Politica. Articoli vari del mese di Settembre 2008, blog de "La Stampa"

08/09/2008
Alfredo Azzalli, 8 settembre 1943
Otto settembre 1943. Il giorno del suo ventesimo compleanno per Alfredo Azzalli trascorre come tutti gli altri. In guerra. Tra le guardie di frontiera. A Villa del Nevoso, sulla strada che da Fiume porta a San Pietro del Carso, Postumia e molto più avanti a Lubiana. Alle 19,42 la Radio italiana annuncia l’armistizio.
Il re e la regina hanno appena lasciato Villa Savoia. Al Quirinale si è temuto un colpo di mano. L’Eiar è stata preceduta da Radio Londra. Badoglio legge un proclama: «Ogni atto di ostilità contro le forze anglo-americane deve cessare da parte delle forze italiane, in ogni luogo. Esse però reagiranno a eventuali attacchi da qualsiasi altra provenienza».
Verso le quattro del pomeriggio, Alfredo Azzalli è partito in autoblindo per fare la solita scorta al generale Didio.
«Noi seguivamo la sua macchina. Temevamo gli attacchi dei partigiani. Ma tutte le volte che ci siamo spostati non è successo nulla. Siamo sempre arrivati tranquilli a destinazione. Andavamo a Trieste o nei paesi vicini a Villa del Nevoso. Percorrevamo ogni volta una sessantina di chilometri.»
Il piccolo corteo è preceduto da un motociclista. Nell’autoblindo sono ammassati una ventina di ragazzi. Quel pomeriggio viaggiano verso Fiume. Arrivano che sono le due di notte del nove settembre: «C’era la luna piena. Non sapevamo niente di quello che era successo la sera prima. Forse il generale conosceva la notizia. Non noi. Lui aveva a bordo una radio. Ogni tanto la nostra colonna si fermava. Forse in quei momenti si metteva in contatto con altre postazioni. A Fiume ci siamo resi conto che doveva essere successo qualcosa di grosso. La gente era in giro per le strade, ed esultava. I civili prendevano le armi ai militari: sparavano per aria, le pallottole fischiavano sopra le nostre teste. Nei fossi c’erano i cannoni italiani abbandonati dai nostri in fuga. Tutti cercavano di scappare e rientrare in Italia. Una baraonda indescrivibile».
Verso le otto del mattino, il generale raduna quella ventina di soldati, e gli parla: «Da questo momento, io non sono più il vostro comandante. Fate quello che volete. Se riuscite ad andare a casa, potete farlo». Commenta Alfredo Azzalli: «Il generale doveva avere anche lui i suoi pensieri. Lo faceva capire il tono con cui ci mise in libertà».
Andare a casa, ma come? «Bisognava gettare la divisa. I civili di Fiume ci offrivano vestiti borghesi che a noi servivano per non essere riconosciuti dai tedeschi, e per non essere catturati. I civili avevano bisogno delle nostre armi. Le passavano anche ai partigiani.»
Non era facile pensare al cambio fra un fucile «modello 91», quello della Grande guerra, e quattro stracci con cui nascondere il proprio stato di combattente italiano. Non per nostalgia militarista od orgoglio.
«La nostra paura era che, una volta consegnate le armi, i civili ci ammazzassero tutti. Per fortuna non fu così. Ci hanno trattato con i guanti. Non ci hanno fatto alcun male. Sono stato invitato ad entrare in una casa. Mi hanno dato da mangiare anche un pezzo di formaggio, e mi hanno regalato degli indumenti civili in cambio della divisa.»
Ora che è in borghese, la guardia di frontiera Azzalli Alfredo ripensa ai suoi otto mesi di vita da soldato: arruolato il 5 gennaio 1943, partito dal distretto di Ferrara, destinato per addestramento alla caserma «Principe di Piemonte» a San Pietro del Carso. Qui trascorre due mesi.
«Le divise ce le diedero soltanto diciassette giorni dopo l’arrivo. Avevamo vestiti civili leggeri, non adatti a quel clima rigido. Dormivamo in coppia nella stessa branda per utilizzare due coperte che però non bastavano a proteggerci dal freddo. Incontrai un compaesano che conoscevo bene, Bruno Musacchi. Era di servizio sedentario da tre anni come attendente del capitano medico, nella stessa caserma di San Pietro del Carso. Venne nelle camerate a vedere se c’erano ragazzi delle nostre parti. Ci siamo abbracciati. Mi sono messo a piangere come un bambino.»
Da Argenta i genitori di Alfredo arrivano a trovare il loro figlio a San Pietro del Carso. Dentro il pacco di viveri che gli consegnano, ci sono anche i cappelletti. Hanno progettato di fermarsi nell’albergo del paese, ma Bruno Musacchi li consiglia, per motivi di sicurezza, di non pernottare e di tornare a casa.
Il primo trasferimento di Alfredo è a circa un chilometro, in un accampamento di baracche di legno. Vi resta per tutto marzo ed aprile.
«Si vedevano soltanto persone che entravano nel bosco a tagliare la legna: ne uscivano con carri pieni di tronchi. Non parlavamo con nessuno. C’erano paura e diffidenza. Bruno Musacchi, di nascosto, ogni giorno mi portava una gavetta di maccheroni.»
Dal volume Stellette addio. L’8 Settembre 1943 del soldato Alfredo Azzalli di Antonio Montanari, leggibile integralmente qui.
Alfredo Azzalli, mio suocero, è uno di quei tanti giovani che rifiutarono di obbedire a Salò. Oggi ha compiuto 85 anni.
Fonte web: www.webalice.it/antoniomontanari1
[Anno III, post n. 274 (651), © by Antonio Montanari 2008]
Scritto il 08/09/08 alle 17:32 nella Storia | Commenti (3)

Antonio Montanari


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