La città, il porto e i suoi lavoratori
Dalle origini ad oggi, in un libro di Alessandro Serpieri

Le quasi seicento pagine che compongono questo libro di Alessandro Serpieri («Il porto di Rimini dalle origini ad oggi. Tra storia e cronaca», Luisè 2004), riassumono una vicenda collettiva che ha per protagonisti una città, i suoi notabili, la sua gente, gli umili lavoratori ed i tecnici d’oltremarecchia, cioè forestieri che bazzicarono le nostre strade per studiare, esaminare, proporre soluzioni al secolare dramma di un fiume che inondava, di un canale che s’interrava, e dei commerci che ne soffrivano con gravi ripercussioni sull’economia locale.
Per una città di mare, l’acqua è vita non soltanto simbolicamente: è serio pericolo per tanti motivi (dalle burrasche ai pirati), è ricchezza o miseria secondo le condizioni meteorologiche ma pure per imponderabili fattori politici. Tutto questo Serpieri con il suo studio, costatogli tanti anni di ricerca appassionata, racconta con pazienza scientifica, fornendo una fonte fondamentale per esaminare, d’ora in avanti, il volto poliedrico di Rimini.

Marinai ribelli
e «sollevati»
L’avvertenza che introduce il lavoro contiene una dichiarazione d’intenti espressa da un Giorgio Vasari temporaneamente riminese (1547), secondo cui il racconto storico deve riguardare «i consigli, i partiti e i maneggi degli uomini, cagione poi delle felici o infelici azioni» (p. 5). E presenta una prima, sintomatica affermazione: l’anonimo manoscritto conservato presso il nostro Archivio di Stato con sigla «AP [Atti pubblici] 1245» secondo Serpieri è di mano di Serafino Calindri, «uno dei protagonisti delle vicende del porto nel Settecento».
Quella di Calindri è una situazione esemplare. Un perugino sbarcato a Rimini per sanare il porto, deve affrontare un partito locale che gli è contrario. Alla fine, come vedremo, è costretto a fuggire a Pesaro da una sollevazione di marinai dietro la quale si cela une ben precisa organizzazione politica che Serpieri documenta attentamente (p. 234). Insomma è una specie di giallo politico che a parer mio serve pure per interpretare, oltre al clima di quel momento, anche aspetti della realtà locale apparsi soltanto negli anni successivi (che il nostro autore esamina nel capitolo significativamente intitolato «I portolotti»).

Il mondo
portolotto

Appunto, i portolotti:ma chi erano costoro? Tutti quanti gravitavano attorno al canale ed alle attività connesse. Nella storiografia tradizionale cittadina, essi sono stati oggetto spesso di un’attenzione più casuale che specifica. Serpieri imbastisce invece un percorso che, partendo da fondamentali studi di Maria Lucia De Nicolò, delinea i tratti principali di una situazione che assume precisi connotati politici. L’episodio più clamoroso, e nel contempo simbolico, è quella «repubblica portolotta» del 1799, quando la marineria riminese dimostra tutta la rabbia accumulata in molti decenni di sofferenze. Prima mette in fuga i soldati francesi dopo l’arrivo degli austriaci. Poi, seguìta dai «villani» dei dintorni, organizza una sommossa lunga e violenta che subentra alle devastazioni, alle prepotenze, agli abusi dei napoleonici. I ripetuti e severi proclami degli austriaci, lasciano il tempo che trovano. Dal 30 maggio 1799 al 13 gennaio 1800, la Municipalità riminese vive una crisi istituzionale che non è una insorgenza a favore del Papato. Gli umori popolari sono ben riassunti da un sonetto anonimo in cui Roma è definita «infame», e si inneggia agli austriaci. I quali innalzano le insegne, care ai reazionari, dell’aquila imperiale e dell’«amore della Santa Fede».

Saccheggi
e assalti

I rivoltosi saccheggiano le botteghe degli Ebrei, assaltano il Palazzo pubblico dove rubano «tutto quello che vi era» dopo aver «rotto ogni cosa». Arrestano, incarcerano, mandano in esilio. Entrati nella Guardia Civica, i marinai fanno da pompieri e da incendiari. Il loro comandante Lorenzo Garampi ne approfitta per tentare di dominare sulla città, favorito dal fatto che agli austriaci sfugge il controllo di una situazione in continuo fermento. I marinai tentano di sistemare anche Lorenzo Garampi che per salvarsi, il 27 agosto in cattedrale (allora in Sant’Agostino) durante una «sanguinosa zuffa», è costretto a rifugiarsi sul campanile.
Per tutto il Settecento i «Poveri Pescatori» tentano di migliorare le loro condizioni. A Roma trovano più ascolto che a Rimini, dove negano la loro miseria in base a due argomenti: essi si costruiscono case, e le loro mogli vanno «come tutto dì si vedono, tanto pompose». Nella seconda metà di quel secolo, osserva Serpieri, «la costruzione di imbarcazioni per il fabbisogno locale ed estero rappresentava, insieme alla trattura della seta, una vetreria, la concia delle pelli ed una ‘fabbrica di volti da maschera ad uso di Venezia’, una delle poche industrie riminesi». Il pesce era esportato sino a Bologna ed a Livorno. Tra 1749 e 1773 «la consistenza numerica della flottiglia peschereccia riminese si mantiene sostanzialmente stabile, oscillando tra le 40 e le 50 unità».

L’anello
debole

Nella catena delle forze sociali che vivono all’interno dell’«antico regime», la «classe marinara» costituisce l’anello più debole. Essa però è ugualmente temuta, come ricaviamo da una lettera del 14 luglio 1796 (dopo l’apparire dei soldati francesi in Romagna), in cui la Municipalità scrive al Legato, che questa «classe marinara» è non soltanto «numerosa», ma anche «poco docile». E «poco docile» essa si è già dimostrata il 26 aprile 1768, organizzando «un terribile tumulto» contro il ricordato Serafino Calindri ed il suo progetto di espurgazione del canale. Calindri se n’era andato da Rimini temendo che un bandito, il «noto Brugiaferro», fosse stato assoldato per toglierlo dalla circolazione, allo scopo di favorire il prolungamento dei moli proposto dal medico Giovanni Bianchi (Iano Planco, 1693-1775), nume tutelare della cultura e della scienza riminese.
Sono questi gli anni in cui padre Boscovich definisce il porto «massima risorsa» della nostra città. Ma «poco docile» la classe marinara appare anche nelle questioni che oggi chiameremmo sindacali, quando si tratta di difendere i diritti dei lavoratori nei confronti dei «Padroni» delle barche che, ad esempio, somministravano ai loro marinai cattivo vitto e «vino corrotto». «Padroni» sono detti non i proprietari, ma i «Conduttori» della barche. Non sempre i «Padroni» ne sono anche i proprietari. Ad investire nell’ambiente del porto, oltre ai commercianti, figurano pure nobili cittadini che «impiegano vistose somme di denaro in crediti, cambi marittimi e nell’acquisto di barche».
Il «Padrone» nell’ingaggiare i marinai della sua ciurma deve rispettare alcune regole che la Municipalità ha imposto nel 1745 con i «Capitoli del Porto», seguendo l’«inveterato stile» comunemente osservato. Essi sono una specie di contratto collettivo di lavoro ‘ante litteram’.
La nascita e lo sviluppo dell’imprenditoria balneare ottocentesca danneggiano le attività portuali per le quali mancano i necessari investimenti. Ne deriva una crisi che avrà forte ripercussione su tutta l’economia cittadina. Attorno al 1861 più di diecimila persone vivono delle industrie e delle occupazioni marinare. Erano state circa duemila nel 1791. Sulle tremila persone restano fra 1796 e 1835 quando la cessazione dei commerci e la scarsità di pesce portano alla disperazione quella «gente buona sì, ma rozza, impetuosa» (come la stessa marineria allora si definisce scrivendo alla Segreteria di Stato). Nel 1816 c’è un’insurrezione dei naviganti, dotati di artiglieria e di armi leggere per combattere i pirati. Nel 1843 la «classe infelice» e «numerosa de’ Marinai, e Calafati non che Commercianti» si dichiara costituire «una quarta parte» della popolazione riminese. Nel 1856, come documenta il gonfaloniere, l’attività portuale è «l’unico mezzo di alimento» per «più di cinque mila persone dedite specialmente ai negozi marittimi d’ogni specie».

Antonio Montanari


1062/Riministoria-il Rimino/Antonio Montanari Nozzoli/14.05.2005