum natura caussis, Padova 1634, II, p. 51; e ripresa da U. ALDROVANDI, Monstrorum historia, Bologna 1642, p. 380. Il testo di Fortunio Liceti (1577-1657) ebbe una prima ed. nel 1616; cito da quella del 1634 che Bianchi aveva a disposizione in BGR, dove esiste pure il volume cit. di Aldrovandi (1522-1605, medico, naturalista e lettore presso lo Studio di Bologna), che uscì postumo a cura di Bartolomeo Ambrosini (1588-1657, medico e naturalista, fondatore e prefetto dell’Orto botanico dell’Università di Bologna). In generale, sostengono sia Liceti sia Aldrovandi, si può parlare di tre cause per i mostri: una soprannaturale; una dovuta all’intervento di un dèmone (o per un maleficio); ed una riconducibile a fatti naturali o fisici. Planco rifiuta l’ipotesi del dèmone e del maleficio. In BGR, Bianchi aveva anche a disposizione (ed. Antverpiae 1562) i Magiae naturalis libri IIII, pubblicati da G. B. DELLA PORTA (1535-1615) a ventitré anni (1558, Napoli). In essi, alla curiosità per il meraviglioso ed il miracoloso di derivazione rinascimentale, s’accompagna il tentativo di distinguere una magia diabolica, da una appunto «naturale» che può definirsi (cito da una traduzione del 1560, De i miracoli et maravigliosi effetti dalla natura prodotti, libri IIII, Venezia, volume esistente un tempo presso la «Libreria di San Bernardino di Rimini», ora in BGR), come «una consumata cognitione delle cose naturali, et una perfetta Filosofia», il cui scopo è quello di contemplare le «cose recondite». Nell’edizione in venti libri (Napoli 1589) del Magiae naturalis (BGR, Francoforte 1607), «Prodigiosi, et monstruosi partus» s’intitola il cap. XVII, Liber II, p. 83: qui s’ipotizza che si causino mostri, oltre che per cause fisiologiche, anche per «inordinatos coitus, ut dilabatur semen in non debita loca» (p. 85).
115 Per i termini cronologici ed i riferimenti bibliografici su tali polemiche, cfr. infra.
116 Circa l’origine di questa dissertazione, cfr. le citt. Vicende accademiche, nota 50, p. 79.
117 Il 3 dicembre 1749 (FGLB, ad vocem), Garampi scrive a Bianchi: «Ella averà già da altri saputo la benignità che Nostra Santità hà avuta per la mia persona, cosicché in breve anderò ad abitare nel Palazzo Vaticano, ove avrò il comodo eziandio della Biblioteca. Onde io sono contentissimo non solo per la speranza del lucro venturo, quanto e per l’onorificenza presente, e per la grande comodità che avrò in un Archivio e in una Biblioteca che non hanno forse pari nel mondo. Ora viene il tempo in cui potrò fare ricerche e acquisti per la storia della nostra Città, che non perdo di mira». Nella stessa missiva si accenna ad un progetto editoriale di Planco, relativo ad una storia naturale «del nostro Agro». In un documento del fasc. 310, FGMB, Bianchi nel descrivere le biblioteche riminesi (scrive che non ne esistono altre pubbliche oltre alla «Gambalunga»), tratta della propria «copiosa Libreria Privata, che ha raccolto a sue spese», e che «si distingue» per libri filosofici e matematici moderni, per volumi botanici ed anatomici «antichi e moderni», e per testi di autori greci e latini. Una «competente buona libreria privata», aggiunge, è quella dei Teatini.
118 Cfr. sull’argomento il fasc. 173, FGMB. Queste due dissertazioni sono ricordate in J. DALARUN, Santa e ribelle. Vita di Chiara da Rimini, Bari 2000, dove si parla anche di Bianchi (cfr. alle pp. 4-5) con alcune gravi inesattezze: gli si attribuisce un’anteriore «Accademia degli Eutrapeli», si dice che era «soprannominato Iano Planco in dialetto romagnolo», e che «aveva anche contribuito a istituire una Accademia dei Lincei di Rimini». Delle due dissertazioni di Garampi, troviamo scritto che Garampi stesso le «legge davanti ai dotti riuniti in assemblea». Invece, come si è visto, Garampi le inviò da Roma, ed era assente da Rimini in entrambi i casi.
119 Bianchi nella Lettera prima sul Rubicone, del 6 marzo 1750, parla di «tre dissertazioni» da Giovenardi «recitate nella nostra Accademia dei Lincei» per dimostrare essere il fiume Uso (o Luso come si diceva allora) «il vero Rubicone degli Antichi». Questa Lettera prima esce a stampa con la Seconda, su cui v. infra.
120 Cfr. le citt. Vicende accademiche, p. 60. In FGLB, nel fasc. Garatoni, Gianfelice, allegata alla lettera di questi a Bianchi del 17 marzo 1753, c’è una missiva dell’abate Giulio Cesare Serpieri (agente della città di Rimini a Roma), diretta allo stesso G. P. Giovenardi, in cui si parla della «risata, non solo del Giudice, ma ancora di tutti quelli che si ritrovarono presenti» alla discussione della causa intentata dai cesenati alla Comunità di Santarcangelo ed a G. P. Giovenardi: la lite, secondo lo stesso Giudice, «verteva sopra una minchioneria». Per quella lite, Serpieri agì come Procuratore di Santarcangelo. Rimini volle tenersene fuori, però avvertì l’obbligo morale di sostenere G. P. Giovenardi che aveva posto «una memoria così gloriosa per la nostra città»: cfr. AP 479, Copialettere 1749-1751, ASRi. In URBANI, Raccolta..., cit., p. 765, leggiamo al proposito, su G. P. Giovenardi: «Eresse da fondamenti la nuova Chiesa parrocchiale della sua pieve, situata sulla sponda del Fiume Uso, e volendo farsi far pompa di sua erudizione, sulle sponde medesime piantò un marmoreo cippo» con la scritta «Heic Italiae Finis Quondam Rubicon». Circa la disputa rubiconiana, in «Nov.», XVIII, 3, 21 gennaio 1757, coll. 39-40, si legge: «I Cesenati se ne furono appellati al tribunale della Sacra Rota Romana». T. SALMON, Lo stato presente di tutti i paesi e popoli del mondo, XXI (G. B. Albrizzi, Venezia 1757), pp. 449-455, rammenta la questione rubiconiana, prendendo le difese di Bianchi: «Vogliono tuttavia gli Ariminesi, e non senza buoni fondamenti, che il fiume Luso, che porta le sue acque in mare, sia il vero Rubicone». Francesco Antonio Zaccaria osserva al proposito nei suoi Annali letterarj d’Italia, I, II, Modena 1762, pp. 188-190: «Per altro ho tal dispetto contro questo malvagio Rubicone, che se Roma ha già decisa la lite per questa rara cosa tra’ Riminesi, e Cesenati, e ha condannati nelle spese quest’ultimi, io vorrei vedere imposta una buona multa a coloro, che con fogli, libri, libercoli, Dissertazioni, Scritture osassero di più infestare l’umana generazione sopra questa controversia, teruntii, flocci, e nihili eziandio».
121 Il testo della dissertazione del 21 marzo 1750 è lo stesso della Lettera seconda ad un Amico di Firenze intorno del Rubicone, datata 20 marzo 1750 (fasc. 210, FGMB), e pubblicata prima nello stesso 1750 dalle «Nov.» (XI, 37, 39, 41, 43, coll. 583-590, 610-618, 641-651, 678-684), e poi, assieme alla Lettera prima, nel 1756 dagli Opuscoli Calogeriani di Venezia, tomoII, pp. 321-378. (Di questa stampa uscita negli Opuscoli, esiste un estratto con aggiunta, alle pp. 379-383, la sentenza sulla causa rubiconiana, emessa a Roma il 4 maggio 1756, che dà torto ai Cesenati e li condanna al pagamento delle spese: cfr. la Raccolta di opuscoli sul Rubicone, collettanea curata da Z. GAMBETTI, SC-MS. 897-899, BGR, con materiale edito ed inedito appartenuto a Bianchi: qui è conservata, in ms. incompleto, la Lettera prima.) Nella Lettera prima del 6 marzo 1750 (cfr. «Nov.», XI,1750, nn. 20, 21, 22, coll. 311-320, 323-330, 344-349), Bianchi sostiene che la questione del Rubicone era relativa ad «un punto erudito di geografia antica», da lasciare non alle dispute legali (come avvenne) ma «piuttosto ai dotti, e alle Accademie degli eruditi». La Lettera prima tratta della falsa iscrizione cesenate sulla riva del Pisciatello. A riassumere la questione rubiconiana, valga quest’affermazione di Antonio Bianchi: «è stato scritto da molti, ma sempre in contraddizione, per motivo di certe male intese glorie municipali, e per quel genio di dispute cavillatorie che regnava ne’ due scorsi secoli». (Cfr. A. BIANCHI, Storia di Rimino dalle origini al 1832, manoscritti inediti a cura di A. Montanari, Rimini 1997, p. 43: nella nota bibliografica finale di tale volume, sono elencati i testi degli autori intervenuti nella disputa, e citt. da A. Bianchi.) Cfr. pure G. L. MASETTI ZANNINI, Il mito del Rubicone. Contributo alla «fortuna» di Roma nel Settecento romagnolo, «Bollettino del Museo del Risorgimento», Bologna 1969-1971, pp. 1-51. Osserva PRUCCOLI, nel cit. L’Alberoni e San Marino, p. 286: «la così detta causa rubiconiana, ai nostro occhi futilissima» era per Bianchi «essenzialmente rivendicazione di antiche giurisdizioni usurpate, di prestigio civico e di tutela delle ragioni storiche di una città che l’ignavia dei suoi nobili e il dinamismo di altre comunità (nella fattispecie Cesena, da Planco cordialmente odiata) relegavano ormai quasi al livello di borgo remoto della provincia legatizia di Ravenna». Sull’intera vicenda rubiconiana, cfr. pure la cit. comunicazione Lettori di provincia, contenente documenti inediti della Municipalità di Rimini; ed A. MONTANARI, Un fiume di erudizione. Iano Planco ed il «Rubicone degli Antichi», consultabile in Riministoria, <http://digilander.libero.it/monari/spec/rubicone.586.html>. Qui ricordiamo soltanto, che dopo la sentenza del 1756, il cesenate Padre Gianangelo Serra rilancia la questione a livello europeo, con un Avviso avanzato alli Signori Accademici delle Reali Accademie di Parigi, di Londra, di Lipsia, e di Berlino (1757), redatto in italiano e latino.
122 La lettera è stata pubblicata dalle «Nov.» nello stesso anno (1751, XII, nn. 31, 32, 33, 34, 35, 36, coll. 484-489, 503-507, 514-517, 537-541, 551-554, 567-570). Questo testo è comunemente conosciuto come «Panteo Sagro» (in quanto tratta di «un Tempio dedicato a tutte le Divinità de’ Gentili, o almeno a buona parte di esse»). Esso è anche pubblicato nel tomo X della Nuova raccolta d’opuscoli scientifici e filologici, Venezia 1763, pp. 365-456 (con Appendice, ib., tomo XII, pp. 157-200).
123 La dissertazione è pubblicata nel vol. XVLII della cit. Raccolta calogeriana, Venezia 1752, pp. 83-116. Di essa scrive da Roma a Bianchi monsignor Marco Antonio Laurenti (v. infra) il 13 maggio 1752: «in verità a me è moltissimo piaciuta sì per la novità, come insieme per essere chiaramente e di buon gusto scritta: goderei egualmente, se non anche più, di apprendere poscia, come parmi che prometta, il come medicare i mali, che a vermi sono riferiti, e da essi cagionati, massime a seconda delle osservazioni dello stesso sig. Zamponi».
124 Zamponi parte da un’osservazione sull’«ordine meraviglioso prescritto dalla natura al nascimento de’ vermi», e premette al suo discorso una parte storico-filosofica sulla generazione degli stessi vermi nel corpo umano. Generazione che (come scrivono le «Nov.», XIII, 26, 30 giugno 1752, coll. 411-414, nel loro resoconto, opera certamente di Planco), «è stata sempre uno scoglio della Filosofia, il quale con questa osservazione non si scansa, anzi si fa più forte», perché non si sa come i vermi entrino nell’intestino. Sia l’impostazione data da Zamponi al suo intervento, indipendentemente dai risultati sbagliati a cui perviene, sia il commento delle «Nov.»,testimoniano le cautele quasi pregiudiziali usate allora nella ricerca scientifica che, pur ricorrendo alla via sperimentale, non dimentica il principio evocato nelle leggi dei Lincei riminesi, secondo cui, prima di esporre i risultati empirici, occorreva riferire i pareri dei dottissimi filo-sofi e degli uomini eruditissimi.
125 Cfr. lettera del 24 maggio 1752 (FGLB, advocem).
126 «Giacché buona parte de’ nostri Academici di Rimino sono diventati non so come Pittagorici fuori di tempo essendosi fatti mutoli la maggior parte, io v’anderò da qui innanzi graziosi uditori recitando o cose mie, o cose mandatemi di fuori d altri nostri Academici forestieri, o da altri, i quali per rendersi benemeriti della nostra Academia meritano d’essere aggregati, e riposti nel luogo di que’ nostri, che si sono fatti mutoli, e massimamente nel luogo di quelli, che non vogliono ne meno più onorare colla loro presenza le nostre sessioni forse avendole a vile, o forse, com’è più verisimile amando meglio di marcire nell’ozio, o d’affaticarsi solamente per qualche poco per un picciolo guadagno, o per rendersi abili a gli amoretti di qualche femminuccia»: cfr. il cit. fasc. 219, FGMB. Nel Codex, cit., c. 16v,è sottolineata la «negligentia» degli Accademici, troppo occupati e poco presenti. C’è da chiedersi, alla luce degli sviluppi successivi delle vicende accademiche planchiane (legate alla condanna all’Indice dell’Arte comica), se questo isolamento che Bianchi denuncia, più che da negligenza e da futili motivi dei soci, non sia stato provocato invece dalla loro paura di esporsi in un ambiente diventato pericoloso nei confronti del potere ecclesiastico e di quello politico (che erano alla fine tutt’uno).
127 «In dissertatione praeclare se gessit adolescens»: cfr. Codex, cit., c. 16v. Questa notizia del 7 maggio è inserita nel Codex dopo quella di Coltellini del 30 aprile e prima di quella di Zamponi che è sempre del 30 aprile.
128 Forse dello stesso 7 maggio 1751. L’incertezza della datazione deriva dal sistema usato da Planco, del quale s’è detto nella nota precedente.
129 Cfr. i fascc. 203, 204, 206, FGMB. Sul significato di questa dissertazione, diremo infra.
130 Cfr. De CAROLIS, Il medico al lavoro, cit., pp. 67-71. Di queste polemiche, si parla in «Nov.», XVI, 25, 20 giugno 1755, coll. 390-395 e n. 37, 12 settembre 1755, coll. 580-581.
131 Cfr. supra la nota in cui si riporta la citazione dalle «Nov.», XI, 12, 20 marzo 1750, coll. 179-183.
132 Cfr. nel Codex, cit., c. 18r.
133 ib., c. 18v.
134 Cfr. il fasc. 216, FGMB.
135 MASETTI ZANNINI (in Canto profano e musica sacra femminile del Settecento romano, «Strenna dei Romanisti 1991», pp. 349-358), parla di un «innamoramento» del maturo filosofo riminese per la giovane cantante romana. La Cavallucci forse conosce Bianchi prima del 1751, anno a cui appartiene la prima delle sue lettere inedite al nostro medico (FGLB, ad vocem), del 25 marzo, in cui si legge che quella è la terza missiva spedita a Planco. L’immagine complessiva che ne emerge, è quella di una donna in miseria, sempre alla ricerca di aiuti e di protezione. Lei considera Planco un «caro papà» a cui chiede «una difesa sopra il fatto del mio matrimonio, che lei credo, che di già sappia come fù perché ce l’ho raccontato più volte»; difesa da «imparare a memoria», a quanto pare, per ripeterla davanti a qualche pubblica autorità (25 marzo 1751). L’anno successivo c’è un nuovo soggiorno della Cavallucci a Rimini, da cui è costretta ad andarsene: «Solo mi rincresce d’esser partita di Rimino per voi» (24 febbraio 1752, v. infra). Nell’Arte comica (p. 24), Planco sostiene che Rimini doveva avere «molto obbligo» verso di lei, perché con la sua «gentilezza, e grazia» aveva «quasi per un mezz’anno sulle Scene rallegrati onestamente gli animi de’ nostri Concittadini». I rapporti tra Bianchi e la cantante conoscono momenti burrascosi, almeno dal punto di vista epistolare; lei infatti gli scrive: «se le vostre finezze le vendete a prezzo di rimproveri e lagrime, vi dico che potete fare a meno di favorirmele: io per mé non sò aprire la vostra intenzione e il vostro umore [...]; ma io so li spasemi, e rancori, che provoca solo nel vedervi: perdonate: io questo non voleva scriverlo, ma così mi mortificate senza motivo [...] tanto più che voi potete essere <...> nonno» (4 marzo 1752). Il 18 marzo lei chiede perdono a Bianchi («caro quanto padre», è l’intestazione della lettera), delle proprie «sciocchezze e malagrazie». Il 22 marzo lo prega «a mitigare queste sue mortificazioni le quali [...] mi passano l’anima», e di soccorrerla: «non fate che mi riduca a mangiar di nuovo le mosche». Il 12 aprile gli narra di una burrascosa vicenda sentimentale a Bologna («lui mi scrive [...] che andassi dallo stesso già che lui non vuol venire dà mé mà io li rispondo, che lui [h]a una sua donna in casa per la qual cosa io non mi attento d’andarci tanto più che questo signore vi lasciò detto, che io volevo far l’amore con lui sé pure questo sia vero»). Nel contempo lei bussa a quattrini presso Bianchi («e pure mi prometeste in Rimino, che qualche volta mi avereste soccorso di qualche carità, e questo lo potreste ora ancor fare [...] in virtù della mia fedeltà, e dell’amore che mi avete portato [...] fate conto di dar tante messe alle anime del purgatorio, ed io pregharò Idio per la di lei salute»). Il 12 maggio ribadisce: «mi avete fatto più di padre», e lo invita a «ripigliare di nuovo il bel titolo di figlia, che tale io fui, e là sono, e là sarò finche vivarò. Per pieta caro Papà fate, che io sia tale, e che in congientura possa far vedere queste nostre lettere per far conoscere a tal uni quello, che sinestramente credono». Secondo la Cavallucci, Planco insinua qualcosa «circa delli giovanotti, che venivano in casa» sua: lei giura la propria innocenza, terminando la lettera con un insolito tono confidenziale: «Caro Bianchi perdonami, e credimi sempre quella, che fui sono e sarò fino alla morte» (24 maggio 1752). Le insinuazioni di Bianchi nascono dalle notizie bolognesi ricevute da monsignor Giuseppe Pozzi il quale, il 4 maggio 1752 (FGLB, advocem) gli aveva infatti scritto che la donna «avea sempre la casa piena di gente di poco credito, e s’era scelta per protettore» un conte «di pochi denari, e atto più a far l’amore che a proteggere». Una settimana dopo, il 31 maggio, la Cavallucci cambia registro: «io poi non pretendo che lei proseguisca altro impegno per me, e sappiate che di già lò capito dà un pezzo, che lei [h]a finito questo suo caritatevole impegno né più lo voglio né lo pretenderò già mai in vita mia, ma li fo sapere, che questo suo impegno di già tutti lo sanno, e sanno come lo sò ancor io che ora è finito [...] e non mi mortifichi più con questi abatini e zerbinotti», tutte storie inventate da un suo «contrario» che lei ben conosce. Se qualche lettera è stata lunga, si giustifica la giovane, era in risposta «approporzione de’ suoi capitoli». L’ultimo documento importante, per la nostra breve ricostruzione, è la lettera della Cavallucci del 7 giugno 1752: «io poi vi domando scusa se mai vi scrissi in maniera che li avessi potuto dare un minimo dispiacere».
136 Cfr. nel Codex, cit., c. 19v. Il testo della dissertazione è pubblicato a Venezia (immediatamente, come vedremo) con questo titolo: In lode dell’arte comica. Discorso del signor dottor Giovanni Bianchi Nobile e Medico primario della Città di Rimino, pronunziato da lui l’ultimo venerdì di carnovale dell’anno 1752 in sua casa in una accademia solenne de’ Lincei. L’originale ms. è nel fasc. 201, FGMB. Dell’edizione a stampa parlano anche gli Atti di Lipsia del 1753, p. 184, come leggiamo nel Catalogo delle opere stampate dal Sig. Dottor Giovanni Bianchi Medico primario di Rimino, p. VI, s. d., ma 1757: cfr. le citt.«Nov.», XIX, 30, 28 luglio 1758, col. 480; qui troviamo stampato che il Catalogo era del 1747, ma nell’esemplare gambalunghiano delle «Nov.» [7.H.II.27], proveniente dalla biblioteca personale di Bianchi, incontriamo la correzione autografa planchiana in «1757». In copertina, questo esemplare reca il testo autografo: «Dove comincia la ristampa del Catalogo...». Il Catalogo è ripreso ed ampliato nei cinque articoli apparsi sulle «Nov.», XIX, nn. 22, 23, 24, 30 e 36 del 2, 9 e 16 giugno, 28 luglio e 8 settembre 1758 coll. 344-347, 366-368, 379-383, 477-480, 569-570: nel n. 30 sono elencate opere «credute comunemente» di Bianchi, uscite con pseudonimo e sine nomine, nel n. 36, è presentata un’«Aggiunta» finale che riguarda uno scritto medico, firmato Pietro Ghigi, del 1731. A G. B. Morgagni, Bianchi scrive di aver composto l’Arte comica «per divertimento», in sole «due mattinate» (SC-MS. 966, Minute di lettere, 1731-1760, BGR, 24 aprile 1752).
137 Cfr. MASETTI ZANNINI, Vicende accademi-che, cit., p. 61.
138 Cfr. lettera del 29 maggio 1758, FGLB. Di «questa razza di Donne», suggeriva Coltellini nella stessa epistola, Planco dovrebbe «dir male» nelle composizioni, «e dir loro molto bene in Camera». In precedenza (3 maggio 1758, FGLB, advocem), Coltellini aveva accusato il Restitutore linceo di aver profanato l’«illustre Accademia» riminese «con quella sua Druda Cantatrice, a cui poteva contentarsi di fare soltanto da Maestro di Cappella»; e di essersi fatto «coglionare addirittura» per una donna che meritava soltanto d’«essere mandata a far dei Bambini». Prosegue il testo: «Testimon ne sia la Cavalluccia / che fece il Dottor Bianchi andare a gruccia». Coltellini aveva giustificato la sua sentenza scrivendo: «le Donne ancor io le conosco abbastanza, e mi picco nell’istesso tempo aver avuto la fortuna, che niuna di esse Donne sia giunta a conoscer me».
139 Cfr. VENTURI, Settecento Riformatore. I., cit., p. 133. Sul ruolo del «focoso Daniele Concina», cfr. pure P. BERSELLI AMBRI, L’opera di Montesquieu nel Settecento italiano, Firenze 1960, passim.
140 Cfr. D. CONCINA, De spectaculis theatralibus, Roma 1752, pp. 207-211. Egli tace il nome dell’autore dell’Arte comica, opera stesa «eleganti stylo italico», in segno di rispetto per la sua perizia nell’arte medica: «ceterasque dotes, quibus claret, colo, et suspicio. Sermonis dumtaxat errores Christianae professioni perniciosissimos refellendos suspicio [...]», cfr. p. 207. Padre Concina se la prendeva con attrici, cantanti e saltatrici perché, a suo dire, rovinavano le famiglie nobili, irretendo i loro giovani rampolli, i quali sperperavano per tali donnacce, oltre al patrimonio, anche la salute del corpo e dell’anima (p. 210).
141 Cfr. nella cit. Spetiaria del Sole, p. 18. Le parole di padre Paciaudi, sono tolte da COLLINA, op. cit., p. 20: «Ma era desiderabile, che a un tale ottimo libro avesse data occasione tutt’altro che quella infame sgualdrina, il cui nome non ista bene col vostro. Voi la chiamate valorosa fanciulla: fanciulla non è una cortigiana svergognata; la dite valorosa: brutto valore è il suo». Le espressioni di Lami sono riprese da una lettera del 29 gennaio 1752, FGLB, advocem. Lami nelle sue missive si rallegra delle «galanti occupazioni» di Planco (15 gennaio 1752), e parla dell’avventura con l’«amabile Cavalluccia, con cui Ella in questo carnevale ha vettureggiato pel reame d’Amore», sino a deridere il medico riminese (che reagisce male) per quei reumatismi dei quali soffriva e che, secondo Lami, gli erano stati «attaccati dalla Cavalluccia» (4 e 18 marzo 1758). Le lettere di Lami del 1752 sono anche in COLLINA, op. cit., p. 19-20.
142 Cfr. lettera del primo marzo 1752, FGLB, ad vocem. A Roma, Giuseppe Giovanardi Bufferli svolge talora anche la funzione di procuratore della città di Rimini, per affari da gestire nelle magistrature pontificie.
143 «Se il Vescovo di Rimino non si fosse mai fatto ridere appresso dai Romani, ed avesse ad ogni modo desiderato di farlo, ora non potrà lagnarsi, che ciò non siagli riuscito». L’atteggiamento del vescovo Guiccioli può essere collegato a questo passo della stessa Cavallucci nella missiva diretta a Bianchi del 24 febbraio 1752: «Potrò ben dire di aver incontrato in questa Città di Rimino poca buona sorte, dove avendomi affaticata per acquistarmi qualche poco di benevolenza e gratitudine. In premio delle mie fatiche mi sono acquistata de’ malevoli, e delle perseguzioni, e trà li Amici che mostravano esser nostri sviscerati ed a mé favorevoli, non posso dire d’aver ricevuta nessuna cosa. Come volessi dire una cena o un pranzo. Ben, sia mercé la vostra bontà e carità non avea bisogno de’ loro pranzi. Solo mi rincresce d’esser partita di Rimino per voi».
144 A proposito di questi rapporti tra Bianchi e la Chiesa cittadina, è stato osservato che la rinuncia del Davìa alla carica di vescovo nel 1726 e la partenza del Legato Cornelio Bentivoglio nel 1727, lo avevano privato di «due potenti Mecenati»: cfr. C. TONINI, La coltura letteraria e scientifica, cit., II, p. 239 (qui si riporta erroneamente la data del 1746 anziché 1726, per la rinuncia del Davìa). Bianchi, prosegue TONINI, dovette «sostenere durissima lotta da quei fieri nemici d’ogni buon progresso che sono il pregiudizio e l’invidia»; dapprima furono lanciate «accuse acerbissime contro di esso quasi di violata religione nella sezione dei cadaveri», poi venne la censura del vicario vescovile il quale «accolse l’accusa, ne ammonì severamente il Bianchi, e gli ingiunse di chiedere licenza alla Curia Romana per l’esercizio di quelle sue dissezioni». TONINI riassume il racconto dell’autobiografia latina di Bianchi (p. 369), dove questi poi rammenta di esser stato allora sostenuto ed aiutato da Laura Bentivoglio Davìa, «nobilissima, sapientissimaque femina» (p. 370). Il «permesso per anatomie» chiesto da Bianchi con «Istanza autografa a Benedetto XIV per ottenere di fare le sezioni di cadaveri», è registrato nelle SG, ad vocem Bianchi, G., n. 18, con l’annotazione: «Fu segnata la grazia con rescritto dei 18 aprile 1745». A proposito di concorrenza tra i Lincei planchiani e le strutture ecclesiastiche, abbiamo già visto che nel 1761 G. P. Giovenardi recita nell’«Academia» vescovile una sua dissertazione sull’«utilità della scienza medica a Parochi spezialmente di campagna». Contemporaneamente alla partenza del cardinal Davìa da Rimini, nel 1726 va registrato l’arrivo al Seminario del teatino padre Anton Francesco Vezzosi che insegna sino al 1738 (sono sue parole) «quella Filosofia che appoggiata all’arte di pensare la più vera, fiancheggiata dall’esperienza, fa uso ancora delle matematiche, quella che dicono moderna»: cfr. G. L. MASETTI ZANNINI, I Teatini e la Nuova Scienza in Italia, estratto da «Regnum Dei», 1967, pp. 62-63. Dello stesso autore, cfr. I Teatini in Rimini, estratto da «Regnum Dei», 1965, passim.
145 Cfr. l’autobiografia latina, pp. 370-371: «quum [...] Philosophia propterea, et reliquae bonae artes Arimini pene iacerent, Plancus Philosophiam docere coepit privatim [...]».
146 Si tratta della cit. Orazion funerale in lode di Monsig. Giovanni Bianchi. Delle difficoltà incontrate per la sua pubblicazione, parla lo stesso G. P. Giovenardi in due lettere al nipote di Planco, il già ricordato medico Girolamo Bianchi. Nella missiva del 7 gennaio 1777 leggiamo che, in caso di edizione di quel testo, era minacciata allo stesso Girolamo Bianchi «la privazione dell’Ospitale dal vescovo», come si vociferava autorevolmente in città. Il 5 aprile 1777 Giovenardi suggeriva a Girolamo Bianchi di restare estraneo alla distribuzione di quell’opuscolo «per isfuggire qualunque odiosa taccia di parzialità, e mettersi al coperto da qualunque vendetta trasversale, alla quale potesse pensare il vescovo contro di lei». (Tali lettere sono nella cit. cartella Giovenardi, don G., FGMMR.) Notizie sulle attività culturali dei Religiosi a Rimini, si trovano nelle «Nov.»a partire dal 1761, quando è vescovo il cardinal Lodovico Valenti, inviate probabilmente da Epifanio Brunelli (al quale Lami indirizza una lettera stampata in «Nov.», XXII, 31, 31 luglio 1761, coll. 492-494). Epifanio Brunelli era figlio del Bibliotecario Gambalunghiano Bernardino (in carica dal 1748 al 1767), al quale subentrerà dal 1767 al 1796. Nelle «Nov.», XIV, 43, 26 ottobre 1753, coll. 677-679, a proposito di una pubblica «Conclusione di cose di Fisica», si lodano le qualità del Dottor Bianchi «uomo dottissimo».
147 Su questo aspetto, cfr. la lettera di Laura Bentivoglio Davìa da Bologna del 26 febbraio 1752 (FGLB, advocem): «Da tutt’altri, che da un Grande Filosofo, qual è il Sig. Bianchi mi sarei aspettata una Raccomandazione per una Comica, o sia Cantatrice, quale per due volte si portò da me domenica prossima passata senza trovarmi»; «Io poi che sono alienissima dei Teatri, e che questi sono per me Provincie incognite [...] l’ò raccomandata al Generale Davia mio cognato [...]». Della visita della Cavallucci a Laura Bentivoglio, poi avvenuta dopo i due infruttuosi tentativi, cfr. la lettera della stessa Cavallucci a Bianchi del 10 maggio 1752. In una lettera del 7 marzo 1752, senza destinatario (SC-MS. 966, cit., cc.445v/446r), Bianchi spiega di essersi impegnato «non volgarmente» da protettore con la Cavallucci «per un affronto fattomi da chi non dee mai far affronti». Planco appare più preoccupato di difendere se stesso che la ragazza, come risulta pure dalla bozza di un’«Informazione del Governatore al Legato» (cardinal Bolognetti) del 28 gennaio 1752, quindi anteriore all’esibizione ai Lincei della Cavallucci; qui si dichiara che la giovane fu protetta da Bianchi «in una maniera civile, e propria» (cfr. SC-MS. 970, Minute di lettere 1741-1761, BGR, c. 217v). Due lettere di raccomandazione scritte da Bianchi per la Cavallucci, sono nel cit. SC-MS. 965: entrambe sono mutile, senza destinatari e senza data (ma dello stesso febbraio 1752, ovviamente). La prima (c. 101) è diretta ad un nobile, che altro non può essere se non bolognese; la seconda (c. 102), a persona dichiarata di Bologna, città dove Antonia si rifugia. Nella prima leggiamo: «Eccellenza. La Renditrice della presente è la Signora Antonia Cavallucci valorosa comica non meno che graziosa cantatrice, la quale quasi per mezz’anno sul Pubblico Teatro di questa Città ha mostrato il valor suo in queste Professioni, il che ha dimostrato col Canto eziandio per varie accademie di Musica, che si sono tenute in varie case di Cittadini, e di Cavalieri di questa Città a riguardo suo. Esse venne quà raccomandata dal sig. Marchese Gio. Battista figliuolo di f. m. figliuolo di V. Ecc.za ad un cavaliere di questa Città, il quale a dir vero non si prese alcun pensiero di questa Giovane, io verso la metà del tempo che essa era quì avendo in una Accademia fatta conoscenza di lei, ed avendo sentito che avea gradito la Protezione del fu Sig. Marchese Giambattista, che ella per gratitudine pianse amaramente quando udì da me la sua morte, presi a farle qualche assistenza, per la quale molto è stata onorata dai principali Signori di questa Città, non senza però una molta invidia de’ malevoli». Al teatro di Rimini, gli spettacoli di Antonia Cavallucci nella stagione invernale 1751-52 (commedie in cui recita prevalentemente la parte della Serva), creano disordini ai quali si cerca di porre riparo con un bando del 25 gennaio 1752 che fa divieto al pubblico di salire sul palcoscenico per festeggiare l’attrice (cfr. Archivio Teatro 1735-1838, busta n. 1, ad vocem «Teatro», ASRi). Dell’esistenza di questo documento inedito, c’informa la stessa artista con un generico accenno in una lettera a Bianchi del 24 febbraio 1752. Ovviamente, nel bando è taciuto ogni riferimento ad Antonia Cavallucci, e si parla soltanto dello «sconcerto, che derivar suole dal trasferirsi le Persone in tempo delle Recite delle Comedie [...] sul palco». In una minuta planchiana s. d. (SC-MS. 966, cit., c. 444r), si attribuisce la responsabilità dei disordini a «Giovani Nobili», amplificati da chi aveva interesse a che il Pubblico teatro fosse chiuso, dopo che era stata bloccata la propria attività d’impresario in un teatro privato.
148 Qui si parla di «certo Frate Scolopio»; successivamente, di un «famoso Zoccolante Lucchese», per il quale rimando alla nota seguente.
149 Il 3 ottobre 1753 G. Garampi scrive a Planco: «Abbiamo un nuovo libro del P. Bianchi sopra i vizj e difetti del Teatro». Padre Giovanni Antonio Bianchi, frate minore e teologo, nonché docente di Filosofia, nato a Lucca nel 1686 e morto a Roma nel 1768, pubblica a Roma appunto nel 1753 l’opera intitolata Sui vizi e sui difetti del moderno teatro e sul modo di correggerli ed emendarli, come risposta al testo del ricordato padre Concina dell’anno precedente, il De spectaculis theatralibus. Sempre nel 1753, appare l’opera De’ teatri antichi e moderni di S. MAFFEI, «in difesa della moralità dello spettacolo [...] e pubblicata con l’approvazione di Benedetto XIV» (cfr. M. ALLEGRI, Venezia e il Veneto dopo Lepanto, in Letteratura italiana, Storia e geografia, II/2, L’età moderna, Torino, 1988, p. 980). A sua volta, Concina controbatte nel 1755 con il De’ Teatri moderni contrarj alla professione Cristiana. Benedetto XIV, come ripete in entrambe le sue opere Concina, aveva nel 1748 concesso «di mala voglia, e per isfugire mali maggiori», di tollerare «il divertimento Carnovalesco». Per Concina le donne cristiane che calcavano le scene peccavano mortalmente (cap. X, De spectaculis), al pari delle persone importanti e degli ecclesiastici che presenziano i loro spettacoli (cap. XXV, ib.). Nel De’ Teatri (p. IV), Concina ricorda che Benedetto XIV aveva nel De Synodo «con invincibili argomenti confutato l’abuso de’ pubblici venali Teatri, qual tristo avanzo di Paganesimo»; precisa (cap. IV) che «sono da Dio proibiti i Teatri, perché vi recitano donne, e castrati vestiti da donne», le quali donne da buone cristiane hanno un solo capitale da conservare, «la verecondia, il pudore, la modestia, il silenzio», per cui «le fanciulle, e femmine cristiane, che l’arte professano di istrionesse, calpestato il pudore, la verecondia, la modestia, il silenzio, spiegano in trionfale comparsa il lusso, il fasto, la vanità, e le pompe mondane rinunziate nel battesimo», facendosi strumenti diabolici «per una spietata crudelissima carneficina dell’anime redente» (pp. 37-38). Su Giovanni Antonio Bianchi, cfr. G. MAZZUCCHELLI, Scrittori d’Italia, vol. III/2, Brescia 1760: a p. 1150 si legge che «contro i sentimenti del P. Bianchi in proposito de’ Teatri si è pur dichiarato apertamente l’Autore delle Novelle Letterarie di Firenze»; a p. 1145 è invece ricordato il planchiano Discorso in lode dell’Arte Comica, con referenze bibliografiche. Di tale dissertazione, le «Nov.», XIII, 18, 5 maggio 1752, coll. 279-284, pubblicano un ampio resoconto, probabilmente di mano dello stesso medico riminese, il quale è definito «soggetto molto noto per la sua varia dottrina ed erudizione». Alla fine l’articolo ricorda, della Cavallucci, «la sua gentilezza e grazia, colla quale onestamente avea rallegrati gl’animi de’ Riminesi quasi per un mezz’anno». (L’articolo riprende un passo nell’Arte comica di p. 24, già cit. nella nota 135, dove Planco sostiene che Rimini doveva avere «molto obbligo» verso la Cavallucci, perché aveva «quasi per un mezz’anno sulle Scene rallegrati onestamente gli animi de’ nostri Concittadini».) In quell’«onestamente» si avverte come una risposta alle polemiche velenose che avvolsero l’esibizione della «valorosa Attrice».
150 A questo tema è dedicata tutta la lunga epistola di Giovanardi Bufferli a Planco, datata 15 aprile 1752. Essa contiene una difesa delle idee di Bianchi, portando vari argomenti al proposito, sia sul mondo antico sia sulla situazione della Chiesa francese.
151 Ib.
152 Cfr. la lettera del 27 aprile 1752, FGLB, advocem.
153 Pozzi augura a Bianchi d’innamorarsi «ora d’una Cantante, ora d’una Ballerina, ora di una Tragica acciò ogni otto giorni s’abbiano a vedere vostre orazioni in lode o della Musica, o del Ballo o della Tragedia; basta non v’innamoriate di Maschio perché vi pregherei allora à non stampar loda alcuna».
154 Il 4 maggio 1752, Pozzi scrive a Bianchi: «vi consiglio per ben vostro, quallora il vogliate, à innamorarvi un po’ meglio». Sul tema cfr. la lettera di Amaduzzi a Bertòla del 3 gennaio 1776, contenente un elogio inedito in memoria di Planco (copia autografa, FGMMR, Amaduzzi G. C.): «La sua severità filosofica patì un’interstizio di sei mesi, quanti egli ne dedicò alla corte, che fece, ad una eccellente, e spiritosa Comica Romana, nominata Antonia Cavallucci, la quale seppe eccitarlo a far stampare in sua lode alcune poesie, ed a comporre, e pubblicare nell’anno 1752. l’indicato Discorso, il quale per un’eccezione di poco rilievo andò ad impinguare l’Indice de Libri proibiti. La singolarità, e la brevità del suo impegno fa vedere, che sì fatto mestiere non è per i letterati bisognosi di quiete, e di tempo per le loro applicazioni». Amaduzzi sembra un figlio geloso per una galante avventura paterna. Nelle sue parole, pecca però ingenerosamente d’esagerazione. Qui Amaduzzi osserva pure del maestro: «Il raziocinio non fu in lui sempre il più retto, giacché sovente egli era inconseguente co’ suoi principi, e la prevenzione qualche volta prevaleva in lui alla ragione». Cfr. il cit. MONTANARI, Amaduzzi e la scuola di Iano Planco. Sull'intera vicenda della condanna all'Indice di Bianchi, e sui rapporti di Bianchi con Antonia Cavallucci, cfr. A. MONTANARI, Iano Planco, la puttanella, il vescovo. La condanna all’Indice del rifondatore dei Lincei, Rimini 2003 (consultabile in Riministoria, <http://digilander.libero.it/monari/lincei/puttanella.html>).
154 Cfr. l’epistola del 10 maggio 1752, FGLB.
156 Cfr. l’estratto in BGR, segn. 19.MISC.RIM.CLXXIV,33. Il testo è senza indicazioni, che si ricavano però dalla replica anonima intitolata Note critiche: dovrebbe trattarsi di un unico fascicolo appositamente montato con l’estratto (pp. 5-7) e la replica (pp. 9-18), mancante però di copertina, dato che la prima pagina reca il n. 3. Alle pp. 3-4 c’è un’introduzione in cui si dichiara che l’autore della biografia planchiana «si prende, a parlar chiaro, un po’ troppo giuoco» di monsignor Bianchi. Il titolo completo della replica è Note critiche alla novità inserita nella continuazione al Giornale di Medicina XVI. Marzo MDCCLXXVI.
157 Cfr. ib., p. 16: qui si sostiene che le poesie delle quali parla Il Giornale di Medicina, erano in realtà «d’un valente Poeta imolese».
158 L. Cenni scrive a Bianchi il 26 aprile 1752 (FGLB, ad vocem),su questo discorso accademico: «con sodo stile, e ragioni encomia l’Arte Comica, confirmando in esso il rubamento di Plauto, e di Terenzio da Menandro cosa, che i più savi l’accordano, ed alcuni pochi sciochi la contrariano. Il dramma, che ella chiama una depravazione della commedia, e della tragedia dispiacerà forse ad alcuni drammatisti, o fautori di esso, che pretendono come componimento eroico, in se perfetto, non inventato che da’ moderni».
159 «Quot verba, tot deliria, totque blasphemiae, et temeritatis iudicia. Quis unquam in animum sibi induxerit, ut crederet, Italum, et Catholicum hominem non omnino insanum, potuisse talia scribillare, nisi eadem publicis typis consignata legeret?» (p. 208). Questo commento è a proposito delle affermazioni sulla Chiesa francese.
160 Cfr. la lettera (inedita, a quanto pare, e trascritta in URBANI, Raccolta..., cit., p. 151), del 10 aprile 1762, diretta a Pietro Godenti, a Ginevra: «Il mio Discorso dell’Arte comica fu proibito, seppure è tale, per gli schiamazzi de Giansenisti d’Italia, giacche l’Esaminatore fece alla Congregazione dell’Indice una relazione favorevole di detto Discorso, ma Concina stampò contro d’esso Discorso». Come risulta dai documenti che pubblichiamo infra, le cose non andarono come le riassume Bianchi a distanza di dieci anni. Planco considera padre Concina un Giansenista, secondo un’opinione diffusa. Circa i Giansenisti, si veda il seguito della lettera a Godenti, a nota 184. Sul clima culturale del 1700 e le censure ecclesiastiche, cfr. il cit. INFELISE, I libri proibiti, passim.
161 E’ quella stessa libertà che faceva paura a padre Concina, il quale immaginava che il discorso planchiano potesse essere golosamente divorato da giovanetti e damigelle così portati sulla strada della perdizione: «Anceps paululum haesi, praeterire ne, an refutare libellum hunc deberem: sed haesitationem deposui continuo, ac cogitare coepi, praefatum sermonem scitulorum, et muliercularum atque matronularum manibus teri, aptumque esse ad imperitorum animos fascinandos, et ad universam Italiam infamandam, si, nemine reclamante, immunis a censura excurreret» (pp. 207-208).
162 Muratori aveva parlato dell’arte comica, nel Della necessità di riformare la poesia teatrale, come s’intitola un capitolo della Perfetta poesia italiana (1706) in cui sviluppa «esigenze che da lontano paiono anticipare istanze della stessa ‘riforma’ goldoniana»: cfr. W. BINNI, Il Settecento letterario, in Storia della Letteratura Italiana, VI. Il Settecento, Milano 1968, p. 427. Verso la metà del Settecento, il dibattito sulla riforma teatrale è molto vivace, e ruota attorno all’esempio di Carlo Goldoni (che a Rimini era figura ben nota: cfr. Carlo Goldoni, «galanteria senza scandalo», nel cit. Lumi di Romagna, pp. 71-83). Del 1750 è la sua commedia Il Teatro comico, nella cui scena prima dell’atto secondo, per rivendicare l’«onore» e la dignità dei comici, egli fa dire ad un personaggio (Anselmo interpretato da Brighella): «La commedia l’è stada inventada per corregger i vizi e metter in ridicolo i cattivi costumi, e quando le commedie dei antighi se faceva così, tuto el popolo decideva, perché vedendo la copia d’un carattere in scena, ognun trovava, o in se stesso, in qualchedun’altro l’original». E più avanti, al capocomico Orazio (che impersona Ottavio): «I cattivi caratteri si mettono in iscena, ma non i caratteri scandolosi». Questa finalità pedagogica è sottolineata anche nella prefazione goldoniana «alla prima raccolta delle Commedie» (sempre del 1750), in cui si denunciano le colpe del «cattivo teatro»: «per la qual cosa Tertulliano a’ teatri sì fatti dà nome di sacrari di Venere, e il Grisostomo dice, che nelle città furono edificati dal diavolo, e che da essi diffondesi per ogni luogo la peste del mal costume; quindi a ragione i sacri oratori fulminavano da’ pulpiti così corrotte commedie, ch’erano in fatti oggetto ben giusto dell’abominazione de’ saggi». (Cfr. C. GOLDONI, Opere, a cura di F. ZAMPIERI, Milano-Napoli 1952, passim). Sul Teatro comico ed in genere sull’opera goldoniana, cfr. M. BARATTO, La letteratura teatrale del Settecento in Italia (Studi e letture su C. G.), Vicenza 1985.
163 Cfr. COLLINA, op. cit., p. 22: «La Congregazione dell’Indice non tardava molto a proibire l’operetta del Bianchi»; e FABI, DBI, cit. p. 110: «l’operetta incontrò le critiche di molti e le censure della congregazione dell’Indice». Circa i sospetti ed i dissensi «della società letteraria e culturale» sull’arte comica nel XVIII sec., si veda ad esempio la vicenda di Gerolamo Gigli in W. BINNI, op. cit., pp. 439-446.
164 Cfr. Index Librorum Prohibitorum, Benedicti XIV P.O.M jussu editus, per i tipi della Reverenda Camera Apostolica, Roma 1758, p. 80. Il relativo decreto del pontefice, premesso all’Index, reca la data del 23 dicembre 1757.
165 Quelle di Garampi a Bianchi sono in FGLB, ad vocem. Quelle di Bianchi a Garampi si trovano in Archivio Segreto Vaticano (ASV), Fondo Garampi, vol. 275: una trascrizione (inedita) è stata curata dallo storico dottor Enzo Pruccoli che me ne ha gentilmente fornito copia, con revisione di alcuni passi cortesemente fatta in loco dal prof. G. L. Masetti Zannini.
166 Anche tali epistole si trovano nel cit. FGLB, ad voces.
167 Sulla diffusione a Roma del testo planchiano, senza accennare però alle polemiche derivate da esso, parla a Bianchi il padre servita Luigi Baroni il 27 maggio 1752 (FGLB, advocem), nel ringraziarlo per avergli inviato la «dotta Dissertazione, o Discorso come lo voglio chiamare, il quale non solo è piaciuto a me infinitamente, ma ancora a varj altri miei Amici eruditi a cui l’ho fatto vedere e fra questi parecchi Arcadi di Roma a quali è piaciuto assaissimo sì per la dottrina, ed erudizione, come per la dicitura, e lo stile acconcio al soggetto». Cfr. pure la lettera da Roma del 29 aprile 1752 di monsignor Marco Antonio Laurenti (FGLB, advocem): «Quando da mons. Maggi mi saranno dati gl’altri da esso lei accennatimi esemplari dal medesimo ne farò la distribuzione come V. S. Ill.ma mi ordina». Attorno all’iter della pubblicazione dell’Arte comica, cfr. le lettere inviata a Bianchi dal tipografo Giovanni Battista Pasquali (FGLB, ad vocem) nel marzo 1752: il 9 racconta di aver «dato a licenziare» il discorso; il 18, che esso «è licenziato dalli Revisori, ed ora è in mano al Segretario»; il 24: «La fede del Segretario ne l’hò potuta avere se non da Giornali, onde non ci fu maniera di poter terminare il suo discorso, conviene che aspetti sino a sabbato, che se allora vi sarà incontro di Barche gli spedirò tutte le copie, se non, dieci glie ne manderò per la Posta». Infine il 2 aprile precisa: «Delli suoi libri, ne ho trattenuti quattordici», ed il 15 aprile: «Eccole il restante della sua Operetta». (Circa la prassi seguìta per ottenere le autorizzazioni, cfr. INFELISE, L’editoria veneziana nel ’700, Milano 1991, pp. 62-63.)
168 Padre Concina scrive nel De spectaculis: «Vilissima mulierum Oldfield strenuam, ditissimam, aeque ac venustam, principemque feminam vocitat, Regioque sepulcro donatam repraesentat vir Christianus? Honore huic meretriculae narrat quoque Voltaire epis. 23» (p. 208). Nelle lettera cit. a Pietro Godenti, Bianchi sottolinea che a padre Concina «dispiacque che io avessi lodati gl’Inghilesi che onorarono l’Oldfield contro quello che fanno i Franceschi che non vogliono ora seppellire in chiesa i comici». Il 26 febbraio 1752 Pasquali (FGLB, ad vocem) aveva scritto a Planco: «E’ verissimo, che la Signora Oldfield, comica, fu sepolta a Westimster, dove sepellirono Newton, e dove sepelliscono i loro Ré, così mi disse il Sig. Smith». Su Giuseppe Smith, conosciuto personalmente da Bianchi a Venezia nel 1740, cfr. i ricordati Viaggi, SC-MS. 973 («23 luglio 1740: incontro con il Sig. Giuseppe Smith ricchissimo Mercatante Inghilese che ha una raccolta grandissima di libri rari»), e in Minutario, MS-SC. 969, cit., c. 141, la lettera di ringraziamento di Planco allo stesso Smith del 5 settembre 1740 per le «cortesie» ricevute in Venezia. Sulla biblioteca di Smith, cfr. pure la lettera di Bianchi a Leprotti del 30 luglio 1740 in Lettere, SC-MS 963, cit.; ed il ricordo contenuto nella cit. autobiografia latina («instructissimam rariorum librorum possidet Bibliothecam», p. 386). Nella missiva a Smith del 5 settembre 1740, Bianchi parla anche dell’elezione del «novello nostro sovrano», papa Benedetto XIV: «come uomo d’età, e di mente robusta fa sperare un buon regimento anche in pro’ delle lettere e de’ letterati ristabilito però che sia alquanto l’erario, reso esausto dalle fabbriche, e dall’altre spese antecedenti».
169 La lettera di Garatoni a Bianchi del 5 luglio 1752 reca: «Nell’atto, che stò per chiudere questa mia mi avvisa l’Abate Ruggieri, che ieri mattina dalla Congregazione dell’Indice fu proibito il vostro discorso sopra l’arte comica. Sentiremo in appresso il perché».
170 Dopo la cit. epistola del 3 giugno, in FGLB non ce ne sono altre.
171 Recte, Ricchini, Tommaso Agostino.
172 Sulla condizione sociale delle «comedianti» nel XVIII sec., cfr. A. MONTANARI, Per soldi, non per passione. «Matrimonj disuguali» a Rimini (1763-92): tra egemonia nobiliare ed ascesa borghese, «Romagna arte e storia», n. 52/1998, pp. 45-60.
173 Sull’argomento, cfr. nella biografia di FABI in DBI, cit., passim.
174 Cfr. L. NARDI, Cronotassi, p. 313, ed. anast. a cura di G. L. MASETTI ZANNINI, Rimini 1995. Bianchi nella lettera del 13 luglio a Garampi aveva scritto: «Sento, come così sia giunto il nuovo nostro Vescovo, e coll’altro spaccio qui s’intese che s’era provveduto d’un Vicario che è un uomo vecchio, e forestiero. Parrebbe che fosse meglio che i Superiori fossero Paesani, e che conoscessero da sé le Persone non avendo di bisogno di conoscerle per mezzo d’altri, i quali non sono sempre i migliori». Il nuovo vescovo di Rimini è un nobile concittadino, Marcantonio Zollio.
175 Questa missiva dev’essere giunta in ritardo a Garampi, se questi il 6 settembre nuovamente suggerisce a Planco l’invio di una lettera al papa: «Riguardo alla supplica per N. S., io invero non ho veduto da qualche tempo in qua Monsignor Laurenti; ma anch’egli fin da principio conveniva, che il miglior partito era di scrivere una lettera a dirittura al medesimo N. S., che più difficilmente avrebbe data una ripulsa in iscritto, di quello che egli faccia sovente con tutta franchezza in voce.»
176 Cfr. Commercium epistolicum 1745-1775, SC-MS. 974, BGR, ad diem. Un’antica consuetudine di rapporti di Bianchi con questo pontefice, è documentata dalle lettere che l’allora cardinal Lambertini gli inviò tra 1733 e 1739, FGLB, advocem. Un’epistola di Benedetto XIV sull’inoculazione del vaiolo, è ricordata nel cit. VENTURI, Settecento Riformatore. I., cit., p. 110, nota 1: essa è ripresa dal volume del cardinal GIAN COSTANZO CARACCIOLI, Vita del Papa Benedetto XIV Prospero Lambertini, Venezia 1783, p. 110. (L’autore è indicato da Venturi come Luigi Antonio Caraccioli, il quale scrisse invece una biografia di Clemente XIV.) Nella Biblioteca Amaduzziana, presso l’Accademia dei Filopatridi di Savignano sul Rubicone (BFS), è conservata l’ed. originale uscita a Parigi in francese (di cui quella veneziana è la traduzione) nello stesso 1783: in essa, la lettera di Benedetto XIV, è alle pp. 150-151. Caraccioli (p. 4) ricorda la figura di Davìa, «si renommé pour sa science et pour sa vertu». Davìa doveva essere il successore di Benedetto XIII, nel conclave del 1730, ma non fu eletto per un solo voto, quello del cardinal de Biffy (p. 14).
177 Cfr. l’autobiografia latina, p. 375. Tra le altre cose, Bianchi qui ricorda la concessione del papa «ut libros quoscumque vetitos, vetandosque legere, et retinere posset»; e che «de Planco persaepe clementer amiceque loquitur».
178 A presentarla fu il cit. monsignor Laurenti.
179 Il pontefice non risponderà mai personalmente a Bianchi: si veda una successiva lettera dello stesso Laurenti, datata 25 novembre, che sarà cit. infra nel testo: «e di questo, mi soggiunse il Papa, ne darete contezza al Signor Bianchi, che servirà per mia risposta alla di lui lettera con cui appunto mi pregava che almeno non fosse enunciato pubblicamente il suo nome».
180 In quest’epistola leggiamo: «Si è veduto un manifesto, e credo anche i primi due tomi di una nuova Enciclopedia, lavorata da vari grand’Uomini di Francia, e si suppone non solo la migliore di questa classe di libri zibaldonarj, ma un capo d’opera relativamente a ogni scienza e arte». Siamo ancora lontani dalla condanna di quest’opera da parte di Clemente XIII (3 settembre 1759). Non è questa la prima notizia che giunge a Bianchi della «nuova Enciclopedia». Infatti egli risponde a Garampi: «Quella tale Enciclopedia, della quale mi parla sono de’ mesi, e forse più d’un anno, che in Francia, cioè in Parigi, cominciò ad uscire, ma incontrò degli intoppi, onde furono soppressi, o almeno sospesi i due primi Tomi, giacché v’erano molte Proposizioni ardite. Adesso forse l’avranno corretta con metterci de’ Carticini, o con mutarci i fogli, dove sono quelle Proposizioni ardite, e facendo che i Tomi, che sono per uscire, escano tutti gastigati, e corretti» (21 dicembre 1752, ASV).
181 Cfr. il fasc. 310, FGMB.
182 «Usus quoque est familiarissime Ghedino, Martello, et Comitibus fratribus [...]», autobiografia latina, p. 357. Si veda anche nella planchiana Epistola Apologetica, Rimini 1745, p. XX. A Martello si deve la proposta di «una forma di commedia per letterati [...] fondata chiaramente su temi letterari anche se indirettamente facendovi rifluire elementi di vita e costume del tempo»: cfr. BINNI, op. cit. , p. 428.
183 L’epistola, del 15 novembre (?) 1761, è in FGLB, ad vocem. Essa è riprodotta in immagine in P. DELBIANCO, Il fondo Gambetti, «La Biblioteca Civica Gambalunga», cit., p. 54.
184 Riproduciamo alcuni passi della lettera: «Je regardai cet art dés mon enfance comme la premier de tous ceux à qui ce mot de beau est attaché. [...] Je voi avec plaisir que dans l’Italie cette mére de tous les beaux arts, plusieurs personne de la premiére consideration, non seulement font de Tragédies et del Comédie, mais les representent. [...] Y a t’il une meilleur éducation que de faire jouer Auguste à un jeune prince, et Emilie à une jeune princesse? On apprend en même temps à bien prononcer sa langue, et à la bien parler. L’esprit acquiert des lumiéres et de goût; le corps acquiert des graces; on a du plaisir, et on en donne trés honnétement. [...] Ce qul’il y avait de mieux au collége de jesuites de Paris où j’ai été élevé, c’était l’usage de faire representer des piéces par le pensionaires, en présence de leur parents». Dopo aver ricordato l’opposizione contro i Gesuiti da parte dei Giansenisti, Voltaire scrive: «On dit quel’ils fermeront bientot leurs ecoles; ce n’est pas mon avis. Je crois quel’il faut les soutenir et le contenir; leur faire païer leurs dettes quand ils sont banquerottiers; lese pendre même, quand’ils enseignent le parricide [...]. Mais je ne crois pas qu’il faille liver nôtre jeunesse aux jansénistes, attendu que cette secte n’aime que le traitté de la grace de St. Prosper, et se soucie de Sophocle, d’Euripide, de Terence» anche se quest’ultimo autore è stato tradotto dai Portorealisti. Prosegue il testo: «Faites aimer l’art de ces grand hommes (je ne parle pas des jansénistes), je parle des Sophocles. Vous serez secondé en deça des Alpes. Malheur aux barbares jaloux, à qui Dieu a refusé un coeur et des oreilles. Malheur aux autres barbares qui disent, on ne doit enseigner la vertu qu’en monologue, le dialogue est pernicieux. Eh! mes amis, si l’on peut parler de morale tout seul, pourquoi pas deux, et trois». Soltanto la chiusa con il saluto e con la firma, è autografa: «J’ai l’honneur d’etre, monsieur, avec une estime infinie votre tres humble e tres observent Voltaire gentilhome de la chambre du roy». A questa lettera del 1761 si riallaccia Bianchi scrivendo nella già cit. epistola a Pietro Godenti del 1762: «Io sono del sentimento del Signore di Voltaire che i persecutori de Gesuiti in Francia, che sono quei chiamati Giansenisti che sieno fanatici, e credo che sia meglio ad aver che fare coi Gesuiti, che coi Giansenisti». Planco si spinge a proporre l’abolizione di tutti gli Ordini religiosi: «basterebbe che ci fossero solamente i Preti, e questi anche non in tanta copia, come era nella primitiva Chiesa».
185 Questo aspetto è considerato fondamentale dalla COLLINA (op. cit., p. 18), la quale scrive che l’occasione per comporre l’Arte comica fu data a Bianchi dall’«infatuazione dell’autore per una certa signora Cavallucci» (p. 19). Alla Collina spetta il merito di aver, per prima, reso note alcune lettere di Garampi a Bianchi sulle critiche romane alla dissertazione, e sulla condanna della Congregazione dell’Indice (pp. 21-23). Circa il problema del Giansenismo, se nell’Arte comica si schiera dalla parte dei Gesuiti, Bianchi nella sua scuola privata fu avverso a questi ultimi, dichiarandosi «nimico sempre del Probabilismo» (GIOVENARDI, op. cit., p. XLVI), anche se non approfondisce mai il tema della nuova corrente teologica, tranne che nella cit. epistola a Pietro Godenti contro padre Concina.
186 Cfr. MASETTI ZANNINI, Canto profano, cit., p. 352: «la condanna all’Indice in cui era incorso per certe sue tesi, restava in vigore senza altre conseguenze, giacché prima Clemente XIV poi Pio VI lo nomineranno loro Archiatro onorario». Ad attirare l’attenzione, in senso negativo, su Bianchi, era stato forse anche un suo scritto minore apparso nel 1744, la Breve storia della vita di Catterina Vizzani Romana che per ott’anni vestì abito da uomo in qualità di Servidore la quale dopo varj casi essendo in fine stata uccisa fu trovata Pulcella nella sezzione del suo cadavero. Gli appetiti d’Amore, osserva qui Bianchi, spesso sono «strani veramente e incredibili oltremodo», al punto che non conoscono ostacoli o condizionamenti pur di «giugnere in fine al possedimento della disiata cosa». Commentando che ciò non deve destar meraviglia, Bianchi dimostra di considerare lecito ogni comportamento erotico, compreso quello della giovane romana, seguace di Saffo e delle altre «Donzelle di Lesbo», in contrasto con i dettami della Religione. In DE CAROLIS, La produzione pubblicistica su questioni mediche, in Giovanni Bianchi, Medico Primario..., cit., pp. 54-55, sono documentate le difficoltà incontrate da Planco per la pubblicazione del testo. Di Catterina Vizzani mi occupo nella comunicazione al Convegno degli «Studi Romagnoli» del 2001, intitolata «Contro il volere del padre». Diamante Garampi, il suo matrimonio, ed altre vicende riguardanti la condizione femminile nel secolo XVIII.
187 Cfr. SG, ad vocem.
188 Nella nuova serie delle «Nov.», che inizia, sempre a Firenze, nel 1770 dopo la morte di Giovanni Lami, Bianchi pubblica una lettera (cfr. I, 30, 27 luglio 1770, coll. 471-474), in cui ricorda la benevolenza usata dal papa nei suoi confronti: «Nostro Signore oltre ad avermi dichiarato suo Archiatro Segreto Onorario, mi ha fatto duplicare lo stipendio, che mi dava la mia Patria, acciocché possa tirare avanti i miei studi, e le mie stampe, raccomandandomi nelle sue lettere, che io seguiti a promuovere nella gioventù i buoni studi della filosofia tutta, e della lingua Greca spezialmente». (Nella cit. lettera di Amaduzzi a Bertòla del 3 gennaio 1776, leggiamo: «Perfine furono coronati gli ultimi anni della sua gloriosa vita dalla bella considerazione, che a mia petizione a lui del tutto incognita, si compiacque a fare della sua virtù, e della sua celebrità l’immortale Clemente XIV, la di cui memoria desterà sempre nel mio cuore la più tenera sensibilità, e la più alta ammirazione nella mente. Egli il dichiarò uno de’ custodi della sua salute, onde per Archiatro segreto onorario Pontificio fu indi riconosciuto, ed in tale occasione interpose pure quel gran Pontefice l’autorevole, e generosa sua mediazione perché la Patria il consueto onorario gli perpetuasse, ed insieme glielo duplicasse, come infatti seguì».) Nei citt. Viaggi 1740-1774, SC-MS. 973, c. 569v, 25 settembre 1769, Planco rammenta che Clemente XIV rispose alle sue felicitazioni per l’elezione, con una lettera «dove mi stimola a seguitare a promuovere li buoni studi di Filosofia, e di Lingua Greca nella Gioventù». Nel cit. TONINI, La coltura letteraria, II, p. 219, si legge che Ganganelli, nato nel 1705, si trattenne a Rimini «secondo alcuni» sino al diciottesimo anno, cioè sino al 1723 circa: la scuola di Bianchi, come s’è detto, inizia nel 1720. TONINI riporta (pp. 220-221) una missiva inviata a Bianchi da Ganganelli il 30 settembre 1759 (dopo la sua nomina a Cardinale), che citiamo però dall’ed. veneziana del tipografo Garbo (Lettere interessanti, 1778, pp. 115-116): «Ora conosco, che voi avevate ragione a sgridarmi, quando io non voleva studiare; adesso vi ringrazierei di quanto allora faceste per me [...]». Il 7 giugno 1758 (ib., p. 112) a Planco, Ganganelli aveva ricordato con «affetto» la città di Rimini («sono uno de’ suoi abitanti»), mentre il 15 settembre 1763 gli scrive: «non passa forestiere a Rimini, che non chiegga di vedere il Dottor Bianchi, e che non abbia il vostro nome registrato nel suo taccuino» (ib., p. 119). In altre edd. delle Lettere interessanti, al posto della parola «taccuino», leggiamo: «con delle carte» (Losanna 1777, III tomo, p. 125), oppure «tra i suoi ricordi» (Firenze 1829, II tomo, p. 146).
189 In BGR (segn. 11.MISC.RIM.CXIII,2) è conservata anche una Canzonetta in lode di Bella Cantatrice, appunto Antonia Cavallucci, «che mirabilmente canta nel Pubblico Teatro di Rimino», dell’avvocato riminese Giovambattista Zappi. Si tratta di un estratto a stampa del testo apparso «nel tomo X delle Rime degli Arcadi alla p. 368». Ne riferiscono le «Nov.», XIII, 5, 4 febbraio 1752, coll. 74-75, ove si scrive che la Cavallucci si stava esibendo a Rimini, col favore «delle Dame, e de’ Cavalieri, non meno che de’ Letterati di quella illustre Città». Dell’Ode planchiana che riproduciamo, le stesse «Nov.» citano soltanto il titolo, senza alcun commento, in XIII, 10, 10 marzo 1752, coll. 146-147. Il motivo della breve notizia è spiegato da Lami a Bianchi con un disguido tipografico: Lami non ritenne opportuno ritornare sull’argomento con un articolo inviatogli successivamente da Planco (cfr. COLLINA, op. cit., pp. 19-20). La Collina scrive pure che Bianchi aveva composto per la Cavallucci «alcune canzonette» (p. 19), ricavando la notizia da una lettera del ravennate Gioseffantonio Pinzi che parla di «belle poetiche composizioni in lode della Signora Cavallucci» (ib., pp. 20-21). L’Ode planchiana che pubblichiamo venne considerata dal cit. MAZZUCCHELLI (p. 1139, nota 9) non composta da Bianchi ma a lui «indirizzata». Questa notizia erronea fu poi ripresa da GIOVENARDI nella cit. Orazion funerale..., p. XLVI.
190 La dissertazione è preannunciata da Bianchi nel suo testo In lode dell’arte comica, cit., pp. 4-5.
191 MASETTI ZANNINI, in Vicende accademiche, p. 62, considera il discorso di Fabbri come «una difesa» dell’iniziativa planchiana «tanto discussa, e ridicolizzante, da far pensare che il successivo silenzio dell’Accademia fosse da ciò, più dalle cause indicate dal Bianchi, motivato».
192 Per entrambi gli argomenti, cfr. il fasc. 222, FGMB. Nelle «Nov.» di vari anni, si trovano numerosi interventi di Bianchi su argomenti antiquari ed iscrizioni antiche. Sulla dissertazione n. 29 (lettura delle missive del governo di Firenze), cfr. A. MONTANARI, “Ritrovati” i Malatesti dei Lincei, «Il Ponte, settimanale cattolico riminese», XXVIII, 46, 21 dicembre 2003, p. 31, consultabile in Riministoria, <http://digilander.libero.it/monari/spec/2003/878.malatesti.lincei.html>: qui si accenna brevemente anche al contenuto della dissertazione n. 30 (De rebus antiquis) che, come si dirà, è una polemica di Bianchi con il gesuita padre Zaccaria.
193 Dell’argomento si è occupato il medico e storico della medicina dottor Stefano De Carolis (in precedenza cit. per il volume Giovanni Bianchi, Medico Primario di Rimini ed archiatra pontificio): cfr. Un pittore seicentesco ed una Beata medievale: Angelo Sarzetti (1656-1700 c.) ed il "corpo" della Beata Chiara da Rimini, «Atti della XXXV Tornata dello Studio Firmano per la Storia dell'Arte Medica e della Scienza», a cura di A. SERRANI, Fermo 2002, pp. 69-75. «Nel 1756», mi ha cortesemente spiegato lo stesso dottor De Carolis, «Giovanni Bianchi pubblicò nella Nuova raccolta d’opuscoli scientifici e filologici la lettera latina De urina cum sedimento caeruleo. In essa descrive il caso d’un uomo di sessant’anni, morto dopo avere espulso per una decina di giorni un’urina caratterizzata da “un sedimento d’un bel colore azzurro”. Questo fatto singolare è stato sempre interpretato come un caso d’indicanuria: in realtà un’attenta rilettura dell’epistola in questione ed il ritrovamento, fra le carte manoscritte del Bianchi, dei campioni di sedimento urinario da lui stesso raccolti e conservati, permette di formulare su quest’inusuale reperto patologico ipotesi del tutto nuove».
194 Ovviamente, il testo italiano è tradotto in latino nel Codex, c. 20v. Questo testo latino si legge anche nelle citt. Vicende accademiche, pp. 109-110.
195 Cfr. MONTANARI, La Spetiaria del Sole, cit., p. 15.
196 Si tratta del prologo già ripetutamente cit. in alcune sue parti.
197 Battarra (1714-1789) collaborò assiduamente con Bianchi, come incisore di rami per edizioni a stampa: cfr. Grafica riminese tra Rococò e Neoclassicismo, disegni e stampe del Settecento nella Biblioteca Gambalunghiana, Rimini 1980, pp. 62-69. Battarra disegnò pure la «Lince lincea» per il Fitobasano cit., e quella per il bollo a secco dell’accademia, conservato su due dei tre diplomi originali allegati al ms. 1183, BGR: si tratta di quelli di Cella e Santini. Sia Bianchi sia Battarra, per quanto riguarda le illustrazioni dei testi scientifici, sembrano riprendere la lezione di Fabio Colonna, sulla quale cfr. E. RAIMONDI, La nuova scienza e la visione degli oggetti, ne I sentieri del lettore, II, cit., pp. 31-33. Bianchi nelle «Nov.» VIII, 35, 1. settembre 1747, coll. 552-559, dà notizia che Battarra, «nostro Accademico Linceo», s’applica «molto allo studio della Botanica, e che ad imitazione del famoso Fabio Colonna altro Accademico Linceo disegna da se egregiamente le Piante, e le incide in Rame, essendo ora intorno allo studio de’ Funghi, de’ quali ha disegnate da quattrocento Tavole, che ora va incidendo in Rame per darle poi fuori alla luce insieme con la loro Istoria». Quest’opera, la Fungorum agri ariminensis historia, con una lettera latina di Bianchi al cap. quinto, esce in due edizioni, nel 1755 (cfr. «Nov.», XVI, 36, 5 settembre 1755, coll. 564-568) e quattro anni dopo. Sui rapporti burrascosi fra Bianchi e Battarra per la questione dell’apertura degli avelli malatestiani del Tempio nel 1756, cfr. A. MONTANARI, Eruditi e maldicenti, «Il Ponte, settimanale cattolico riminese», XXVIII, 37, 19 ottobre 2003, p. 25, consultabile in Riministoria, <http://digilander.libero.it/ilrimino/att/2003/eruditi.846.html>. Su questo argomento, cfr. pure ID., Tempio, il segreto delle tombe, «Il Ponte, settimanale cattolico riminese», XXVIII, 2, 12 gennaio 2003, p. 17, <http://digilander.libero.it/monari/spec/avelli.736.html>; ID., Passioni malatestiane del 1718, «Il Ponte, settimanale cattolico riminese», XXVIII, 35, 5 ottobre 2003, p. 21, <http://digilander.libero.it/ilrimino/att/2003/passioni.840.htm>.
198 E’ giunta notizia soltanto della cit. dissertazione n. 2, del 3 dicembre 1745, dell’abate Stefano Galli, appunto «sopra l’utilità della lingua greca».
199 Su come il giovane Bianchi fraintese il senso dello scritto di Muratori, cfr. il cit. G. B. studente di Medicina, pp. 382-384.
200 L’argomento è trattato da Amaduzzi nel discorso filosofico intitolato Sul fine ed utilità dell’Accademie. Cfr. al proposito MONTANARI, Amaduzzi, Scipione De’ Ricci ed il ‘giansenismo’ italiano, cit., pp. XXXI-XXXII.
201 Qui Bianchi ricorda, come già abbiamo visto alle note 2 e 38, che la sua chiamata a Siena era avvenuta «senza nessun mio previo impegno». Possiamo aggiungere che questa nomina provocò, secondo il presente scritto di Planco, l’invidia di «Toscani, e Lombardi, ed altri d’altre Nazioni»; e che «gli Effetti della quale Invidia» allora si andavano «anche pubblicamente veggendo». Di questi effetti, c’è una testimonianza in un epitaffio senese in cui Bianchi è definito «più sacrilego e osceno di Calvino»: cfr. COLLINA, op. cit., p. 26.
202 Cfr. E. BRAMBILLA, La medicina del Settecento: dal monopolio dogmatico alla professione scientifica, in Storia d’Italia. Annali 7. Malattia e medicina, Torino 1984, p. 12.
203 In SG, ad vocem, viene elencata la sua Istanza autografa a Benedetto XIV «per ottenere di fare le sezioni di Cadaveri», nella quale «fu segnata la grazia con Rescritto dei 18 aprile 1745».
204 Ib., p. 14.
205 Cfr. E. RAIMONDI, Il barometro dell’erudito, in Scienza e letteratura, Torino 1978, p. 58.
206 Ib., pp. 57-58. Cfr. anche il cit. Modelli letterari, p. 282.
207 Cfr. BRAMBILLA, op. cit., p. 15.
208 Cfr. il cit. fasc. 219, FGMB, e la relativa nota nel cit. Codex, c. 16v.
209 Cfr. il cit. Codex, c. 20v.
210 Cfr. A. TURCHINI, Scienza e cultura a Modena: l’attività dell’Accademia dei «Conghietturanti» (1751-1764), in Accademie e culture, Aspetti storici tra Sei e Settecento, Firenze 1979, pp. 273-287. Le dissertazioni proposte da Bianchi a tale accademia per il 1757 furono pubblicate dalle «Nov.», XVIII, 7, 18 febbraio 1757, coll. 98-99, sotto la data non di Modena ma di «Rimino». Ricordiamo che il 7 settembre 1754 Bianchi era stato ascritto alla Crusca: cfr. lettera in tale data di Lami (FGLB, ad vocem). Circa i «Conghietturanti», il 3 dicembre 1763 così Bianchi ne scrive a padre Zaccaria: il suo «impiego» di principe dell’accademia «non frutta niente, e serve solo di dispendio per le lettere, e per altre cose, essendo solamente onorifico»: cfr. Minutario 1761-75, SC-MS. 971, BGR, c. 173r. Nelle SG, ad vocem, troviamo elencate le onorificenze attribuite a Bianchi: «Famigliare del card. Cornelio Bentivoglio» (1727); accademico dei Filomati di Cesena (1731), degli Apatisti di Firenze (1742), accademico «Fiorentino» (1745), dei Catenati di Macerata (1751), «Etrusco» di Cortona, dell’accademia di Storia ecclesiastica di Lucca, e dei Georgofili di Firenze (1753), della Crusca (1754), del Buon Gusto di Palermo, degli Erranti di Fermo (1755), degli Agiati di «Roveredo» (1756); accademico dell’Accademia Botanica e di Istoria naturale di Cortona (1757), dell’Accademia di Scienze e Belle Lettere di Berlino (7 settembre 1758), dell’Accademia Fulginia di Fuligno (1759), della Repubblica Letteraria degli Umbri di Fuligno (1761), dell’Accademia Botanica di Firenze (1762), dei Fisiocratici di Siena (1763), dell’Accademia di scienze di Mantova (1765), dei Sepolti di Volterra (1766). Inoltre, nelle stesse SG, si riportano il diploma di aggregazione nel Collegio dei Filosofi e Medici in Venezia (1760) e quello di «Principe dell’Accademia dei Congetturanti di Modena» del 4 gennaio 1757, confermato nel 1765 «usque ad aras». Le «Nov.», XVII, 31, 30 luglio 1756, coll. 487-490, pubblicano una lettera di Bianchi (del 3 luglio) in occasione della sua nomina tra gli Agiati di «Roveredo», in cui leggiamo che esisteva a Rimini da più di cento anni l’Accademia degli Adagiati: essa «per essere di Poesia, come tant’altre d’Italia, ora è stata come assorbita e confusa da quella degli Arcadi della Colonia Rubiconia, dedotta quì in Rimino sessant’anni sono, cioè fin da’ primi anni della fondazione dell’Arcadia di Roma, i cui Vicecustodi fin da quel tempo senza alcun interrompimento quì sono sempre durati, e durano ancora».
211 Il brano, che appartiene alle cc. 4-5 del fasc. 75, FGMB, è del tutto inedito. Esso manca nel cit. TURCHINI, Scienziato, maestro e uomo di cultura, pp. 26-27, ove di questi Congressi letterari del 1761 si dice invece che sono attribuibili al 1755.
212 Cfr. alla nota 77 l’elenco apparso nei Recapiti (1751), pp. VI-VII.
213 «Il Liceo privato istituito e gestito a Ri-mini da Giovanni Bianchi, venne frequentato anche da Giovanni Cristofano Ama-duzzi. Preziosa testimo-nianza dell’attività didattica che vi si svolgeva, sono i sette compiti (finora inediti), as-segnati da Planco e svolti da Amaduzzi, ora conservati nella Biblioteca dell’Accademia dei Filopatridi. Della loro esistenza ho dato per primo notizia nel 1992 nel volume Lumi di Romagna (nota 1, p. 102). Amaduzzi, in una pagina anch’essa inedita (Manoscritti n. 33, c. 35, [BFS]), scrive di sé: “Ha atteso per sette anni allo studio della Filo-sofia e Lingua Greca sotto la disci-plina del Ch: Dott. Gio-vanni Bianchi”. I compiti si riferiscono agli anni 1757-59. La frequenza del Li-ceo planchiano è relativa al periodo 1755-62. Nel 1762 in-fatti Amaduzzi, all’età di 22 anni, viene avviato a Roma dal suo mae-stro. Gli argomenti dei sette compiti svolti da Amaduzzi sono relativi alla Filosofia e alla Scienza, e propongono questi ar-gomenti: l’impossibilità di difendere il sistema to-lemaico; la funzione della lo-gica artificiale come propedeutica alle altre Scienze; la forza elettrica; gli spi-riti degli animali bruti; la sede nel cer-vello degli affetti dell’animo; i nervi dell’udito; la digestione. L’esperienza di Amaduzzi nel Liceo pri-vato di Planco ha un suo molteplice si-gnificato. Il savignanese conosce argo-menti filoso-fici che in seguito approfon-dirà e svilupperà in tre impor-tanti Discorsi (una cui sintesi è nella mia Appendice alla ristampa anasta-tica de La Filosofia alleata della Religione che dei tre Di-scorsi è il secondo). Inoltre Amaduzzi si accosta a problemi me-dici ai quali non sarà mai indiffe-rente, se raccoglierà nella propria biblio-teca (ora presso i Filopatridi), molti opuscoli che ne trattano. Infine l’esperienza con Bianchi lascerà in Amaduzzi una traccia nel terzo Di-scorso, Dell’indole della verità e delle opinioni, dove (p. 51) l’ex allievo pole-mizza con l’antico mae-stro, quasi a vo-lere insinuare che Planco nulla avesse compreso delle teorie di Newton. [...] In sostanza, Bianchi appariva più come un vecchio umanista che un nuovo filo-sofo dell’età dei Lumi. Di ciò si ha con-ferma se si confrontano i titoli dei com-piti asse-gnati da Planco con gli ar-gomenti affrontati negli stessi anni su periodici e libri scienti-fici. Planco ap-pare su posizioni incerte ed arretrate. Costringere gli allievi a spiegare che il sistema tolemaico non poteva essere di-feso “nulla ratione”, a oltre due secoli dall’opera di Copernico, significava di-scutere di argomenti polverosi, mentre la Nuova Scienza percorreva le strade d’Europa. Planco sembra riproporre ai suoi allievi gli stessi argomenti da lui studiati qu-and’era giovane, prima a Rimini e poi a Bologna. Nella terminologia usata in quei temi liceali, ci sono talora ri-cordi cartesiani, come là dove si parla di “spiriti ani-mali” (si veda al proposito il cap. XVII del Discorso sul metodo). Altri argo-menti (sede degli affetti, digestione), vanno invece in dire-zione opposta, ne-gando le tesi di Descartes.» Cfr. i citt. I compiti del giovane Amaduzzi alla scuola riminese di Iano Planco; ed Amaduzzi e la scuola di Iano Planco; e A. MONTANARI, Filosofia e politica in G. C. Amaduzzi, consultabile in <http://digilander.libero.it/monari/spec/2003/829.amaduzzi.html>.
214 Si tratta del necrologio apparso sulle nuove «Nov.» di Firenze, VII (nuova serie), 1776, 2, coll. 21-27 e 3, coll. 37-41. Questo «compendio dei pregi d’un tanto letterato», si dice comunicato «da uno dei migliori suoi Allievi», in aggiunta all’autobiografia latina. Battarra stesso è definito «noto Naturalista» (col. 37). Circa la paternità dell’articolo, essa fu dapprima attribuita ad Amaduzzi medesimo («che per qualche tempo fu discepolo del nostro Monsignore», come leggiamo a col. 25): cfr. Elogio dell’abate G. C. Amaduzzi ... scritto dall’abate don Isidoro Bianchi, p. 59, nota 14. Tale Elogio, recitato dall’autore a Mantova il 29 novembre 1793, apparve a stampa a Pavia l’anno successivo (Amaduzzi era scomparso il 21 gennaio 1792). Secondo il medesimo Amaduzzi, l’Elogio in memoria di Iano Planco poteva invece essere attribuito al ricordato Battarra o forse ad «un tal Drudi, medico che studia ora a Firenze» (cfr. FABI, Aurelio Bertòla e le polemiche, cit., p. 24, lettera a Bertòla). Lorenzo Drudi «fu un sapiente Medico, profondo filosofo, libero Pensatore, e in ogni genere di letteratura assai erudito, e buon critico, gran Bibliografo», nonché bibliotecario della Gambalunghiana tra 1797 e 1818: cfr. URBANI, Raccolta..., cit., p. 265. (Planco, nel proprio testamento, lo aveva inserito nella terna di nomi tra cui scegliere l’incaricato per la sua orazione funebre, assieme a don Giovanni Paolo Giovenardi, che poi la compose, ed al dottor Cesare Torri di Jesi.)
215 Ib., alla col. 25.
216 Cfr. «Nov.», I (nuova serie), 30, 27 luglio 1770, coll. 471-474, cit.
217 Per una breve biografia di Battarra, cfr. il cap. 2, Giovanni Antonio Battarra, Filosofia e funghi, in Lumi di Romagna, cit., pp. 19-26.
218 Prosegue il testo, riprendendo un concetto già espresso nella parte che in precedenza abbiamo ricordato: «né questi [segreti] mai a gente oziosa fa manifesti, ma solamente a quei che assiduamente, e da vicino la contemplano, né in vani amoretti con femminucce si perdono o al solo vile guadagno attendono [...]». (Cfr. fasc. 219, FGMB.) L’insegnamento di Bianchi, se in taluni momenti piegò verso il dogmatismo dell’erudizione «oratoria o all’antica», in molti altri invece ebbe come prima caratteristica l’invito alla curiosità, all’aggiornamento, al commercio epistolare ed intellettuale, secondo i canoni di quella parte della società settecentesca che tendeva più al rinnovamento che alla conservazione. (Nel cit. RAIMONDI, Ragione ed erudizione, sulla scia di L. A. Muratori, si contrappone ad un’erudizione «oratoria o all’antica», quella «di gusto moderno, sul tipo scientifico, [...] legata allo spirito critico e nutrita di ragione moderna», p. 141.)
219 Cfr. EPICURO, Opere, Milano 1993, p. 353.
220 Cfr. DIOGENE LAERZIO, Vite dei filosofi, Milano 1993, p. 417. Abbiamo già ricordato che nel cit. fasc. 315, FGMB, è presente una versione in latino della Vita di Epicuro di D. LAERZIO.
221 Cfr. Gli Illuministi francesi, a cura di P. ROSSI, Torino 1962, p. 196. Desidero citare da questa traduzione, per collegarmi idealmente, tramite un volume usato nei miei studi universitari, all’esperienza fondamentale avuta al Magistero di Bologna, nel Corso di Storia della Filosofia (materia in cui ho discusso la tesi di laurea), con il prof. Paolo Rossi, fresco titolare della Cattedra. Come Giovanni Bianchi ricordava i propri scolari, allo stesso modo l’antico allievo oggi vuole testimoniare riconoscenza verso un grande Maestro avuto negli anni giovanili.
222 Cfr. C. BORGERO, L’egoismo e il benessere, in Storia della Filosofia. 4. Il Settecento, cit., p. 186.
223 Pangloss sentenzia che Leibnitz non poteva «pas avoir tort» (cap. XXVIII). In un’edizione su Internet, a cura di C. PAGANELLI e S. SEGHETTI, si trova la traduzione (di ignoto) apparsa nel 1882 presso l’ed. Sonzogno, nella collana Biblioteca Universale, con un capitolo decimo («Candido continua i suoi viaggi. Nuove avventure») che non corrisponde a quello originale di Voltaire. Merita riportarne qualche passo, dove ripetutamente torna il nome di Leibnitz: «Voi siete dunque cartesiano, dicono i viaggiatori. - Senza dubbio, risponde Candido, e, quel ch’è più, seguace di Leibnitz. - Tanto peggio per voi, soggiungono i viaggiatori; Cartesio o Leibnitz non avevano senso comune. Noi altri siamo neuttoniani, e ce ne gloriamo, e se si disputa, è solamente per affondarci ne’ nostri sentimenti, e siamo tutti d’un istesso parere. Cerchiamo la verità sulle tracce di Newton, perché siamo persuasi che Newton è un grand’uomo. - Anco Cartesio, anco Leibnitz, anco Pangloss, disse Candido, son grandi uomini, che non cedono a un altro. [...] Avete voi letto le verità che il dottor Clark dà in risposta a’ sogni del vostro Leibnitz?». (Samuel Clark, 1675-1729, compose il volume Sull’esistenza e sugli attributi di Dio, 1705, e fu in aspro scambio epistolare con lo stesso Leibnitz.)
224 E. GARIN, Storia della filosofia italiana, II, Torino 1966, pp. 872-873.
225 Cfr. COLLINA, op. cit., p. 89.
226 Cfr. P. CASINI, L’ordine della natura, in Storia della Filosofia. 4. Il Settecento, cit., p. 211. Scrive il cit. MAMIANI, La struttura dell’universo, p. 4, che «la diffusione del poema di Lucrezio, e con esso della fisica atomistica ed epicurea, aggiunse [...] un nuovo elemento di complessità» alla ricerca scientifica «che avrebbe sempre più preso le distanze tanto dalla magia ermetica quanto dalla matematica simbolica».
227 Cfr. Libro V, vv. 845-848: «Generava ogni sorte di mostri e prodigi, / ma invano, poiché la natura ne impedì la crescita: / quei mostri non poterono raggiungere il fiore desiderato dell’età, / né trovare cibo, né congiungersi nell’atto di Venere» (cfr. trad. di L. CANALI, Milano 1994, p. 487). Il tema è ripreso nella Lettera sui ciechi, 1749, da Diderot che «condivide - e soprattutto osa esporre a stampa - i rudimenti di una teoria biologica ‘trasformistica’»: cfr. CASINI, L’ordine della natura, cit., p. 211.
228 Dei Lincei riminesi hanno anche trattato B. ODESCALCHI, Memorie istorico-critiche dell’Accademia de’ Lincei e del Principe F. Cesi, Roma 1806, pp. 291-303; C. GIAMBELLI, L’Accademia dei lincei, «Nuova Antologia», 1 marzo 1879, p. 142.

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Antonio Montanari


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