Pane romagnolo tra forni e politica
Carestie, rivoluzioni, scienza e tradizione negli ultimi secoli

L’ultimo numero di «romagna arte e storia» (72/2004) è interamente dedicato a «Il pane in Romagna», con una documentazione preziosa. Dante Bolognesi intervista Alberto Guenzi sulle società preindustriali. Anna Missiroli tratta di «Mugnai e mulini idraulici», Anna Maria Baratelli di «Case e forni nelle campagne», ancora Bolognesi di «Annona e consumi» nel Settecento, Girolamo Allegretti del pane di ghianda, Arturo Zambianchi del progetto del forno comunale di Forlì nel 1906, Alessandro Luparini delle «Requisizioni popolari durante la Settimana rossa nel Ravennate», Eraldo Baldini della «Simbologia alimentare nella tradizione romagnola» e Pier Giorgio Pasini dell’iconografia. Dato che la nostra cronaca può essere soltanto cittadina, riferiamo alcune notizie riminesi.
Sulla carestia conseguente al doppio cattivo raccolto del 1799 e 1800 con il secondo peggiore del primo, leggiamo in Allegretti (p. 90), che non ci sono molte notizie. Osserva ironicamente l’autore: se seguiamo il racconto di Carlo Tonini, quel biennio sembra «una continua baldoria». Allegretti mette il dito sopra la piaga: «Nella letteratura locale non m’è riuscito di trovare, non dirò studi, ma neppure accenni a questa carestia nel Riminese», se si esclude la breve narrazione del tumulto scoppiato il 20 ottobre 1800 per la cattiva qualità del vino. Allegretti aggiunge che nel «Giornale» del notaio Michel Angelo Zanotti ci sono soltanto fuggevoli accenni.

Il notaio Zanotti
cronista codino
Il saggio di Allegretti invita a qualche riflessione. Il notaio Zanotti è un’importante fonte storica, ma anche un bel tomo di reazionario. Collegando le due cose, si comprendono meglio i suoi silenzi. Quando parla del popolo, egli lo chiama «Plebe ignorante». Zanotti ha una mentalità codina, crede soltanto nelle verità delle leggi e del potere che le incarna, rifiuta la semplice constatazione dei fatti nuovi che accadono sotto i suoi occhi. Quindi, le scarne notizie che lui fornisce sono dovute alla sua «forma mentis». Proprio sulle colonne de «il Ponte» (6.1.2002) ho osservato: mai nessun docente universitario ha consigliato ai suoi studenti di porsi il problema di come considerare Zanotti, di capire l’ideologia che sta dietro alle sue pagine, la posizione politica che lo porta ad assumere certi atteggiamenti. Non so se in questi ultimi tre anni la situazione sia mutata.

Carlo Tonini
plagia Zanotti
In quell’articolo ricordavo pure che tutte le cronache di Zanotti sono state riversate da Carlo Tonini nell’aggiornamento [vol. VI, I-II, Rimini 1887-88, ed. an. Rimini 1995] della «Storia di Rimini» scritta da suo padre Luigi Tonini, senza sottoporle ad alcun vaglio critico. Anzi, peggiorando la scrittura originale, come denunciò nel 1932 il prof. Luigi Dal Pane, docente dell’Università di Bologna, a proposito della settecentesca controversia riminese sull’Annona. Che allora rimase ignota in campo scientifico perché non si potevano svolgere indagini a causa del «preclaro disordine» dell’Archivio comunale.
Tutti gli «scrittori di storia riminese», aggiungeva Dal Pane, «vi accennarono da cronisti, e, come al solito, non cercarono di penetrarne l’intimo significato». Carlo Tonini, anzi, «copiò dal ‘Giornale’ dello Zanotti non senza cambiare qualche frase e mutare la costruzione del periodo […] per occultare» il plagio. Così, «invece di chiarire le cose […] le imbrogliò», per cui alla fine «certi passi che erano chiari e significativi nella prosa dello Zanotti, divennero oscuri e senza colore in quella del Tonini».

La grave crisi
politica della città
Tra 30 maggio 1799 e 13 gennaio 1800 Rimini vive la grave crisi istituzionale della sua Municipalità e quindi anche della vita economica, a causa della rivolta dei «pescatori» (di cui ci occupammo nel 1999). Il 30 maggio 1799 giunge all’epilogo il «governo francese» iniziato il 5 febbraio 1797. E comincia una fase di transizione in cui c’è di tutto, appunto anche la carestia di cui parla Allegretti.
Dal 16 agosto 1799 al 9 novembre il pane «commune» è venduto nella stessa quantità di sette once prevista nel 1795, mentre per il «bianco» si sale a cinque once e mezzo (contro le cinque del 1795). Dal 10 al 16 novembre, si riduce soltanto il peso del «bruno» da sette a sei once e mezzo. Dal 17 novembre la diminuzione è invece per entrambi i tipi. Il «bianco» scende a cinque once, il «bruno» a sei. Complessivamente, i provvedimenti danneggiano i ceti meno abbienti che vedono calare il peso del pane «bruno».
Ad aggravare la situazione, seguono il 25 novembre ed il 2 dicembre due aumenti del prezzo della farina. Il 30 novembre la Reggenza di Rimini scrive al commissario provinciale Giuseppe Pellegrini che la situazione annonaria si rende sempre più seria, «quanto più concorrono alla nostra Piazza i Montanari per provvedersi di granaglie, che non possiamo loro somministrare per non affamare la nostra Popolazione, e che mancando loro ormai del tutto nel Monte Feltro gli hà eccitati ad arrestare tumultuariamente una pubblica Rappresentanza, e ritenerla nei maggiori stenti». Altri guai sono provocati dal mancato riparo delle condotte dei mulini nelle fosse Viserba e Patarina, per cui non si può procedere alla molitura «in loco».

Un pane speciale
per i marinai
Il 5 dicembre la Reggenza impone all’Annona la fabbricazione provvisoria di una «terza qualità» di pane ad uso esclusivo della Marineria, «fra il Bianco, ed il Bruno ad oncie 5 per bajocco». La decisione è presa in base alla constatazione di un’«estrema penuria di grano dell’Annona» e del «copioso spaccio del Pan bruno a perdita della medesima». Questo pane di «terza qualità» è migliore del «Bruno», richiede una maggior cottura, ed ha «il sale, che vi occorre uniformemente a quello che sogliono fare in casa». Esso può essere spacciato soltanto alle «Porte di S. Giuliano, e di Marina in Città».
La decisione riminese è approvata dal commissario Pellegrini che la definisce «lodevole», e che suggerisce l’opportunità di aprire uno spaccio di farina di formentone «per il Popolo tenendolo ad un prezzo possibilmente più basso di quello delle Farine di grano, onde minorare lo spaccio giornaliero di queste». La Reggenza con il commissario Pellegrini definisce provvisoria la disposizione per la fabbricazione di un «Pane casalino, e salato, atto alla navigazione» destinato ai marinai. I quali, si aggiunge, «mal volentieri si adattano a questo necessario provvedimento», essendo soliti a comprare il grano sul mercato ed a fare il pane in casa.
Nel 1801 si ha conferma della gravità della situazione. Michele Rosa pubblica un testo per illustrare il modo di rendere commestibile la ghianda. Un panettiere lo mette subito in pratica, ottenendo un prodotto che si narra aver riscosso un’entusiastica approvazione da parte della Municipalità.

Il caso
Lettimi
La situazione di carestia del 1799-1800 non è nuova. In «Una fame da morire» («il Ponte», 14.3.1999), abbiamo raccontato quella del 1765-1766. Ora accenniamo ad un’altra storia. Il 7 febbraio 1761 al Consiglio Generale di Rimini viene letto un memoriale inviato al Cardinal Legato di Romagna dal signor Alessandro Lancellotti, «Appaltatore della Farina», il quale lamenta che «si commettono infiniti Contrabandi» a suo danno. Come pubblico appaltatore, soltanto lui può vendere farina: chiunque altro lo faccia, è passibile di denuncia e condanna.
Mentre i contrabbandieri si comportano «con il miglior modo» per non essere scoperti, Lettimi «baldanzoso, e senza timore della giustizia pretende a forza contrabandare» senza esser disturbato. Lancellotti scrive che contro Lettimi si è aperta in Roma una lite giudiziaria costosa che corre il rischio di non approdare a nulla perché Lettimi «con mille racomandazioni, e prepotenze fa in modo, che non siano intese» le ragioni della parte lesa, e che non vengano rispettate «le giuste, e provvide leggi della Legazione sopra li Contraventori».
C’è qualcosa di peggio, fa osservare Lancellotti: «Ardì lo stesso Lettimi ne’ giorni passati» spedirgli un «monitorio» attraverso il Cardinal Camerlengo, «colla pretensione d’esser mantenuto in possesso di dare la farina delle sue Entrate in scomputo delle mercedi de’ suo Operarj del Filatojo». E’ una diffida di Lettimi a Lancellotti perché receda di denunciarlo: «in vigore di questo monitorio», aggiunge l’appaltatore, Lettimi «ritornò a dispensare, e vendere più di prima la farina a detti suoi Operarj». Il Bargello di Rimini accusa di contrabbando non il ribelle Lettimi, ma due operai del suo filatoio, facendoli incarcerare.

Nel Consiglio
generale
Il Consiglio generale (di cui Lettimi fa parte) se ne lava le mani. Lettimi può tranquillamente pagare i salari dell’officina serica con il grano delle sue proprietà. Il 5 febbraio 1770 Lettimi sarà promosso all’unanimità al grado di Consigliere Nobile. La decisione, spiega il verbale, è presa in considerazione delle «sovrane premure di Nostro Signore accompagnate con obbliganti generosissimi sentimenti dalla viva voce dell’Eminentissimo e Reverendissimo Signor Cardinale Borromeo nostro Legato ora presente in questa Città». I Consiglieri obbediscono: «singuli, ex rassegnatione facta unanimes, viva voce, nemine discrepante, acclamarunt fiat, fiat, fiat». Nel maggio 1772 Lettimi riesce a far nominare podestà di Coriano il proprio genero dottor Giuseppe Baldini.
Il padre di Andrea Lettimi, Claudio Almerico, davanti alla Curia Vescovile riminese era stato accusato di stupro da Elisabetta Parri. Nel 1683, Claudio ottenne «rinuncia» da Elisabetta ad ogni querela, in cambio di una dote di scudi quaranta che la donna avrebbe ricevuto soltanto al momento in cui fosse entrata nella Casa Pia di Santa Maria del Soccorso, chiamata delle «Malmaritate», nella parrocchia di San Bartolomeo. Questa era la società che piaceva al notaio e cronista Zanotti.

Antonio Montanari


1084/Riministoria-il Rimino/Antonio Montanari Nozzoli/3.7.2005