il Rimino - Riministoria
Anfiteatro, «un monumento da redimere»
Attualità di un saggio di Aurigemma del 1933

Un antico (1933) e breve saggio di Salvatore Aurigemma sull'Anfiteatro romano di Rimini, è riproposto da Ghigi editore in un piccolo volume che reca la preziosa presentazione di Martina Faedi. I nostri lettori conoscono già la sua firma e la qualità dei suoi studi, grazie agli articoli che va presentando su «Il Ponte», ricavati dalla propria tesi di laurea in Archeologia.
Martina Faedi ripercorre qui, con la consueta lucidità e documentazione, la storia moderna dell'Anfiteatro, partendo dalla fine del XV secolo quando s'incontra in un documento notarile (1486) la prima menzione di quei resti romani, detti allora «Le Tane».
L'Anfiteatro, uno dei tre grandi simboli cittadini dell'età antica assieme ad Arco e Ponte, rappresenta allegoricamente qualcosa anche per le vicende del 1900. Cito soltanto pochi elementi, per lasciare al lettore il gusto di leggere direttamente le pagine della nostra studiosa.
Nel 1926, Salvatore Aurigemma, Soprintendente alle Antichità dell'Emilia Romagna, inizia una campagna archeologica che fa seguito a quelle ottocentesche e che prosegue nel 1930, con l'intenzione (ricollegabile al culto fascista della «romanità») di «riportare il da sempre bistrattato e dimenticato anfiteatro romano alla dignità e alla maestosità» degli altri due monumenti cittadini. Nel 1932 «il Comune decise lo splateamento ed il livellamento generale dell'antica area», con lavori che iniziano due anni dopo.
Nel 1935 Aurigemma scrive al Podestà che l'area degli scavi era diventata un campo da gioco per i ragazzi e, secondo voci circolanti a Rimini, anche luogo di esercitazione per i militari della caserma d'artiglieria di via Castelfidardo.
Saltiamo al dopoguerra, quando anche per l'Anfiteatro si censiscono danni causati dalle bombe alleate, e quando, come scrive Martina Faedi, «la situazione, se possibile, peggiorò ulteriormente». Parte dell'area fu poi ceduta all'«Asilo Svizzero», mentre il resto è una comoda discarica pubblica, nonostante i divieti comunali.
Gli interventi succeddutisi fino al 1963 e i restauri degli anni Ottanta, per quanto benemeriti, hanno lasciato invariata una situazione critica, se non drammatica, sino alla fine di quelli Novanta, quando l'area archeologica è stata aperta al pubblico.
Aurigemma, nel suo articolo apparso sulle «Vie d'Italia» (rivista gloriosa del Touring Club), definiva l'Anfiteatro un «monumento da redimere». E così concludeva: «Rimini possiede la sua ridentissima spiaggia e i suoi gloriosi monumenti. Un tale patrimonio, mentre è gloria e fortuna, è anche impegno d'onore». Le sue parole valgono anche per l'oggi. Come osserva in fondo al suo saggio Martina Faedi, l'area dell'Anfiteatro ha «grandissimo valore» e, «se curata bene, potrebbe portare ulteriore lustro» alla nostra città.

Antonio Montanari


Sul nostro sito, dal 14 settembre 1999 è presente questa pagina che è uno «Speciale Anfiteatro». Per comodità, la riproduciamo integralmente.


Anfiteatro/Rimini "vetrina" di Roma

Rimini era la "vetrina" di Roma. Come prima città del territorio italiano, appena varcato quel confine che non si sa dove fosse (ogni fiumiciattolo può essere stato benissimo il "Rubicone degli antichi"...), essa aveva il compito di offrire l'immagine grandiosa dello Stato di cui faceva la sentinella. Era stata fondata in età repubblicana come base militare per conquistare la Valle Padana, ed era diventata un'importante roccaforte non solo militare ma pure commerciale. Questo suo ruolo spingeva il governo in epoca imperiale ed anche i suoi abitanti, a trattare la città in una maniera particolare: il primo colpo d'occhio era quello che contava (diversamente da oggi, che chi entra a Rimini dalla via Emilia resta spaventato dall'incuria del 'paesaggio' e dalla sporcizia nelle strade).
Da questo ruolo dell'antica Ariminum come "vetrina" di Roma, è partita Maria Grazia Maioli, archeologo-direttore presso la Soprintendenza archeologica dell'Emilia Romagna, nella sua esposizione, dotta, lineare ed avvincente, per parlare di Rimini dalle origini al primo secolo dopo Cristo, in una serata speciale (intitolata "Antico Presente" ed organizzata dalla Civica Biblioteca Gambalunghiana), alla quale ha partecipato anche la prof. Eva Cantarella docente di Diritto Romano all'Università di Milano. Autrice di numerosi studi specialistici e divulgativi, la prof. Cantarella ha trattato di Pompei per illustrare anche la vita culturale e politica della società latina.
La manifestazione, svoltasi giovedì 19 agosto 1999 all'antico anfiteatro, ha avuto un grande successo: i posti a sedere si sono presto esauriti e chi è arrivato in perfetto orario ha avuto a sua disposizione soltanto i ruderi od il prato. Per il prossimo anno, ha detto nella presentazione Marcello Di Bella, direttore della Gambalunghiana, si provvederà alla costruzione di tribune che permettano lo svolgersi di manifestazioni con maggiore capienza.
L'anfiteatro, edificato nel II sec., ha spiegato Maria Grazia Maioli, ospitava in genere lo scontro dei gladiatori; e proprio una statuetta locale, raffigurante uno di quegli 'atleti', sarà esposta in una prossima mostra dedicata a questa costruzione riminese, una delle poche esistenti nella nostra regione.
Anche questo particolare testimonia sulle caratteristiche della città, abitata da gente ricca, capace di spendere un occhio per abbellire le proprie abitazioni, come l'intarsio su lastra di vetro importato forse dalla Siria, scoperto nello scavo di piazza Ferrari e mostrato in assoluta anteprima, che aveva un valore superiore all'intera casa.
Questo scavo ha portato alla luce degli attrezzi chirurgici, perciò si è parlato di una "domus del chirurgo". Ma sarebbe più esatto chiamarla del farmacista, perché pare che nell'edificio (del II/III secolo) si vendessero anche medicine: ed allora come oggi non c'era soltanto la farmacopea ufficiale, ma si preparavano pure intrugli sottobanco da offrire a caro prezzo, come certi afrodisiaci il cui uso potrebbe gettare qualche ombra sui vitelloni nostrani dell'epoca, uomini 'in carriera' forse stressati dai troppi affari e dal desiderio di guadagno.
Allora, al tempo dell'anfiteatro e del chirurgo o farmacista che fosse, Rimini non era una città di mare; l'acqua c'era, lì vicino dove adesso sorge la stazione, ma non c'era la spiaggia. Non luogo di villeggiatura, dunque, ma sede di coloni, alle origini la città ed il suo territorio subirono uno sfruttamento intensivo: soltanto con Augusto, essa assume quel volto austero, monumentale che oggi resta documentato dall'arco che costituiva la porta meridionale, mentre a nord sorgerà il ponte di Tiberio che completa l'immagine politica di Ariminum.
Maria Grazia Maioli ha ricordato poi che attorno all'arco sorgono due importanti siti. Nella zona a mare sembra trattarsi di un impianto termale; in quella a monte, a suo parere, doveva trovarsi una grande casa privata. Tra queste ipotesi e tanta passione, il lavoro archeologico procede per restituirci un'idea sempre più completa del passato.
La duplice conferenza dell'anfiteatro, prima manifestazione culturale dopo l'"inaugurazione" musicale di un anno fa, ha raccontato come si viveva nell'Italia di Roma, prima e dopo Cesare, e nella nostra città, tra fatiche d'ogni giorno, sogni di grandezza ed anche paure e distruzioni che i barbari provocano con il loro devastante arrivo nel III secolo: le case bruciano, e non sono più ricostruite. Sotto le fiamme cadono i tetti, qualcosa si salva per noi posteri, come nella domus di palazzo Diotallevi dove sorgerà poi una fornace.
Degli antichi splendori restano soltanto le ombre che oggetti deformati conservano ancora, proiettandole su di noi: sono gli oggetti eleganti che quella famiglia usava nei banchetti. Erano conservati in un armadio di legno. Il fuoco lo ha distrutto, ma cerniere e serrature sono rimaste sepolte ed oggi, grazie al lavoro degli studiosi della Soprintendenza e del nostro Museo, possono narrarci le loro storie segrete.

Antonio Montanari



L'«impostura» dell'Anfiteatro
Uno scavo privato del 1763.
Documenti inediti all'Archivio Comunale

Due inediti documenti del 1763 (custoditi presso l'Archivio Storico Comunale di Rimini) raccontano di una sconosciuta e privata campagna di scavi nell'anfiteatro di Rimini. Il muratore Stefano Innocenti chiese ed ottenne in quel settembre "di poter aprire un muro della Città sotto la Clausura de' Padri Cappuccini", la cui chiesa risaliva ai primi del '600, quando vennero alla luce alcuni resti del monumento romano.
I lavori di Innocenti produssero "moltissima terra" che fu gettata in un terreno comunale dato in appalto al signor Giuseppe Antonio Fabri il quale si lamentò di non poter più seminare il fondo, coperto di quella terra "e dalli rottami".
A dicembre il muratore è invitato a concludere i lavori. Aveva infatti avuto abbastanza tempo per "fare quelle osservazioni, che bramava, ed appagare abbondantemente la propria curiosità", inoltre era "necessario impedire quei scandali sotto la Clausura [...] di rigorosa esemplarità" dei Cappuccini. Scandali che derivavano dalla rottura del "volto reale, che la copriva", per cui rimaneva "aperta la communicazione dell'esterno delle mura della Città colla Clausura" medesima. I Cappuccini avevano presentato "giuste doglianze" per questa "disdicevole" situazione. Occorreva accontentarli.
Innocenti non si era mosso per proprio conto, dietro di lui c'era lo speziale Angelo Cavaglieri, il cui "genio", a suo stesso dire, era quello di studiare "le cose antiche" della città. Quando al muratore impongono di chiudere il piccolo cantiere archeologico, lo speziale si rivolge al Cardinal Legato perché ad Innocenti siano concessi altri sei mesi per indagare sul "supposto Anfiteatro", spiegando che "questa sua impresa non è di pregiudizio, né ai muri della Città, né a verun altro". Attraverso quegli scavi, aggiunge, il muratore "non tende ad altro che a liberare la Città da un'impostura, che corre su questo Anfiteatro".
Lo speziale, parlando di "impostura", riassume bene il 'clima' dell'epoca a proposito dell'anfiteatro. Pochi anni prima, il Temanza (1741) e poi il Marcheselli (1754) avevano negato agli avanzi di quel sito archeologico ogni carattere di antichità.
Ripercorriamo brevemente la storia delle conoscenze sull'anfiteatro, con l'aiuto di Luigi Tonini. Nel 1486 un atto notarile lo cita impropriamente come "teatro antico", con fornici allora detti volgarmente "le tane". Nel 1543 si fanno scavi: si scoprono marmi ed una statua senza testa e senza gambe, giudicata di Diana. Nel 1606, erigendo il convento dei Cappuccini, si trovano "cellae, seu camerae pro balneis".
Temanza parla solo di "alcune muraglie di antico edificio [...] creduto in altri tempi reliquie d'Anfiteatro".
Per dimostrare appunto che non si trattava di resti importanti, lo speziale avvia la sua personale campagna di scavi. La richiesta di proroga, secondo i Consoli di Rimini, non aveva valore perché la pratica (anche allora la burocrazia non scherzava) era stata aperta dal muratore Innocenti. Non sappiamo come sia andata a finire, questa piccola, ma forse significativa vicenda.
Gli scavi decisivi furono quelli del 1843-44 che convinsero "anche i più ritrosi", fra i quali Tonini inserisce se stesso. Altri scavi ci furono dopo il 1927, ma oggi, da quando (nell'immediato dopoguerra) parte del luogo (dove sorse l'"Asilo svizzero") è stata riempita di macerie, ci troviamo nella stessa situazione del 1844.

Antonio Montanari


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728/revisione 15.06.2017