Diario italiano
Il Rimino 214, anno XV
Ottobre 2013/Speciale Federico Fellini


il Rimino n. 10. 25 gennaio 2000
Federico, penna e pennarello.
Il Fellini umorista autore di testi e vignette

A Federico Fellini sono stati dedicati recentemente due volumi, dei quali riferiremo brevemente in questa nota. Il primo è relativo al nostro regista quale "Autore di testi" e copre un periodo che va dal 1939 al 1950: si tratta di un "quaderno" edito dall'Istituto dei beni Culturali della regione Emilia Romagna, a cura di Massimiliano Filippini e Vittorio Ferorelli. In esso sono raccolti gli atti del convegno tenutosi a Bologna nell'ottobre 1998.
Il secondo presenta un testo felliniano, "Fuori programma n. 7" (luglio 1943), deliziosamente surreale, vincitore del Prix Italia radiofonico nel 1999.
L'esperienza giovanile
Questi due libri hanno una stretta parentela offrendoci (direttamente o attraverso la mediazione critica e documentaria) l'immagine di un Fellini che ai più è sconosciuto, quella appunto dello scrittore e del disegnatore.
Riprendiamo dalla nota biografica del "Fuori programma n. 7": Fellini "già in tenera età mostra di preferire ai giochi di movimento quelli di fantasia, trascorrendo lunghe ore in solitudine a inventare storie e personaggi per il teatrino dei burattini. Ma la sua inesauribile, precoce passione è il disegno, che esercita in tutte le forme, soprattutto nella caricatura, fin dai banchi di scuola, ritraendo comicamente compagni e insegnanti".
1939, fuga da Rimini
All'inizio del 1939 Fellini fugge da Rimini (dove, se fosse rimasto, tutt'al più gli avrebbero permesso di fare l'impiegato di concetto in Comune). L'approdo a Roma è la conclusione del sogno iniziato nella città natale con la collaborazione al "420", settimanale umoristico fiorentino. Ne parla Ernesto G. Laura nel primo volume (al quale appartengono anche tutti gli altri saggi che citeremo), ricordando due cose: che il disegno felliniano si ispira alla rivoluzione operata a Milano dal "Bertoldo" di Mosca, Guareschi, Manzoni, Mondaini e Steinberg. E che "l'umorismo di Federico può farsi, quando vuole, anche cinico e cattivo", anticipando "certo grottesco di Jacovitti".
Vincenzo Mollica analizza, con un discorso molto interessante, "quando Fellini disegnava", parlando di come la matita prima, poi le tempere ed infine i rivoluzionari pennarelli si siano sempre dimostrati la culla delle sue intuizioni letterarie o cinematografiche: "La prima rappresentazione di una sua idea avveniva attraverso il disegno".
Poi c'è il Fellini teatrale e radiofonico che è possibile ripercorrere con Patrizia Ferrara che ha scandagliato l'archivio della censura del Minculpop (ministero della cultura popolare). La quale censura ad esempio tagliò una scenetta per riferimenti a temi proibiti come i disservizi dei trasporti pubblici o la corruzione degli impiegati. Gettata nel cestino, fu anche una scenetta in cui due sposini in "Viaggio di nozze" si spogliavano: "Non che vi fosse qualcosa di peccaminoso nella descrizione o nei dialoghi, ma la radio lasciava troppo spazio all'immaginazione degli ascoltatori", osserva Patrizia Ferrara.
Alla radio, Fellini approda dal "Marc'Aurelio" il 17 aprile 1940: progressivamente, "l'umorismo si fa più raffinato, a volte caustico, mai volgare o gratuito", osserva Luciano Villevieille Bideri ("Gli archivi SIAE").
Tralasciamo a malincuore di citare anche gli altri contributi più strettamente legati al cinema da questo "Federico Fellini autore di testi", per saltare immediatamente accanto al "Fuori programma n. 7" (ri)stampato da RadioRai in italiano, inglese e francese. Come si è detto, è un testo radiofonico (poi apparso in volumetto non sappiamo quando) che l'emittente pubblica ha trasmesso proprio in occasione dell'ultimo Prix Italia sul Terzo programma: l'ho ascoltato, e credo di essere l'unico cronista riminese ad averlo fatto, dato che nessuno in città ne ha parlato. (Ma in una città surreale come la nostra può capitare che di una cosa molti colleghi parlino senza saperne niente perché gliela suggeriscono amici di ‘corrente' o informatori interessati: questo è lo stato pietoso dell'informazione riminese. E dico surreale perché la città naviga come un fantasma, aggiungendo che non è ‘riminese' Fellini ma ‘felliniano', cioè comico ed irresistibile nella sua fatuità, questo borgo selvaggio, fino a farci lacrimare dalle risate.)
I pesci napoletani
Ovviamente la lettura del "Fuori programma n. 7" impedisce di cogliere la novità del testo che si rivela quando esso è realizzato dalla radio. Ma egualmente il testo ci restituisce la grandezza di questo manipolatore di parole che fu Federico Fellini, con le parodie, le invenzioni come quella dei pesci che intervengono usando il dialetto napoletano o quella del regista che ‘crea' le parole delle ruote del treno (tatatantatatan, tatatantatatan, tatatantatatan): "Manca poco, manca poco, Manca poco ad arrivare. Manca poco, manca poco, Manca poco ad arrivare."
Anche il "Fuori programma n. 7" conferma quanto, con commozione ma grande verità, scrive Vincenzo Mollica nell'altro volume: Fellini lavorava nella "maniera più semplice e più alta", con "la semplicità appunto dei grandi artisti, perché egli è stato un genio di questo secolo". E come tale lo ricordiamo, proprio ad 80 anni dalla sua nascita, lui l'autore di "Amarcord" a questa città di smemorati e di egotisti (nonché egoisti), con poca genialità ma tanta ambizione. E con ciò un posto (ennesimo) nelle civiche liste di proscrizione, me lo sono meritato.
Antonio Montanari
Vitelloni riminesi nati a Roma.
Il ricordo di Alberto Sordi ne ripropone la leggenda.
[2003]

Proprio cinquant’anni fa escono nelle sale cinematografiche «I vitelloni» di Federico Fellini con Alberto Sordi imposto dal regista: l’ambiente del cinema gli è contrario, lo considerano «collezionatore di insuccessi e antipatico al pubblico». La società che distribuisce il film «pretende per contratto che il nome di Alberto Sordi non compaia nei manifesti». Lo ricorda Tullio Kezich nella biografia di Fellini.
Quella situazione testimonia come i simboli nascano fortissimamente anche quando tutto vi si oppone. Proprio con «I vitelloni» fiorisce il successo del comico romano che allora contemporaneamente si esibiva con la rivista di Wanda Osiris, in giro per l’Italia, per cui Fellini doveva rincorrerlo di città in città.
Già il titolo era una parola nuova. Ancora Kezich: sul termine vitellone, si apre un dibattito filologico. Esso sarebbe marchigiano e non romagnolo, più legato al lessico familiare di Ennio Flaiano, il quale ne scrisse nel 1971 ricordando come dalle sue parti ed ai suoi tempi fosse usato «per indicare un giovane di famiglia modesta, magari studente, ma o fuori corso o sfaccendato».
Nascerebbe cioè non dal «vidlòn» riminese, ma dal «vudellone» (grosso budello) del centro-Italia, «persona portata alla grosse mangiate», scriveva ancora Flaiano, «e passato in famiglia a indicare il figlio che mangia a ufo, che non produce, un budellone da riempire», insomma.
Commenta Kezich: «A Rimini questo tipo di giovinastri vengono tuttora chiamati ‘birri’».
All’estero il titolo del film deve ovviamente cambiare: sono ragazzi pigroni per gli inglesi, scioperati per i tedeschi, inutili in Spagna. Soltanto i francesi accettano l’originale, ovviamente accentato, «Les vitellonì».
Dunque Alberto Sordi diventa il simbolo di certa gioventù indigena, lui «romano de Roma», con l’etichetta del nome per antonomasia ricalcata fuori di qui, in un film tutto girato in mezz’Italia.
Così nascono i miti. C’è un accumulo di circostanze ed invenzioni che poi si addensano soltanto sopra chi le interpreta e le mostra al pubblico. Così Sordi è diventato per tutti, sino alla sua scomparsa, l’Albertone Vitellone.
In occasione dell’uscita del film, Fellini spiegava a «Cinema nuovo» (leggiamo da «A come Amarcord. Piccolo dizionario del cinema riminese» di G. M. Gori): «Mi è venuta la tentazione di giocare ancora uno scherzo a certi vecchi amici che avevo lasciato da anni nella città di provincia dove sono nato. [...] Così da qualche giorno mi sono messo a raccontare quello che ricordavo delle loro avventure, le loro ambizioni, le piccole manie, il loro modo particolarissimo di passare il tempo».
Secondo Kezich, «è inesatto affermare che il regista racconta nel film i proprî ricordi: Federico non arrivò a diventare un vitellone, se ne andò prima e il gruppo rievocato nella vicenda, del quale faceva parte anche il pittore Demos Bonini, era formato da giovani che avevano otto o dieci anni di più, portavano grandi cappotti, cappelli da uomo, sciarponi, baffetti e cappelli curati. Un gruppo che mai avrebbe permesso a Federico o a Titta [Benzi], adolescenti liceali, di avvicinarsi per fare comunella».
Quando nel 1967 uscì «La mia Rimini» di Federico Fellini, un lungo capitolo scritto da Guido Nozzoli vi rappresentava «L’avventurosa estate dei birri». Niente vitelloni. La vecchia parola birri splende con tutta la forza di una tradizione che rifiuta il nuovo conio del film con Sordi.
Il birro, spiega Nozzoli, «è il giovane intraprendente, spavaldo, apparentemente cinico, un po’ esibizionista e aggressivo» che negli intervalli delle sue avventure amorose estive «combina scherzi quasi sempre eccessivi e molesti, organizza cene da olio santo, qualche volta si azzuffa e rompe l’anima alla gente» con il cosiddetto «lampézz»: un «tormentino inflitto con una serie di battute un po’ assurde e di piccole punzecchiature apparentemente correttissime da cui la vittima presa di mira – conoscente o no – resta invescata un po’ per volta, col rischio di mattire senza accorgersene. O è una ripetizione incessante e allucinante della stessa battuta, dello stesso motivo».
Tutto, conclude Nozzoli, finì con la guerra: «Dalle macerie stava uscendo una città nuova, intraprendente, un po’ disordinata. Irriconoscibile». Le estati dei birri erano finite. Continuavano però gli anni dei vitelloni, con regìa di Federico Fellini. Proprio cinquant’anni fa. Con l’Albertone nazionale diventato emblema di storie che la fantasia e la leggenda dicono legate a Rimini, ma ad una Rimini che però rappresenta il Mondo. Vi pare poco?
Antonio Montanari

La fenomenologia dello «zio Pataca».
In «Amarcord» è un simbolo dei violenti anni Trenta.

[2005]


Nel 1973 Federico Fellini rilasciava a Pietrino Bianchi, celebre critico cinematografico del quotidiano milanese «Il Giorno» un’intervista a proposito del film «Amarcord» uscito l’anno prima, e che nel 1975 avrebbe vinto l’Oscar. Quelle parole di Fellini aprono il numero 1/2005 della rivista di studi «Fellini Amarcord», che l’omonima fondazione riminese dedicata al regista pubblica trimestralmente da cinque anni. Le precedono due testi, uno del direttore della fondazione, Vittorio Boarini, e l’altro di Morando Morandini, anch’egli noto critico cinematografico. La rivista appare mentre si tiene nel Museo Fellini (sino al 28 agosto) la mostra «Amarcord. Fantastica Rimini».
Le parole confidate da Fellini a Bianchi, sono un ritratto molto efficace della vita degli anni Trenta, definiti «un mondo sbagliato, meschino, gretto e violento». Le assocerei all’osservazione che fa Morandini poche pagine prima. Quando uscì il film, Morandini non approvò la parte storica della sceneggiatura. Anzi la bocciò decisamente, definendola «fiacca e facile». Adesso per «il malinconico privilegio dell’età», Morandini ammette: «Non è escluso che le mie severe riserve sul versante storico dipendessero dalla mia memoria, storica e geografica, cioè dalle esperienze vissute a Como a metà di quegli stessi anni Trenta». Il suo «panorama di ricordi», conclude, «era assai diverso da quello del riminese Fellini».

Portavoce
d’una società
Morandini segnala qui un problema che non è soltanto suo, ma generale: quello della valutazione di un film o di un racconto. E che gira attorno alla questione: come giudicare la rappresentazione dei ricordi individuali? Ed anche: sino a che punto quei ricordi restano semplicemente personali, e dove (o quando) cominciano ad essere collettivi, a confluire in una memoria di tutti? Ovvero: Fellini racconta cose soltanto sue, oppure organizza uno spettacolo in cui egli si fa semplice (ma artisticamente privilegiato) portavoce di una coralità che restituisce nelle immagini e nella sceneggiatura le trame esistenziali d’una società intera, i differenti aspetti d’un momento storico?
Morandini ricorda pure che «curiosamente» (noi ci permettiamo di aggiungere, non troppo) Rossana Rossanda sul «manifesto» era vicina al suo giudizio su «Amarcord». Lei aveva scritto che il film appariva sommesso e struggente, segreto e composto, lasciando alla fine la sensazione che non ci fosse «molto da dire».

L’uomo
da poco
Dopo un anno esatto dalla presentazione, Fellini pronunciava con Pietrino Bianchi le parole che abbiamo riportato, sul «mondo sbagliato, meschino, gretto e violento» degli anni Trenta. Con quattro soli aggettivi il regista riminese spiegava molto e più di tanti studiosi e saggisti (è la tesi di Giovanni Grazzini allora al «Corriere della Sera»). Poi introduceva nell’«universo familiare» descritto, la variante del «Pataca» puntualizzando: «Pataca da noi significa un uomo da poco, un farfallone, che vive ai margini sognando cose difficili, assolutamente lontane dalle sue possibilità».
Nel film c’è appunto il personaggio dello «zio Pataca» (Lello) che non è come faceva dire Bianchi a Fellini, il «fratello del protagonista» (il padre di Titta, Aurelio), ma della mamma, Miranda. Il padre ha sì un fratello, Teo, ma è quello «matto» domato dalla suorina (ce n’era veramente una così nana, cinquant’anni fa all’ospedale di Rimini), quando in cima ad un olmo egli grida di volere una donna. La suorina gli intima in dialetto di «non fare il pataca» e di venir giù. Teo «obbedisce sollecito», come annota Tullio Kezich nella biografia di Fellini (1987).
Alle bonarie parole felliniane su Lello lo «zio Pataca», aggiungerei come leva non tanto nascosta per svelare il segreto del personaggio, un particolare che pare fondamentale per comprenderne psicologia e filosofia: è lui che tradisce il cognato antifascista presso cui vive da vitellone parassita, facendogli infliggere la lezione dell’olio di ricino.
Inquadrato nella vicenda ridicola della purificazione corporea nella bagnarola con Titta che commenta: «Che puzza!», l’episodio potrebbe rientrare nella categoria che molti critici considerarono allora fondamentale per spiegare il film felliniano, quella della «macchietta». In pochi allora compresero quanto osservò nel 1974 Oreste Del Buono, fine letterato e geniale creatore di tante iniziative editoriali: «Amarcord» fa «un discorso civile» in cui non c’è quell’autobiografismo come luogo comune e scontato di cui parlarono i «critici superficiali».

Verità
ed orrore
«Discorso civile» vuol dire anche politico, secondo quanto avvertì pure, con grande sensibilità autobiografica e letteraria, Natalia Ginzburg a cui la ricostruzione degli anni Trenta fatta da Fellini aveva «dati dei brividi»: «Mai mi era successo di vedere evocati gli anni della mia giovinezza, e il fascismo di allora, con tanta verità e tanto orrore».
Il fascismo, spiegava la scrittrice (vedova di Leone Ginzburg, ucciso dalle sevizie subìte come antifascista nel 1944 a Regina Coeli), era «sordido, miserabile, atroce». Allora i giovani ne conoscevano «bene soltanto gli aspetti grotteschi, quelli tragici» li avrebbero «capìti più tardi». In questo film, concludeva Natalia Ginzburg, riconosciamo «il fascismo bevuto e respirato senza che lo sapessimo». Nel borgo di Amarcord c’era coralmente l’Italia, con un’esposizione di quegli anni che le appariva fatta «con chiarezza e grandezza».
Partendo da questo quadro così magistralmente delineato da Del Buono e Ginzburg, mi chiedo se non sia il caso di andare un poco al di là della definizione felliniana del «pataca» come «uomo da poco, farfallone o sognatore». Proprio per il contesto in cui lettori così acuti come i due appena citati collocano tutto il film, mi sembra che quel cognato nello stesso tempo indifferente e fanatico, parassita e traditore, possa anzi debba indurci a dire che il tratto psicologico dell’uomo «da poco» può veramente diventare quello dell’uomo «da niente», cioè senza moralità e dignità. La sua condotta è quella di chi in apparenza è gelido e noncurante, mentre in sostanza si dimostra una perfetta carogna. E se dal tono leggero della raffigurazione scendiamo nei labirinti della Storia, se dal grottesco ci avviamo cautamente verso il tragico, allora vengono alla mente pagine ancora peggiori di quegli anni, quando una soffiata era ricompensata con un cartoccio di sale, e ci scappava il morto, frutto ed oggetto di delazione politica.

I contorni
di una parola
Alla parola «pataca» Gianni Quondamatteo dedicò nel 1982 una mezza pagina del suo «Dizionario romagnolo (ragionato)», per spiegare anche le sfumature geografiche (a Cesena essa sarebbe «greve e volgare»), e l’origine da un’antica moneta di poco valore (era di rame), secondo il classico Morri. Altrove si possono trovare esempi illustri modulati sulla «patacca», finita ai nostri giorni per indicare moneta od oggetto falso, per cui «rifilare la patacca» indica un imbroglio, e non soltanto a Roma si dice «pataccaro» l’ambulante che vende ad esempio orologi preziosi che vanno soltanto per poche ore: decenni fa a Rimini ne hanno rifilati interi camion ai turisti tedeschi.
Il contorno della parola sul quale ci siamo soffermati (omettendo altri più reconditi ed osceni significati), delinea un territorio ben preciso: nel quale non pascola la verità ma l’imbroglio, agisce più la volontà della truffa che l’intelligenza di fare uno scherzo. Dunque un territorio tutto negativo che potremmo collegare con il contesto storico felliniano, arrivando a confermare che il fratello della Miranda, è un traditore, un brutto ceffo, non una simpatica canaglia od un compassionevole illuso.
Quandomatteo elencava le possibili traduzioni della parola nell’italiano corrente, sottolineandone le «svariate modulazioni». Si va dal generoso a chi non ha reagito ad un’offesa, passando attraverso l’inetto e lo spiritoso fuori luogo. Per cui alla fine, non soltanto si conferma la regola sovrana secondo cui ogni comunicazione linguistica è in sé perennemente ambigua, ma si giungerebbe alla conclusione che prevalendo il contesto sul testo, se ne sconsiglia l’uso sia per non offendere gratuitamente sia per non correre il rischio di dire cosa inadatta, il che sarebbe un vero e proprio comportamento «da pataca».

Il parere
di Moravia
Dalla rivista felliniana riprendiamo anche alcune parole di Alberto Moravia che allora (1973) teneva la rubrica cinematografica dell’«Espresso»: la Romagna che «Amarcord» racconta è «senza deformazioni satiriche e fantastiche». Ricordiamocene quando vogliamo fare del film e del suo autore i parametri intellettuali di una «riminesità» che ad esempio si riassume solitamente nel gioco degli specchietti dei soprannomi. Che fanno ridere o sorridere, ma che non debbono chiudere il discorso. Come tutti gli specchietti, attirano solamente chi vuol divertirsi con poco.
Di recente in occasione della scomparsa di Raffaello Baldini, ricordavamo che egli ha trasformato il dialetto da sottospecie letteraria a strumento pienamente degno d'entrare nelle sacre stanze della Poesia, intesa non come occasione per narrare temi scherzosi e ridicoli, ma quale modulo espressivo di umori nati dal basso e nel vivere quotidiano, per diventare alla fine la sintesi di un pensiero simbolico, e quindi filosofico, come nel Leopardi del «Canto notturno», con il «semplice pastore» che s'interroga sulla comune condizione esistenziale.
In Fellini avviene la stessa utilizzazione del tono basso, dell’immagine plebea, come scrive Grazzini: «In un calcolatissimo impasto di toni gravi e lievi, con svolte improvvise nel beffardo e nel fumetto, così ‘Amarcord’ cresce e tempera le ombre, le smargina d’ogni scoria verista e le muove nel grembo della leggenda».

«Grosso film
politico»
In tale grembo lo «zio Pataca» sembra reclamare un giusto giudizio per la sua azione di delatore, protagonista non isolato di un clima ben evidente nella sequenza del grammofono che dall’alto del campanile diffonde le note dell’Internazionale. E nella scena degli oppositori portati alla casa del fascio, con la predica del gerarca paralitico: «Quel che addolora, è che non vogliano capire». Valerio Riva sull’«Espresso» sostenne che a quel punto allo spettatore, «Amarcord» appariva non più e soltanto «una antologia di ricordi» ma «un grosso film politico, il più esplicito, almeno in questo senso, che abbia fatto Fellini».
Lo zio Lello sarebbe stato collocato da Dante nella Caina (canto XXXII dell’«Inferno»), fra i traditori dei congiunti nel grande gelo che dice tutto anche a noi. Lello rappresenta una delle tre categorie umane che a nostro impavido avviso ci accompagnano nel cammino esistenziale. Le altre due sono quella alquanto rara di chi disprezza la menzogna, e in nome della verità è disposto a sopportare tutto. E quella (alquanto diffusa) di quanti per convenienza si celano nel proprio «particulare» e fingono di non vedere per non aver rogne. Anche loro tradiscono i reciproci doveri su cui si basa l’umana convivenza.
Post scriptum
Quale fondamentale premessa e conclusione ad un tempo di tutto il discorso, rinviamo al celebre saggio «Le leggi fondamentali della stupidità umana», nel volume «Allegro ma non troppo», del prof. Carlo M. Cipolla (il Mulino 1988)
Antonio Montanari
Fellini nella storia di Rimini.
«La famiglia lo annoiava, la scuola lo esasperava...»

[2003]

< Il 20 ottobre 1946 nel settimanale umoristico romano «Il Travaso delle idee», Federico Fellini ricorda l'inizio dell'anno scolastico in seconda liceo classico comunale a Rimini, e spiega in terza persona la sua regola di vita studentesca: «Fellini per onor di firma deve assolutamente arrivare tardi». Agli esami sostenuti nel luglio 1938 a Cesena nel regio istituto Vincenzo Monti, è stato bocciato in Cultura militare, materia riparata ad ottobre con un otto che impreziosiva una pagella magra come lui: tutti sei, tranne i sette di Greco e d'Italiano. Agli inizi del 1939 è andato a Roma. La famiglia lo annoiava, la scuola lo esasperava e Rimini non sembrava «offrirgli più niente» (Kezich 1988, p. 30). Federico ha già lavorato alla radio, in teatro, al cinema. Da tre anni è sposato con Giulietta Masina, e sta scrivendo assieme a Roberto Rossellini il copione di Paisà (tutto suo è l'episodio del monastero sulla Linea gotica con i frati che parlano il nostro dialetto, ibid., pp. 125-126). Nel 1972 racconterà la Rimini d'anteguerra in Amarcord (premio Oscar nel 1975), ritratto simbolico dell'Italia del Ventennio, applicando una sua massima: «Noi passiamo la seconda metà della nostra vita a cancellare i guasti che l'educazione ha fatto nella prima». Amarcord dimostra «come una città di provincia, con la sua vita futile e uggiosa, possa diventare, nelle mani di un ‘poeta', l'ombelico del mondo» (Gori 1992, p. 11).
Il regista dei Vitelloni torna ogni tanto a Rimini di notte per riabbracciare la madre. È snobbato, felicemente ignorato o soltanto dimenticato dai conterranei. La gloria lo bacia in fronte, il suo nome gira per il mondo, ma i riminesi fanno finta di niente. Chi tiene le redini della città manovrando forzieri o firmando delibere, non ha tempo da dedicare ad un sognatore. Nella vita ufficiale, pubblici amministratori ed imprenditori d'assalto sembrano due mondi separati. Ogni tanto s'incontrano a metà strada, con precise intenzioni e non per fortuite occasioni. La riviera soffocata dal cemento e la città senza una decente viabilità nascono così. Fellini in Amarcord narra Rimini con quel misto di odio e di nostalgia che sono il lievito d'ogni memoria, anche se il film «per l'autore non doveva apparire come il rispecchiamento di situazioni e personaggi reali» (Kezich 2002, p. 38). Aggiunge gustose trovate per dimostrare che il vero di ogni racconto è frutto pure della fantasia. I concittadini non potevano amare un «poeta» che ironico sosteneva: la «mia» Rimini è una «dimensione della memoria». Oltretutto «inventata, adulterata, manomessa». E ricostruita a Cinecittà con l'aiuto delle immagini commissionate a quell'autentico maestro del foto-giornalismo che fu Davide Minghini (1915-1987).
Per Rimini, Fellini è stato uno psicoanalista invisibile ma temuto. La città non ha mai bussato alla sua porta. Il regista ha reagito con una di quelle magie che lo affascinavano. Ipnotizzandola quasi per amabile dispetto, le ha fatto compiere gesti inconcludenti come la promessa di una mai donata casina sul porto, alla festa in suo onore il 25 settembre 1983 nel Grand Hotel. D'altra parte lui non avrebbe saputo che farne, abituato a vivere nella Roma dalle eterne seduzioni che ne facevano la «metafora della grande madre prostituta» (Kezich 1988, p. 423). Rimini restava una cartolina un po' appassita come le viole del pensiero spedite un tempo dalle fidanzate timide. Alla fine ci fu la malattia proprio nel luogo felliniano per eccellenza, il Grand Hotel illustrato in Amarcord. Nel 1993 il funerale a Federico di ritorno da Roma, con un affollato abbraccio riappacifica tardivamente la città con lui. L'anno dopo se ne va anche Giulietta Masina. Riposano insieme nel nostro cimitero.
Nel 1990 Cinzia Fiori sul «Corriere della Sera» chiama Rimini una città a due facce, l'antico borgo e la marina tutta cemento selvaggio che fa venire la nostalgia del passato: «Siamo all'amarcord di Amarcord», conclude. Federico sempre lontano, tuttavia sempre presente. Con il suo mondo oscillante tra favola e verità, egli offre un'utile chiave di lettura delle vicende più recenti di Rimini, ogni volta diversa ma alla fine eternamente uguale a se stessa. Tutta sospesa tra mito e realtà come un canovaccio di Federico, Rimini è alla ricerca di un'identità definita ma non definitiva nel divenire inquieto dell'attuale società globalizzata.
Bibliografia
Gori 1992, Gianfranco Miro Gori, A come Amarcord, Rimini, Guaraldi
Kezich 1988, Tullio Kezich, Fellini, Rizzoli, BUR, Milano
Kezich 2002, Tullio Kezich, «Amarcord», le memorie di Fellini premiate con l’Oscar, «Corriere della Sera», CXXVII, 308, 22 dicembre 2002, p. 38
Antonio Montanari
Federico Fellini e Lietta Tornabuoni.
"La voce della luna".

[1991]

La recente uscita di un volume sul film "La voce della luna" di Federico Fellini (Nuova Italia editrice), a cura di Lietta Tornabuoni, critico cinematografico del quotidiano "La Stampa", ci offre l'occasione di riparlare del regista concittadino.
Il film "La voce della luna" è stato presentato a Roma il 31 gennaio 1990.
Nel libro di Lietta Tornabuoni, Fellini confessa tra le altre cose alcuni ricordi riminesi: "Io appartengo a una generazione che nell'infanzia, sui cinque-sei anni, ha fatto in tempo a vedere il pianista di cinema: in alto stavano le ombre mobili, afasiche, mute del film, in basso stava il pianista che le accompagnava suonando perlopiù musiche operistiche oppure… canzoni alla moda".
Ma cos'è Rimini per Fellini? Nel film di cui stiamo parlando, c'è una scena al cimitero, che così spiega lo stesso Fellini in un'intervista ad Antonio Debenedetti ("Corriere della Sera", 2. 12. 1990): la radice di quella scena è nel "cimitero di Rimini, anzitutto: il più allegro che abbia mai visto. Lo visitai la prima volta bambino, alla morte della nonna. Caricarono tutti noi nipoti in un carrozzone-stiva: al chiasso dei nostri giochi, mentre eravamo chiusi nella pancia di quello strano landò, rispondeva minacciandoci con la frusta un postiglione incazzoso… L'altra scoperta, fatta il giorno del funerale della nonna, sono state le fotografie sulle tombe: quegli ovali color seppia, virati d'argento da cui i defunti mi fissavano con espressioni, atteggiamenti assolutamente normali. Quotidiani. Fu allora che immaginai che l'opera della morte fosse quella di rimpicciolire, di ridurre le persone a più piccole dimensioni senza però mutarle".
Il treno, prosegue Fellini, "passava vicinissimo a quel cimitero. Per via d'un passaggio a livello, i convogli rallentavano e dal finestrino… i viaggiatori si affacciavano a salutare festosi, gentili. Eppoi quel cimitero di Rimini, quando ero bambino, ospitava sempre lavori di ampliamento: c'erano carrucole, palanche, attrezzi, mentre in primavera, allo spuntare dei papaveri, la campagna intorno faceva pensare ad un quadro di Monet. L'invenzione della moglie dell'oboista, che porta da mangiare al marito nel cimitero all'inizio del mio film, nasce in particolare come sovrapposizione a una precisa realtà. Quella delle spose dei muratori che portavano il pranzo ai mariti intenti ai lavori di restauro del camposanto…".
A proposito di treno. In un'altra intervista al "Corriere", a Maurizio Chierici (29. 8. 1990), Fellini racconta il suo primo viaggio, a Bologna, città che "per noi di Rimini era come Parigi, o Londra, forse New York. La metropoli sconosciuta. (…) In via Indipendenza c'erano grandi vetrine dove i miei primi manichini di donne si affacciavano allusivi. Mi ero incantato".
In una precedente intervista (con Tullio Kezich, "Corriere" del 26. 11. 1989), Federico Fellini aveva "inventato un incontro che, negli anni '60, lui "pubblico peccatore" avrebbe avuto con un "vecchissimo, accasciato, poco lucido" arcivescovo riminese, mai esistito con tale titolo, e soprattutto nelle caratteristiche fisiche della descrizione", come ha riportato Tama sulle nostre colonne (21. 1. 1990).
Invenzioni. Sentiamo ancora Fellini ("Tuttolibri", 21. 7. 1990). "Da sempre la gente inventa e si racconta storie sul proprio borgo": a Corpolò, "quando qualcuno stava per morire, a volte il campanile, dopo i rintocchi dell'ora, batteva da solo tre colpi in più, in una tonalità più bassa e mesta".
"La seduzione di ciò che non si conosce e che si teme", conclude Fellini, "è irresistibile. Siamo attirati dall'ignoto".

Post scriptum
Bologna…: per noi di Rimini era come Parigi, o Londra, forse New York. La metropoli sconosciuta". Partendo da quest'affermazione di Fellini, Antonio Montanari ha scritto una Lettera a Federico, pubblicata dal n. 5/1990 de "La piê", da cui stralciamo un breve passo:
"Credevo di appartenere a quella razza pigrona che Raffaello Baldini aveva fotografato nei versi di "Viazé", una pagina del "Furistir": "Vdài e' mond?/ che dòp t si piò patàca ca nè préima".
"Vdài e' mond?". Ma me, l'ho vest e' mond. Non lo sapevo, me lo hai fatto scoprire tu, Federico, attraverso quell'intervista. Tu che potresti troneggiare da nonno divertente, con quel sorriso da etrusco, fai sentire me (giunto all'età dei padri, verso i 50), come ragazzino che apre per la prima volta il libro della vita, e s'agita nella meraviglia di un'esclamazione. Ho visto il mondo, e non lo sapevo.
Antonio Montanari

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Diario italiano, indice.

Anno XV, n. 214, Ottobre 2013
1947, 10.11.2013/13.03.2020
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