il Rimino n. 75. Gennaio 2002
Mainardi, il cronista
di una città di «Provincia»

Archivio 2016

Mainardi, il cronista di una città di «Provincia»
La scomparsa del noto giornalista riminese

Il 7 dicembre 2001 ci ha lasciati Flaminio Mainardi, cronista d'antica data, da quando Rimini era una città completamente diversa da quella di oggi, anche giornalisticamente parlando. La sua stagione d'oro è stata sul finire degli anni ’50 e nel corso di quelli ’60, con un settimanale, «La Provincia», che aveva impostato e curava con vivacità e molta attenzione. Il titolo voleva rivendicare una promozione per Rimini, e nello stesso tempo delineare una specifica identità culturale ed economica che lo Stato avrebbe riconosciuto soltanto molto più tardi.
«La Provincia» per molti anni agitò le acque della vita nel circondario riminese, tenendo sveglia l'attenzione dei lettori e dei politici. Non parlo delle scelte che il foglio compiva, di numero in numero, collocandosi sempre (per dirla con una formula antica) contro "i compagni". Mi riferisco al modo con cui Mainardi (Mimmo per gli amici) confezionava il prodotto giornalistico.
Sempre parlando di questo aspetto tecnico, va aggiunto che «La Provincia» era l'unica voce della città al di là della dogmatica stampa 'rossa' e delle cronache del «Carlino», che aumentarono di spessore proprio negli anni ’60 con l'edizione riminese che riservava per sei giorni alla settimana un'intera pagina alla nostra città. «L'Avvenire d'Italia» aveva invece un'edizione romagnola con un breve notiziario da Rimini, confezionato da Carlo Granaroli che, se fosse vissuto altrove, sarebbe diventato una grande firma nazionale.
Mimmo Mainardi, che era nato il 26 settembre 1921, aveva innato il gusto della provocazione giornalistica, sapeva presentare le notizie. Ebbe anche un ruolo ben preciso: attorno alla sua figura ruotò un gruppo di giovani collaboratori, essendo il suo foglio l'unico (non di partito) disposto a pubblicare testi di sconosciuti. Fu così che anch'io scrissi il mio primo articolo (1959) per Mimmo: l'anno dopo mi avviai al fondamentale tirocinio del «Carlino» (dove incontrai il professor Amedeo Montemaggi, capopagina, Gianni Bezzi, suo vice, e il maestro Duilio Cavalli, mitico corrispondente da Riccione). Erano i tempi in cui si faceva la regolamentare gavetta. Adesso, basta che uno entri dalla porta di una redazione, perché si creda subito un Montanelli o Biagi in ventiquattresimo.
Proprio durante le ultime vacanze natalizie, alla ricerca inutile di un poco di spazio all'interno di uno dei tanti armadi dove ho raccolto le mie carte d'archivio, ho ritrovato un numero della «Provincia» del 1959, con un'inchiesta sulle scuole riminesi: era la puntata dedicata a noi delle Magistrali (allora comunali). E mi è venuto a mente che l'anno dopo, l'idea gliela abbiamo copiata al «Carlino»: per alcune settimane Gianni Bezzi, il fotografo Davide Minghini ed io girammo per gli istituti cittadini. Gianni, indimenticabile e generoso amico purtroppo precocemente scomparso, faceva la storia della scuola visitata, ed a me toccavano le interviste.
Spesso ci si incontrava con Mainardi nella libreria diretta da Giorgio Bresciani, davanti al Tempio: ed erano occasioni per scambi di commenti divertenti se non pettegoli, nei quali Mimmo era specializzato. E in cui aveva un solo rivale, altrettanto arguto, don Domenico Calandrini, canonico e soprattutto ottimo giornalista.
Sulla «Provincia» debuttò Italo Cucci, e credo che abbia scritto pure Achille D’Amelia (che si divertiva a fare il dandy), prima di approdare alla Rai di Bologna grazie ad Enzo Biagi.
Non c'è nulla di più effimero di un giornale: tranne che per pochi appassionati raccoglitori, è destinato a finire tra i rifiuti con i resti dell'insalata o la segatura del gatto. Ma dietro quel prodotto di carta, si nascondono tante passioni culturali e politiche, tante fatiche per la ricerca di una notizia, od anche il gusto semplice, primordiale forse, di vedere il proprio nome stampato in coda ad un articolo.
Sia quello che voglia essere, un giornale è anche qualcosa che sopravvive nella memoria dei suoi lettori, ed in quella collettiva di una città: ed è giusto, ora che Mimmo Mainardi se n'è andato silenziosamente, ricordarlo per quanto egli ha fatto con le sue pagine, nella Rimini di quando, a bazzicare le redazioni, si era in pochi, ma sempre amici, nonostante le forti differenze ideologiche personali, e le dure polemiche con cui ci punzecchiavamo sulle nostre rispettive testate per ineludibile obbligo di ruolo.
Antonio Montanari
Sogliano dice sì
al Museo della Scienza

Un Museo della Scienza romagnola? Perché no? Agli esperti di Sogliano, la proposta da noi lanciata sul Ponte (16 dicembre 2001) sembra essere piaciuta. Così almeno traspare da un’intervista che lo storico Pierluigi Sacchini ha rilasciato al Corriere di Romagna del 9 gennaio.
Ricapitoliamo. Sogliano sta per aggiudicarsi l’archivio del geologo Antonio Veggiani. Se le trattative con la famiglia dell’illustre studioso avranno esito positivo (ad una richiesta di 250 milioni sembra che Sogliano risponda addirittura con 300, dato il grande valore del materiale da acquisire), a palazzo Marcosanti nascerà un Museo Veggiani.
Accanto ad esso, ha precisato Sacchini al collega Antonio Giunta del Corriere, dovrebbe «crescere un’istituzione per la valorizzazione degli studi scientifici romagnoli del XVIII secolo». Quindi pare possibile che la nostra proposta trovi accoglienza a Sogliano, dove c’è molta attenzione verso gli studi storici, anche per merito di un esperto attento e serio come Sacchini (che vive e lavora a Rimini).
Il nostro augurio è che l’erigenda istituzione abbia sorte migliore di altre vicine, analoghe iniziative, dove agli interessi generali della cultura sono stati anteposti quelli personali, di partito o di massoneria, espropriandone chi li aveva pensati ed avviati.
La figura di Veggiani merita, come uomo e come scienziato, il massimo rispetto. I suoi studi storici e geologici restano a testimoniare un’attenzione amorosa e continua verso la nostra Terra, che auguriamo a Sogliano di coltivare e difendere con la correttezza che è mancata a qualche altro paese (per questioni fluviali) nei confronti dell’illustre personaggio, il quale fu anche vicepresidente della Società di Studi Romagnoli.
Lena Vanzi [il Ponte n. 3, 20.1.2002]


Mara Verni, la pittrice nascosta
Mostra a Cattolica sino al 10 febbraio
A Cattolica, fino al 10 febbraio (Galleria Comunale Santa Croce, ogni sabato e domenica, 16-19), merita una visita la mostra d’arte «Mara Verni, 1914-1980: appunti pittorici e di vita».
Mara Campanelli Verni è stata un’artista atipica: coltivò privatamente la passione per i pennelli, partecipando ad una sola esposizione (1977). Ma non fu una cosiddetta pittrice della domenica. Nata a Casalecchio di Reno, visse esperienze da autodidatta con «frequentazione di alcune figure dell’Accademia di Belle Arti di Brera e attraverso un viaggio di formazione a Parigi fatto nel 1934», come si legge nel bel volumetto edito per l’occasione dal Centro culturale polivalente di Cattolica. Vi sono ospitate le interessanti pagine di Paolo Zauli e di Annamaria Bernucci, oltre alle introduzioni dell’assessore comunale Eva Lorenzi, e del dirigente della Cultura Francesco Rinaldini.
Il rigore della preparazione tecnica di Mara Verni emerge in modo inequivocabile dalle opere esposte: utilizza con rigorosa attenzione le regole grammaticali della pittura di paesaggi o di nature morte che sembrano raccontare il silenzioso tirocinio della loro autrice.
Sposatasi con Guido Verni (di San Giovanni in M., proprietario di fornaci per mattoni), nel 1936 si trasferì a Cattolica. L’anno successivo seguì in Africa il marito che fu ucciso, nello stesso anno, nei pressi dell’Asmara. Rientrò in Italia soltanto nel ’43, con la piccola figlia.
Mara Verni, scrive Paolo Zauli, «ha tenuto profondamente alla sua libertà ed indipendenza, salvaguardandola da ogni contaminazione». Questo aspetto della sua personalità le rendeva difficile, secondo Annamaria Bernucci, accettare «le convenzioni e il monotono tran tran domestico»: l’esperienza africana rimase bruciante e mai più dimenticata, «anche perché là, tra i cupi echi tribali e il sogno coloniale dell’Italia fascista, si era infranto anche il progetto di vita di Mara con la morte precoce del marito, disperso nel deserto dopo una missione».
Questa mostra è la quarta del ciclo «Aspetti dell’arte tra Romagna e Marche», dopo quelle su Emilio Filippini, Fernando Mariotti, Fortunato Teodorani e Carlo Patrignani. [a. m.]
Non basta la parola
Da pochi, per tutti

Un amico stuzzica via e-mail: aere civium (coi soldi dei cittadini) hanno battezzato l’iniziativa di cinque imprese riminesi a sostegno dell’arte; trattandosi di azione promossa da privati, non è proprio la definizione azzeccata.
OK. Per i Latini, infatti, il civis è il cittadino non come il singolo inteso nella sua sfera privata (da cui l’odierna privacy, o meglio privatezza), bensì come parte dello Stato: per questo fatto, il denaro dei cittadini è quello dell’intera Comunità (ammesso, beninteso, che tutti paghino il dovuto di tasse ed imposte: sul qual fatto nutro i miei dubbi senili). Da civis si origina civilis (che giova al bene pubblico; ciò che è dello Stato): i Latini avevano già ben presente il conflitto d’interesse fra pubblico e privato (il Bellum civile di Cesare, mica è uno scherzo: ci fondò una dittatura, Rubicone superato).
Leopardi scrisse le canzoni civili, spiegò correttamente una mia allieva all’esame di Stato, interrotta da una commissaria scandalizzata: ma come, civile vuol dire beneducato, Leopardi ha scritto poesie beneducate? (Il presidente mi portò al bar, intimandomi: adesso lei chieda d’interrompere gli esami di quell’analfabeta della nostra collega…)
Nei secoli passati, i privati (benestanti) erano chiamati i Particolari. Tutti i cittadini del Comune (della Commune, anzi), erano detti Communisti. Spesso (molto spesso) accadeva che i secondi dovevano sovvenzionare i primi (mica fessi). A Rimini i nobili (ed i borghesi arrampicatori) del ‘700 facevano conversazione privata al teatro pubblico a spese del Pubblico (Municipalità).
L’iniziativa riminese per l’arte, di pochi per tutti, ha un alto senso civico, il che attenua l’arbitrio lessicale nella definizione.

Dante perdente
Spesso i personaggi importanti ricorrono alle citazioni. La loro abitudine di usare parole altrui, vuole rassicurare noi ascoltatori, invitandoci ad avere fiducia nella loro cultura ed a credere alla loro vivacità intellettuale. Quella della citazione, è una particolare forma di linguaggio mascherato, che per questa caratteristica dovrebbe insospettire invece di soddisfarci. Se siamo del tutto ignoranti, il fascino di parole alate ci soddisfa come un bel piatto di cappelletti sotto le feste. Ma se si ha la sfortuna di sapere qualcosina, ci viene la voglia di passarle al vaglio di una nostra ipotetica (ed abusiva) crusca personale.
Il 17 gennaio, al GR3, il filosofo Buttiglione ha detto che i politici, in certe questioni, non debbono perdere "il bene dell'intelletto". Qui casca il prof. Rocco. Prendiamo l'Inferno dantesco, canto III, vv. 17-18: «... tu vedrai le genti dolorose/ c'hanno perduto il ben dell'intelletto». Dove questo bene non è la ragione, come intende Buttiglione, ma Iddio. (Spiegava il vecchio commento di Carlo Grabher che i dannati hanno «perduto il bene supremo dell'umano intelletto che è vedere ed intendere Dio».)
Tutta colpa dell'antico complemento di specificazione, per cui il v. 18 significa che l'intelletto ha un bene da raggiungere, non che è esso stesso un bene. La paura del nemico, ci spiegavano i testi di latino della nostra età paleolitica, può indicare che noi abbiamo timore del nemico, oppure che il nemico ha timore di noi. Il bene dell'intelletto è un genitivo particolare, detto in sintassi latina oggettivo: "petitio consulatus" indica il "petere consulatum". Così il bene dell'intelletto rimanda allo scopo fondamentale della nostra umana sapienza, superare il limite, avviarsi verso l'Infinito spirituale e temporale di Dio.
Tv, sfruttamento del corpo femminile
Gentile Signora Alessandra Comazzi.
Lei ha scritto molto acutamente che assistiamo nella "nostra tv" ad uno "sfruttamento del corpo femminile", divenuto ormai "norma".
Credo che il Suo giudizio non voglia essere moralistico, ma quasi una semplice presa d'atto di uno stato di cose.
Esagerando forse un poco, a me viene in mente di quando (in epoche più o meno remote), il riscatto sociale di molte ragazze povere (e povere ragazze) avveniva attraverso altre forme di "sfruttamento del corpo femminile", la prostituzione.
Livia Turco, quindi, non batteva pari uscendosene con quella battuta da Lei riportata ("questa è la libertà femminile"): avrebbe potuto più argutamente sostenere che se è obbligatorio il burqa in Afghanistan, da noi si può ancora scegliere (forse per poco) fra l'infermiera e la letterina di Canale 5 o Rai1.
Un'ultima cosa: questo sfruttamento è stato sempre onorato (nonostante le apparenze retoriche di segno contrario) dalla cultura fascista e post-fascista: con la scusa che esso è il corrispettivo dovuto alla virilità maschile. Quarant'anni fa le prime immagini spinte le pubblicava il Borghese che oggi con la rivista vende le cassette dei film porno, forse per sostentarsi, mentre elettoralmente la Destra a cui si richiama quel giornale si fa paladina della dignità femminile e della famiglia all'antica.
Sembra quasi che su quello "sfruttamento del corpo femminile" si sia raggiunto un pacifico accordo bipartisan. Con il sognato raggiungimento delle famose "quote": metà per il nudo (i maschi) e l'altra metà (le donne) a garantirlo, il nudo.
Buon anno.
Antonio Montanari
«L’Afghanistan è stato da sempre, per la sua posizione geografica, il grande corridoio del mondo. Da qui son passate tutte le grandi religioni, le grandi civiltà, i grandi imperi; da qui son passate tutte le razze, tutte le idee, tutte le arti. L’Afghanistan è una miniera di storia umana...»
Tiziano Terzani, Corriere della Sera
«Penso che ognuno possa andare in Paradiso o all'inferno secondo le sue preferenze. Troppo spesso s'è visto che chi spera dalla filosofia un mondo migliore, volendo portare tutti nel suo paradiso, finisce col mandare, se non se stesso, purtroppo tutti gli altri nell'inferno.»
Francesco Barone
«I giornali da molto tempo non si fanno per i lettori.» Antonio Ricciintervistato da Alessandra Comazzi,La Stampa

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