il Rimino n. 71. Settembre 2001
La luce della Verità splende nel Tempio.
Due giorni di studi sull'opera «mirabile» dell'Alberti

Archivio 2016


La luce della Verità splende nel Tempio
Due giorni di studi sull'opera «mirabile» dell'Alberti


In un saggio di quarant'anni fa, Ezio Raimondi ricordava un passo di Leon Battista Alberti: l'uomo è chiamato a riconoscere un primo e vero principio delle cose, ove si vegga tanta varietà, tanta dissimilitudine, bellezza e multitudine d'animali», ed a lodare quindi «Iddio insieme con tutta l'universa natura, vedendo tante e sì differenziate e così consonanti armonie di voci, versi e canti in ciascuno animante concinni e soavi». Concinni è parola che oggi non usiamo più. Indica non soltanto l'armonia realizzata nella natura, ma anche il principio che ha presieduto alla sua creazione. E' la stessa armonia che Alberti, come artista, vuole proiettare nel suo Tempio «mirabile».
Il Malatestiano è stato il tema di un Convegno di studi svoltosi il 21 e 22 settembre a palazzo Buonadrata, sede della Fondazione Carim che l'ha organizzato, a conclusione del lungo restauro del Duomo riminese.
Ezio Raimondi (come presidente dell'Istituto Beni Culturali regionale), ha introdotto i lavori richiamando questo ideale albertiano della bellezza come composizione armoniosa di tutte le parti di un'opera: niente deve stonare, per trasferire nella materia della pietra l'ideale perfezione del creato.
Raimondi ha esaminato gli aspetti fondanti della cultura del Quattrocento, legata all'ideale di «humanitas» che voleva rendere gli uomini più colti, conoscitori delle cose per scoprire loro stessi.
Dalla lezione del famoso italianista bolognese, è facile ricavare un'importante conseguenza: il 'segreto' del Tempio non è inaccessibile, anzi si rivela sotto gli occhi di tutti. La critica letteraria e la storia dell'arte, unite all'indagine sul pensiero dell'Umanesimo, permettono di conoscere quello che non è un misterioso codice di simbologie per iniziati, ma un complesso sistema di riferimenti, ai quali occorre avvicinarsi con il desiderio più di domandare che di rispondere da soli alle nostre curiosità.
Ricordando i nuovi sviluppi degli studi sull'Alberti, Raimondi ha spiegato che essi portano in primo piano «una nuova interrogazione di un universo mentale consegnato al mondo delle parole e delle pietre». Questo «universo mentale» è qualcosa di «problematico, enigmatico e sfuggente, che sembra avvicinarsi a noi», con la sua consapevolezza che la condizione dell'uomo non è soltanto «dignitas» ma anche miseria.
Per Alberti, costruire vuol dire rifare, emendare, legarsi al passato per emularlo, ma non imitarlo, cogliere un elemento di contemporaneità. Per questo motivo, possiamo trovare nella facciata del Tempio la citazione dell'Arco d'Augusto.
Ogni monumento, ha detto infine Raimondi, oltre che una finestra sul tempo che lo ha creato, è pure l'espressione di un territorio e della gente che ci vive. A questo proposito egli ha ricordato che Alberto Melucci (vedi «Ponte», 23.9.2001) aveva inserito in «Zenta» una poesia che descrive il Tempio: entrandovi, «sei già in paradiso e non paghi neanche il biglietto» («t si zà in paradìs / ta n pègh gnènca e' biièt»).
A Raimondi si è richiamato sabato 22 mattina Piergiorgio Grassi (docente di Filosofia della Religione ad Urbino) presentando la sezione dedicata alla «dimensione religiosa», per analizzare gli aspetti generali della società rinascimentale e quelli particolari di Leon Battista Alberti nei confronti della religione («il suo Dio è un Dio di cui si parla, non un Dio con cui si parla»).
Non potendo qui, per ovvi motivi, dare un cenno di tutte le relazioni della sezione aperta da Grassi (uscirà tra qualche tempo un volume di «Atti» del Convegno che soddisferanno il desiderio di saperne di più), mi soffermo infine su quella del padre Paul Gilbert (docente di Filosofia teoretica all'Università Gregoriana di Roma ed a Parigi).
Padre Gilbert si è dedicato ad un itinerario di lettura dell'interno del Tempio che ha definito «stranamente nostro contemporaneo». Nella modernità, ha precisato, «tutto è ambiguo» proprio come il Tempio, dove si rispecchia il conflitto tipico dell'uomo rinascimentale, proiettato verso un futuro che è l'aldilà, il trascendente, ma pure attento alla ricerca scientifica che si basa soltanto su stessa.
Nell''esaminare come in esso si riassumano la cultura antica e quella rinascimentale, padre Gilbert ha trovato un altro aggancio con la vita dei nostri giorni: sia nel Tempio sia nella vita di oggi, si vuole uscire dagli schemi delle Religioni.
E' una tesi intellettualmente ardita che mira sia a contestare la condanna di Pio II (che considerava l'edificio come espressione pagana), sia a renderci consapevoli che il Tempio non è soltanto il rivestimento e l'abbellimento di una vecchia chiesa. Padre Gilbert spiega che i simboli pagani non riducono la chiesa a tempio pagano, perché la fede è capace di raccogliere il paganesimo, di elevarlo alla dignità di un monumento sacro.
E' stata, la sua, una lezione particolareggiata sui rimandi interni che esistono nel Tempio, fra le singole 'illustrazioni' che s'ispirano, da una parte, alla tradizione religiosa e, dall'altra, alla nuova cultura che annuncia il Rinascimento.
Come sintesi di questo itinerario malatestiano delineato da padre Gilbert, potremmo prendere le sue parole sugli Angeli e sui Puttini che si fronteggiano da due cappelle del Tempio. I Puttini rappresentano l'innocenza perfetta, e gli Angeli, sono segno della misericordia divina: ci guidano verso la prospettiva dell'Eterno, dando tranquillità alle nostre paure e mostrando che l'uomo è fatto per un'Eternità da vivere nella luce della Resurrezione che riguarda anima e corpo, entrambi destinati a Dio.
Antonio Montanari, Ponte del 30 settembre 2001.
Lettera
Fao a Rimini e allarme-terrorismo


Mentre cresce ovunque l'allarme-terrorismo, le autorità municipali di Rimini si rallegrano per l'indicazione espressa dal Capo del governo circa la scelta della loro città come sede del vertice della Fao. Mi auguro soltanto che la stessa Fao sia più consapevole dei rischi dell'ora presente, e sospenda l'incontro di novembre.
Antonio Montanari, Rimini [Corriere della Sera, 25.9.2001]
Appello dell'Università di Chicago
trasmessoci da Ettore MASINA

Care amiche, cari amici, l'Università di Chicago vuole rivolgere ai "Grandi" della Terra una petizione che ieri sera aveva già raccolto quasi 200 mila firme. Mi pare che si tratti di un documento che esprime bene la nostra angoscia e le nostre speranze e quindi vi invito a firmarlo SUBITO perché è evidente che la risposta armata all'attentato sta per ferire nuovamente la Terra. Cari saluti. Ettore Masina, 19 settembre 2001
La Petizione
Noi, cittadini degli Stati Uniti d'America e di altri Stati del mondo, chiediamo al Presidente degli Stati Uniti, George W. Bush; al Segretario Generale della NATO, Lord Robertson;al presidente dell'Unione Europea, Romano Prodi; e a tutti i leaders internazionali di usare moderazione e cautela nel rispondere ai recenti attacchi terroristici contro gli Stati Uniti.
Imploriamo che il loro potere ricorra, dove possibile, alle istituzioni giudiziarie internazionali e alle leggi internazionali sui diritti umani, piuttosto che a strumenti di guerra, violenza e distruzione.       Inoltre, affermiamo che il governo di una nazione deve essere considerato  distinto e diverso da qualunque gruppo terroristico che operi dal suo interno, e dunque non possa essere irragionevolmente considerato responsabile di crimini commessi da questi gruppi.
Ne consegue che il governo di una particolare nazione non può essere condannato per i recenti attacchi senza una convincente evidenza di una sua cooperazione e complicità con gli individui che hanno effettivamente commesso i crimini in questione.
Civili innocenti  che vivono in una qualunque nazione ritenuta colpevole, in parte o totalmente, per i crimini recentemente perpetrati contro gli Stati Uniti, non possono essere ritenuti in alcun modo responsabili per le azioni dei loro governi, e devono quindi essere garantiti nella loro sicurezza ed immunità da ogni azione militare o giudiziaria presa contro lo stato in cui essi  risiedono.
Da ultimo e con la massima energia, chiediamo che non venga fatto alcun ricorso ad armi nucleari, chimiche o biologiche né ad altro tipo di arma che produca distruzione indiscriminata, e riteniamo che sia un nostro inalienabile diritto umano il vivere in un mondo privo di tali armi.

Senza ironia [Tam-Tama 797]
La vita continua. Lo spettacolo deve andare avanti. Sono parole d'ordine o confessioni d'impotenza' Da Nuova York, Mark Crispin Miller (docente di Comunicazioni) spiega: quando sei in trincea come noi, diventa offensivo ogni atteggiamento di ironia.
Anche in Italia rifiutiamo l'ironia. Il ministro della Difesa Martino a Domenica In ha tranquillizzato: non c'è guerra, non partiranno nostri soldati. Il giorno dopo ha corretto il tiro: saremo in prima linea, ma senza i ragazzi di leva. Infine Silvio Berlusconi ha puntualizzato: non sappiamo nulla, «per ora, non ci è arrivata nessuna richiesta; l'America reagirà da sola». E' uno dei modi di sentirsi fratelli. Prima partano i giganti, poi semmai arriveranno i nani.
Tentando di allontare «timori eccessivi»,  Berlusconi ha spiegato che non ci sarà un bis dell'11 settembre, ed ha raccontato (senza ironia) la sua personale parabola: «Una volta passai davanti a un campetto di salesiani, mi arrivò una palla tra i piedi, la lanciai e feci canestro da 15 metri. Non ci riprovai più, perché mai avrei avuto lo stesso successo». Poco prima in Consiglio dei ministri, per calmare gli animi, Berlusconi aveva azzardato: «Ora vi racconto una barzelletta così vi metto di buon umore». Narrano le cronache che il fido Gianni Letta lo ha distolto: con calcio allo stinco o gomitata al fianco'
Il perfido Antonio Ricci ('Striscia la notizia') confessa senza ironia: «Con le mie figlie devo fingere che ci sarà Natale, le vacanze. Ci dobbiamo imporre la normalità, e non farci fregare. E se proprio devo morire voglio farlo con il sorriso». Evitando, immagino, di ascoltare le barzellette d'ordinanza del suo datore di lavoro. Intanto  Berlusconi  comincia a diffidare della tivù. Il caso Martino ha lasciato il segno: «Vista la situazione, sarebbe meglio declinare eventuali inviti a varietà televisivi». Chi non declina è il prezzemolino Giulio Andreotti, visto al processo (di Biscardi), nella diretta con Baudo su padre Pio, ed in servizi sulla politica estera.
Otto milioni di italiani, lo stesso numero delle baionette d'infausta memoria, si sono buttati sul 'Grande Fratello'. Assente Enzo Biagi, dichiaratosi felicemente figlio unico. Appartengo alla categoria. Curzio Maltese ha colto un passo dello show: «C'è troppa intolleranza in giro, e non ce ne rendiamo conto», diceva un ragazzo. «Bravo, ho pensato», scrive Maltese: «Ma stava parlando di latticini e allergie alimentari».
Antonio Montanari [il Ponte, 30.9.2001, Tam-Tama 797]
Il sogno: guerra o pace' [Tam-Tama 796]
Nel 1908 lo scrittore inglese Israel Zangwill coniò l'espressione "melting pot" per descrivere la società multietnica statunitense. Lo ricorda sull'ultimo "National Geographic Italia", un articolo dedicato ad un Liceo della Virginia, dove la metà dei suoi 1.400 studenti è nata in 70 Paesi diversi.
Uno di loro ha dichiarato che "la migliore palestra per esercitare la tolleranza è incontrare ogni giorno persone diverse, come accade in questa scuola".
Domanda: è ancora così dopo l'11 settembre, giorno primo della terza guerra mondiale, come lo hanno definito prima sommessamente (ad esempio, Lucia Annunziata, quasi redarguita da Enrico Mentana), poi con dichiarazioni ufficiali'
Resta una speranza (un'illusione') che siano oggi più di ieri quanti la pensano come quello studente della Virginia. Sarà possibile anche nei prossimi giorni allevare tenacemente un sogno, senza essere additati come pericolosi sovversivi: il sogno che a quegli studenti, ai loro fratelli più piccoli d'età, ai bambini sperduti nel mondo, l'odio omicida e il desiderio di vendetta possano non procurare altri dolori come quelli che abbiamo provato l'11 settembre'
Igor Man, sulla "Stampa" ha scritto: i giornalisti che abusano nei titoli della parola guerra, «la guerra l'han vista solo al cinema". Chi come lui, da inviato, c'è passato in mezzo per 50 anni, sa che oggi è un viaggio senza ritorno, inutile sacrificio umano. George Bush, si sono chiesti i consiglieri clintoniani, "è l'uomo che parla a nome dell'America o un presidente con un vestito di due taglie più grande'".
Siamo tutti nella stessa barca, e non soltanto per l'art. 5 del Trattato della Nato. "Siamo tutti Americani", hanno dichiarato anche i nostri politici dopo le stragi dell'11 settembre.
Ma questo che cosa comporterà' Varrà il "taci, il nemico ti ascolta", se si ricordano gli errori della politica estera americana' Paolo Mieli, subentrato ad Indro Montanelli, nella corrispondenza con i lettori del "Corriere della Sera", ha spiegato che Osama Bin Ladèn, un tempo protetto dagli Americani nella guerra afgana contro l'Urss, non è "figlio" degli Usa. Sarà possibile coltivare qualche dubbio su questa tesi così sicura' Nelle emergenze, si tende sempre ad invocare verità ufficiali.
Il sogno di un Mondo tollerante è stato ferito e non sepolto tra le macerie dell'11 settembre. I ragazzi di quel Liceo della Virginia sono anche nostri vicini di casa.
Possiamo ancora crederci.
Antonio Montanari [il Ponte, 23.9.2001, Tam-Tama 796]
Fare scena, a Genova [Tam-Tama 795]
Lo spettacolo è lo spettacolo. In occasione della scomparsa del telecronista Adriano De Zan, è stato ricordato che egli fece ripetere la volata al vincitore di una corsa, perché la regìa non l'aveva potuta riprendere regolarmente.
Altro esempio. L'ex questore di Genova Francesco Colucci, il 28 agosto scorso, davanti alla Commissione parlamentare d'indagine sul G8, ha confermato una testimonianza di Danilo Mollicone pubblicata dal settimanale "Diario": le Tute Bianche avevano detto a poliziotti e carabinieri che, per fermarsi nella manifestazione di protesta, bastava loro di avere "di fronte i blindati con le reti, per mettere in scena un po' di resistenza, buona per i media". Secondo quanto hanno riportato i resoconti d'agenzia sulla deposizione dell'ex questore Colucci, il cosiddetto accordo siglato con i rappresentanti del Genoa Social Forum prevedeva anche "una sorte di sceneggiata che le Tute Bianche guidate da Luca Casarini dovevano fare in piazza Verdi" per varcare la "zona rossa".
Se gli eventi non avessero poi avuto la tragica conclusione che conosciamo, avremmo avuto un bel canovaccio da teatro comico: quelli di piazza Verdi contro quelli della "zona rossa". Immaginate ad esempio Totò ricamarci sopra, con la sua 'spalla', equivocando sul fatto che in piazza Rossi c'era una zona verde, dove dimostranti in Tuta Bianca completavano il quadretto di un classico tricolore nazionale da esporre ai balconi pre-leghisti nel tripudio napoletano di un "Viva l'Italia". Al posto di quel finto fronteggiarsi di finti nemici, c'è stato un epilogo doloroso che secondo Alberto Arbasino molti in cuor loro avevano desiderato. Comunque, ad un poco di "sceneggiata" abbiamo assistito lo stesso, in ritardo, prima in Commissione parlamentare e poi sui giornali.
L'ex questore Colucci è stato (ovviamente) smentito non soltanto da Casarini ("A me non risultano trattative"), ma pure dall'ex vicecapo della Polizia Ansoino Andreassi che nega di aver intavolato patteggiamenti con dimostranti o loro rappresentanti. Però Casarini ha aggiunto un particolare (inquietante') attribuendo ai carabinieri la colpa di aver fatto "saltare tutto attaccandoci a freddo", prima che il corteo 'bianco' potesse arrivare "dove ci aspettavano i poliziotti".
Infine, il ministro degli Interni, secondo "La Stampa", avrebbe confidato alla moglie che le immagini messe in onda da Mentana sarebbero state non informazione ma appunto "spettacolo".
Antonio Montanari [il Ponte, 16.9.2001, Tam-Tama 795]
Consumate(vi) con Tonino Guerra [Tam-Tama 794]
Nelle enciclopedie future, alla voce "Guerra, Antonio [Tonino]" forse si leggerà che il celebre santarcangiolese non fu soltanto poeta e sceneggiatore, ma apparve anche sui giornali ed in tivù nell'estate 2001 come testimonial di una catena di supermercati d'elettrodomestici, all'insegna d'un motto che all'apparenza dovrebbe fare epoca, "Benvenuti nell'era dell'ottimismo". Non interessano le motivazioni presentate alla stampa dall'illustre romagnolo per giustificare la sua scelta ("devo tirare avanti con due milioni" al mese), ma suscita qualche meraviglia la sua improvvisa (e per certi aspetti imprevedibile) conversione a quello che Enzo Biagi l'altro giovedì definiva chissà come un "falso problema": il consumismo. Guerra è stato il disincantato menestrello delle cose perdute, delle civiltà tramontate, di sogni mai realizzati, della leggerezza che la poesia porta nel cuore dell'uomo anche nei momenti tragici. L'abbiamo sempre ascoltato estasiati mentre con la sua fascinosa cantilena elogiava la ricerca dei segni del tempo andato, su per queste colline che diventano impercettibilmente monti, e parlano col cielo durante le piogge od aspettando il sole, salutando un tramonto. La tivù ed i giornali ci mostrano Guerra, con la stessa voce, lo stesso sorriso, la stessa intelligenza, ed un discorso che sembra aver dimenticato tutto quello che fino ad ieri lui era stato: l'incantatore dei sogni, uno che al posto del violino suonava le parole, e faceva spettacolo con quel "poco" che è la grandezza della fantasia e dell'intelligenza. Ce lo ritroviamo in apparenza come filosofo dell'industrializzazione, pensatore confindustriale, ma in realtà potrebbe essere ancora quello di sempre. Uno che con cinquant'anni di ritardo s'è reso conto, perché glielo hanno detto i pubblicitari, che le donne quando lavavano i panni al fiume o nei mastelli si spaccavano la schiena, mentre adesso grazie ad una macchina, una vituperata macchina, possono impiegare diversamente il tempo del bucato. Oggi, la gente sorride ancora davanti agli "oggetti che ci tolgono la fatica o ci fanno compagnia", come recita il suo slogan' Nelle grandi città, un modo per passare il tempo, è spesso quello (alienante) di rinchiudersi con la famiglia in un iper per dodici ore filate: vetrine, patatine, detersivi ed una birra gelata. Alla sera, sono persone più felici che all'inizio della giornata, dopo aver visto tanti "oggetti" che magari non possono acquistare' Intanto un'altra catena commerciale promette: "Non c'è più religione. (Adesso siamo aperti tutte le domeniche.)"
Antonio Montanari [il Ponte, 2.9.2001, Tam-Tama 794]
NON BASTA LA PAROLA:
Global? No, global

"Fare un salto", mi hanno detto in una banca, significa che l'impiegato sarebbe stato assente per tutta la mattinata. Le parole non riescono spesso a rendere il concetto che ci frulla in testa, perché le giriamo come vogliamo.

Per "global" si azzuffano non soltanto i politici: è un bene, un male' Una novità, o no' E' stato "global" l'impero romano con il virgiliano imporre costumi di pace, usando clemenza a chi cedeva e sgominando chi si opponeva ("Eneide", VI, 852-3). Anche per Marco Polo, Colombo, Garibaldi o Marconi la realtà fu globale. Ma lo è stata pure per guerre moderne ed epidemie antiche. E lo è per l'economia ("uno starnuto a Tokio, è temporale a Londra").
"Global" non è invenzione di questi giorni. Nel 1969 Marshall McLuhan pubblicò un saggio sul "villaggio globale", cioè elettronico.
Oggi abbiamo quello telematico, con Internet. Ma i messaggi sono destinati ad un povero bambino del Nepal costretto a lavorare in una cava di pietre del Nepal o a quello nostrano obeso per eccesso di merendine' "Global" è l'esportazione che arricchisce le nostre imprese, ma anche il lavoro minorile nei Paesi "in via di sviluppo" per prodotti destinati a noi, è la nuova economia che ad esempio in Perù fa rispuntare la TBC perché gli ospedali (obbedendo al Fondo Monetario Internazionale) sono ora imprese di mercato, e non attuano prevenzione. Il Perù, dove si paga per donare il sangue ad un malato. Dove una donna muore con il figlio perché senza soldi per il necessario taglio cesareo (vedi G. Vaccaro, "Missioni Consolata", 7-8/2001).
In Gran Bretagna hanno aggiunto al termine capitalismo l'aggettivo compassionevole. Sono parole povere quelle che abbisognano di un abbellimento.
[Antonio Montanari, il Ponte, 2.9.2001]

NON BASTA LA PAROLA:
Devoluto' Sarà lei

Pure le parole subiscono le mode. Tramontano e sono rottamate anch'esse come le auto, ed ahinoi, stando ai giornali, come il 'personale in esubero'. Oppure  trionfano nelle classifiche delle più usate (od abusate'). Una di queste è devolution, inutile traduzione inglese dell'italianissima devoluzione, dal latino (rieccolo!) devolvere. Il defunto ha devoluto i suoi enormi beni ai parenti mesti, lieti che finalmente il gran giorno (suo e loro) fosse arrivato.
Insomma, roba di soldi. Come appare chiaro dalle intenzioni di chi prima intona 'Roma ladrona' (tranne che nel giorno del san Paganino bicamerale), e poi si muove con il motto: 'qua il malloppo'.
Al coro secessionista del 'separiam, separiam', il passato governo ha risposto con quello finora muto (tipo Butterfly) che dovrebbe però acquistar parola il 7 ottobre con il referendum confermativo -e non abrogativo- della legge sul federalismo, per modificare l'articolo 117 della Costituzione.
Una guerra di devoluzione combattuta nel 1667-68, rilancia su di noi bagliori sinistri: la volle Luigi XIV di Francia alla morte del suocero Filippo IV di Spagna per far ereditare alla propria moglie una parte dei Paesi Bassi spagnuoli, ottenendo alla fine dodici città fiamminghe. Fu l'inizio delle guerre d'Europa, con quel periodo detto dell'equilibrio che mise a ferro e fuoco tutto il Continente, a vantaggio di Parigi.
Di questa guerra di devoluzione oggi nulla forse sanno neppure i laureati in Storia (presi dallo sociologia del campionato di calcio e dall'evoluzione dei costumi da bagno). Ma il suo ricordo per nulla tranquillo, ci può avvertire che sul prossimo referendum del 7 ottobre, è necessario informarsi. Riusciranno i nostri politici ad illustrarci la differenza tra  federalismo e devoluzione'
[Antonio Montanari, il Ponte, 30.9.2001]
Il dottore visita il passato
Il congresso riminese di Storia della Medicina del 1999.
Il volume degli "Atti"

La prima cosa che m'è saltata agli occhi, ad apertura di volume, è stato l'accenno ad una costumanza popolare dell'Ottocento: "per guarire i vermi va posto sulla pancia del malato un catino pieno d'acqua in cui si fa poi colare del piombo fuso". Ho già raccontato anni fa, su queste colonne (in una pagina poi raccolta in "Anni Cinquanta", ed. Guaraldi), che una siffatta procedura fu attuata ai miei danni, a Viserba, nell'ultimo sfollamento bellico, da una signora che di nome faceva Tranquilla, esercitava il mestiere di cartolaia ed a tempo perso praticava "punture" e rituali parasanitari. Uno dei quali fu appunto l'"impiombatura" sul mio capino (allora) innocente, con un magistrale fallimento di mira, per cui il materiale fuso finì lungo una gamba, anziché nel catino. Adesso, negli "Atti" del 40° Congresso della Società Italiana di Storia della Medicina, tenutosi tra Rimini, San Leo e Verucchio nell'ottobre 1999, leggo che il sistema di (supposta) liberazione dai vermi è addirittura ricordato in un testo forlivese del 1818, sugli "Usi e pregiudizi de' contadini della Romagna": la notizia mi riempie d'allegro conforto. Non sono stato, allora, vittima d'una fantasia personale della signora Tranquilla (poi emigrata negli Usa, di certo non per colpa mia), ma di una credenza collettiva. E forse io sono l'unico testimone vivente delle conseguenze che l'applicazione di quel "pregiudizio" da villici poteva provocare per errata manovra dell'operatore (per nulla igienico, tantomeno sanitario). Fortuna ha voluto che, nel successivo corso degli anni, non si sia più sperimentata in casa nessun'altra costumanza popolare di quelle che il gustoso saggio di Massimo Aliverti (professore di Storia della Psichiatria a Milano), elenca a proposito del saggio di Michele Placucci (1782-1840), funzionario della Municipalità di Forlì, città dove venne dato alle stampe il suo testo. Non di usanze, ma di "morbi popolari" si occupò Michele Rosa, nativo di San Leo, che fu allievo a Rimini di Iano Planco. Rosa divenne a 36 anni titolare all'Università di Pavia di una Cattedra che oggi si chiamerebbe di Patologia speciale medica, e sei anni dopo passò all'Ateneo di Modena, come primario di Medicina.
Fu in quest'ultima città che compose un libro, "De epidemicis et contagiosis" (1782) per dimostrare una teoria "celebre ed (altrettanto) fallace", risalente (come spiega Stefano De Carolis) a due secoli prima, secondo cui esisteva un "principio volatile" che era causa di tutti i fenomeni della vita: esso era assunto dall'aria con i polmoni "e, mescolandosi nel sangue alla parte più volatile della "materia animale", si trasformava in "vapore espànsile" che circola nel sangue arterioso".
A sostegno di questa teoria, Rosa "compì anche alcune esperienze di trasfusione sanguigna, che ebbero però risultati contraddittori". La parte di un suo scritto in cui ne parla, come prosegue De Carolis, fu "scippata al suo autore da molti medici europei" che proseguirono quelle esperienze e le osservazioni in questo campo di ricerca. Rosa, costretto dall'invasione francese a rientrare a Rimini, si dedicò a studiare l'uso delle ghiande quale integratore della fava e del grano per produrre pane a poco prezzo. I suoi suggerimenti ebbero pratica attuazione nel 1801, con il plauso dei pubblici amministratori (che quando si tratta di risparmiare per i poveri diavoli, sono sempre tutti felici). Ai tempi di Michele Rosa, la laurea era conseguita con il duplice titolo di "Medicina, e Filosofia". Il verucchiese Adalberto Pazzini, ricordato a cento anni della nascita nella prima sezione degli "Atti", metteva in guardia i colleghi a non avventurarsi nel "campo minato della Filosofia". Commenta Francesco Aulizio: "A ben pensarci un filosofo potrà parlare per diverse ore filate del mal di pancia e dare anche delle spiegazioni metafisiche belle e forse convincenti, il malato però nel frattempo potrà andare incontro ad una peritonite con tutto quel che segue". L'unica Filosofia che il medico dovrebbe seguire, secondo Pazzini, è quella dei primi pensatori greci che ponevano in diretto rapporto l'uomo con la natura. (Il problema è più complesso, per la verità.) Non di pensiero, ma di abbigliamento si occupa Elisa Tosi Brandi nel saggio dedicato all'abito del medico nell'iconografia medievale, a proposito del polittico di Scuola riminese del Trecento, conservato nel Museo di Rimini, per dimostrare che sotto il vestitoƒ tutto: cioè i panni indossati certificavano un'appartenenza sociale, "vietando per esempio ai ceti di nuova formazione di partecipare con i nobili all'esclusivo gioco delle apparenze": "Per questa ragione legislatori e moralisti decisero di fare in modo che nessuno potesse appropriarsi della segnaletica distintiva di una condizione diversa dalla propria".
Il polittico di Scuola riminese ritrae anche i santi martiri Cosma e Damiano, medici che esercitarono gratuitamente per diffondere il Cristianesimo, e che sono stati adottati come protettori dai loro colleghi, dai chirurghi, dai farmacisti, dagli ospedali ed anche dai barbieri che nel medio evo praticavano la "Medicina minore". Con Michela Cesarini incontriamo "Medici, santi e guaritori nei dipinti seicenteschi del Museo della Città di Rimini": sono cinque personaggi legati alla storia della Medicina, compresi i citati Cosma e Damiano, che tornano però con vesti cambiate rispetto al polittico trecentesco. Altri due saggi vorrei segnalare in questi "Atti" (che sono stati curati da Stefano De Carolis, Giancarlo Cerasoli e Francesco Aulizio). Giorgio Zavagli parla dei propri antenati, "due medici riminesi dell'Ottocento", in pagine vivaci che possono interessare gli appassionati di storia locale. Del trisavolo, Gaetano, si ricordano i rapporti intercorsi con Giacomo Leopardi a Recanati, dove era stato chiamato come "comprimario" proprio dal padre del poeta, Monaldo. Infine, Walter Pasini riferisce di "Paolo Mantegazza a Rimini" (che è anche l'argomento di un suo recente volume). Per restare infine in ambito medico riminese, segnalo che il locale Ordine professionale pubblica un interessante "Bollettino", finora uscito nella nuova veste in tre numeri, due dei quali monografici dedicati alla bicicletta ed al vino. La cura redazione è affidata a Stefano De Carolis che si avvale di una folta schiera di appassionati collaboratori. Ed a proposito delle pratiche tradizionali a cui ho accennato all'inizio, ricordo (dall'ultimo numero del "Bollettino") l'articolo di Giancarlo Cerasoli che passa in rassegna l'uso del vino come rimedio della medicina popolare romagnola. I nostri antenati, forse approfittavano della malattie per permettersi qualche lusso etilico in più, se per ogni problema piccolo o rilevante della salute c'era il suggerimento di ricorrere al sangue dell'uva. Non tutti gli stomaci però erano adatti alle ricette suggerite, come per esempio quella che per i casi di digestione difficile, suggeriva di bere del vino bianco dopo avervi tenuto un rospo.
Antonio Montanari
Farmaci e Paesi poveri
Secondo il Nobel Rita Levi Montalcini, "le industrie farmaceutiche potrebbero dedicare piu' attenzione alle malattie di alcune nazioni povere, che sono invece trascurate, perche' con loro non si fanno affari, visto che non possono pagare". Cosi', aggiunge Rita Levi Montalcini, "assistiamo alla diffusione di patologie piu' o meno rare anche nei bambini senza muovere un dito. E condanniamo intere popolazioni a una vita terribile". In Camerun, ad esempio, "c'e' una diffusione enorme del diabete che non ' certo una malattia rara. Eppure nessuno si muove per fare avere cure adeguate a quella gente che sta morendo". [Dal "Corriere della Sera", 21 agosto 2001]
Morti invisibili per esperimenti di farmaci Una lettera pubblicata da "La Stampa" il 4 settembre 2001 rivela che "in terre di tutti e di nessuno, dove tutto e' possibile specie l'impossibile, come la Nigeria ad esempio, non e' un segreto che le morti recenti dovute a un antibiotico in fase sperimentale sono alcune decine". La lettera e' firmata Franco Lucato, Torino.

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