Raffaello Baldini

Raffaello Baldini, scomparso a Milano il 28 marzo 2005, ha lasciato una traccia incancellabile come scrittore e poeta nel panorama della grande letteratura italiana.
Per festeggiare i suoi ottanta anni il paese natìo, Santarcangelo di Romagna, lo aveva invitato lo scorso novembre. E lui, nella cerimonia pubblica, aveva letto una lunga lirica che resta come testamento spirituale. S’intitola «Un zirèin», un cerino.
Racconta d’una serata d’inverno, con il gelo e le pozzanghere ed un buio che non fa vedere nulla. Il viandante accende l’ultimo cerino che aveva in tasca, ma il vento glielo spegne («Pòrca! U s’è smòrt, a l’éva ’péna zàis»).
Cammina e cammina in quel buio, e pensa che non gli era mai successo prima di restare senza cerini in tasca. Ma stavolta sente che è diverso.
Cammina e cammina, «par un ziréin, e a n’arév mai». Stavolta è diverso. La luce è svanita. C’è sempre una volta in cui la luce si spegne, nella vita.
Baldini ha trasformato il dialetto da sottospecie letteraria a strumento pienamente degno d’entrare nelle sacre stanze della Poesia, intesa non come occasione per narrare temi scherzosi e ridicoli, ma quale modulo espressivo di umori nati dal basso e nel vivere quotidiano, per diventare alla fine la sintesi di un pensiero simbolico, e quindi filosofico, come nel Leopardi del «Canto notturno», con il pastore che s’interroga sulla comune condizione esistenziale.
I suoi personaggi, gente qualsiasi, non sono bizzarri o folli per suscitare ilarità e risa.
Sono la dimostrazione del teorema che bizzarria e follia abitano in ognuno di noi, per cui anche la persona più semplice e meno acculturata può salire sul palcoscenico, anzi in cattedra, e dire, spiegare, insegnare qualcosa di profondamente vero, nella sincerità di parole che non conoscono il filtro dell’educazione letteraria (la quale maschera o censura), e nell’immediatezza ruvida di chi parla come mangia, e fa scoprire lucidamente il percorso della lacrima.
Una lacrima che non scende dall’occhio, ma dal cervello arriva al cuore per risalire poi al cervello, per farci vedere e capire.

Ha scritto Patrizia Valduga («la Repubblica», 30 marzo 2005) che «si può usare il dialetto come lingua per la poesia, e dire in dialetto quello che si potrebbe benissimo dire in italiano, e così mettere su una sorta di nuova Arcadia. Ma si può usare il dialetto come lingua della poesia e dare parola a chi non l’ha mai avuta e conferire a questa parola lo spessore espressivo che ha la lingua scritta».

La lingua di Baldini, ha osservato Franco Brevini sul «Corriere della Sera» (30 marzo 2005), non è quella «che più non si sa di pascoliana memoria, ma quella che effettivamente si parla, anzi che si chiacchiera ogni giorno, resa con impressionanti effetti di iperrealismo». (Significativo il titolo dell’articolo di Brevini: «Baldini, il suo dialetto passaporto per il mondo».) Secondo Brevini, «Baldini è stato il poeta italiano più importante a cavallo del millennio».

Infine, su «La Stampa» (30 marzo 2005), Gian Luigi Beccaria ha spiegato che l’ideale «paese» costruito da Baldini con la sua poesia non è il luogo della nostalgia in cui riconoscersi o rifugiarsi, «bensì il punto in cui dilagano follia, nevrosi», le malattie urbane. E che la poesia di Baldini è stata quella «di assenti, di solitari, di introversi, di personaggi stralunati, maniacali, spesso comici», una poesia sempre mossasi «su temi dell’incubo, della dismisura, della stravaganza, delle imprese insensate».

Antonio Montanari


1038/Riministoria-il Rimino/Antonio Montanari Nozzoli/Date created: 30.03.2005