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il Rimino - Riministoria

Asini elogiati e cani celebrati
Giuochi letterari degli eruditi riminesi del 1700





Probabilmente oggi della «vergine cuccia» di Giuseppe Parini resta traccia soltanto nelle parole crociate. Un tempo era lettura scolastica obbligatoria. Chi ha in casa qualche studente dell’ultimo anno delle Superiori tenti una prova, e butti là la domanda se quel celebre passo dell’autore del «Giorno» circoli ancora sul finire della classe precedente.
La cagnolina pariniana rimane famosa non soltanto per il morso dato «giovenilmente vezzeggiando» al piede «villan del servo», ma soprattutto per la vergognosa reazione di quest’ultimo che scalciando «audacemente con sacrilego piè lanciolla». La padrona null’altro poté fare che scacciare quell’uomo che aveva in casa da vent’anni, e che si era macchiato di tanto delitto. Il servo, con la sua famiglia ridotta alla fame, non trovò più lavoro perché «le pietose dame» inorridirono apprendendo del suo empio gesto. Si ridusse a chiedere elemosina sulla strada, mentre la povera «vergine cuccia», placata dalle «vittime umane» a lei sacrificate, poté andarsene tutta «superba».
Siamo all’inizio della seconda metà del Settecento lombardo. Anche a Rimini, in quegli anni, i nostri eruditi parlano di animali divertendosi con serietà, e giocando a far finta che non si trattasse soltanto di scherzi o di poesie futili. Un esempio proveniva loro dal secolo precedente. Nel 1691 appare a Rimini un volume di Giuseppe Malatesta Garuffi che raccoglie le lapidi presenti in chiese, case e monumenti della città, la «Lucerna lapidaria». Qui si ricorda che all’esterno del palazzo Marcheselli nel sobborgo di San Giuliano, c’era un sepolcro con questa iscrizione: «Al Cagnoletto Belmontin qui diede / La sua mesta Signora Urna non vile / In premio di suo impegno, e di sua fede».

Il mirabile bracco
di Battarra
Ispirandosi a questo esempio, nel 1752 il filosofo e naturalista Giovanni Antonio Battarra eresse una statua al suo bracchetto Orione, collocata sopra un imponente piedistallo. Per la morte del cane, Battarra compose un elogio che ne esaltava la fedeltà al padrone ed alla casa, e ne ricordava le caratteristiche di affabilità che l’avevano fatto universalmente apprezzare. Sul piedistallo si leggeva un epi-taffio in latino, in cui così si descriveva l'animale: «Mirabile per fe-deltà e co-stumi, sgraziato di corpo ma caro al padrone e agli amici, sagace nella caccia, lepri oche quaglie ed altri uccelli lo deri-sero».
Era una piccola lezione: anche il «brutto» può apparire «bello». Il margine di confine tra lo scherzo e la satira di costume è sempre ristretto, ma diminuisce soprattutto in un personaggio bizzarro come Battarra, la cui vena di stravaganza finisce per mascherarsi in un giuoco serio che può insegnare qualcosa. Dei riminesi aveva scritto: «Nel mondo credo che non vi sia Città così maledetta come questa nel persegui-tare e calunniare i Pae-sani». Carlo Tonini lo giudicò di «indole sdegnosa e cinica» perché «a niuno la risparmiava senza rigu-ardo». Anche quell’elogio del suo cane «mirabile per fe-deltà e co-stumi», poteva apparire una non casuale censura diretta ai contemporanei fra i quali era stato dal destino costretto a vivere.
Della morte di Orione fu data notizia a tutti i dotti d’Italia attraverso un articolo che il medico riminese Giovanni Bianchi (Iano Planco) pubblicò il primo settembre 1752 sulle «Novelle letterarie» di Firenze. La sua nota parte da lontano (geograficamente, rispetto a Rimini), cioè proprio da Firenze per giustificare il contenuto di quello scritto. A San Felice a Ema, osserva Bianchi come premessa, è stato trovato un epitaffio ad un cane in versi greci. Per un cane i fiorentini nel 1222 dettero aspra battaglia e sanguinosa rotta ai Pisani. Un ambasciatore veneto a Firenze, Carlo Cappello, pose un monumento al suo cavallo che era stato portato via dall’inondazione del 1740. A Palazzo Pitti si conservava un bassorilievo dedicato ad una mula, con tanto di versi latini per ricordare le fatiche sopportate dalla povera bestia nel quotidiano e duro lavoro. Nulla di strano, dunque, che Battarra (allora pubblico professore di Filosofia a Rimini), avesse edificato quel piedistallo con statua e dedica ad Orione. E che il 24 di giugno, in lode del bracco morto pochi giorni prima, avesse recitato un’erudita orazione in un’accademia tenutasi nel «giardino de’ cervi», al borgo di San Giuliano, dove si ritrova la citata iscrizione riferita dal Garuffi.

E Barbariccia
di Planco
Il dottor Bianchi approfitta dell’occasione per ricordare che anche lui ha avuto un cane molto amato, di nome Barbariccia, bello ed ingegnoso, «che in tutta la sua vita confermò mirabilmente colle sue spiritose e sagaci azioni quanto avea insegnato il dotto Magalotti coll’erudite sue Lettere». Lorenzo Magalotti (1637-1712), spiega Bianchi, è stato sempre difensore dell’intelligenza degli animali «che noi altri, per un atto degno dell’umana superbia, chiamiamo bruti ed irragionevoli». Pure Barbariccia, il più solerte dei cani, si meritò un’iscrizione da parte del suo padrone che ne rimpiangeva fedeltà e gaiezza. Nella scelta del nome, Bianchi fu guidato dai ricordi letterari. Barbariccia è uno dei diavoli della quinta bolgia, quello che guida la schiera dei dieci che accompagnano Virgilio e Dante (Inferno, XX, v. 120), e che dà loro ordine di marcia con il rumore della «trombetta» (v. 138), che lo rese famoso.
A proposito di ricordi letterari. Come si legge nella recente e bella biografia di Leon Battista Alberti, curata da Anthony Grafton, anche il progettista del nostro Tempio «scrisse un’orazione funebre in occasione della morte del suo splendido cane» (p. 25), secondo quanto scritto nel 1990 da Michael Baxandall.

La nobiltà
dell’asino
L’articolo fiorentino su Battarra parla poi del dottor Lorenzo Santini di Savignano (che per sei anni aveva frequentato la scuola privata di Bianchi, dimostrandosi superiore a tutti gli altri alunni). Santini «credendosi dileggiato da alcuni in Rimino, dove esercitava la Medicina, per esser nativo di un paese, dove si trovano molti buoni Asini, recitò verso la fine di Aprile dell’anno presente una sua molto lunga, ed erudita orazione sopra la nobiltà dell’Asino». Pochi giorni dopo il dottor Santini muore. I conoscenti attribuiscono perfidamente il decesso all’eccessivo impegno per comporre quel testo. Un corrispondente di Bianchi (Francesco Legni) gli scrive: credo che Santini sia morto per aver esagerato nel nobilitare gli asini, a meno che non abbia voluto alludere ai suoi seguaci per elogiarli trasversalmente, «instillando loro di più maggior fervore di premere le vestigia d'un così nobile soggetto».
Sullo stesso tono è il commento che Bianchi pubblica nelle «Novelle»: Santini «e perché s’era affaticato molto nel comporre, e nel recitare, questa sua enfatica, e paradossica, orazione, essendo egli anche tisicuzzo, e tristanzuolo della persona anzi che nò; e per aver anche riscosso poco applauso da questa sua fatica, poco dopo d’un male s’infermò, e su’ primi dì di maggio si morì. Per la qual cosa questi animali, se fossero capaci, dovrebbero professargli perpetue obbligazioni, ed inalzargli un Mausoleo, giacché un raro esempio per la gloria loro s’è morto». Sembra di leggere quel Boccaccio che il giovane Bianchi aveva imitato componendo novelle licenziose che inviava a certi amici lontani, con l’ordine di bruciarle dopo la lettura. Di queste novelle boccaccevoli Bianchi conservò le brutte copie, se nel 1758 le trascrisse per il marchese Romualdo de Sterlich di Chieti, da dove mi dà questa notizia lo storico prof. Giuseppe Francesco de Tiberiis.

Gli asini
in maschera
A proposito di savignanesi. Nell’autobiografia, Battarra ricorda che per aver posto sullo zoccolo del monumento ad Orione l’espressione «Sabinianensium Aeternitati» («Ad eterna memoria dei Savignanesi»), dovette subire la loro vendetta nel successivo carnevale. Egli, che era stato docente di Filosofia nel loro piccolo paese, si accompagna per l’occasione ad un gruppo di nobili concittadini: «quando fummo là i Signori Recitanti fecero sapere alla mia Compagnia che non mi volevano». Nessuno degli amici difende Battarra che se ne ritorna a Rimini, chiamandosi «più offeso della minchionaggine della mia Compagnia di Babuassi che da quella de Savignanesi» («e fra la mia Compagnia di dame e Cavaglieri del buco del Culonon vi fu chi se ne recasse pensiero di far smontare costoro dalla loro presunzione», c. 15r della sua Autobiografia, SC-MS 412, Biblioteca Gambalunghiana, Rimini).
Ad un «Asino in maschera» s’ispirò Aurelio Bertòla per una delle sue celebri favolette in versi. L’animale volendo stima e rispetto dagli altri «in gran manto si serrò», ricevendo l’inchino delle bestie al pascolo. Tutto contento va a specchiarsi al fonte: «Ma sventura! Non contenne / Il suo giubilo, e ragliò», per cui fu smascherato, offrendo al poeta il modo di trarne questa morale: «Tu che base del tuo merto / Veste splendida sol fai, / Taci ognor, se no scoverto / Come l’Asino sarai». Fra le stesse favolette Bertòla ne presenta una intitolata «I due cagnolini», ritratto di quella società che lui riprende ma a cui appartiene a pieno titolo. Geloso delle effusioni che un corteggiatore indirizza alla padrona, uno dei due cagnolini abbaia ed è punito da «percosse replicate». Ma perché mai, si chiede, quando l’altro ieri ho morso il marito, la medesima signora mi ha dato «quattro fresche ciambellette»? L’altro cagnolino gli spiega: «Passi i giorni fra le gonne, / Né conosci ancor le donne? / Can che aspiri alle dolcezze / De’ bocconi più squisiti, / Agli amanti fa carezze, / E non morde che i mariti».

I gatti di Visconti
e Zeffirelli
A proposito di cani. Bertòla, all’epoca della dominazione francese, fu un rivoluziona-rio pacifico, non quel giacobino agitato che una tradizione infondata accredita. L’unica battaglia da lui combattuta, fu appunto quella con un cane che, su sua richiesta, il cittadino Daniele Felici dell’Amministrazione Centrale dell’Emilia gli aveva fornito nell’agosto 1797, quale «fedel compagno del giorno come terribile sentinella notturna». Appena ricevuto il dono, Bertòla con una comunicazione ufficiale allo stesso Felici, rinunciava però all’animale che gli aveva «fatto temer di tal guerra da non finir così presto e da esser soggetto di po-emi e di poesie». Una guerra, aggiun-geva, «per cui non siam nati». L’episodio dimostra che spesso gli uomini comprendono meglio loro stessi attraverso il rapporto che stabiliscono con gli animali (i quali sempre possono insegnare qualcosa ai padroni).
E sempre a proposito di amore per gli animali (e ricordando la «vergine cuccia»), sul «Corriere della Sera» del 9 dicembre 2003 Franco Zeffirelli era descritto mentre passeggiava «in giardino attorno al monumento al cane, dono di Luchino Visconti», e confidava: «Luchino Visconti. Comunista lui? Io l’ho visto licenziare in tronco un cameriere e una cameriera che avevano dimenticato di pettinare i suoi gatti persiani. Intendiamoci: fece benissimo». Così parlò Zeffirelli. Come una delle «pietose dame» pariniane.

Antonio Montanari


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887/Riministoria-il Rimino/20.12.2003
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