Lezioni di giornalismo. Antonio Montanari [1991]
1. La "cucina" ovvero il lavoro redazionale.
2. La notizia. Che cos'è, come nasce, come si valorizza. Le fonti dell'informazione



1. La "cucina" ovvero il lavoro redazionale.

La definizione della redazione come "cucina del giornale", è dello scrittore Dino Buzzati. E' un'immagine simbolica che riassume il processo dell'intera elaborazione e realizzazione del prodotto giornalistico.
Per comprendere il senso della metafora della "cucina", con i suoi impliciti richiami organizzativi, occorre considerare l'importanza del luogo che essa richiama. Ogni buon pranzo presuppone non solo un cuoco esperto che sappia scegliere gli ingredienti e trasformarli in un "piatto" gustoso, ma anche necessita di addetti che presentino al cliente, con precisione e correttezza professionale, la ricetta eseguita.
La cucina è un servizio complesso, il cui valore è misurabile dal grado di funzionamento delle sue singole componenti.
Allo stesso modo, un giornale ben fatto richiede un accurato lavoro redazionale che coinvolge varie persone, e comporta l'organizzazione di vari aspetti. Il tutto va poi finalizzato al lettore, a cui è destinato il prodotto compiuto.
Accanto al "cuoco", cioè al redattore-capo, ci sono i suoi "aiutanti": cronisti, fotografi, grafici, disegnatori, ecc. Costoro lavorano sulla notizia che può assumere varie forme: dalle poche righe di cronaca all'articolo che sviluppa un argomento, fino alla pagina speciale monografica.
Qualunque forma assuma, occorre ricordarsi sempre che, come dice una vecchia regola del giornalismo, "la notizia è sacra, il commento è libero". Regola che ha le sue radici nella cultura illuministica la quale, rivendicando la libertà di stampa come una delle basi della moderna società civile, la considerava strumento di quel "tribunale… dell'opinione pubblica" che "è più forte dei magistrati e delle leggi, de' ministri e de' re" (G. Filangieri).
Come le idee e le proposte della redazione diventano pagine di testo? Tra il momento iniziale ("Vogliamo parlare del fatto ‘AZ’"), e quello conclusivo con la trattazione del fatto ‘AZ’, la "cucina" vive diverse fasi. Anzitutto, c'è la ricerca e la preparazione del materiale.
Immaginiamo che il nostro episodio ‘AZ’ abbia dei precedenti. Occorrerà consultare l'archivio. Una buona cucina è impensabile senza una dispensa ben fornita. Ogni redazione deve avere la sua raccolta di fonti, oltre alla collezione del proprio giornale.
Ci sono due tipi d'archivio:
quello tradizionale, con i "bustoni" che contengono tutti i ritagli sull'argomento; e
quello elettronico che usa memorie su disco.
Attraverso la consultazione dell'archivio, il redattore acquisisce tutte le informazioni utili a ricostruire l'episodio ‘AZ’ nei suoi antefatti.
Come si crea un archivio? Oggi, per tutti i computer, anche per i più piccoli, esistono programmi di archiviazione che permettono una facile creazione ed un veloce aggiornamento di una banca-dati.
La ricerca delle informazioni è delegata alla macchina, che lavora però sull'immagazzinamento operato da noi: quindi, nella creazione dell'archivio elettronico occorre fare molta attenzione, perché ogni disguido significa perdita di informazioni, in modo molto più specifico rispetto alla carta.
L'archivio si crea secondo due linee guida:
a) persone e personaggio (per la cronaca, è [?, sarebbe…] indispensabile elencare tutti i nomi che appaiono sul giornale);
b) fatti, argomenti (es.: razzismo, incidenti stradali, aids, droga, ecc.).
L'archivio ci fornisce, dunque, tutti i precedenti del fatto ‘AZ’. Il redattore preparerà il suo "pezzo" e lo sottoporrà al capo-cronista o al capo-redattore. Costoro dovranno verificare quanto segue: il servizio preparato corrisponde alla richiesta fatta al cronista? Esso spiega gli aspetti finora sconosciuti di ‘AZ’? E' aggiornato agli ultimi sviluppi? La lunghezza del "pezzo" è proporzionata alla sua importanza? Il suo linguaggio è comprensibile? (Ricordiamo la teoria americana del "lattaio" come lettore-medio a cui rivolgersi). Necessita dell'appoggio di un'intervista?
Nella redazione, comincia così un lavoro di "lima" che è stato spiegato in maniera efficace da Leo Longanesi, uno che di giornali se ne intendeva, se è vero che nel 1937 con "Omnibus" ha inventato il settimanale italiano a rotocalco, con un modello che regge tuttora nei suoi eredi, "Oggi" e "Gente".
Scriveva Longanesi, a proposito del lavoro editoriale, che esso consiste nel togliere "tutte le frasi stupide, tutti i "discorsi a pera", tutte le sciocchezze" di un articolo.
Aggiungiamo a queste parole quelle che un illustre letterato come Manara Valgimigli confidava a Francesco Fuschini: "Ogni parola in più, un lettore in meno".
La revisione di un testo è fondamentale nella nostra "cucina": non sempre la penna scorre alla giusta velocità, non tutti gli autori hanno la sufficiente umiltà per non credersi dei Manzoni o degli scrittori ermetici [poi, "sempre meglio ermetici che emetici", Isotto degli Etti]. Ci sono anche le questioni grammaticali e lessicali, per le quali se non bastano né la cultura personale né la memoria collettiva della "cucina", esistono sempre dizionari e testi da tenere a portata di mano.
A proposito di questo aspetto, ricordiamo i manuali di giornalismo, molto utili per risolvere i dubbi, oltre che per imparare ad usare correttamente "ingredienti" e strumenti redazionali (v. ad esempio "Medium e messaggio" di Sergio Lepri, ed. Gutemberg 2000). Molto utile ci sembra anche il "Manuale di stile" di R. Lesina, ed. Zanichelli, che insegna non solo la trattazione di un testo dal punto di vista tecnico e la sua specificità letteraria, ma anche "comportamenti" quali la correzione di bozze.
Questa fase di revisione si conclude con l'approvazione e l'invio al reparto di composizione, se l'autore stesso del "pezzo" non lo ha direttamente battuto su di un computer.
In una redazione, pervengono quotidianamente decine di comunicati-stampa: spesso, sono scritti in un linguaggio difficile; talora, la notizia è soltanto nelle ultime righe, quelle che interessano veramente.
Questi testi richiedono sovente una revisione totale: tecnicamente, si parla di "passare" un comunicato o un testo d'agenzia. Si tratta di ridurlo alle esigenze e alle caratteristiche del giornale, dicendo tutto in poche righe.
E' un lavoro che richiede umiltà e pazienza, come ricordava Luigi Einaudi che alla "Stampa" di Torino debuttò come redattore notturno addetto alla Stefani, l'Ansa del tempo.
Spesso un comunicato-stampa può contenere notizie che, se opportunamente valutate e presentate, possono diventare lo spunto per un servizio più ampio e consistente.
Il cronista deve aver "fiuto" nello scovare la notizia nascosta, non nel senso di inventarla come fa certo giornalismo scandalistico, ma in quello della ricerca di informazioni da valorizzare.
Un esempio reale: giunge un comunicato ufficiale di San Marino, in cui si dice che è diminuito il numero degli incidenti stradali. Il cronista elabora il testo, ripete nella notizia quel dato. La notizia dev'essere cestinata. Perché?
Nel comunicato si continuava dichiarando: il numero dei morti è stato maggiore che in passato. Il testo da pubblicare fu poi questo: "Più morti sulle strade a San Marino, anche se diminuisce il numero degli incidenti". Il che significava che aumentava la gravità del problema della circolazione viaria.
Sullo stesso argomento, poi, possono arrivare fonti diverse, spesso in polemica tra loro: in questo caso, la redazione dovrà informare correttamente il lettore anche delle opinioni che non condivide, cucendo le stesse fonti tra loro, e facendole precedere da un breve "cappello" che illustri l'argomento. Il commento-interpretazione può essere inserito all'inizio o alla fine delle citazioni, con una sottolineatura nel titolo.
La redazione deve seguire attentamente la vita della città. Gli articoli dei propri cronisti e i comunicati che pervengono, sono soltanto due dei canali a nostra disposizione. C'è poi la lettura della stampa locale e di quella nazionale che riferisce di fatti locali; ci sono le rassegne-stampa, i notiziari d'agenzia, ecc.
C'è, infine, quel difficile lavoro che è la ricerca della notizia, attraverso proprie fonti o raccogliendo informazioni direttamente. In quest'ultimo caso, esiste il rischio, se ci si qualifica cronisti, di trovarsi difronte a due reazioni: c'è chi teme di parlare ("Non so niente"), e c'è chi ha il gusto del protagonismo ("Scriva il mio nome…").
Per cui, in certe situazioni, è meglio mescolarsi tra la gente, senza esibire gli strumenti canonici del cronista.
Davanti ad ogni riga o ad ogni piccolo fatto, il "fiuto" della redazione può far capire se c'è lo spunto per qualcosa che gli altri cronisti non hanno osservato od esaminato, rispetto al nostro punto di vista.
Con un'altra immagine, diversa da quella della "cucina", si potrebbe paragonare il capo redattore ad un direttore d'orchestra che legge la partitura, segue i singoli strumentisti e cura l'effetto d'assieme.
Il prodotto giornalistico che deriva dal lavoro comune, dev'essere armonico nella sua globalità ed efficace nelle singole parti.
Il lavoro del cronista in redazione, tanto è più prezioso quanto è più silenzioso ed umile, con una precisione maniacale a tutti i particolari, soprattutto nella stampa locale, dove tutto può essere sotto gli occhi di tutti.
Non si può considerare banale una notizia di poche righe, soltanto perché è breve: se scritta male o presentata incompleta, nuoce all'immagine del giornale, la cui "gloria" non dipende soltanto dalle cosiddette "articolesse" o dai grandi servizi.
Il lettore esige un notiziario completo ed accurato; è sempre pronto a segnalare il "granchio", l'inesattezza, cose non impossibili, che càpitano a tutti, forse inevitabili: ma occorre lavorare sempre con l'intenzione che non accadano, anche se, come ha scritto Enzo Biagi a proposito dei refusi tipografici, c'è sempre un diavoletto che si aggira tra redazioni e tipografie.
Il segreto di una buona "cucina" redazionale sta forse nel saper amalgamare i diversi aspetti della realtà, travasandoli nell'equilibrio che dà ad ogni fatto il giusto peso, per ottenere un'armonia tra le singole parti di un numero del giornale, ed una proporzione anche tra i vari numeri.
Non esistono regole fisse, anche perché cambierebbero di continuo, così come cambia la sensibilità del lettore. E' una questione di sensibilità giornalistica, il "fiuto" di cui s'è detto prima, di cultura, ma soprattutto di fiducia in questo lavoro che richiede tempo, fatica e pazienza, per poche righe che sfuggono soltanto ad un lettore superficiale. Ma non tutti i lettori sono superficiali.
L'articolo, prima di finire in composizione, oppure se è stato battuto su computer, prima di passare nel reparto stampa; deve ricevere gli "ordini" tecnici, su come realizzare quel testo in tipografia.
Il giornale è fatto di colonne: la larghezza di una colonna si chiama giustezza. Ogni riga tipografica è costituita da caratteri di diversa forma e grandezza (rispettivamente si parla delle font e dei corpi).
(Queste pagine hanno un carattere Times con font 1, cioè normale nel testo, e font 3, cioè grassetto nei titoletti. Il testo è in corpo 10, mentre sono in corpo 14 i titoletti. La giustezza è di 6, 5 cm).
La redazione, nel momento in cui passa il dattiloscritto alla composizione, deve prevedere già in quale parte del giornale potrà essere inserito quel testo: si fanno delle ipotesi tecniche sulle singole pagine, che poi verranno realizzate nella parte finale con il menabò.
Il menabò è il progetto grafico, il modello per l'impaginazione del giornale. Quando si passa al menabò, è il momento in cui ogni articolo deve trovare la sua giusta collocazione.
Ogni pagina di giornale è costituita da queste parti:
- a sinistra, articolo di fondo o di apertura;
- a destra, articolo di spalla;
- al centro, o in fondo, taglio (alto o basso).
La posizione dell'articolo viene stabilita in base alla sua importanza, secondo le intenzioni della redazione. Determinata l'area su cui collocare il pezzo, se lo spazio supera la lunghezza del testo, si allarga quest'ultimo con dei sottotitoli. In caso opposto, si deve "restringere" l'articolo, togliendo quelle righe in più che vanno individuate in brani che, se eliminati, non compromettono la comprensibilità del discorso.
Si compila poi il titolo nelle sue tre parti:
- occhiello
- titolo vero e proprio
- sommario.
Si sceglie il materiale illustrativo, e si redigono le relative didascalie.
Terminata la pagina, si dovrà verificare ad esempio che una stessa parola non ritorni in due o più titoli: l'occhiata d'assieme alla pagina, non è più come l'analisi dei singoli pezzi o delle varie parti che la compongono.
E' un giudizio che potremmo definire giornalistico, ma l'aggettivo non rende complessivamente l'idea. In esso, infatti, confluisce anche una valutazione che è estetica, ma il "bello giornalistico" è una qualità che, a sua volta, ìmplica un giudizio di merito.
La "bella" pagina è quella efficace, che mette in risalto non l'argomento, una firma, un aspetto del giornale; ma quella che evidenzia tutto il lavoro redazionale, che confeziona il prodotto non per esibizionismo o narcisismo, ma credendo nel valore delle idee che il giornale vuole esprimere. Per cui, diciamo "bella" pagina per vezzo di cronisti, ma sappiamo che quell'espressione sarebbe più giusta se si mutasse in un giudizio di "buona" pagina, cioè efficace, ma forse questo sarebbe un peccato d'orgoglio, che è meglio evitare.


2. La notizia. Che cos'è, come nasce, come si valorizza. Le fonti dell'informazione
In principio vengono i fatti, poi seguono le notizie.
"Giornalismo è proprio questo: individuare, negli accadimenti, l'evento meritevole di diventare notizia".
La notizia non ci è data nei fatti. Non esiste in sé e per sé. Notizie e fatti sono due elementi diversi.
Solo i fatti esistono. Le notizie si creano. Anzi, si inventano, potremmo dire. Però (intendiamoci), invenzione è parola che va intesa nel suo senso più nobile e filosofico.
Nella retorica antica, l'invenzione è una delle cinque parti di questa dottrina. Con tale termine, s'indica la "ricerca degli argomenti" per un'orazione o per un'opera letteraria. Quindi, non intendiamo per invenzione il suo senso corrente odierno, che ci spiega la parole come "finzione" o "falsità", bensì questo significato antico che potremmo anche rendere con una parola più cristallina (o meno equivoca): "costruzione".
Dunque, come si costruisce una notizia?
Se le notizie nascono dopo i fatti, occorre saper decifrare questi ultimi, prima di cominciare a scrivere un resoconto.
Enzo Biagi, intervistato in occasione dei suoi 70 anni, ha detto: "Non si può fare il cronista se non si ha un punto di vista. Anche per raccontare una storia di questura ci vuole un punto di vista".
Il punto di vista citato da Biagi, è il momento intermedio del cammino che, partendo dai fatti, perviene alla notizia. Momento intermedio logico, che interviene nella valutazione del fatto e nella costruzione della notizia.
Questa citazione da Enzo Biagi, ci introduce cordialmente in uno dei passaggi più tormentati e mesti del discorso sul giornalismo: quello sulla obiettività del cronista che si vorrebbe proporre come dogma dell'infallibilità redazionale.
Si tratta di una grossissima illusione che bisogna subito definire come tale, in un orizzonte che è leggermente più ampio. Credo che possa esistere la completezza di certa informazione, nel suo assieme, non l'obiettività di una singola notizia. E questo non per colpa (volontaria o no) del cronista. Ma a causa della complessità del rapporto che collega noi con i fatti che dobbiamo valutare ed analizzare, per ricavarne poi la notizia.
Non vorrei apparire noioso o pedante. Ma, per capire la complessità (cioè, la difficoltà della valutazione dei dati reali), è necessaria una parentesi che soltanto apparentemente non ha nulla che vedere con questo discorso. Ma non è così.
Il mondo che noi abbiamo davanti agli occhi, è l'immagine che di esso si forma in noi attraverso un processo alquanto complesso. Non potremo mai dire che "questo è il mondo", ma soltanto che "questa è l'immagine che noi abbiamo del mondo".
Prima che fossero lanciati i razzi spaziali ed i satelliti artificiali, la rotondità della terra era dedotta da una serie di fatti. La "prova provata" di un'immagine ripresa dall'alto non esisteva, come invece esiste oggi. E nessuno oggi partirebbe più da quelle deduzioni, tralasciando questa immagine ripresa dal cielo.
Proiettiamo questa riflessione nel campo giornalistico. Quante sono le cose che vediamo, quante ne conosciamo? E soprattutto quali vogliamo vedere, tralasciare o piuttosto sottolineare?
Ecco dunque che il "punto di vista" diventa l'aspetto fondamentale nel processo di costruzione di una notizia.
I fatti esistono, abbiamo detto. Anzi, abbiamo precisato che "prima vengono i fatti". Ma i fatti esistono da soli, oppure esistono soltanto se ricevono il riconoscimento pubblico di una notizia? La nostra domanda non cela un paradosso.
Una notizia molto 'obiettiva' che potrebbe smentire tutto il nostro discorso, è quella della vincita miliardaria al Totocalcio o ad una lotteria.
Su un simile annuncio, a prima vista, non sembrano possibili interpretazioni soggettive. Ma riflettiamo un istante.
Il miliardario sconosciuto diventa ricercato dall'opinione pubblica, non perché (di nascosto) ha vinto, ma perché giornali, radio e televisioni pubblicamente lo indicano in questa o quella zona, ipotizzando caratteristiche del personaggio, ecc.
Ecco proprio un caso di "fatto" che di per sé non esisterebbe, se non fosse creato dalla notizia. Quindi, non tutti i fatti sono uguali tra loro.
Abbiamo così visto che:
a) esistono fatti che producono notizie (dalla crisi di governo alla guerra del Golfo, al delitto passionale); ma che
b) esistono pure eventi che, per essere pubblicamente ritenuti tali, debbono avere il riconoscimento della notizia.
Nel linguaggio comune, c'è un'espressione ricorrente: "Questo fa notizia". Ne sa qualcosa Sandra Milo. Nel mondo del rotocalco, storie inventate, cioè false, diventano fatti, e vengono spacciate come verità degne di essere credute tali.
Nella terminologia giornalistica, si parla di "bufale" per indicare notizie inventate, non nel senso positivo che abbiamo usato sopra, ma in quello negativo di notizie che non hanno riscontro nella realtà.
La manzoniana "caccia agli untori" è una mirabile cronaca giornalistica di fatti esistenti ma non veri. La gente credeva che esistessero gli untori, e pertanto a quei milanesi del 1600 la realtà appariva secondo la suggestione dell'ignoranza e del pregiudizio.
Per noi, a quattro secoli di distanza, il fatto è non negli untori, ma nell'ignoranza che portava a credere in quegli errori.
Anche quest'osservazione dovrebbe invitarci a procedere con cautela quando si parla "dei" fatti.
Ogni evento, poi, è soltanto una piccola parte che ci appare della realtà che noi chiamiamo "il fatto". Tant'è che la televisione, per controllare o contestare gli arbitri ha inventato la ben nota moviola di Carlo Sassi.
Questo preambolo culturale sulla "decifrabilità degli avvenimenti reali", accenna ad una questione metodologica che in campo giornalistico ha le seguenti implicazioni:
a) quanti più elementi si possono raccogliere attorno ad un "fatto", tanto più attenta è la nostra conoscenza relativa ad esso;
b) questi elementi debbono nascere da osservazione, analisi, studio e documentazione;
c) ciò deve garantire che la notizia nasca soltanto quando "il fatto" è messo a fuoco nella sua complessità.
Sostenere che un cronista, in fase di approccio, debba agire tenendo presenti tutti questi elementi, potrebbe apparire anche strano. Per chiarire il discorso, ricorro ad un'immagine classica: il colpo d'occhio, o l'occhio clinico che dir si voglia, oppure il cosiddetto "fiuto".
Il fatto, se non viene decifrato con esperienza e preparazione, di per sé non dice nulla. Quindi, non è importante il fatto in sé, ma il rapporto che con esso il cronista realizza, nel momento in cui cerca di trasformare il fatto in notizia.
In un discorso politico, ad esempio, il fatto può esser dato non dalle cose dette (il dato esistente), ma da quelle taciute rispetto ad un certo argomento che preme all'opinione pubblica. Il dato negativo (cioè non esistente), diventa esistente, cioè 'positivo' (in senso filosofico, non come giudizio).
Ecco che il cronista deve valutare il fatto, per classificarlo ed analizzarlo. E ciò è reso possibile soltanto da un bagaglio di preparazione tecnica e di cultura. Da quel "punto di vista", che non è l'interesse particolare del cronista, ma il suo metodo di conoscere la vita e di scrivere su di un giornale.
Dopo questa lunga premessa metodologica che è però anche un'analisi strutturale (non esauriente, ma soltanto accennata) del problema-notizia, passiamo ad un esempio pratico.
Lo ricavo da una rubrica del nostro giornale, "La Settimana", che ho tenuto a battesimo sulle colonne del "Ponte" del 15 dicembre 1985, e che ho curato sino all'estate del '90, per oltre duecento numeri. La rubrica è nata, su mia proposta, per fornire ai lettori un agile strumento informativo che allora mancava.
"La Settimana" ha avuto un enorme successo editoriale. Infatti, da semplice riquadro è diventata lentamente, in mezzo a non poche difficoltà, un blocco di due colonne prima e di tre colonne poi, fino a riempire un'intera pagina del vecchio formato. Pagina che inizialmente ho curato da solo, poi con l'aiuto di un promettente redattore del "Ponte", Marco Forcellini, a cui l'ho lasciata in eredità, con pubblico testamento; eredità accresciutasi nel nuovo formato, fino ad occupare due pagine che però non raggiungono (per esigenze grafiche), il numero di "battute" (lunghezza del testo, cioè) che caratterizzava la pagina del vecchio formato.
La mia "Settimana" era divisa sostanzialmente in tre parti. Un "Primo piano", la "Cronaca" e "Fatti & Figure", oltre ad una rubrica (saltuaria, per mancanza di spazio), molto attesa, dedicata alla rassegna stampa sulle nostre città.
"La Settimana" nel suo assieme veniva cucita con gli avanzi di quanto era utilizzato dagli altri redattori. Spesso la ricerca degli argomenti diventata alquanto difficoltosa, perché doveva rivolgersi non ai temi 'concessi' alle firme illustri da prima pagina, ma a quelle notizie che erano lasciate al fondo di magazzino, al cestino dei rifiuti, come chiamavo scherzosamente la rubrica.
All'esterno del giornale, questo non appariva. Anzi, i lettori attraverso "La Settimana" ricevevano un'immagine della vita di ogni giorno, che mi sforzavo di raccontare con semplicità ed umiltà, seguendo una regola che ha conseguito consenso e successo.
La regola è questa: "Ogni parola, un fatto". Cioè, riportare il massimo numero di informazioni con il minimo numero di parole. L'amico Manlio Masini mi disse: "Gli storici futuri di Rimini ti saranno grati per il lavoro di raccolta di notizie che tu fai sulla "Settimana"". Il prof. Pier Giorgio Grassi, dell'Università di Urbino, si è più volte complimentato per il "lavoro prezioso" della "Settimana" .
Quando la rubrica è cresciuta in spazio ed importanza, attraverso il "Primo piano" ho cercato di costruire servizi che trattassero, di volta in volta, un determinato aspetto della nostra realtà.
Dal "Ponte" del 24 gennaio 1988, riprendo l'esempio a cui accennavo, e che ha due significati, come poi aggiungerò. Si tratta di questo. In quei giorni, sul "Carlino", erano apparsi articoli a grandi titoli su due giovani che non avevano nulla in comune tra loro. Lei, Nina Soldano, riccionese, compariva in una trasmissione di Renzo Arbore. Lui, Ettore Santinello, riminese, veniva considerato da un quotidiano londinese come il fidanzato segreto della cantante Madonna Ciccone.
Il mio articoletto di "Primo piano" terminava citando un redattore del "Carlino", Silvano Cardellini che "con ironico distacco concludeva il suo pezzo, dicendo che in queste storie la provincia ci sguazza". Ma io aggiungevo una domanda all'amico Cardellini, che ho fatto debuttare alla fine degli anni '60, in un periodico locale, "Il Corso", di cui ero redattore capo, e che per quel suo 'distacco' (che non so se frutto di timidezza o di senso di superiorità per la carriera brillante che ha percorso), non mi ha mai risposto. La mia domanda era questa: "Ma, caro Silvano, chi informa questa provincia?".
Il mio servizio conteneva anche altre notizie, per cui nel suo assieme esso "costruiva" un complesso circuito di informazioni che non venivano presentate slegate tra loro, bensì collocate organicamente in un discorso sul giornalismo locale e sulla società reale che esso non rappresenta (o presenta), privilegiando aspetti più romanzeschi (le favole erotico-spettacolari, e così via).
Ma la cosa migliore della "Settimana" di quel 24.1.1988, era la vignetta dell'amico Daniele Fabbri, oggi in arte Daniele Luttazzi, personaggio ben noto, assurto ad una meritata celebrità, e citato anche in un recente volume umoristico, per ben sei volte su 540 esempi complessivi.
La vignetta aveva questo testo: "Il guaio di certi giornali: non sanno cosa scrivere, ma non vedono l'ora di scriverlo".
Alla luce della mia premessa metodologica, invito a "leggere" la battuta di Fabbri in filigrana, per scoprirvi non tanto l'effetto umoristico (che è indubbio, tutto calibrato sul pirandelliano "sentimento del contrario"), quanto per rilevarvi una molto seria lezione di giornalismo, facilmente rintracciabile con una riflessione attenta.
Ecco quindi i due significati a cui accennavo, in questo esempio tratto da "La Settimana" : il primo, sottolinea la cronaca come riflessione sui fatti. Il secondo, spazia più in là, e si offre come riflessione sul giornalismo stesso.
L'argomento che mi è stato assegnato è molto enciclopedico. Se fosse dipeso da me, lo avrei limitato ad un solo punto: "La sensibilità del cronista". Mi spiego. Non credo che esistano le cronache, ma soltanto i cronisti.
Leggevo recentemente, nel periodico dell'Ordine lombardo dei giornalisti, una severa critica rivolta ai quei giovani redattori 'sedentari' che credono di poter raccontare il mondo servendosi soltanto di un terminale d'agenzia, e che amando soltanto i servizi firmati, odiano quell'indispensabile lavoro di "cucina" che deve esser realizzato in ogni redazione.
Le "fonti" a cui accenna il titolo del mio argomento, sono due, seguendo il filo del discorso avviato, con la distinzione tra cronache e cronisti. Sono gli occhi e la testa dei cronisti stessi. E qui, ritorniamo a quel "punto di vista" a cui accenna Enzo Biagi nell'intervista citata. Gli occhi servono per vedere, per valutare, capire cose, uomini, contesti.
E' celebre la storiella americana dell'aspirante cronista che si presenta al grande giornalista del famoso quotidiano. Non fa in tempo a bussare alla porta del 'mostro sacro', che questi gli chiede di andare a comprargli un pacchetto di sigarette. Al suo ritorno, egli riceve l'ordine di scrivere un 'pezzo' che racconti tutto quello che ha visto.
Se vogliamo avere conferma di quanto siano importanti gli occhi, andiamo a sfogliare le grandi cronache del passato, dalle "Cose viste" di Ugo Ojetti, alle pagine di guerra di Indro Montanelli, Egisto Corradi, Igor Man.
Di questa mia opinione, trovo un'autorevole conferma in un articolo di Lietta Tornabuoni, da cui cito: "Vedere la guerra nelle piccole cose e direttamente controllabili… pare una maniera per capire qualcosa e per non lasciarsi prendere in giro…" dalla "montagna di notizie irrilevanti o sceme o folcloristiche" diffuse da certi comandi militari.
Sentiamo Igor Man: "Una volta… le notizie… le andavamo a cercare. Come? Rompendo le scatole a questo e a quello, scarpinando. Scarpinando notte e giorno".
E la testa? Essa non è soltanto il controllo della notizia, ma anche la valutazione critica, il giudizio morale, il freno alle idiozie.
Il "Corriere della Sera" raccontò, due anni fa, la storia di una bimba di pochi mesi "violentata dal padre" sotto gli occhi della madre. Un medico erroneamente aveva diagnosticato una violenza carnale, mentre si trattava di un tumore che avrebbe poi ucciso quella creatura. Il cronista per fare uno 'scoop', parola oscena che dovrebbe essere bandita dal vocabolario di ogni giornalista serio, riprese il "fatto" che divenne così notizia. Fatto inesistente che venne trasformato in notizia "vera", cioè esistente. Siamo così ritornati al discorso iniziale: ci sono notizie basate su fatti non veri. Questo non è giornalismo. Che nell'errore sia caduto il "Corrierone", la dice lunga sulla crisi di professionalità giornalistica contemporanea.
Non vorrei apparire pessimista. Ma consapevole dei limiti e degli errori umani, desidero concludere con l'invito a riflettere sulle responsabilità del cronista per l'effetto che una notizia non vera può provocare nella 'vittima'. Anche una riabilitazione giudiziaria non può cancellare il danno morale subìto.
Noi, qui al "Ponte", siamo in un ambito che desidera sottolineare l'aspetto morale della professione giornalistica. Quando scriverete, se scriverete un giorno qualcosa, non fatevi prendere dall'ebbrezza del comporre, ma mettetevi sempre nei panni dei "soggetti" dei vostri articoli. Non abbiate ipocrite pietà, non compassioni inutili, ma rispettate l'uomo che c'è ovunque, anche nell'essere che appare il più degradato.
E se avete del coraggio da vendere, picchiate ai fianchi dei potenti. Purtroppo, il giornalismo di provincia è spesso fatto di collusioni tra cronisti e potenti. Cito un episodio, per concludere.
L'on. Capacci, domenica 28 ottobre 1990, è intervistato in esclusiva dalla "Gazzetta di Rimini". Lui, però, per non inimicarsi le testate concorrenti, rilascia altre dichiarazioni in contemporanea anche a "Messaggero" e "Carlino". La "Gazzetta" commenta il giorno dopo: Capacci ha raccontato "tre storie differenti" a tre giornali diversi. Capacci replica: la "sostanza politica" è "identica". Ma noi sappiamo che Capacci ha dichiarato questo per non urtarsi con degli "amici" (i cronisti della seconda e terza intervista).
Il nostro Tama, sul "Ponte" (cfr. "Il Ponte" del 18.11.1990), a commento dell'episodio, scriveva: "Sinceramente, non vediamo perché l'on. Capacci abbia sciupata tanta fatica per esprimere con parole diverse lo stesso concetto".
Tama costruiva una notizia, in questo caso, ma Capacci non l'ha capito e, tutto innervosito, ha risposto chiedendo: "Se, come afferma Tama e ha sostenuto la "Gazzetta", avessi espresso opinioni diverse, come mai il "Carlino" e il "Messaggero" non mi hanno accusato di incoerenza?".
Credo che non sia andata così, soltanto per gratitudine verso l'on. Capacci. Soltanto "La Gazzetta", cioè la vittima di uno 'scippo' giornalistico, e Tama perché estraneo ai fatti, potevano "uscire" con la notizia del "dici uno, e prendi tre".
Questo Capacci, uno e trino, era una notizia, e Tama l'ha data nella finestra della satira, che è anch'essa un modo di fare giornalismo, per fortuna non compreso nel compito assegnatomi. Anche perché, spesso e volentieri, non sono d'accordo con Tama.

Antonio Montanari, classe 1942, pubblicista, ha la malattia del giornalismo da più di trent'anni.
E' stato corrispondente da Rimini di quotidiani nazionali, ed ha collaborato, oltre che a periodici locali, anche alla nota rivista bolognese "Il Mulino" e alla "Fiera letteraria" di Roma. Ha debuttato sul "Resto del Carlino" nel 1960.
Alla fine dei "favolosi" anni '60, è stato redattore capo di un decadale riminese, "IL CORSO", diretto da Gianni Bezzi (attualmente inviato speciale al "Corriere dello Sport" di Roma). Ne "IL CORSO" ha curato, tra le altre cose, una pagina culturale intitolata "Libri Uomini Idee".
Per il settimanale "IL PONTE", al quale collabora da nove anni, dopo una lunga gavetta ha svolto la funzione di capocronaca, ed attualmente è responsabile del settore storico-culturale.
Due anni fa, per i tipi del "PONTE", ha pubblicato il volume "Rimini ieri 1943-1946", al quale hanno fatto seguito 19 pagine speciali apparse nell'ultimo anno e mezzo sullo stesso "PONTE", dedicate ai "Giorni dell'ira", un'accurata ricostruzione storica della vita a Rimini e San Marino tra settembre 1943 e settembre 1944, con documenti inediti.
Per "IL PONTE" ha "inventato" la rubrica LA SETTIMANA, che ha curato per 200 e passa edizioni (equivalenti a cinque anni di lavoro).
Su "La Gazzetta di Rimini", tiene una rubrica di recensioni librarie.
Antonio Montanari [1991]

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