il Rimino - Riministoria
Guido Nozzoli ricordato da Sergio Zavoli

Da Il Resto del Carlino 22 Aprile 2003

Le storie di Zavoli: il perché di una celebrazione

25 aprile, al di là delle ideologie.

Uniti in nome delle identità

di Sergio Zavoli

In un mondo che guarda tutto all'Iraq - ora con i problemi della pace persino più difficili di quelli della guerra - il nostro "25 aprile" rischia d'essere vissuto come un evento remoto e solitario, che non appartiene più ai nostri ideali, alla nostra coscienza, alla nostra stessa attualità. Siamo così presi e affaccendati nel presente che le "storie" finite sui calendari, nei compendi scolastici, nella memoria istituzionale hanno un sentore di lontananza, come se le avesse per paradosso, il vento stesso della Storia; quasi che quella data, il 25 aprile del '45, non avesse partecipato a segnare la rinascita della nostra identità di Nazione, e non ci fosse più bisogno di un sentimento, alto e comune, per farci riconoscere nel corso ritrovato della democrazia - fondata sull'eredità di prove sofferte e superate - dove potersi tutti ritrovare in un sentimento di patria comune.

Ogni cosa ha il suo tempo per vivere e per estinguersi: capirne il senso, sapersene congedare senza annullarne il valore ideale e simbolico, richiede un'intelligente, serena maturità. La quale significhi vivere in pace, senza fronti aggrottate e amnesie, quel bene che è la tolleranza delle idee e delle fedi altrui; finché, beninteso, esse non compromettano la libertà di ciascuno e di tutti.

Tutto questo ha fatto un grande passo avanti sui gradini dell'Altare della Patria, saliti insieme, in occasione del "cinquantenario", da uomini rappresentativi di due storie divise e parallele: della Repubblica sociale e della Resistenza. Siamo, è vero, un Paese indurito da separazioni, lotte intestine, rivalità e persino risentimenti secolari, ma proprio per questo non così privo di consapevolezza da credere che a una società libera, e decisa a conservarsi tale, convenga dimenticare le ragioni, le sofferenze e il sangue di una guerra che è costata 52 milioni di croci per riavere la libertà.

Ciò esige, tuttavia, il non restare prigionieri delle contrapposizioni ideologiche, sordi e ciechi come se il mondo non fosse completamente cambiato e non si dovesse comporre una controversia i cui caratteri anche culturali sono mutati; pur restando fermo che questo non significa volere l'ipocrita, se non cinica, equiparazione di ogni idea e fede - reclamata in nome dell'uguale valore del sangue versato al di qua e al di là del necessario confine tra una causa giusta e una sbagliata - bensì richiamarsi, con una lettura anche cristiana della Storia, al suo non poter smettere di giudicare, seppure senza lasciarci nella separatezza e nel rancore. C'è nella vita di una collettività un passato che non è mai passato del tutto. A meno che, dice Borges, non ci si arrenda a vivere senza ricordi, fino a una sorta di "amnesia finale" che cancella tutta l'identità precedente, rassegnandoci quindi all'abolizione, di volta in volta, della vita e dell'esperienza dei padri.

Come se dietro non avessimo nulla all'infuori di una nascita e di una crescita biologica: neutrale, spaesata, senza una fonte cui attingere la nostra storia comune, oltre che individuale. Ecco perché bisogna far durare il ricordo: non quello iroso, di chi si lascia imprigionare dall'ideologia, né quello di chi, per un bisogno di comoda equidistanza, fa tutt'uno di tutto, rinunciando da subito agli ideali e ai lasciti del passato per inoltrarsi, indenne come un sonnambulo, nella, sua e nella vita degli altri. Così, al venire di ogni 25 di aprile, rivado a una "storia" che aveva davvero la natura per durare al di là dell'ideologia, della divisione e dell'intolleranza.

LIBERTA' - Lungo i canali, fra i canneti, dentro le pinete: i partigiani combattevano in nome della libertà

Il passato non è mai passato

Capirne il senso richiede maturità

Credo che a molti lettori, specialmente giovani, riuscirà nuova una mia lontana trasmissione televisiva ambientata nei luoghi e tra le persone che furono al centro della famosa "Armata delle valli", nella guerra combattuta lungo i canali, tra i canneti, dentro le pinete, nelle capanne di frodo dell'alto ravennate. Non fu, e non lo è oggi, una celebrazione; anzi, ancora mi sorprende l'aver ascoltato un modo così sobrio, equanime, intelligente, quasi interiore, di raccontare un'epopea. Ecco alcuni brevi stralci di quegli incontri, cominciando da "Bruno", il nome di battaglia del comandante, Pietro Gaudenzi.-

Ha qualche nostalgia delle Valli?

"No, perché ci fu di mezzo la guerra. E poi perché penso che i giovani, oggi, abbiano molte più cose da dare alla società. Quello delle Valli, però, è un ricordo che rimane! Era in gioco qualcosa di fondamentale per tutti: la libertà. Resta il periodo più drammatico, e impensabile, della nostra vita. Le faccio il mio esempio: da birocciaio a commissario di una formazione partigiana, con tutta quella responsabilità, e poi sindaco di una città, addirittura di Ravenna! E' stato un percorso enorme, che ha richiesto un grande sforzo mentale e fisico..." -

Ha richiesto umiltà, e forse anche orgoglio...

"L'umiltà veniva dalla natura stessa di un uomo che non aveva mai frequentato la scuola e che a un certo momento si trovava a dover dirigere altri uomini, e poi un'intera città piena di macerie. Questo produce anche un po' di orgoglio, è vero. E poi, sa, Ravenna non è mica una città qualunque!"

A un altro domandai: c'erano, durante la guerra, molte cose da salvare...

"Ero stato per due anni alla biblioteca, facevo il distributore dei libri, un compito non particolarmente difficile! A me interessava che fosse salvato il patrimonio culturale e artistico di Ravenna, soprattutto la biblioteca, ma mi resi conto che anche gli operai, i braccianti, i contadini avevano qualcosa da salvare, ed era la terra che avevano redenta dalla palude.

Fu un incontro importante, decisivo per la mia vita: perché capii che la cultura non è soltanto libri. Vede, io ero qui, proprio qui dov'è il cavalletto della cinepresa, durante quella che poi hanno chiamato la "battaglia di Ravenna". Avevo il compito di comandare un reparto stanziato dove stiamo adesso: una sera venni per controllarlo e vidi una parte dei miei ragazzi sdraiati per terra - pensi, era dicembre - accanto al capanno di Garibaldi. Erano giorni che non dormivano. Quando domandai perché non erano entrati, mi risposero dicendo che sembrava una profanazione: "Questo è il capanno dove è stato Garibaldi - mi dissero - dove Anita è morta tra le sue braccia!". E io dovetti dir loro che, tutto sommato, la nostra era pur sempre una Brigata Garibaldi..."

Poi fu la volta del terzo testimone:-

Lei ha un nome di battaglia allarmante: Uragano. Eppure, se non sbaglio, ha salvato la Basilica di Sant'Apollinare in Classe...

"Una sera il Comando Alleato decise di bombardare la Basilica perché aveva delle segnalazioni che sopra il campanile c'erano delle spie naziste che davano in codice i nostri spostamenti. Io, che quattro anni prima ero stato nella chiesa con degli operai a fare l'impalcatura per conservare il mosaico, ho pensato: beh', se ci hanno fatto fare quel lavoro, vuol dire che è una cosa importante. Cerchiamo allora di salvarla. Sono andato dal comandante e gli ho detto: "Noi questa notte facciamo una pattuglia, andiamo dentro la Basilica e vediamo cosa c'è". Siamo andati, abbiamo preso i due tedeschi che spiavano e li abbiamo portati al Comando. Il giorno dopo siamo tornati nella Basilica, l'abbiamo occupata, e così è stata salva con tutto quello che c'è dentro. Abbiamo pensato che era una cosa ben fatta... insomma!"-

Il suo vero nome è Ateo. E ha salvato una chiesa. Buffo, no?

"Boh... non saprei cosa dirle... "-

E poi, comandante, "addio alle armi"..."

"Si. Tutti a casa. A ricominciare a vivere, a lavorare, a educare i figli, a ricostruire molte delle nostre case. A riprendere, insomma, la vita normale. Per dimenticare non quella nostra piccola storia, ma gli orrori, per tutti, della guerra... che non dovremmo vedere mai più".

*****

Da un bel libro di Guido Nozzoli, grande inviato de Il Giorno e storico tra i più fedeli di quella "piccola storia", traggo le parole finali: "Adesso i ragazzi si allontanano a gruppi con il berretto in tasca e il giubbotto sulla spalla, come braccianti che tornano dalla mietitura o studenti appena usciti da scuola. Vanno verso la Statale 16, la strada della guerra ridiventata la strada di casa. Si avviano verso il nuovo fronte assegnato alla brigata, quello della pace, che si snoda di casa in casa".

Sergio Zavoli


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