il Rimino n. 84. Novembre-Dicembre 2002
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Ettore Masina, lettera di novembre: quei governanti inetti, dai fiumi alla Fiat
Novembre 2002

1. Fiumi

Novembre, mese di fiumi. Fiumi che escono dagli argini, trascinano sulle coltivazioni tronchi d'alberi e pietre e automobili e il fango velenoso delle fabbriche allagate.
Fiumi che sbrecciano la terra, si ingrossano sui pendii delle montagne traendone frane rovinose, travolgono povere case che sembravano meravigliose a chi se le era costruite con sacrifici annosi, talvolta con le proprie mani...
Fiumi ingrossati in poche ore da una pioggia cattiva, diluviale, che infierisce come mai aveva fatto nei secoli scorsi; agitati da venti di una brutalità che non conoscevamo; e gli scienziati convocati dagli ormai inguardabili telegiornali, a dire che le cose sono cambiate, che volete farci? adesso è così, dobbiamo abituarci a questa nuova violenza degli elementi: quasi che un'orrenda fatalità o un dio malvagio avesse deciso di rendere il mondo più difficile da abitare, corrose le stagioni, piante che fioriscono ai margini dell'inverno e nevi improvvise a primavera inoltrata, e trombe d'aria dove non se n'erano mai viste.
E i nostri politici a improvvisare stati di emergenza, provvedimenti economici, che arrivano con mostruosi ritardi e dei quali si arricchiscono spesso le mafie locali. Continuando a cementificare, dovunque.
E nessuno (o quasi) ad alzare la voce per dire: non è un creatore impazzito a violentare la Terra, a sfigurarla, siamo noi uomini: i criminali (criminali o criminalmente inetti) che ci governano senza voler guardare il futuro, consegnandolo senza rimorsi a un industrialismo selvaggio che ha occhi soltanto per i listini di borsa; senza neppure tentare di opporsi al potere imperiale che dice: "Non rompeteci le scatole: sugli inquinamenti industriali, sullo sfacelo planetario fate gli accordi che volete, noi non li firmiamo - e se li abbiamo firmati li rinneghiamo".
Sulle rive di quei fiumi noi piccoli, in silenzio, impauriti, solo a tratti incolleriti, ma incapaci di strapparci alle speranze di qualche misero tornaconto individuale che fu alla base del nostro voto alle elezioni.

***

Fiumi umani, rossi di bandiere e di collera. Martedì scorso sono stato a lungo a contemplare il corteo dei metalmeccanici, venuti a Roma per dire no alla distruzione del loro futuro.
Chi ha detto che gli operai non ci sono più? Martedì erano tanti e compatti a sfilare per le vie della Capitale. Che lunga storia portavano con loro: di diritti negati, conquistati, nuovamente posti in pericolo; e, sempre, la condanna a incerti domani.
Quelli della FIAT, poi, sono i "figli di un dio minore" nella vicenda di una grande impresa, una azienda gonfiata a dismisura dalle scelte politiche che hanno privilegiato in Italia i trasporti su gomma (e su asfalto e cemento); un'industria ai cui margini, negli anni d'oro, un'oligarchia di super-azionisti si divideva "interessi" pari al monte-salari di centinaia di migliaia di lavoratori.
Adesso che i nodi sono venuti al pettine e l'insipienza dei padroni e dei dirigenti è esplosa in una crisi durissima, quei guadagni, che portarono la dinastia degli Agnelli sempre più su nella classifica mondiale dei Ricchi, sembrano evaporati, il piano dell'azienda (e dei padroni) è cassa integrazione a zero ore, nerissime nubi sull'avvenire dei dipendenti e, una volta di più, come sempre nei momenti difficili, il ricatto allo Stato: "Noi non possiamo fare altro".

***

Lunghi rivoli neri o grigio-scuro di parlamentari che scendono dall'emiciclo di Montecitorio a brucare devotamente la mano del Vecchio Pontefice venuto a visitare il parlamento italiano, con buona pace della laicità dello Stato.
Inchini e sorrisi da pubblici peccatori, per usare una terminologia cara al Vaticano; da razzisti e da gente pronta a portare l'Italia in guerra, per dirla in maniera più schietta.
Naturalmente in questo parlamento, come in quelli di tutti i tempi della democrazia italiana, non mancano persone "perbene"; ma anche loro, come tutti noi, avrebbero avuto bisogno (più che mai in questi giorni) di un profeta: e hanno incontrato soltanto un rispettabile moralista di buon senso.
Le due parole-chiave del nostro tempo ("razzismo", per l'appunto; e "guerra") non sono state pronunziate: eppure sono i massimi peccati sociali, quelli di cui il parlamento può rendersi (e già la maggioranza si è resa; e nuovamente sta per rendersi) colpevole.
Ma ci si poteva davvero attendere una profezia? Quello che è entrato nell'aula di Montecitorio doveva essere considerato, secondo il cerimoniale, un Capo di Stato (neppure di uno Stato democratico, per la verità) non un apostolo.
Bastava quell'orribile bandiera bianco e gialla con la tiara e le chiavi incrociate posta sul balcone della Camera per comprendere che ciò che si celebrava era un incontro di VIP, non di coscienze.
Chissà dove si è fermato Cristo, quel giorno. Io ho risentito nel mio cuore, con una nostalgia che quasi mi faceva piangere, la voce di Paolo VI nel Palazzo di Vetro, a New York, anno 1966, levarsi come un grido davanti all'assemblea dei popoli: "Mai più la guerra, mai più!".

***

Rigagnoli di fogna che fuoriescono dalle condotte. Leggi prostituite «ad personam» per garantire impunità a potenti che si ritengono intoccabili. Un presidente del Consiglio che, chiamato a testimoniare in un processo per mafia, si avvale della facoltà di non rispondere, cioè si rifiuta di aiutare i giudici nel loro lavoro. Vere e proprie minacce, in continuazione, ai magistrati che pronunziano sentenze sgradite al Cavaliere e al suo squadrone...
E "il caso Andreotti". Presunto innocente sino a condanna definitiva, naturalmente. Terribili le imputazioni, gravissima la condanna, tanto più per un vecchio.
Ma, senza attendere di leggere le ragioni della sentenza, ecco scattare un processo di beatificazione dell'uomo che per mezzo secolo sedette sulle poltrone più importanti dei governi italiani.
Fa sapere di essere turbato Carlo Azeglio Ciampi (che pure è il presidente del Consiglio superiore della magistratura e, almeno lui, dovrebbe mantenersi sereno e silenzioso davanti alle sentenze dei giudici), mandano soavi messaggi di solidarietà il cardinale Ruini e i vescovi italiani.
Il Polo delle libertà osanna l'uomo che, per la verità, non aderì mai alle lusinghe berlusco-finiane e lo esibisce come un povero ottuagenario crocifisso della furia iconoclasta, anzi sadica, dei giudici "rossi".
Nell'opinione pubblica prevale lo sbalordimento: la maggior parte dei cittadini credeva (è un sondaggio di cinque anni fa) che Andreotti non sarebbe mai stato condannato perché troppo potente.
La realtà evapora nel timore reverenziale, quasi si trattasse di un'offesa gratuita a un Benemerito della Nazione: come se Andreotti non fosse stato per cinquant'anni un genio del clientelismo, un monopolista del potere e, peggio ancora, un amico senza remore e senza pentimenti di gente come Salvo Lima, Ciarrapico, Sbardella, i Caltagirone, Vitalone, Lo Prete. (E quasi non fosse lui che ha portato l'Italia nella guerra del Golfo, alla faccia della nostra Costituzione).

***

Fiume di acque limpide e colorate, di canzoni e di amicizie antiche che si aprono in cerchie sempre più vaste.
Popolo che si rifiuta di stare sulle rive dei fiumi del consumismo e del potere; che non canta per i Signori che credono di possedere il mondo ma neppure tiene le cetre appese ai salici: la musica l'adopra come sfida e come speranza. Popolo di ragazzi che cercano maestri e non temono di udire parole scomode.
Popolo di anziani che preferiscono ascoltare piuttosto che elargire discorsi che comincino con le parole "Ai miei tempi...".
Popolo di minoranze abramitiche, come le chiamava Helder Camara, per dire che non hanno paura di lasciare le terre note della vecchia storia e del sistema "consolidato", per affrontare un cammino verso la Terra nuova della giustizia fraterna.
Popolo di uomini, donne, ragazzi e anche bambini. come sarebbe piaciuto a Turoldo, penso, a Balducci, a Tonino Bello, a La Pira, a Dossetti, a Capitini...
Firenze conquistata da una gioia di vivere il cui spettacolo dev'essere stato atroce condanna per quella Fallaci, avvelenata da un odio primordiale, da un delirio di narcisismo.
Popolo di credenti, magari senza saperlo, nel vangelo di giustizia e di liberazione. Ma popolo al quale si sono negati i vescovi, anche quello di Firenze; e si sono negate, per mondanissima prudenza, le "Sentinelle del mattino": Azione cattolica, ACLI, Movimento scautistico.
Drammatiche occasioni mancate per una Chiesa che non riesce a convertirsi al capitolo XXV del vangelo di Marco, vv. 31-46 neppure nei giorni in cui lo proclama dagli altari.
Fiume in cui entrare, tutti noi che vogliamo deporre per sempre le tentazioni dell'odio, del superfluo, della disperazione. Per costruire insieme - nella certezza che un altro mondo è possibile - il no alle guerre e paci che siano feste di giustizia per i poveri.

2. I bambini argentini

Al mio appello per la fame dei bambini argentini (di questa atroce situazione hanno poi parlato a lungo i quotidiani) hanno risposto tre persone. In conseguenza la raccolta (Coniugi Faccin, Luciana Amato, Coniugi Masina) è per il momento di ¤ 650, che saranno consegnate alle Abuelas de Plaza de Mayo in occasione di una prossima venuta a Roma di "Lita" Boitano e di Estela Carlotto.

3. Una donna

E' morta a Roma Marisa Musu, 77 anni, partigiana a 19, una donna di grandissimo coraggio: che non vuol dire follìa né incapacità di cogliere la realtà, vuol dire capacità di vincere la paura.
Mi raccontò una volta che un nazista l'aveva fermata mentre portava una borsa della spesa piena di bombe a mano: "Mi domandò che cosa ci fosse dentro; e con orrore io sentii la mia voce dichiarare: Bomben. Hai capito? Glielo dicevo pure in tedesco. Ma non smisi di sorridere e quel sorriso mi salvò: il tedesco mi diede una pacca sulla spalla. «Va', va'»".
Marisa sorrideva con un riso da ragazza anche negli ultimi tempi in cui sapeva di avere un futuro cortissimo, divorato da un cancro.
Aveva fondato in anni ormai lontani il Coordinamento Genitori Democratici, che ebbe un ruolo fondamentale nella "tenuta" costituzionale della scuola pubblica, e continuava ad occuparsi di bambini.
Giornalista, scrittrice e militante politica, avendo affrontato di persona, avendo visto con i suoi occhi, "più spaventata che mai", gli orrori dell'occupazione israeliana, aveva fondato una piccola associazione per l'aiuto ai bambini palestinesi feriti o mutilati dalla violenza dei soldati di Sharon.
Ne sfogliava le fotografie come se fossero state di figli cari. Credo che pensò di essere già un po' morta quando non poté più andare, con la sua paura e il suo coraggio fra gli ulivi abbattuti, i mandorli schiantati dai tanks, le case sventrate di quella terra santa, a deporre col suo sorriso semi di inesauste speranze.

4.I libri

Tutte le amiche e gli amici di LETTERA portano in cuore il ricordo senza sbiadimenti di Ernesto Balducci, che ci insegnò a leggere la presenza del Cristo nella storia. La ricchezza della sua vita e del suo pensiero hanno trovato adesso una prima (e ammirevole) "sistemazione" in un libro di Bruna Bocchini Camaiani: "Ernesto Balducci. La Chiesa e la modernità", editori Laterza, ¤ 24,00.
Bruna ha fatto parte della cerchia intima delle amicizie di Balducci e tuttavia ne racconta la storia da quella scienziata che è, senza cedere a sentimentalismi ma con la penetrazione intuitiva che l'affetto le concede: storica della Chiesa moderna e contemporanea e responsabile dell'Archivio della Fondazione Balducci, si è mossa con sicurezza in una miniera che si annunzia di enorme ricchezza.

Ho letto con crescenti commozione e ammirazione il romanzo di Abraham B. Yehoshua: "Un divorzio tardivo", Einaudi, ¤ 9,04. E' la storia dolorosa dello sfascio di una famiglia israeliana, lambita dalle onde della follìa e della perversione, in città (Gerusalemme, Haifa e Tel Aviv) in cui la tragedia palestinese non è neppure avvertita come lontano orizzonte. (Ma Yehoshua è uno dei grandi scrittori israeliani che ha sfidato il crudele editto di Sharon, andando per un giorno a raccogliere le ulive nei territori occupati).
27 novembre 2002
Ettore Masina
Boscovich a Rimini nel 1752 per misurar la terra
Alla Gambalunga una mostra sul celebre gesuita dalmata


Alberto Melucci, sociologo dell'ascolto.
Lo studioso riminese ricordato all'Università di Milano

Giovanni Maria Bertin, ricordo di un Maestro

Venerdì 15 novembre 2002 Giovanni Maria Bertin è scomparso a Bologna all'età di 90 anni, compiuti poco più di due mesi prima.

Nel 1960 mi iscrissi al corso di Pedagogia della Facoltà di Magistero di Bologna. La Cattedra di Pedagogia era tenuta da Giovanni Maria Bertin che era anche Preside di Facoltà. Furono anni di grandi Maestri al Magistero. C'erano Ezio Raimondi per Letteratura italiana, Gina Fasoli per Storia Medievale e Moderna. Sarebbe poi arrivato in Storia della Filosofia, quando frequentavo il terzo anno, Paolo Rossi il quale avrebbe quasi subito abbandonato Bologna per Firenze. Estetica era affidata a Luciano Anceschi. Enzo Melandri tenne le lezioni del mio secondo corso (al quarto anno) di Filosofia teoretica, parlando di Logica. (Con Rossi 'presi' la tesi, sull'Irrazionalismo italiano nelle riviste del primo Novecento, avendo come controrelatore l'italianista Raimondi, il quale nel frattempo mi fece pubblicare un breve saggio nella rivista «il Mulino», dedicato al volume di Luigi Barzini junior, «Gli italiani».)

Bastano questi nomi per fotografare il clima intellettuale della nostra 'piccola' Facoltà, i cui allievi erano considerati di grado inferiore rispetto agli altri universitari perché usciti dall'Istituto Magistrale che era più breve di un anno dei due Licei (dai quali si riteneva sortisse la crema della cultura nazionale).

Noi delle Magistrali di Rimini provenivamo poi da una scuola comunale, in cui non sempre i docenti erano il meglio della piazza, se li confrontavamo con quelli che i due Licei cittadini fornivano ai loro studenti. La nostra era una preparazione modesta, tutta centrata su di un apprendistato intellettuale svolto con molta superficialità, anche per colpa delle classi.

Ho avuto due ottimi insegnanti di Lettere in terza ed in quarta magistrale: Campagna e Micheli. Soprattutto Eraldo Campagna ha esercitato su di me un benefico influsso, con la sua passione verso la Letteratura che lo portava ad una specie di estasi mistica nel corso delle sue lezioni, fin troppo particolareggiate, quasi barocche in certe spiegazioni della «Divina Commedia» come ancor oggi testimoniano gli appunti da me segnati sul testo che usavo allora. L'altra faccia della sua medaglia, che rilevo ancora una volta sfogliando il manuale di Storia di quel tempo, era il suo disinteresse verso questa materia, che lo portava a darci cattivi consigli come quelli di saltare certi capitoli che sono fondamentali, invece, per comprendere la successione degli eventi culturali e non solo politici. Consapevolmente sacrificava le lezioni di Storia a quelle di Italiano, credendo che tutto fosse nel mondo delle Lettere.A Campagna debbo anche la scoperta di Francesco De Sanctis, autore che approfondii durante le vacanze estive, con la lettura quasi integrale della sua «Storia» che mi aprì al programma dell'ultima classe e mi confermò nel mio interesse verso questo tipo di studi.

L'approdo a Bologna, al Magistero, alle lezioni di Bertin fu inevitabilmente una specie di trauma, anche perché avevamo studiato 'bene' soltanto Filosofia e niente Pedagogia con Gianna Di Caro, che fu paziente e dotta insegnante della materia, ma forse (lo penso adesso, a distanza di quarant'anni), troppo legata ad un sistema idealistico-storicistico conciliato con il suo marxismo che ci portava a leggere la successione ordinata dei pensatori come un complesso di perfezionamento inevitabile delle idee.

Gianna Di Caro era subentrata in terza a Memore Casalboni, noto in città per essersi laureato, come diceva mio zio, suo amico, in età di pensione. Memore, così lo chiamavamo in casa, appariva estremamente assorto nel suo introdurci ai segreti della Filosofia, materia che forse lui amava, ma che non sapeva farci amare perché anzitutto poco dialettico, anzi decisamente soltanto schematico nelle spiegazioni, e sempre irridente nei confronti di autori che forse avevano lo svantaggio di non essere all'altezza di chi come lui era costretto ad interpretarli ed a spiegarli. Un mezzo sorriso di ironico disgusto segnava i capoversi del suo discorrere come se avesse voluto proiettare sulla parete di quell'edificio disadorno di piazzetta Teatini il riflesso dall'astro lucente del suo intelletto.

La nostra generazione 'di mezzo' (dopo la guerra e prima della contestazione) non aveva ancora nessuno strumento autonomo per giudicare e comprendere, al di fuori del bagaglio che ci veniva affidato quotidianamente da portare con fatica e scarsa soddisfazione. Approdare al Magistero bolognese con tutti quei Maestri era davvero la scoperta dell'America, di un mondo nuovo e diverso di fare Cultura. (Lo avrei capìto anni dopo, dopo aver concluso gli studi: un paesaggio si vede soltanto dopo aver percorso un bel tratto di strada, non appena sbarcati all'ingresso di una città o di un bosco.)

Che ruolo ebbe Bertin in questa mia maturazione, l'ho compreso durante l'insegnamento, negli studi storici, nel lavoro quotidiano, nel vivere giornaliero, con quella semplice definizione che nelle parole «visione problematica della realtà» riassume un metodo, suggerisce un comportamento, obbliga ad una riflessione continua, forse disperante ed estenuante, ma certo utile per evitare ogni soggettivismo che può fuorviare, portare ad accettare il pregiudizio, consolidare nei propri errori una visione della vita che non può mai essere soltanto nostra, rifiutando il concetto che ci sono anche altri ad agire su quella stessa visione, perché con gli altri siamo sempre dialetticamente o conflittualmente rapportati.

La stessa «visione problematica della realtà» approda poi ad una visione «razionale» della vita educativa ed intellettuale che è l'opposto di quella dogmatica, e che si manifesta come accettazione della «soppressione della contraddizione». Riassumevo una pagina di Bertin, studiata dopo la laurea (1966) in un suo testo intitolato «Educazione alla ragione» (1973) con queste parole: «Ogni tipo di giudizio è problematico».

Di queste parole mi sono ricordato, inevitabilmente, anni fa in una pubblica occasione, contestando ad un presunto scrittore di cose storiche un giudizio (per usare un eufemismo) inconsistente su Mazzini, il quale, nemico della lotta di classe, veniva da lui definito colpevole delle fortune del socialismo. Cercai di spiegare che anche lo studio storico, deve essere improntato a questa visione problematica che sia appunto antidogmatica ed aperta alle varie ipotesi (soprattutto per non addivenire a conclusioni false o fuorvianti).

Cito l'episodio al solo scopo di testimoniare (sarebbe forse troppo ardito usare il verbo «dimostrare») come l'atteggiamento problematico non sia un prezioso sentimento da sfoggiare soltanto in occasioni solenni, ma atteggiamento mentale da assumere ed usare in ogni atto della vita.

Della vita intellettuale e pratica, essendo nostro dovere non divagare mai nell'assumere responsabilità di fronte all'analisi dei fatti di pensiero e di quelli concreti, entrambi rispondenti ad un disegno morale che essi debbono tradurre.

Antonio Montanari


Quando i nazisti sono venuti... di Martin Niemöller - 1942

Quando i nazisti sono venuti a prelevare i comunisti,
non ho detto niente, non ero comunista.
Quando sono venuti a prelevare i sindacalisti,
non ho detto niente,non ero sindacalista.
Quando sono venuti a prelevare gli ebrei,
non ho detto niente,non ero ebreo.
Quando sono venuti a prelevare i cattolici,
non ho detto niente,non ero cattolico.
Poi sono venuti a prelevare me.
Ma non rimaneva più nessuno per dire qualche cosa.
Martin Niemöller - 1942


Un convegno per Giuseppe Giulietti
Personaggio scomodo e dimenticato, Giuseppe Giulietti costringe a fare i conti con una bella fetta di Storia italiana. Spende la sua vita per la causa della marineria, alla quale appartiene per nascita e professione. Figlio di poveri pescatori riminesi, venuto alla luce il 21 maggio 1879, appena diplomatosi all'Istituto nautico comincia la sua carriera come mozzo. Durante il servizio militare (ovviamente in Marina), conosce anarchici e socialisti. L'incontro lascia il segno in una personalità forte, in un giovane già consapevole della sua missione politica. Aderisce al partito socialista, scrive sul «Lavoratore del mare» e su «La Pace», settimanale antimilitarista.
A Lodovico Balducci e Titta Benzi i premi «Sigismondo 2002» Uno è medico oncologo negli Usa,
l'altro avvocato ed amico di Fellini
Lodovico Balducci e Luigi Benzi, scelti dalla Giunta comunale per il «Sigismondo d'oro 2002», rappresentano le due facce di una stessa medaglia. Sono il doppio volto di Rimini. Generazioni differenti, ma uguale esperienza scolastica cittadina (il Classico «Giulio Cesare»).
Balducci è emigrato negli Usa dove si è costruito una carriera di successo come medico specializzato nelle patologie oncologiche degli anziani.
Benzi è rimasto tra l'Arco ed il Ponte, esercitandovi la professione dell'avvocato (sin dal 1946), e soprattutto vegliando come custode mai invadente delle memorie felliniane, delle quali spesso ha fornito quelle «interpretazioni autentiche» che l'amicizia con Federico poteva permettergli. Alle sue sorridenti rievocazioni hanno sempre attinto televisioni e giornali non soltanto locali.
Lodovico Balducci è figlio di due noti docenti scomparsi, Carlo Alberto (prezioso ed affezionato collaboratore del nostro giornale), e la signora Fanny Beltrami. A Sergio Ceccarelli che gli fu insegnante al Ginnasio nella metà degli anni '50, chiedo un ricordo del suo antico alunno: «Ragazzo molto intelligente, sensibile, attento, educato». In quel tempo la scuola «era la cosa più importante della vita. Era al vertice degli interessi di tutti, un luogo di confronto, di gara, perché la cultura era considerata un valore. I ragazzi disputavano con passione sul lavoro dei docenti».
Le lezioni lasciavano un segno, gli alunni ne parlavano anche dopo il suono della campanella, nei corridoi e per strada, con una passione intellettuale che Ceccarelli spiega in poche parole: «La scuola era amata».
Maria Luisa Zennari lo ebbe in classe al Liceo: «Staordinariamente vivace. Intelligente. Personalità spiccata. Pieno di fervori e interessi. Era proteso anche verso gli studi umanistici, che anche oggi sono il suo conforto (diciamo) laterale. Ha sempre avuto una vita spirituale molto intensa». Suoi compagni di classe furono il cardiologo Antonio Pesaresi e l'architetto Annio Matteini, trasferitosi a Milano.
Luigi Benzi è detto «Titta», soprannome che non a caso Fellini ha attribuito al protagonista di «Amarcord», quasi ad indicare un alter ego intrigante per i biografi del regista. Rappresenta, ha detto il sindaco nell'annunciare il premio «Sigismondo», la tradizione e l'identità riminese. Ne è stato, prima che custode, un interprete «sminchionato» al pari di molti altri della sua generazione.
Rimase famoso l'episodio accaduto alle Idi di Marzo del 1939, quando il ritmo militare della sfilata fu inframmezzato da piccoli passi di danza sul motivo della «Danza delle ore» di Ponchielli, proprio sotto il palco delle autorità e davanti alla statua di Giulio Cesare, dono del duce alla città. Benzi, Guido Nozzoli ed altri riuscirono a sottrarsi all'ira di un campione italiano dei medioleggeri che era sul palco, Benito Totti. Il quale però riuscì a colpire l'ultimo della fila dei 'ballerini', Ennio Macina, figlio di un ex sindacalista che negli anni Venti aveva conosciuto il «santo manganel».
Benzi ricorda che fu suo padre ad imporgli di fare l'avvocato: «Lui era capomastro e veniva da una famiglia di muratori. Il suo legale un giorno gli presentò una nota di 134 lire, cifra considerevole per quell'epoca. Mio padre prima quasi svenne, poi contrattò fino a cento lire. L'avvocato prese le cento lire, le arrotolò, le bruciò con un fiammifero e ci si accese un sigaro dicendo: visto cosa ci faccio con le tue cento lire?».
Tullio Kezich, il biografo 'ufficiale' di Fellini, elogiò le memorie riminesi del «leggendario» Benzi, pubblicate con un titolo («Patachédi») inevitabile sino ad un'ovvietà capace di trasformarsi in lezione di vita per i non indigeni. Sino a costituire un sistema di lettura della nostra realtà, tra nostalgia e travisamento totale che agli altri piace, mentre a noi magari stufa, perché si fa soltanto spettacolo e divagazione inventando qualcosa che alla fine, per parafrasare lo slogan celebre d'un detersivo, appare «più vero del vero».
Lo spirito riminese, come dimostrano alcuni film felliniani, è questo innalzarsi sopra un piedistallo, un banchetto, una sedia, e principiare a raccontarsi. Che cosa si dica non importa. Basta parlare, e farsi ascoltare, consapevoli soltanto che, alla fine, si tratta soltanto di «patachédi» e che un applauso convinto non manca mai.
La piada e le teglie di Rontagnano
Quando a scuola si racconta il proprio mondo

Si apre con le parole di una famosa canzone di De Gregori («La storia siamo noi: attenzione, nessuno si senta escluso»), un interessante quaderno edito dalla Scuola Materna ed Elementare «Padre Venanzio Reali» di Rontagnano, contenente frasi, immagini e disegni con cui si riassume anche la vita di un piccolo territorio, ricco di storie, ricordi e desideri.
Una Scuola sopravvissuta alla burocrazia, minacciata di chiusura ma lasciata vivere grazie all'intervento di una «piccola comunità» che contro la «logica dei numeri» ha fatto prevalere la «logica dell'armonia», come si legge nella petizione che un gruppo di cittadini di Rontagnano rivolse al Provveditore agli Studi di Forlì nell'aprile 2000.
Sistemate le cose sul piano amministrativo, si è avviato un progetto didattico di cui dà atto questo piccolo libro, «Nuvole e sole sulla Valle dell'Uso»: «Gli orari e le attività» per gli allievi della Materna e dell'Elementare «si intrecciano, imboccano strade comuni». Si 'adotta' «una porzione di terra, quella attraversata dal torrente Uso», per conoscerne gli aspetti più affascinanti: «gli alberi, i fiori, gli animali selvatici, le chiese, i borghi di case in pietra quasi fusi con i crinali che velocemente salgono, la poesia di Padre Venanzio e l'arte dei tegliai».
E tutto questo ritorna graziosamente nelle pagine che seguono alla dichiarazione d'intenti, illustrata con una frase di Marcel Proust: «Il vero viaggio di ricerca non consiste nel cercare nuove terre, ma nell'avere nuovi occhi».
E con questo approccio si va alla scoperta del piccolo «bosco segreto» tra Rontagnano e Tornano, ed i bambini raccontano le loro emozioni sulla carta con la penna o le matite colorate, suddividendole per stagioni. I giorni dell'inverno sono annunciati da una lirica di Padre Venanzio: «Hai tu la dolce memoria / premente l'anima adulta / di quando la neve / la prima volta vedemmo / sulle tettoie cadere? ...». Daniela descrive in dialetto il cielo autunnale: «E' zèl / um fa pansé m un mér grandesmi / e al nuvli / ma tant pisulin». Si aggiunge persino un «percorso di lingua inglese», con una storia immaginata dai bambini, «La grande quercia e il piccolo riccio», per dare l'idea del tempo che passa e torna, del ciclo della vita e della natura.
Infine, la sezione dedicata ai tegliai si apre con l'ideale messaggio di Francesco, mesi sei, figlio di Rossella e Maurizio Camilletti che, con le piccole Laura e Beatrice, si sono trasferiti dalle comodità di Santarcangelo in «quel nido di upupe e barbagianni che è Ville Montetiffi» per fare teglie, ereditando la professione da Leone Reali e Pierino Piscaglia, «ormai in pensione». Questo mestiere, leggiamo, «è sudore, arte, poesia, fuoco che scoppietta, odore di argilla e anche profumo... profumo del pane di Romagna (la piada) che viene cotto su questi piatti di 'porosa argilla'».
Ed assieme alla foto di Maurizio Camilletti al lavoro (illustrate dalle descrizione di tre bambini), non poteva mancare la «ricetta per la piadina consigliata da Serena, 5 anni»: «Devi prendere prima la farina e metterla nel tagliere: poi devi fare un buco con la mano. Devi scaldare l'acqua in un tegamino che serve per sciogliere quella cosa che non ricordo come si chiama». Lo strutto. Come, chiede nella pagina successiva Beatrice: lo struzzo? Saltiamo alla conclusione di Serena: «Se la senti, dopo la mangi sempre, perché ti piace».

Piccolo Cervello

La scorsa estate, in una biblioteca vicina, dove gli antichi documenti si consultano sotto l'occhio di una telecamera, una mattina mi fu riservato improvvisamente il privilegio esclusivo di un controllo anche di persona, per ordine di una giovane addetta alla quale qualcuno si sarà divertito a dire qualcosa contro di me, indicandomi come tipo sospetto. Non mi piace guastare la vita al prossimo, perciò non mi sono lamentato con nessuno del suo comportamento. Lei, ancora prima di me, è stata vittima della stupidità di qualche Piccolo Cervello.

Il testo prosegue qui.


Riminilibri
Autoritratto politico di una Provincia
Tutti gli uomini del potere, dal 1946 ad oggi
Il peccato originale
di Massimo Gramellini

«La Stampa», 27 novembre 2002

Si è finalmente capito perché il presidente del Consilvio non sopporta Enzo Biagi. Le interviste elettorali a Benigni e Montanelli c'entrano poco. C'entra invece, e tantissimo, quella che lo stesso Biagi fece a un imprenditore televisivo pieno di capelli, il 4 febbraio 1986.
Fu la prima passeggiata nell'etere del Grand'Uomo e oggi Raisat Album (il vero servizio pubblico ormai lo fanno i canali a pagamento) giustamente la riesuma, mandandola in onda per ben sei volte nel corso della giornata. E' un viaggio nel tempo che lascia esterrefatti.
Intanto per la coerenza straordinaria di Silvio B., che in sedici anni ha cambiato solo il riporto e i colletti della camicia: già a quell'epoca dettava lui le condizioni (Biagi dovette andare a intervistarlo nei suoi studi), si paragonava a Giulio Cesare, faceva battutine sulle donne e parlava solo di soldi, calcio, tv e magistrati: le sue ossessioni, in particolare l'ultima.
Ma la vera sorpresa sono le domande di Biagi: ironiche e feroci al limite dell'irrisione («Dice che le sue tv producono cultura e che adesso le esporterà per far felici anche i francesi... E l'America, a quando l'America?»). Santoro, ma pure il Biagi del Duemila, al confronto sembrano mammolette.
Con un miracolo di autocontrollo di cui adesso non sarebbe più capace, il futuro premier resisteva alla tentazione di mordergli il collo, sfoderando i suoi celebri sorrisoni celentanoidi, ma chissà cosa gli andava scalpitando nello stomaco. Ora, forse, lo sappiamo.


Autoritratto politico di una Provincia
Tutti gli uomini del potere, dal 1946 ad oggi

L'Istituto per la storia della Resistenza e dell'Italia contemporanea della Provincia di Rimini, ha avviato la pubblicazione di un'opera intitolata «Rimini nel secondo dopoguerra» a cura di Vera Negri Zamagni e di Anna Tonelli, il cui primo volume è stato appena presentato: si tratta de «I politici locali. Consiglieri, assessori e sindaci del Riminese (1946-2001)», a cura di Paolo Zaghini e Gianluca Calbucci, per i tipi di Pietroneno Capitani.
I due prossimi testi saranno dedicati a «Città, popolazione, economia», ed a «Cultura e società». La serie è realizzata con i contributi di Regione, Provincia e Fondazione Carim.
Veniamo a questi «Politici locali», oltre 600 pagine suddivise in tre sezioni. Anzitutto si ripropongono due saggi, rispettivamente di Oriana Maroni e di Carla Catolfi, già apparsi nel 1985 e nel 1999. Essi riguardano «Le categorie dirigenti nel Riminese dal Fascismo alla Ricostruzione», e le vicende istituzionali e la realtà geografica della Provincia riminese.
Dopo un'utile parentesi intitolata «Per orientarsi» (in cui si illustrano i vari sistemi elettorali succedutisi dal 1946 ad oggi), ci sono gli elenchi degli eletti prima nel Consiglio provinciale forlivese, poi nel Circondario di Rimini (1974-95), infine nel Consiglio provinciale riminese (1995-2001). Il corpo centrale contiene la rassegna dei venti Consigli comunali e delle Giunte del Riminese, con un'appendice su parlamentari nazionali e consiglieri regionali (dal 1970).
Come si vede dal dettagliato elenco riportato, si tratta di un testo ricco di informazioni altrimenti difficilmente reperibili, e che possono servire a tre scopi: documentare le realtà locali, esaminare le fortune dei singoli partiti, fornire spunti di studio allo scopo di comporre una vera e propria storia della «Politica» (e non soltanto dei politici) nella nostra provincia, che per ora manca.
Per questi motivi, è meritorio lo sforzo dei curatori e dell'Istituto storico che ha avviato l'iniziativa editoriale. Ma occorrerebbe che adesso, esternamente, l'opera fosse continuata, per evitare che una storia della «Politica» di un territorio si trasformi nella storia «autobiografica» di chi lo governa.
Il testo di Calbucci e Zaghini resta l'ottimo punto di partenza per ricostruire una vicenda collettiva che non può identificarsi né nelle linee della burocrazia che comanda, né nei programmi che gli amministratori hanno presentato nelle campagne elettorali da cui sono usciti i vincitori delle varie elezioni. Esiste un divenire della «Politica» che è molto più complesso sia degli elenchi faticosamente elaborati, sia dell'ostentazione ufficiale dei risultati conseguiti.
Ovviamente, questo è un discorso che può piacere poco ai politici abituati alle autocelebrazioni in stile «tutto va bene, madama la Marchesa». Ma questo è l'unico discorso che può farsi sotto il profilo storico.
Le Amministrazioni pubbliche che studiano loro stesse, non possono assumere mai quell'atteggiamento distaccato che dovrebbe competere agli studiosi. La vera Storia non è quella fatta «ad uso del Delfino», in cui tutto è giustificato e spiegato in virtù del potere e di chi lo esercita. Che abbia sede a Rimini o a Roma, questo potere, non fa nessuna differenza. Il problema è che occorre separare la propaganda dalla Storia.
Un ultimo aspetto. L'interessante saggio di Oriana Maroni apparve nel 1985: quasi vent'anni di vicende sono così ignorate (e forse per sempre dimenticate), il che non è poco. E poi, scusate, quali anni importanti sono quelli che costituiscono questo «buco nero» che dal recente passato porta alla più stretta attualità. Oppure li si è tralasciati scientemente, per farli frollare nel frigorifero della Storia?
Antonio Montanari
La Romagna dei fagioli, «carne dei poveri»
Viaggio nel tempo e nelle usanze popolari con Vittorio Tonelli

Come le luminarie nelle strade, le vetrine addobbate ed il sorriso della gente solitamente mugugnante, anche i libri di Vittorio Tonelli annunciano le feste natalizie. La sua strenna per il 2002 è appena uscita presso Edit di Faenza, dedicata a «La carne dei poveri», ovvero fagioli ed altri legumi nella vita quotidiana dei romagnoli. Il suo viaggio nel tempo parte dal Virgilio delle «Georgiche», dove i fagioli sono citati come cibo «vile», ed arriva al 1942 quando l'economia di guerra vede anche i legumi sottoposti a censimento da parte del Ministero dell'Agricoltura, con l'obbligo di denunciarne la consistenza di raccolto e di deposito alla mezzanotte del 2 luglio.


Opinioni. Sorprende la sorpresa
di Giovanni Colombo

Sorprende la sorpresa. Come se Andreotti fosse nato ieri, come se non fosse il protagonista di una carriera irresistibile ma assai discussa. Nel mio piccolo la condanna morale e politica nei suoi confronti l'ho emessa 15 anni fa. Choccante fu la lettura di "Delitto imperfetto" di Nando dalla Chiesa. E da quel dì, ho seguito, con molto distacco, le vicende giudiziarie mentre invece ho combattuto, con molta foga, l'andreottismo.
L'andreottismo è il realismo ad oltranza, il realismo mane e sera, servito a colazione, a pranzo, a cena. Mediare, mediare sempre su tutto e con tutti, non rompere mai perché la rottura favorisce il nemico. Non rompere neppure quando c'è di mezzo la violenza e la morte.
L'andreottismo è la politica che, in nome del realismo, utilizza anche la criminalità organizzata, è la politica che si intreccia con la mafia (la "polimafia" scrisse un giorno Pansa). Ma come si fa a mediare con la morte?
La politica può tentare di riunire nello stesso fronte il padrone e l'operaio, il bianco e il nero, il credente e l'ateo, ma non può mai mettere insieme la vittima e l'aggressore!
L'andreottismo purtroppo non è stato spurgato dalla vita politica italiana.
Ecco perché quasi tutti i leader, compreso il Capo dello Stato, hanno reagito così sdegnati alla sentenza di Perugia. La campana di quei 24 anni suona anche per loro. Specie per quegli (ex) democristiani che se la prendono coi giudici e che fanno finta di non capire la vera radice della tragedia della Dc e il perché del suo inesorabile declino: un partito non può contenere troppo a lungo al suo interno le vittime dei delitti di mafia ­ e di camorra, e di terrorismo deviato dalla P2 - e i complici, se non i mandanti, di tali delitti.
L'orologio della politica italiana è ancora fermo lì, a quel 20 marzo del '79. Quando le lancette ripartiranno?
Quando finalmente si farà tesoro dellì'esperienza negativa (ex malo bonus, dicevano gli antichi).
Quando gli uomini politici si metteranno sulla gobba il fardello delle proprie responsabilità.
Quando uno, anche uno solo, avrà il coraggio di dire: "sì, confesso che l'ho fatto io, proprio io".
Quando si farà un bagno di verità.
Giovanni Colombo
Presidente della Rosa Bianca
Consigliere comunale di Milano - indipendente Ds

Opinioni. Andreotti, la politica impazzita
di Vincenzo Passerini

Siamo tutti pieni di amletici dubbi sulla condanna di Andreotti. Ma poi, alla fine, c'è chi ha più certezze di altri. E la certezza dominante, perfino asfissiante, è che è impossibile che Andreotti sia il mandante dell'omicidio Pecorelli. Non solo. Gli attestati di stima, di simpatia, di fervida solidarietà (come quelli dei vertici politici e dei vertici ecclesiastici) trasformano il senatore a vita in una vittima innocente, lui che è così saggio, così ironico, così religioso, così colto, così distaccato. Così diverso da tutti gli altri. Così superiore. E allora sotto accusa si mette la giustizia, in un coro unanime che ha dell'agghiacciante. Dove risorge lo spirito funesto della Bicamerale, dell'accordo D'Alema-Berlusconi per zittire definitivamente i giudici, sacrificati per consentire ai nuovi vincitori di riscrivere il patto costituzionale. Spirito funesto che ammorba l'aria, la rende irrespirabile, tanto che ti vien da dire che in questo infelice paese la verità non la troveremo mai.
Vincenzo Passerini
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0706 * ilrimino84.706.html//REv. 16.03.2017


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