Rimini grande, bella e ...«comunista»
La storia del turismo (1948-58) nelle pagine di Gambini

Il deputato diessino Sergio Gambini nel volume «Più grande e più bella. Rimini 1948 e 1958: i comunisti che scoprirono la capitale europea del turismo» (ed. Capitani), affronta molti temi: dalla vita del Pci nel suo interno, all'azione amministrativa da esso svolta nel secondo Dopoguerra. Partiamo da un episodio del 1948 che collega l'attività del Pci nell'Amministrazione comunale a quella nell'Azienda di Soggiorno guidata da Gino Pagliarani, «uno dei giovani dirigenti» del partito. Gambini riprende una ricostruzione fatta da Paolo Zaghini nel suo libro sulla Federazione comunista di Rimini tra 1949 e 1991 (Capitani 1999). Zaghini aveva scritto che la «dura battaglia durata mesi» fu combattuta da «tutte le forze di minoranza contro i comunisti», dopo esser stata scatenata da un articolo di Sergio Zavoli sul periodico socialdemocratico locale «Città Nostra».
Gambini precisa due elementi. Primo: «il radicato rapporto di amicizia personale» fra Zavoli e Pagliarani «contribuisce a dare attendibilità ad una ricostruzione degli eventi proposta dallo stesso Zavoli che descrive l'iniziativa come un passaggio in qualche modo concordato». Secondo: «la caratterizzazione in direzione del Partito Socialdemocratico di Sergio Zavoli non appare corretta: il foglio Città Nostra assume la caratteristica di un periodico di partito soltanto dal numero successivo a quello che contiene l'articolo critico sull'Azienda di Soggiorno ed in effetti in seguito la firma di Sergio Zavoli non apparirà più su quel foglio».

La versione
di Zavoli
Ascoltiamo la versione di Zavoli presentata nella densa «Prefazione» a Gambini. Secondo il noto cronista tv, quella polemica gli fu proposta dallo stesso Pagliarani per risvegliare «la coscienza turistica dei riminesi». Al proposito Manlio Masini scrive in «Rimini allo sbando» (Guaraldi 1992, p. 73): «Zavoli in un lungo articolo rimprovera senza mezze misure tutta la 'cricca' responsabile dell'ente turistico, 'nata come riflesso politico nel periodo dell'improvvisazione e della baldoria', di aver gestito l'Azienda di Soggiorno 'con metodi da Camera del Lavoro'». Zavoli, osserva Masini, fa una «dettagliata analisi degli errori» di Pagliarani, ed auspica che a condurre l'Azienda vadano «uomini nuovi, competenze specifiche ed una base dirigente più e meglio rappresentata», senza alcuna «ingerenza della politica». Ora Zavoli ci illumina: lui e l'amico Gino erano d'accordo.
Avevano scherzato. Come lo stesso Pagliarani fece in altra situazione (narrata qui da Zavoli), quando in compagnia di Guido Nozzoli aveva invertito la direzione dei cartelli stradali di accesso alla città, «creando un memorabile scombuglio». L'episodio provocò il richiamo da parte del partito, con il quale Pagliarani e Nozzoli si giustificarono sostenendo che «volevano disorientare la borghesia». Zavoli accredita così una versione seria e politica della faccenda, che in casa ho sentito narrare da uno degli interessati con la serietà della burla tipo «Amici miei». Altre goliardate del genere erano state realizzate più pericolosamente durante il Ventennio (vedere in «Autobiografia di una generazione»).

Il sindaco
cacciato
Il prezioso lavoro di Gambini dimostra come lo scavo nell'archeologia politica porti talora a risultati che anziché chiarire, rendono ancora più confuse le informazioni. Al proposito leggiamo la ricostruzione delle dimissioni del sindaco Cesare Bianchini, nel novembre 1948. La prima versione ufficiale le attribuì alle sue cattive condizioni di salute. La seconda, avanzata all'interno del Pci, parlò invece di un altro fatto, illustrato da Nicki (Nicola) Pagliarani, segretario del comitato comunale, ai quadri del partito: «Bianchini, conosciuto come ingegnere per aver rilasciato nel 1937 e nel 1945 dichiarazioni scritte in tal senso, in pratica risulta esser in possesso di diploma conseguito all'estero», per cui non gli era possibile veder riconosciuta in Italia «la qualifica di ingegnere». Nicki Pagliarani spiegò poi che la rimozione di Bianchini era stata voluta per prevenire un attacco al partito da quanti militavano «in campo avversario» ed avevano intenzione di utilizzare la faccenda per danneggiare i comunisti. Nella riunione Nicola Meluzzi disse che quanto spiegato dal compagno Nicki non doveva «essere recato fuori da un ristretto àmbito di partito».

Accuse
non provate
Secondo una terza versione, Bianchini era stato «espulso per indegnità morale e politica», perché incluso nel consiglio d'amministrazione di una finanziaria romana «interessata a compiere forti investimenti sulla riviera riminese». Secondo Zaghini, cacciando Bianchini si dava per certo «ciò che invece non fu mai provato»: si volle soltanto «stroncare definitivamente una discussione all'interno del partito sulla figura e sul ruolo di Bianchini, in quanto molti continuavano a non essere convinti della rimozione operata». Accettando questa «ipotesi» (così la chiama Gambini, condividendola), la vicenda del sindaco cacciato con accusa alquanto pesante («indegnità morale e politica»), ma in sostanza falsa, resta un bell'esempio di democrazia interna in un partito che pretendeva di insegnare la democrazia a tutti.
Gambini ricorda anche parole dette da Walter Ceccaroni a Riccardo Fabbri (1992): i costruttori edili di Rimini, del cui Collegio era direttore lo stesso Cesare Bianchini, volevano realizzare un piano edilizio che «fu vissuto dalla città come una seconda disgrazia dopo quella della guerra». Lo strumento urbanistico era stato abbinato in maniera «scioccante» ad un «esproprio generalizzato». La gente che attendeva di ricostruire le proprie quattro mura, ne rimase spaventata come lo stesso Ceccaroni. Gambini commenta: se «nessuno è in grado di provare le accuse rivolte» a Bianchini, resta il fatto che la sua rimozione «imprime una forte svolta» alla politica urbanistica del Comune. Si archiviano i programmi di esproprio e le collaborazioni con i grandi gruppi, privilegiando «l'iniziativa edificatoria diffusa, piuttosto che i programmi di più ampio respiro».

La «prassi»
e le «stradine»
Sul tema torna Zavoli nella «Prefazione», ricorrendo ad un linguaggio filosofico-politico che rimanda direttamente a quei tempi, quando ricorda con molto ottimismo che Rimini «istituì una prassi teorico-politica fondata, insieme, sulle garanzie dell'interesse collettivo e sui criteri dell'iniziativa privata, quindi sul rischio d'impresa». Alla fine, cioè nell'oggi, ammette Zavoli, restano le «stradine» di «Viserba, Rivabella, Rivazzurra, e via così, tanti piccoli, brevi angusti segni di una progettualità mancata, per la verità, in tutta la giurisdizione municipale». Ben più severo è il giudizio di Piero Meldini, qui soltanto ricordato ma non citato testualmente: «Ceccaroni appartenne ad una generazione di pionieri, il cui obiettivo era di condurre la carovana nei ricchi pascoli dell'Ovest. A tappe forzate e a qualsiasi prezzo. Forse si cominciò male. Sicuramente si proseguì peggio. Già tra i pionieri s'annidava più di un bandito».
Zavoli ricorda poi la beatificazione di Alberto Marvelli che «reca anche il segno di un'armonia civile tutto sommato ben governata dai protagonisti di allora». Valerio Lessi (1997) ha permesso di ricostruire il clima della città di allora pubblicando un documento del Cln del 5 marzo 1945, firmato dal futuro sindaco Cesare Bianchini, in cui si legge: «Gli uomini come l'ing. Marvelli sono quelli che hanno portato l'Italia alle attuali condizioni e saranno quelli che la rovineranno ancora di più». Il 21 marzo 1946 la Dc cittadina preannunciava al Cln le dimissioni di Marvelli dall'incarico di assessore per gli alloggi al Comune di Rimini.

1956, il dramma
dell'Ungheria
Gambini ricostruisce il legame fra quadro internazione e vita locale. Alle elezioni amministrative del 1956 la Sinistra (Pci e Psi) pareggia con l'opposizione, 20 seggi contro 20. In dieci anni, va aggiunto, li ha dimezzati. Non potendosi fare una Giunta, si va alle urne l'anno dopo, sotto l'effetto della rivolta di Budapest e dell'invasione sovietica dell'Ungheria avvenute tra fine ottobre ed i primi di novembre del 1956. Gli elettori della Sinistra cittadina non si pongono tanti scrupoli, recuperando il seggio che garantisce la maggioranza, mentre la Dc ne consegue 16 (ne aveva avuti 9 nel 1946 e nel 1951). Palmiro Togliatti il 30 ottobre 1956 aveva dichiarato: «Alla sommossa armata, che mette a ferro e fuoco la città, non si può non rispondere se non con le armi...». I riminesi che nel 1957 non rinnovano la tessera del Pci sono 886 (da 6.988 scendono a 6.102, -12,68%), «a testimoniare come il disagio fosse più presente tra i ceti urbani». Ma quella campagna che resta «rossa» nonostante i carri armati sovietici a Budapest, è anche l'ambiente che vede una trasformazione sociale descritta da Gambini in base a testimonianze di Ceccaroni: «La proposta che viene avanzata ad alcuni nuclei famigliari mezzadrili dell'entroterra riminese è quella di trasferirsi sulla marina per farsi protagonista della nascita di nuove imprese ricettive e del tessuto di servizi ad esse collegato».
Alcune veloci segnalazioni finali. Appare fondamentale la sequenza dei due capitoli centrali, il primo sulla «doppiezza del Pci emiliano-romagnolo», il secondo sulle «peculiarità riminesi» che «impongono strade nuove», bene spiegate dal passaggio sul mito sovietico a Rimini, che non era una speranza più o meno nascosta, ma «piuttosto l'abito stretto». Che poi alla fine si dovette allargare o cambiare, come insegna la famosa battuta sul «nostro» comunismo: il capitalismo gestito dai «rossi».

Paradossi
di una città
Zavoli nella dotta ed appassionata «Prefazione» alterna gli stili. Accanto a quello fascinoso e tipico con il gioco della memoria e del commento, affianca come abbiamo già scritto quello d'una riflessione filosofica severa, che è anch'essa però uno spicchio del suo «amarcord» post-bellico. Noi sinceramente preferiamo il primo, con il quale traccia un impeccabile profilo di Rimini, città mercuriale, «per natura avvezza alle contrapposizioni», dotata o afflitta (interpretiamo noi) «di uno spirito critico» tutto suo, con gente, di terra e di mare, che «per paradosso, grazie alla sua identità incompiuta, riesce da sempre a cancellare le sue contraddizioni».
Al primo genere stilistico appartiene una sua pagina del luglio 1993, dove con il rimpianto del bel tempo che fu, spiegava la sua volontaria assenza dalla festa per i 150 anni del turismo riminese: «Perché avrei dovuto restare? Neppure Federico c'era». Meldini disse al «Carlino»: «Zavoli parla di qualcosa che ormai non conosce più». D'accordo fu Rosita Copioli: «Spesso sono più cupa di lui». Nel «Ponte» dell'11.7.1993 («Lo spartito della nostalgia»), osservammo: «In questa Rimini che invoca: chiamami città, avendo di sé la coscienza di esser radicata nella mentalità di un borgo, la pagina di Zavoli ha mobilitato il solito rito del commento che trasforma una riflessione personale in un atto da rinviare al tribunale del popolo». Nel libro di Gambini quel tribunale lo ha presieduto lui, con tanto di pagelle distribuite alle «persone della qualità», come se fosse un Biscardi qualsiasi.

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Documenti.
Riproduciamo integralmente l’articolo dell’11.7.1993, «Lo spartito della nostalgia».

«Neppure Federico c'era». Basta questa frase per capire che il brano di Sergio Zavoli, pubblicato da «Epoca», era intonato alla chiave musicale della rimembranza. Se l'orecchio di chi legge non percepisce le sfumature di quello spartito, ogni critica va sopra le righe. Uso un'immagine musicale, perché Zavoli ha scritto il suo amarcord generazionale in un libro intitolato «Romanza». Nato il 21 settembre 1923, egli appartiene a quel coro di ragazzi venuti al mondo tra la fine della grande guerra ed i dintorni della marcia su Roma.
Il segreto di queste rivisitazioni del passato, come quella apparsa su «Epoca», è condensato in una pagina di «Romanza», dove verso la fine si legge: «…se il ricordo è in grado di condurre fino a noi cose vissute mille anni prima, non può affatto escludersi… che… possa fare anche il cammino opposto, inoltrandoci cioè nel futuro» (p. 253).
Zavoli è un grande cronista ed un ottimo narratore, appartiene alla generazione degli Orio Vergani, dei Giovanni Mosca e degli Indro Montanelli: in nessuna loro pagina, il bilancino da chimico riuscirebbe a pesare la verità di cronaca e l'invenzione letteraria. Montanelli, per giustificare le sue citazioni dei fulminanti «Controcorrente», usa ripetere che le frasi migliori dei grandi personaggi, sono quelle postume.
Zavoli è il creatore del «Processo alla tappa», grazie al quale oggi vivono di rendita generazioni biscardiane, in debito di ossigeno grammaticale e con frenesia da scoop. È stato ed è un maestro del nostro giornalismo radiotelevisivo. Ogni sua parola è come una tessera della storia collettiva di un'Italia che, uscita dalle macerie, si è ricostruita a forza di braccia e cambiali. Inevitabile il confronto con i distruttori attuali, esercitatisi in Tangentopoli. È ovvio che anche Zavoli faccia i suoi bilanci, e che dica la sua opinione.
Dimenticarsi della sua carriera, significa non capire le sue pagine. Ogni volta che scrive che le bandiere rosse, non quelle del sol dell'avvenire, ma del bagnino di salvataggio, non ci sono più in spiaggia, non possiamo suggerirgli una visita oculistica. L'invenzione letteraria non tien conto di altra realtà, al di fuori di quella che emerge poi dal testo scritto.
Quando Zavoli ha definito la tavola dei 150 anni una «stupefacente invenzione», per lui però «innaturale», ha soltanto confessato un suo pensiero. Vogliamo proibirglielo, in base al ferreo principio che «Tutto va ben, madame la marquise»?
Si può dare torto a Zavoli quando, alla luce della fantasia che rivive i sogni di un tempo, scrive che l'arrivo del Rex era «falso due volte»? Con lucidità, egli ci spiega: «non era quello illusorio e memorabile» del film di Fellini, «e neppure quello vero rimasto chissà dove».
In questa Rimini che invoca: chiamami città, avendo di sé la coscienza di esser radicata nella mentalità di un borgo, la pagina di Zavoli ha mobilitato il solito rito del commento che trasforma una riflessione personale in un atto da rinviare al tribunale del popolo. «Radames, discòlpati».

Antonio Montanari


1088/Riministoria-il Rimino/Antonio Montanari Nozzoli/30.7.2005