Diario italiano
Il Rimino 204, anno XIV
Dicembre 2012. Speciale Rimini Moderna 1,2,3

Alle origini di Rimini moderna (1). Il tramonto del potere dei Malatesti e la crisi della città, dilaniata da ribellioni popolari e tradimenti aristocratici, con la gente che moriva di fame
Sotto il segno del pugnale
["il Ponte", 28.10.2012]


Tentiamo di raccontare per temi le vicende storiche di Rimini moderna, tra fine 1400 ed inizio 1800. Passeremo poi alla Rimini contemporanea sino al principio del 2000. Rimini moderna nasce dalle ceneri del potere dei Malatesti, sfaldatosi lentamente, non per l'inettitudine dei protagonisti di quella famiglia, ma per una complessa serie di contrasti sociali, politici ed economici che, qui come altrove, mettono in moto ribellioni, alleanze, tradimenti.

Una crisi politica
Il più grande di tutti i Malatesti, Sigismondo Pandolfo, sperimenta tutto ciò sin dal momento in cui nel 1429 a 12 anni succede allo zio Carlo, assieme ai fratelli Galeotto Roberto (18) e Domenico Malatesta Novello (11), come lui figli naturali di Pandolfo III signore di Brescia. Essi governano Cesena, Rimini e Fano, sino alla scomparsa dello stesso Galeotto Roberto (10 ottobre 1432), assistiti dalla vedova di Carlo, Elisabetta Gonzaga. Contro di loro gli aristocratici creano quella che la storica Anna Falcioni chiama una pericolosa opposizione interna. Un altro Malatesti, Giovanni di Ramberto discendente da Gianciotto fallisce (maggio 1431) nel tentare un colpo di Stato, ma getta Rimini nel caos, mentre Venezia invia da Cesenatico verso Rimini alcune galere.
Lo storico Cesare Clementini (1627) ricorda che oltre agli aristocratici si muove pure quella plebe "che facilmente inchina al male". C'è penuria di viveri. Il popolino se la prende con i macellai e le case ed i banchi degli Ebrei, accusandoli di non rispettare la domenica. Altri Ebrei aiutano i Malatesti a pagare i grossi debiti lasciati da Carlo con Roma: essi vivono a Rimini, Cesena e Fano, scrive Francesco Gaetano Battaglini (1794). Come grazioso ringraziamento, Galeotto Roberto (1432) ottiene da papa Eugenio IV (Gabriele Condulmer) di obbligarli a portare il "segno". Secondo Battaglini, Galeotto Roberto non poteva "tollerare, che gli Ebrei già in grande numero stanziati nel suo dominio, vantando non so quale indulto impetrato da Papa Martino, vivessero e praticassero confusi tra i Cristiani senza distinzione".

Contro gli Ebrei
I Malatesti, costretti ad affrontare una rivolta popolare causata dalla mancanza di viveri, per portare la pace sociale nel loro dominio ricorrono a questo provvedimento fortemente in contraddizione con la realtà politica in cui vivevano. Sulla stessa strada della lotta agli Ebrei Rimini si ritrova poi nel 1489, quando per loro decide un'imposta destinata a finanziare la difesa costiera contro i Turchi; nel 1503 con un nuovo assalto ai loro banchi; e nel 1515 con la proposta di bandirli dalla città quali nemici della Religione e promotori di scandali nel popolo, dopo aver loro imposto d'indossare una berretta gialla se maschi ed una benda anch'essa gialla se donne.
Il 22 giugno 1510 gli è stata però concessa l'autorizzazione a "facere bancum imprestitorum", cioè di svolgere legalmente attività finanziaria. È un segno preciso della crisi economica locale. Come ricompensa al loro aiuto, nel 1548 Rimini gli istituisce il ghetto, anticipando la "bolla" di Paolo IV del 1555.

Campagne inquiete
Il grande secolo dell'Umanesimo malatestiano si chiude nel 1498 con una sommossa aristocratica nella chiesa di Sant'Agostino, che mira a cacciare Pandolfaccio, salvato dalla plebe. I capi della congiura sono giustiziati. I loro cadaveri, appesi ai merli della rocca di Sigismondo.
Il 10 ottobre 1500 Pandolfaccio se ne va da Rimini, passata in potere al duca Valentino, Cesare Borgia. Le campagne riminesi sono inquiete, come testimoniano servizi segreti ed esponenti politici della Serenissima. Nell'autunno del 1502 e nell'estate del 1503 si registrano sollevazioni di villani a favore di Pandolfo, con distruzioni di libri e altro, come nei suoi "Diarii" scrive il diplomatico veneziano Marin Sanudo il Giovane.
Nel 1503 dal 2 ottobre al 24 novembre, Pandolfo è di nuovo signore di Rimini, ma sotto il governo veneziano: "la misera città rimase alla discrezione dei furibondi vincitori" che saccheggiarono dovunque e se la presero anche con gli Ebrei ed i loro banchi (L. Tonini). C'è uno spargimento di sangue in cui restano uccisi pure molti popolani. Il 16 dicembre Pandolfaccio cede la città alla Serenissima.

Cronache di delitti
Dopo la morte di Sigismondo (1468) Rimini è governata dalla vedova Isotta e dai figli Sallustio, avuto dalla bolognese Gentile de Ramexinis, e Roberto, nato dalla fanese Vannetta de Toschi. Essi pubblicano un illuminato bando che concede la libertà di commercio d'importazione a tutti i mercanti cittadini e forestieri. L'ordine pubblico è agitato da una serie di delitti eccellenti. Nello stesso 1468 è ucciso Nicola Agolanti. Si sospetta un fatto passionale, accusando Roberto Malatesti, amante della vedova Elisabetta degli Atti che lo scagiona. Da Roberto lei ha avuto un figlio, Troilo. Elisabetta (figlia di Antonio fratello di Isotta moglie di Sigismondo), sposa in seconde nozze il futuro capo dei cospiratori del 1498, Adimario Adimari.
Nel 1470 tocca a Sallustio, trafitto da una spada. Il colpevole è individuato in Giovanni Marcheselli, linciato dalla folla. Giovanni Marcheselli è accusato dalla moglie Simona di Barignano il cui padre Giovanni è fratello di Antonia, la madre di Sigismondo Pandolfo Malatesti. Una sorella di Giovanni Marcheselli, Lena, è la seconda moglie di Giovanni di Barignano, il padre di Simona.


Malatesti rifiutati
C'è un continuo rincorrersi e rinchiudersi in una specie di cerchio politico che rappresenta la proiezione psicologica delle mura di una città o di un castello. Mura che non servono a nulla se non a delimitare (e ad esasperare) continue esplosioni di odio. Questo giro ristretto aggrava situazioni che non hanno sbocchi, come dimostra la storia di Sallustio.
Egli s'invaghisce di una giovane di casa Marcheselli. La sua pretesa di avere l'amore che desidera, è respinta nel più classico modo di quanti, abituati alla guerra, non sanno ragionare che con il pugnale. Giovanni Marcheselli uccide Sallustio. La moglie di Giovanni, Simona di Barignano, lo accusa apertamente: confessa come Sallustio "fu morto" in casa sua, si legge in una lettera di Malatesta da Fano a Ludovico II Gonzaga. Resta il sospetto che non si sia trattato di un fatto politico vero e proprio, ma di una specie di delitto d'onore: non si voleva far entrare un Malatesti nella famiglia Marcheselli.
Nel 1492 durante una festa in maschera, Raimondo Malatesti, discendente di un ramo collaterale, è ucciso dai figli di suo fratello Galeotto Lodovico, in casa di Elisabetta, madre di Pandolfaccio.

Si muore di fame
L'uccisione di Raimondo è considerata da Cesare Clementini all'origine di tutti i mali che poi affliggono Rimini, ovvero "il precipizio de' cittadini e l'esterminio de signori" Malatesti. Dei quali Raimondo era stato uomo di fiducia in momenti difficili. Morto Roberto signore di Rimini (1482), gli è subentrato il figlio Pandolfaccio (di sette anni), per cui in suo nome guidano gli affari della città Raimondo ed il proprio fratello Galeotto Lodovico. Il quale contro Pandolfaccio nel 1492 tenta una congiura, mandata all'aria dalla sua seconda moglie Violante Aldobrandini, sorella di Elisabetta, madre di Pandolfaccio stesso.
Nel marzo 1497 "a Rimano morivano di fame", ricorda Martin Sanudo, citando gli aiuti inviati in città dal suo governo, e la visita fatta in laguna da Pandolfaccio e sua madre Elisabetta Aldobrandini, sorella del «conte Zoan» da Ravenna, condottiero della Serenissima.
Nell'agosto 1497 scompare Elisabetta Aldobrandini. Suo figlio Pandolfaccio governa in preda ad uno spirito di vendetta, osserva L. Tonini. Il 20 gennaio 1498 gli aristocratici tentano in Sant'Agostino la sommossa già ricordata, con la plebe che corre a salvare il Malatesti.
(1. Continua)



Alle origini di Rimini moderna (2). La grande stagione politica dei Malatesti, vissuta operando per la Chiesa fra XIV e metà del XV sec., finisce con la crisi che coinvolge tutta l'Italia
Romagna, Europa e poi Bisanzio
["il Ponte", 11.11.2012]
Il più importante dei personaggi malatestiani nelle vicende italiani ed internazionali di XIV e XV sec. prima di Sigismondo, è suo zio Carlo (1368-1429). La vicenda politica di Carlo è strettamente legata a quella della Chiesa. Papa Gregorio XII, eletto nel 1405, si rifugia a Rimini il 3 novembre 1408 mentre si prepara il concilio di Pisa e dopo che Carlo lo ha salvato da un tentativo di cattura.

Da Praga a Londra
La grande stagione malatestiana all'interno della vita della Chiesa comincia in questa occasione. Anche se ha precedenti talora dimenticati nel secolo precedente, quando nel 1357 Pandolfo II è a Praga ed a Londra in veste d'inviato pontificio. Come un'ombra lo controlla il nobile francese Sagremor de Pommier che lavora a Milano da agente diplomatico e fidato corriere dei Visconti, quando Pandolfo è al loro servizio quale comandante delle truppe. Sagremor prima pensa di passare al servizio dell'impero, poi cambia idea, infine si farà monaco. A Praga il Malatesti è stato preceduto dallo stesso Sagremor che accompagnava Francesco Petrarca. Sagremor raggiunge Pandolfo a Praga per tornare a Milano a denunciarlo come spia antiviscontea. Di nuovo a Praga, Sagremor non trova più Pandolfo direttosi a Londra. Qui Sagremor lo raggiunge per dargli una lezione: lo sfida a duello. Pandolfo fa finta di nulla e Sagremor va a lamentarsi con il re Edoardo III. Il quale mette per iscritto quello che Sagremor gli ha riferito, per difendere l'onore del messo francese dei Visconti e denigrare l'italiano Malatesti.

Nuovo assetto politico
La missione europea di Pandolfo II appare come parte di un progetto ecclesiastico che doveva tener d'occhio il contesto continentale, e che culmina nello stesso 1357 con le "Costituzioni" promulgate da Albornoz per sistemare una volta per tutte le questioni politiche nelle terre dello Stato della Chiesa, con uno stabile ordinamento giuridico ed amministrativo.
Sull'azione politica di Albornoz restano fondamentali le pagine di Gina Fasoli. Alternando trattative diplomatiche a vigorose azioni militari, Albornoz crea "un sistema di poteri locali abbastanza forti per non essere sopraffatti dai vicini, ma non tanto forti da potersi unire e formare fra di loro un blocco" mirante ad ostacolare la sovranità papale. Le "Costituzioni" da lui emanate (e chiamate egidiane dal suo nome di battesimo), riprendono vecchie leggi, corrette ed adattate alle nuove esigenze. Si fornisce così "un testo che costituiva il diritto generale cui le leggi locali e particolari dovevano conformarsi".

Storie di nozze
Carlo, per contattare il collegio cardinalizio, utilizza Malatesta I (1366-1429), signore di Pesaro, che in precedenza si è offerto a Gregorio XII per una missione diplomatica presso il re di Francia, inseritosi nelle dispute ecclesiastiche per interessi personali.
La parentela fra il ramo marchigiano e quello riminese, è in apparenza lontana. Il capostipite è Pandolfo I (1304-1326) figlio del fondatore della dinastia Malatesta da Verucchio che aveva conquistato Rimini nel 1295. Con Pandolfo I, il rettore della Marca anconitana Amelio di Lautrec, firma un trattato per contrastare i ghibellini ed i ribelli. Pandolfo I, come ringraziamento per la "lotta onorevolmente sostenuta" al servizio della Chiesa, riceve un dono particolare. Amelio concede in sposa (1324) la propria nipote Elisa, figlia di Guglielmo signore della Valletta, al figlio di Pandolfo, Galeotto I detto "l'ardito". Elisa genera Rengarda e muore nel 1366.

Cleofe bizantina
Da Pandolfo I nasce, oltre a Galeotto I (1299-1385), anche Malatesta Antico detto Guastafamiglie (1322-1364) al quale fa capo il ramo marchigiano con suo figlio Pandolfo II (1315 c.-1373) signore di Pesaro, Fano e Fossombrone, ed il figlio di costui Malatesta I, padre di Cleofe e Galeazzo.
Il 19 gennaio 1421 Cleofe sposa Teodoro Paleologo (1396-1448), despota di Morea e figlio dell'imperatore bizantino Manuele II (1350-1425). Di questo matrimonio, concluso nel 1433 con la morte forse violenta di Cleofe, i contemporanei non hanno scritto la cronaca. Ed i posteri ne hanno a lungo travisata la storia, sino agli studi di Silvia Ronchey (2006). Sul finire del 1427 o all'inizio del 1428 nasce la loro figlia Elena Paleologa, la prima erede diretta al trono di Costantinopoli oltre che di Mistra, perché i fratelli di suo padre non hanno e non avrebbero avuto figli. Nel 1442 sposa Giovanni III di Lusignano (1418-1458), re di Cipro (1432-1458), e muore l'11 aprile 1458. La loro primogenita Carlotta (1442-1487) va a nozze dapprima (1456) con Giovanni di Portogallo (1433-1457) e poi (1459) con Luigi di Savoia conte di Genova (1436-1482).

Il ramo riminese
Il ramo riminese-romagnolo deriva da Galeotto I, fratello del bisnonno di Cleofe e Galeazzo. Carlo è figlio di Galeotto I. A consolidare la parentela, oltre gli affari e le imprese mercenarie, sono state due sorelle di Camerino, Gentile da Varano sposatasi con Galeotto I (1367), ed Elisabetta con Malatesta I (1383).
Malatesta I è stato in affari con Urbano VI, prestandogli diecimila fiorini e ricevendo in pegno biennale il vicariato nella città di Orte (1387). Il papa gli ha anche chiesto il suo aiuto nello stesso anno per proteggere l'arcivescovo di Ravenna Cosimo Migliorati, cacciato dalla città. E poi nel 1391, di difendere gli interessi della Santa Sede contro i ribelli di Ostra (Montalboddo).
I lavori a Pisa iniziano il 25 marzo 1409. Gregorio XII è dichiarato deposto. Carlo arriva a Pisa come mediatore fra Gregorio XII ed i padri conciliari, ma in sostanza quale suo difensore. Non è accettata la sua offerta di Rimini per sede dell'assise ecclesiastica, parendogli Pisa non adatta in quanto sottoposta alla dominazione dei fiorentini, avversari di Gregorio XII. Il primo approccio fra Carlo ed il concilio avviene attraverso Malatesta I che si era attivato dopo l'elezione di Gregorio XII, avvenuta il 2 dicembre 1406, ricevendo in premio nel 1410 un cospicuo vitalizio.

Tutto cambia
Sul finire del 1400 e nei primi anni del 1500, tutto cambia in Italia. C'è la rapida discesa di Carlo VIII re di Francia (1494), che scuote la debole politica dei nostri Stati, dimostrandone la crisi e la fragilità militare. La Lega antifrancese che poi si forma ha effetti contrari a quelli sperati: è l'apertura della penisola alle altrui mire espansionistiche, come scrive Miguel Gotor. Luigi XII guarda a Milano, espugnandola nel 1499.
Prima della calata di Francesco I (1515), c'è l'avventura di Cesare Borgia, che Tommaso Tommasi (1608-1658) descrive: "Ottenne al suo primo arrivo senza alcun contrasto la Città di Pesaro, poiché Giovanni Sforza che n'era Signor [...] lasciò, ch'ei fosse ammesso prontamente al possesso della Città. Seguì l'essempio di lui Pandolfo Malatesta Signor di Rimini; onde impadronitosi il medesimo Duca anche di quella Città, e lasciativi i necessarii presidii, se ne passò senza dimora alla espugnatione di Faenza...".
Pandolfo tenta di recuperare Rimini, ma incontra dura resistenza, "non godendo la medesima benevolenza del popolo, che gli altri" Signori di Romagna. Poi anche Rimini cade in mano alla Repubblica Veneta, "havendo assegnata in ricompensa a Pandolfo, e suoi discendenti colla nobiltà Veneta la terra di Citadella nel territorio di Padoua, e perpetua condotta di gente d'armi".
La Romagna per Niccolò Machiavelli "era tutta piena di latrocinii, di brighe e di ogni altra ragione di insolenzia". Per ridurla pacifica e obbediente, Borgia usa il "buon governo" di Ramirro de Lorqua. Che però si mostra uomo crudele e risoluto per cui è fatto decapitare da Borgia, a Cesena sulla piazza la sera di Natale, con un coltellaccio da macellaio, come racconta il cronista Giuliano Fantaguzzi. E tutti rimasero soddisfatti e stupiti, conclude Machiavelli.
(2. Continua)


Alle origini di Rimini moderna (3). Gli echi locali dell'impresa dei lanzichenecchi nel 1527. Una violenza che turba la vita politica italiana già segnata dalla discesa di Carlo VIII nel 1492
Sacco di Roma, Europa scossa
["il Ponte", 02.12.2012]
Nel 1526 si sparge la voce che i Malatesti "pretendevano (ed era vero) di tornare in Rimini", racconta lo storico Cesare Clementini. Non è la prima volta, dopo la sottomissione della città alla Repubblica di Venezia (1503). Nel maggio 1522 Sigismondo II figlio di Pandolfaccio se n'è impadronito, dopo il fallimento del tentativo di pochi mesi prima.

Supplizi atroci
Nel 1523 Rimini è restituita alla Chiesa. Pandolfaccio l'abbandona. Suo figlio Sigismondo II vi rientra nel 1527, e lascia il governo al padre che l'8 aprile 1528 riceve l'investitura da papa Clemente VII (Giulio dei Medici). Nessuno è contento. Sigismondo si lamenta della condotta militare ricevuta dal papa. I cittadini accusano i Malatesti per "la solita tirannica crudeltà" (C. Clementini). A supplizio atroce è sottoposto il papalino Pandolfo Belmonti: fiaccole accendono il lardo porcino cosparso sul corpo, poi appeso ad un palo tra il Castelsismondo e la cattedrale di Santa Colomba. Alla fine Roma manda i suoi soldati. Il 17 giugno 1528 termina il potere malatestiano, con gli ultimi rappresentanti inetti e disgraziati (A. Campana).
A proposito di torture: in un testo dedicato al "Sacco di Roma" (Parigi, 1664), il gonfaloniere fiorentino Luigi Guicciardini annota di "non poter ritenere le lacrime, considerando quanti tormenti, e quanti danni l'huomo solamente dall'huomo riceue", e non dalla fortuna come spesso si dice.

Rancori politici
Nel frattempo Roma ha vissuto i giorni terribili del sacco compiuto dal 6 maggio 1527 sino al febbraio 1528, da 15 mila soldati imperiali, per la maggior parte mercenari tedeschi di fede luterana, scrive Miguel Gotor, definendolo "un episodio clamoroso, destinato a scuotere l'Europa tutta". La fede luterana nel 1525 ha segnato già la tragica repressione dei contadini sollevatisi dal 1524 nella Selva Nera, massacrati ferocemente dal duca di Sassonia.
Nelle storie di Rimini se ne parla poco. Luigi Tonini considera il sacco come una delle tumultuose vicende delle quali i Malatesti profittano per riaffacciarsi a Rimini. Più attento il suo maestro Antonio Bianchi, che rimanda al parere di "alcuni storici" che lo definiscono frutto della politica ambigua del papa che faceva paci o guerre "secondo la speranza d'ingrandire lo Stato proprio e quello de' parenti".
Il sacco turba la vita della capitale del mondo cattolico, con ripercussioni inevitabili sulla periferia. "La percezione generale fu quella di una frattura epocale, che giungeva a sconvolgere il corso della storia", scrive G. Corabi: Roma "tornava ad essere la Babilonia punita dalla profezia giovannea", con implicazioni che riguardavano la storia dell'intera Chiesa, mentre le truppe si abbandonano "a gesti di dissacrazione e profanazione", con un rancore di stampo politico che era diffuso pure in ambienti non protestanti.

La rovina d'Italia
Per Francesco Guicciardini, dalla calata di Carlo VIII (1494) al sacco di Roma si consuma "la ruina d'Italia". Il quadro europeo ha visto nel 1525 la cattura e la deportazione in Spagna di Francesco I di Francia, e l'anno dopo un attacco dell'imperatore Carlo V contro Clemente VII. Il quale, scrisse Francesco Vettori, fu eletto "senza simonia" e visse sempre religiosamente e prudente quanto nessun altro uomo.
Si legge in Cesare Cantù (1865): "la Germania si vendicava della superiorità intellettuale e morale dell'Italia". La barbarie superba metteva sotto i piedi la civiltà che la mortificava. I lanzichenecchi, istituiti nel 1493, sono soldati mercenari di professione, autorizzati a saccheggiare il luogo dove si trovano se non arriva regolare la paga ogni cinque giorni. È il caso di Roma nel 1527: essi sono rimasti senza soldi dopo la morte del loro generale Giorgio Fronspergh.
Una relazione diplomatica del 17 marzo, inviata a Roma ma pure ad altri Stati, faceva sperare che con la scomparsa del condottiero "questa gente s'avesse a dissolvere". Invece gli invasori restano a Roma per nove mesi. Li dimezza in numero la peste. Che colpisce anche la popolazione locale, già con più di 10 mila vittime provocate da quei soldati. Furono 6 mila soltanto il primo giorno, secondo la testimonianza di un lanzichenecco.

Nelle case di tutti
Il cardinale vescovo di Como Scaramuccia Trivulzio, insigne giureconsulto milanese con cattedra all'Università di Pavia, assiste ai saccheggi delle case non solo di prelati e mercanti, ma persino dei poveri acquaroli. Ai cardinali, i lanzichenecchi impongono robusti riscatti per lasciar tranquilli i loro palazzi. Ricevuti i soldi, non tengono fede alla parola data. Al cardinal Giovanni Piccolomini è riservata una cattura oltraggiosa, con calci e pugni. A suo fratello chiedono un riscatto che non serve a nulla, perché lo legano in una stalla minacciando di mozzargli il capo se la somma non sarà raddoppiata. Ricevono una cambiale. Tutte le case dei cardinali sono ripulite, e si oltraggiano le donne che vi si trovano.
Leggiamo ancora il cardinale Trivulzio, da una lettera al suo segretario Jacopo Baratero: "Tutti li monasteri e chiese tanto di frati quanto di monache santissimi saccheggiati; bastonate molte monache vecchie; violate e rubate molte monache giovane e fatte prisione; tolti tutti li paramenti, calici; levati gli argenti dalle chiese; tolti tutti li tabernaculi dove era il corpus Domini, e gettata l'ostia sacrata ora in terra ora in foco, ora messa sotto li piedi, ora in la padella a rostirla, ora romperla in cento pezzi; tutte le reliquie spogliate delli argenti che erono attorno, e gettato le reliquie dove li è parso". Un diplomatico veneto scrive che l'inferno è nulla in confronto alla vista che Roma presenta.

Belve fameliche
Il barone Camillo Trasmondo-Frangipani dei duchi di Mirabello, nel 1866 pubblicando a Ginevra una "Relazione" sul sacco di Roma scritta dal barone di Mirabello Giovanni Antonio Trasmondo (intimo di papa Clemente VII), parla di "accozzate orde di venturieri" che assunsero abusivamente il nome di esercito perché erano disordinate e prive di disciplina militare, agendo quali belve fameliche. La "Relazione" ed altri testi che l'accompagnano, sottolineano il contesto politico internazionale in cui avviene il sacco. Si parla pure delle terre di Romagna, dove ogni giorno si facevano "novità per causa di partialità", in una lettera (1531) di Mercurino Catinara, fratello del cancelliere di Spagna e commissario dell'esercito imperiale di Carlo V.

Quadro desolante
André Chastel, sulla scia di Guicciardini e Burckhardt, vede nel sacco di Roma non soltanto un evento traumatico per tutta la penisola, ma una frattura che spezza in due la vita oltre che della città del papa, pure della penisola.
In Romagna il panorama è altrettanto triste, e non per colpa di un sacco imposto da truppe straniere. Augusto Vasina registra "accanto all'abbandono delle campagne, la devastazione talora rinnovata delle nostre città per lotte intestine, saccheggi di mercenari o distruzioni per rappresaglia". È il quadro "desolante di dissesti materiali e sociali, di fronte ai quali impallidisce ogni tradizione nobiliare, ogni memoria di vita cortigiana, per quanto splendide possano essere state". Le masse s'impoveriscono, la finanza locale va in dissesto. Si perde il senso civico. I ceti borghesi hanno un comportamento ambiguo, smarrendo il compito della loro funzione mediatrice fra i nobili e gli strati più umili della società.
Per il sacco, Roma vive una fase di bassa congiuntura, scrive V. De Caprio: è chiuso lo "Studium Urbis", e crolla il mito umanistico della città. Nel 1528 Rimini, passata dal 1523 alla Santa Sede, vede assaltati dalla plebe l'archivio pubblico e la cancelleria posti nel convento di San Francesco. Nel 1529 Carlo V batte le truppe di papa e Francia. L'anno dopo è incoronato a Bologna.
(3. Continua)

Alla Scheda "Tutte le strade portano alla Storia"

NOTA presente soltanto sul web.
L'argomento torna in "Rimini moderna" 4, Se si cancella il passato.
In un testo del 1616, il Sito riminese di Raffaele Adimari (II, pp. 59-60) leggiamo: nel 1528, dopo la cacciata dell'ultimo Malatesti il 17 giugno con il conseguente passaggio definitivo alla Santa Sede, l'archivio e la cancelleria della città (posti in San Francesco) subirono un assalto.
Con lo stesso furore con cui aveva cercato di danneggiare il Tempio (difeso dalla nobiltà), «la plebe, che sempre desidera cose nuove» asporta «dall'archivio, e Cancellarie, libri, e scritture» bruciati sulla piazza della fontana. Una gran parte di quei documenti fu però salvata «dal furore plebeo» e posta «in due stancie del Monastero di San Francesco, sotto buone chiavi».
La vicenda ha un'appendice: «andando la cosa alla longa, alcuni Frati ansiosi di vedere, che cosa fosse là dentro, scopersero il tetto per entrar dentro dette stancie, e tolsero molte delle dette scritture, le quali furono conosciute per la Città: al fin poi quando se determinò di liberar dette stancie, poco n'erano rimase, le quali restorono in poter delli detti Rev. Padri di quel tempo, alla venuta poi della F. M. di Papa Clemente Ottavo, havendone notitia non sò come le fece levare impiendone due sacchi e mandolle a Roma […] Et perciò la nostra Città, per tal causa fù priva di molte scritture importanti, e honorate […]».
Adimari parla di Clemente VIII (1592-1605) e non di Clemente VII (1523-34) come padre Giovanardi che si rifà alla cronaca del 1532.
Clemente VIII passò per Rimini nel 1598 (Tonini, VI, 1, p. 382). Cioè settant'anni esatti dopo l'assalto popolare all'archivio di cui parla Adimari.

[Fonte della nota: Nel 1528, libri bruciati. Dalla storia della BIBLIOTECA MALATESTIANA DI SAN FRANCESCO A RIMINI. Notizie e documenti, nuova edizione (2012). Cfr. pure, per l'archivio pubblico la precedente pagina del 2007 dedicata sempre alla BIBLIOTECA MALATESTIANA di Rimini.
Su Raffaele Adimari, cfr. il testo apparso su "il Ponte", in "Quante Storie", 2005.]

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Antonio Montanari



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Anno XIV, n. 205, Dicembre 2012
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