Meldini racconta i mangiari del Montefeltro
Un viaggio in cucina tra società e cultura

Raccontare il cibo significa anche illustrare gli ambienti in cui esso è preparato, servito e consumato. Lo sa bene Piero Meldini che lungo trent'anni ha dedicato a questi argomenti una bella serie di volumi, a partire dalla «Cucina dell'Italietta» (Guaraldi 1977) sino a quest'ultimo che riguarda «La cultura del cibo tra Romagna e Marche» (Minerva, Bologna 2005 per conto di Banca Popolare Valconca) e che segue di poco un testo firmato con Michele Marziani («La cucina riminese tra terra e mare», Panozzo).
Meldini ha prodotto storie anche sotto forma narrativa, dimostrandosi autore robusto con quattro romanzi in cui lo studio dei personaggi s'accompagna sempre ad una descrizione degli ambienti e dei paesaggi sociali che fanno da sfondo alle singole vicende. La sua capacità di scrittore e di studioso gli permette di affrontare il racconto del cibo con la consapevolezza che in esso si condensano avvenimenti più complessi della ricetta gastronomica quale elencazione di ingredienti o di abilità cucinarie (e non culinarie, come suggeriva un divertente e dimenticato studioso di lingua, Leo Pestelli). Anzi la ricetta gastronomica diventa occasione per un'analisi dei contesti in cui essa nasce e si tramanda. Alla fine è la cartina di tornasole della vita di una collettività.

Sopravvivere
in campagna
Al proposito indichiamo sùbito un capitolo del libro, dedicato al «Regime alimentare delle campagne nelle inchieste sociali dell'Ottocento», in cui Meldini inserisce richiami che sono particolarmente indicativi. A proposito di un medico cinquecentesco, Costanzo Felici da Urbania, e della sua cosiddetta «lettera sulle insalate», Meldini osserva: «Delle carestie e, più in generale, delle carenze alimentari di buona parte della popolazione il trattato di Felici non fa parola» (p. 28). Ovvero «riserva loro un fuggevole cenno», quando annota che «al tempo della carestia [...] ogni cosa si raccoglie et ogni cosa - dicono - empie il corpo».
Ci sono poi, aggiunge Meldini, «numerosi riferimenti indiretti là dove si enumerano i vari surrogati del pane di frumento ottenuti da farine di cereali inferiori, di legumi, di castagne e, scendendo sempre più giù lungo la scala degli ingredienti, di ghianda» (pp. 28-29). Felici chiama questo pane di ghianda «molto spaventevole a vedere non che a gustare».
Altrettanto spaventevole doveva esser considerato anche quello fatto con la radice essiccata e macinata dell'aro (una pianta erbacea velenosa), «molto ingrato cibo» secondo Felici. All'aro, prosegue Meldini, fa riferimento pure l'abate settecentesco corianese Giovanni Antonio Battarra nella sua «Pratica agraria» dove il vecchio colono Gaspare evoca lo spettro dell'anno della carestia, il 1715: si videro allora «le povere creature morirsi di fame» e le «povere famiglie di noi altri contadini andare a pascolarsi nel verno di radici d'erbe; cavar le radici dell'Aro, o come qui si chiamano, del Zago, o Pan di biscia, cuocerle e senza conditura mangiarsele, ed altre farne focacce» (pp. 29-30).

Il dramma
delle carestie
Alle notizie contenute nelle pagine di Battarra aggiungiamo che un'altra carestia si ebbe nelle nostre terre fra 1765 e 1768. Roma non credette alla grave crisi della periferia riminese. Come già riportammo nel supplemento «Pagine di Storia & Storie» in un articolo intitolato «Una fame da morire» («il Ponte», 14.3.1999), la romana Congregazione del Buon Governo dichiarò al nostro mons. Giuseppe Garampi che essa riteneva «esagerato ogni bisogno», poiché era impossibile che Rimini fosse senza provviste. Nel frattempo, lungo i quaranta giorni che mancavano al nuovo raccolto, si poteva far ricorso a quanto forniva la campagna, ovvero «erbaggi e frutti» per «supplire a qualche deficienza di Pane». Desolato commentava Garampi scrivendo da Roma ai pubblici amministratori di Rimini: «In somma nulla è da sperarsi. [...] Compiango vivamente la presente nostra calamità, la quale resta anche più sensibile, perché non compatita».
La prima indagine sulle condizioni sociali nella nostra zona risale agli anni 1876-1881, ed è la cosiddetta «Inchiesta Jacini» («il Ponte», 20.1.1991). Opportunamente Meldini, quando richiama la successiva inchiesta sanitaria del 1899 ed il tema della pellagra (il «male della miseria» associato al consumo del mais), rimanda in nota a studi precedenti: più di cento anni prima, nel 1779, il medico milanese Gherardini aveva già osservato che il pane quotidiano dei pellagrosi era costituito da un «impasto di formentone, o grano turco, con segale e miglio». Questo richiamo permette di accennare all'importanza di certi contesti storico-culturali all'avanguardia (come in Lombardia) in cui maturano consapevolezze che altrove si raggiungono molto più tardi per una serie di fattori soprattutto politici.

Cibi poveri
e monotoni
Anche nel successivo capitolo della «Cucina contadina feriale e dei giorni di festa», troviamo fondamentali passaggi per ricostruire la situazione sociale ed economica dei nostri territori. Meldini cita un lavoro di Delio Bischi (1980) in cui tale cucina è riassunta con tre sole parole: povertà, monotonia ed autosufficienza. Il mangiare precisa Bischi era l'arte del sopravvivere con del gusto e del piacere come lo intendiamo noi oggi. Il «cardine del sistema alimentare» (la definizione è di Piero Camporesi), era la minestra che un vecchio proverbio romagnolo citato da Meldini chiama la «biada dell'uomo»: «La sfoglia che nei rari giorni di vacche grasse era di farina di frumento e uova (ma circa la metà di quelle usate oggi), era di farina di granoturco o armista, e tutt'affatto priva di uova, nei troppo frequenti giorni di vacche magre» (p. 43).
Giorno eccezionale, con cibo quindi altrettanto particolare, era quello delle feste nuziali. Don Girolamo Cirelli nel 1694 scriveva che i piatti serviti nei banchetti dei contadini erano «grossolani, carne di bue, vitello, e pollami, ma il tutto poco cotto o poco stagionato». Commenta Meldini: è «interessante notare che in un'epoca nella quale i ceti superiori amavano sottoporre le carni a frollature interminabili, al limite della decomposizione, i contadini facevano invece uso di carni di fresca macellazione, in largo anticipo sull'evoluzione del gusto» (p. 61).

Alla tavola
dei nobili
Per la Romagna settentrionale, l'alfonsinese Pietro Cavazzuti scriveva (1934) che il menù nuziale prevedeva «cappelletti, lesso e arrosto, poi un'infinità di dolci di tutte le sorte, parti fatti in famiglia e parti regalati da parenti ed invitati». Il banchetto «povero» ricostruito di recente da Graziano Pozzetto nel Montefeltro, elenca salumi, crostini con rigaglie e sottaceti, poi quadrucci, tagliolini o passatelli in brodo, carni lessate e arrostite, ciambelloni, creme e vini liquorosi (p. 61).
Nella parte dedicata alla «cucina dei nobili e dei borghesi», Meldini ricorda uno scritto di Giovan Maria Lancisi, reputatissimo medico personale di Clemente XI, che nel 1705 passa quattro giorni nel Montefeltro assieme ad altri personaggi di rilievo tra cui spicca un nipote del papa, l'abate Annibale Albani. Lancisi annota, elenca e si meraviglia per abbondanza e qualità dei cibi che, aggiunge Meldini, rimandano ad una tradizione signorile della corte urbinate nel quindicesimo secolo.
A proposito della società di quel secolo, Meldini riporta notizie sulle feste per le nozze principesche che vedevano coinvolte senza scandalo alcuno non donne ma fanciulle: Isabetta figlia di Federico si sposa con Roberto Malatesta «il Magnifico» quando nel 1475 ha appena dieci anni. Due di più ne ha Camilla d'Aragona che a Pesaro diventa nello stesso 1475 moglie di Costantino Sforza.
Il volume è arricchito da una serie di fotografie di Davide Minghini, tra cui incontriamo quella che ritrae sua madre mentre prepara i tradizionali cappelletti natalizi, agli inizi degli anni Sessanta. Molte altre immagini di Minghini illustrano le campagne del Montefeltro e l'attività marinara, costruendo un itinerario parallelo a quello delineato da Meldini.
Per chi s'interessa soltanto di ricette, precisiamo che esse sono offerte in una ricca appendice.

I quattro romanzi di Meldini, in questa pagina.

Antonio Montanari


1176/17.04.2006