«PAOLO MALATESTI».
PRESENTAZIONE DEL VOLUME XX DELLA «STORIA DELLE SIGNORIE MALATESTIANE»
[2.VII.2006, Poggio Berni]

Marzo 1282. Papa Martino IV, eletto l’anno prima nel conclave di Viterbo durato sei mesi, invia Paolo Malatesti a Firenze quale nuovo Capitano del Popolo e Difensore della Pace. Paolo è il secondogenito del «Mastin vecchio», il Malatesta da Verucchio detto il Centenario (1212-1312).
La scelta di Martino IV fa pensare, come osserva Silvia Pari (Signorie Malatestiane, I, p. 135), che Paolo Malatesti, non soltanto abile condottiero, fosse tra i figli di Malatesta da Verucchio quello che, più dei fratelli, ne avesse ereditato «le grandi doti di politico e di diplomatico».
Il primo febbraio 1283, dopo undici mesi, Paolo Malatesti rinuncia all’incarico e rientra a Rimini. Egli giustifica la scelta con i negozi famigliari da curare. Alla base della sua decisione c’è forse il contrasto nato tra il suo ufficio e quello (con analoghi poteri) del nuovo Difensore delle Arti, istituito sul finire del 1282 (Pari, I, pp. 135-136).
In questi momenti Paolo ha sui trent’anni. Pochi in meno rispetto al primogenito Giovanni detto lo Sciancato, il marito di Francesca da Polenta da cui ha Concordia. La bimba rinnova il nome della nonna paterna la quale sposando il «Mastin vecchio» aveva portato in dote «massime ricchezze e possedimenti infiniti» (Marco Battagli 1343, Donne, p. 15), ed aveva soprattutto sancito un’unione politica tra il Malatesti forestiero ed i Parcitadi, la più importante famiglia riminese. I Malatesti erano schierati dalla parte guelfa. I Parcitadi da quella imperiale (Donne, p. 16).
Concordia (la nonna), come ipotizza Luigi Tonini (III, p. 235), è figlia di una sorella sine nomine del Parcitade IV antagonista del «Mastin vecchio». Il quale nel 1295 ad 83 anni scaccia da Rimini lo stesso Parcitade IV, instaurandovi la propria Signoria.
Giovanni e Francesca sono stati promessi nel 1275. L’accordo (XX, p. 45) comprende anche un altro futuro matrimonio: tra Bernardino fratello di Francesca, e Maddalena Malatesti, sorella minore di Giovanni e Paolo. Secondo Boccaccio, il matrimonio fra Giovanni e Francesca riconosce la fine di una lunga e dannosa guerra tra i Malatesti e i Da Polenta.
Paolo verso il 1269 ha preso in moglie la poco più giovane quindicenne Orabile Beatrice, figlia di Uberto di Ghiaggiolo che gli dà due eredi, Uberto jr. e Margherita, nata dopo l’uccisione del padre. Anche Uberto jr. sarà ucciso (1323). Dal cugino Ramberto, figlio di Giovanni. (Ma su ciò dovremo ritornare.)
Anche questo matrimonio è politico. Orabile, ultima erede dei conti di Ghiaggiolo rimasti senza discendenza maschile, è costretta a sposare il figlio di un nemico del padre (Pari, Donne I, 151). D’altro canto Malatesta non voleva perdere l'investitura di Ghiaggiolo ricevuta tra 1262 e 1263, e contestatagli da Guido da Montefeltro anche a nome della stessa Orabile Beatrice di cui era zio. Infatti Guido da Montefeltro aveva sposato Manentessa sorella del padre di Orabile Beatrice.
Il 1271 è un anno nero per i ghibellini. Sono espulsi da Rimini. Guido da Montefeltro, mentre sta battendo i guelfi di Malatesta nelle Marche, cade da cavallo ed è catturato: «Sic victor a victo devictus est», scrive un cronista piacentino (I, p. 100, nota 193). I Malatesti liberano Guido, forse per intercessione di Orabile Beatrice.
Nel 1274 le parti si invertono. Malatesta è sconfitto due volte. Da Ravenna nel 1275, Guido Da Polenta per cacciare i Traversari chiede l'intervento di Malatesta che gli invia cento fanti guidati da suo figlio Giovanni. Nei pressi di Faenza avviene la disfatta dei guelfi. Orabile Beatrice sa che la sua gente di Ghiaggiolo è andata contro suo marito Paolo Malatesti.
Le convenienze dinastiche e le preoccupazioni politiche reggono (spesso dolorosamente) le sorti collettive delle famiglie. E regolano i destini dei singoli personaggi. Su questo sfondo, irrompe il fattaccio reso celebra da Dante, la tragedia dell’uccisione di Paolo e Francesca per mano di Giovanni.
Possiamo collocarla ragionevolmente tra il febbraio 1283 (ritorno di Paolo a Rimini) ed il 1284. Luigi Tonini data al 1286 il nuovo matrimonio di Giovanni con Zambrasina che gli darà almeno altri cinque figli [III, pp. 256-8]. Come ha giustamente osservato Silvia Pari, bisogna lasciare un poco di tempo tra il delitto ed il nuovo sposalizio dell’omicida (I, p. 150, nota 308). Quindi il delitto non può essere accaduto dopo il 1284.


Questi calcoli cronologici sono ininfluenti da un punto di vista generale. Sono invece molto utili se non necessari per una duplice osservazione sulla “verità” storica particolare della vicenda malatestiana.
[1.] Mancano documenti che la attestino. Il passo di Dante nel quinto canto dell’Inferno, è l’unica fonte esistente. Una fonte oltretutto letteraria e non cronachistica. Posteriore a Dante (e da lui derivato) è il racconto di Marco Battagli (1343): «Paulus autem fuit mortuus per fratrem suum Johannem Zottum causa luxuriam» (Donne, p. 52).
[2.] Nessun indizio autorizza a formulare altre ipotesi. Delitto d’onore, delitto d’amore, racconta Dante. Ma se invece fosse stato un omicidio politico? Lo Sciancato aveva i suoi buoni motivi per odiare il Bello. Il primogenito Giovanni, non «causa luxuriam» ma per invidia, avrebbe potuto progettare l’eliminazione fisica del fratello minore Paolo, diventato protagonista stimato della scena nazionale come attesta l’incarico fiorentino affidatogli dal papa.
In questo caso, la tresca amorosa sarebbe stata soltanto una messinscena diabolica di Giovanni, un alibi che travolgeva anche l’innocenza di sua moglie.
Quanto accade fra Giovanni e Paolo si ripete con i loro eredi, come abbiamo preannunziato. Il figlio di Giovanni, Ramberto, il 21 gennaio 1323 uccide a Ciola il cugino Uberto jr. figlio di Paolo. Uberto jr. era stato ghibellino, poi guelfo ed ancora ghibellino.
A sua volta Ramberto è ucciso a Poggio Berni il 28 gennaio 1330 dai parenti di Rimini, come punizione del suo tentativo di conquistare la città.
La mancanza di testimonianze sul delitto è più compatibile con un fatto politico piuttosto che passionale. Dal 1295, come abbiamo visto, i Malatesti hanno il potere a Rimini. E chi comanda controlla i documenti meglio che le situazioni concrete. Il silenzio calato sulla vicenda, potrebbe quindi essere il frutto di una direttiva di governo, finalizzata ad oscurare un episodio compromettente per la buona fama dei signori della città.
All’interno di questa ipotesi, come estrema conseguenza, si potrebbe immaginare pure la sublimazione del fatto politico nella vicenda amorosa, onde allontanare dalla famiglia un marchio d’infamia rispetto all’autorità religiosa e temporale della Chiesa.


Allo stato degli atti, nulla permette di far luce circa «tutti i misteri esistenti sulla morte dei due cognati», annota ancora Silvia Pari (I, p. 150, nota 308). Nel testamento di Giovanni si legge il nome di una Francesca della quale non si dice però il casato di provenienza, come sottolinea Cinzia Cardinali (Malatesti, p. 10; Donne, I, p. 221, nota 116): «Che fosse figlia di Guido da Polenta lo sappiamo esclusivamente dai commentari danteschi». Di Francesca infatti «non restano altre attestazioni».
Tutto ciò dimostra che le istanze della Poesia procedono separatamente dalle ragioni della Storia. La sfera perfetta e luminosa della Poesia può alimentarsi degli orrori e degli errori della cronaca. Tutta la Divina Commedia ne è dimostrazione continua. Ma ciò non impedisce d’interrogarsi su quei retroscena misteriosi che si rivelano nell’episodio di Paolo e Francesca. E che si possono riassumere nell’interrogativo: perché ne parla soltanto Dante?
Dante quando compone il canto quinto dell’Inferno è lontano dalla Romagna dove giungerà nel 1318 e dove resterà sino alla morte (1321). Fama volat. Quindi la storia dei due sfortunati amanti circola per l’Italia e raggiunge Dante altrove. Se non sono stati i Malatesti a rendere passionale ciò che era soltanto un delitto politico, come abbiamo ipotizzato per absurdum, potrebbe essere stato lo stesso Dante a rendere erotica una semplice vicende legata a beghe di famiglia ed a rivalità di parte.


Dei Malatesti come perfidi politici e crudeli signori della città, Dante parla ripetutamente nell’Inferno.
[1] «E ’l Mastin vecchio e ’l nuovo da Verucchio,
che fecer di Montagna il mal governo» (XXVII, 46-47).
Qui si ricorda l’uccisione del ghibellino Montagna dei Parcitadi da parte di Malatestino di cui era prigioniero, nel 1295, l’anno della presa di Rimini. Montagna era cugino della madre di Malatestino, in quanto figlio di Parcitade IV dalla cui sorella sine nomine (come abbiamo visto) nasce Concordia, madre di Malatestino.
[2] Il Mastin «nuovo» torna nel XXVIII, al girone dei seminatori di discordie: «tiranno fello» (81) e «traditore» (85) lo definisce Dante.
Al Dante che rilegge la storia politica italiana, dunque, i nostri Malatesti avevano già recato il loro contributo. Un omicidio politico quale domestico regolamento dei conti, poco o nulla poteva aggiungere all’economia del suo poema. Invece quella storia d’amore è di un segno così perfetto da uscire dalla contingenza della cronaca, e da riceverne immortalità letteraria per i suoi protagonisti. È una storia che torna utile ai piani di lavoro di Dante. Sempre ammesso che non siano stati gli stessi Malatesti a diffondere la versione passionale d’un delitto politico.
Se non se ne fosse occupato Dante, in effetti oggi nessuno si ricorderebbe di Paolo e Francesca. Ma la memoria universale non significa ovviamente una conseguente verità della vicenda tramandata sotto la specie della Poesia. La verità della Poesia sta soltanto nella stessa Poesia.
In un recente saggio intitolato «Che noia la poesia», Alfonso Berardinelli scrive, proprio a proposito di Dante, che leggendolo bisogna fare attenzione «a due o tre tipi di ritmo: quello del racconto, quello del ragionamento, quello più nascosto e insieme più evidente dei versi…».
Soffermiamoci anzitutto sul ritmo del racconto. Per quell’armonia segreta (che nulla ha di misterioso, esoterico o magico) riscontrabile nelle tre cantiche, i quinti canti sono segnalati da figure femminili, rispettivamente Francesca, Pia dei Tolomei, Beatrice.
Nell’Inferno Francesca è nel cerchio secondo, dei lussuriosi.
Nel Purgatorio Pia è nel secondo balzo, tra i morti di morte violenta.
Nel Paradiso, nel primo cielo della Luna, Beatrice spiega che
«lo maggior don che Dio per sua larghezza fesse
creando […] fu de la volontà la libertate» (19-22).
Analoga simmetria è quella dei sesti canti, cosiddetti «politici». In essi, il discorso s’allarga da Firenze «piena d’invidia» (Ciacco tra i golosi dell’Inferno), alla «serva Italia, di dolore ostello» (Sordello tra i morti di morte violenta, ancora nel secondo balzo del Purgatorio, come Pia), all’impero (con Giustiniano nel secondo cielo del Paradiso). È un discorso che tutto riassume dal passato. E tutto comprende, aprendo una prospettiva sul presente e sulla crisi politica dell’età di Dante.

Ma torniamo all’episodio di Paolo e Francesca che si gioca in quella triplice ripetizione della parola «Amore» (vv. 100-108):
[100] «Amor, ch’al cor gentil ratto s’apprende»
[103] «Amor, ch’a nullo amato amar perdona»
[106] «Amor condusse noi ad una morte».
La dialettica interna a questa triplice anafora (ecco il «ritmo del ragionamento» di cui parla Berardinelli), determina il coinvolgimento narrativo dei due protagonisti. Sì, è soltanto Francesca che parla, e Paolo lo si scopre piangente soltanto tre versi prima della fine del canto (v. 140). Ma Francesca non parla soltanto per sé e di sé.
Anzi, all’inizio dell’episodio, dove Dante rimanda alla teoria del «cor gentil», Francesca dice che Amore «prese costui», cioè conquistò Paolo. Amore rende sùbito Paolo protagonista.
Poi, specularmene, Amore si rivolge su Francesca («Amor … mi prese»). Infine c’è il coinvolgimento totale: «Amor condusse noi ad una morte». Questo plurale «noi» chiude il circolo logico e biologico. Per «noi», dice Francesca, esiste un solo destino, «una morte» sola.
Paolo dunque parla attraverso Francesca che raccoglie e feconda il seme d’Amore. Lei genera il racconto che non è il suo racconto, ma il loro racconto.
Francesca parla di «nostro amor» (125). Ricorda: «Noi leggiavamo» (127). Poi con quella dialettica a cui accennavo, avviene l’incontro tra l’«io» ed il «lui»: «questi … la bocca mi basciò», 135-136), e c’è il ritorno al «noi» che non chiude soltanto l’avventura terrena («più non vi leggemmo avante», 138), ma apre alla scena ultraterrena nelle parole rivolte da Dante a Virgilio:
«Poeta, volentieri
parlerei a quei due che ’nsieme vanno» (73-74).

La lezione che Dante illustra al lettore, con quel suo venir meno per la pietà provocata in lui dalla vicenda d’amore di Paolo e Francesca, è la stessa che emerge dal XXVI dell’Inferno, dove Ulisse è tra i consiglieri fraudolenti dell’ottava bolgia.
La pena eterna che si sconta non sminuisce il valore della lezione che i peccatori offrono. Francesca rinnova in àmbito ovviamente diverso, l’ammaestramento che «omnia vincit amor». Ulisse insegna che la dignità dell’uomo sta nel «seguir virtute e canoscenza», anche se ciò può costarci il naufragio.
Ma è in quel naufragio che si salva l’uomo. L’uomo di ogni tempo, e non soltanto quello delle pagine «divine» di Dante.

Antonio Montanari


03.07.2006/17.07.2006/1200