Antonio Montanari
L'Europa dei Malatesti
"Quaderni Accademia Fanestre", 9/2010, Fano [2011], pp. 43 -112


Queste pagine sono dedicate a due temi fondamentali nella storia dei Malatesti: l'origine della famiglia ed il ruolo diplomatico svolto al servizio della Chiesa. Prima tra Avignone, Praga, Londra (1357), e poi ai concili di Pisa (1410) e Costanza (1415). Proprio a Costanza papa Martino V decide le tragiche nozze bizantine di Cleofe di Pesaro (1421) con Teodoro, figlio dell'imperatore Manuele II.
Abbiamo cercato di seguire il canone della «complessità irriducibile a tradizionali formule di comodo», enunciato da Ezio Raimondi in sede letteraria per ridisegnare «una geografia nuova» del nostro Rinascimento [1]. È un'esigenza che ci sembra utile avvertire pure negli studi storici. Nei quali può essere valido il modello gnoseologico gaddiano «di una maglia o rete» a dimensioni infinite, da sostituire a quella della catena dei fatti [2]. La «coscienza della complessità» (che incontriamo anche in Gadda [3]), applicata alle vicende malatestiane, ci porta a privilegiare l'analisi del contesto internazionale, spesso apparso secondario o marginale nel nudo e muto sommario degli eventi «locali» [4].



1. Ezio Raimondi è detto coautore, ma soprattutto direttore del lavoro sfociato nel cap. firmato assieme a G. M. Anselmi e L. Avellini su Il Rinascimento padano, in Letteratura italiana. Storia e geografia, II. 1. L'età moderna, Torino 1988, pp. 521-522.
2. Per questo modello gnoseologico cfr. Meditazioni milanesi di Gadda, citt. in M. Porro, Letteratura come filosofia naturale, Milano 2009, p. 161. Sul tema, cfr. il nostro saggio Il fantasma di Voltaire, in Per Liliano Faenza, Rimini 2010, pp. 177-190, 189.
3. Il titolo del cap. dedicato a Gadda in Porro, cit., p. 159 contiene l'espressione «coscienza della complessità».
4. Il problema, ad esempio, è già stato posto da Anna Falcioni a proposito di Carlo Malatesti nella presentazione del ricco volume a lui dedicato nel 2001 (La Signoria di Carlo Malatesti, XII della «Storia delle Signorie dei Malatesti» a cura del Centro Studi Malatestiani di Rimini fondato dall'editore Bruno Ghigi), pp. 31-45. Falcioni osserva che lo sviluppo in ambito locale fra XVII e XVIII sec. di «una storiografia erudita di carattere biografico-dinastico» ha impedito uno sguardo più ampio per comprendere le vicende della Signoria (p. 34). Un esempio d'indagine maggiormente estesa, in riferimento al territorio italiano ed alle connessioni internazionali per l'esperienza al concilio di Costanza, è nell'ampio saggio di Franco Foschi intitolato Carlo Malatesti e Gregorio XII, pp. 201-261.
L'atlante ideologico dantesco

Una «geografia nuova» della Storia richiede la sintesi tra Politica (ovvero gli eventi) e Letteratura, intesa quale loro narrazione ed interpretazione destinate a variare secondo i luoghi [5]. Avverte Karl Schlögel: «In genere la storiografia segue il tempo, il suo modello fondamentale è la cronaca, la successione temporale degli eventi»: ma la storia umana è «sforzo incessante di controllare lo spazio», per cui, come sosteneva Friedrick Ratzel, «nello spazio leggiamo il tempo» [6]. Non per nulla Helmar Holestein ha costruito un Atlante di filosofia allo scopo di documentare che, al pari delle navi commerciali, anche il pensiero umano viaggia con un suo carico altrettanto prezioso [7]. Ogni atlante inoltre dimostra che non vi è «assolutamente posto per nessuna metafora», e che quindi occorre mirare alle cose per comprendere l'essenza della realtà, non alle interpretazioni che se ne danno [8]. L'esempio di geografia della Storia che fa al caso nostro, è una celebre pagina dantesca dal canto XXVII dell'Inferno, con Guido di Montefeltro, il ghibellino scomunicato e poi fattosi frate francescano, dannato tra i politici fraudolenti.
In essa c'è il doloroso ed illuminante richiamo alle vicende di Romagna mediante un catalogo dei suoi tiranni. Nei quali (come ha osservato Augusto Vasina [9]) possiamo intravedere il prodotto della medesima crisi che Dante ha vissuto a Firenze. Guido interroga il poeta «se Romagnuoli han pace o guerra», e giustifica la sua domanda con un appunto didascalico: «io fui d'i monti là intra Orbino / e 'l giogo di che Tever si disserra» (vv. 29-30). La celebre risposta di Dante è una sentenza che pare non ammettere appello: «Romagna tua non è, e non fu mai, / sanza guerra ne' cuor de' suoi tiranni», anche se «nessuna or vi lasciai» (vv. 37-39).
Nell'atlante ideologico dantesco, le simpatie personali dell'autore generano sia la condanna politica (dopo i tiranni tocca ai «Romagnuoli tornati in bastardi!», Pg., XIV, v. 99), sia la descrizione allegorica. Nel passo di Inf. XXVII introdotto dalla domanda di Guido da Montefeltro (vv. 36-57), si offre al lettore una mappa di città e personaggi, al cui centro geometrico stanno proprio il Mastin vecchio ed il Mastin nuovo «che fecer di Montagna il mal governo» (vv. 46-47). Essi raffigurano la sintesi della crudeltà dei signori di Romagna (a loro volta simbolo e sintomo di un più vasto quadro nazionale), che Dante passa in rassegna. Principia da Ravenna, prosegue con Forlì e Rimini (indirettamente ricordata attraverso Verucchio, quale patria dei Malatesti), e termina con Imola, Faenza e Cesena. Il Mastin «novo» riceve l'onore di essere presentato pure tra i seminatori di discordie, come «tiranno fello» e «traditore» (Inf., XXVIII, vv. 81, 85).
Dunque, parlando della Romagna Dante nomina Verucchio e tralascia Rimini. Allo stesso modo Rimini non è citata quando si racconta nel quinto canto dell'Inferno la vicenda di Francesca. Sulla quale il poeta non dice nulla, anche perché (sostiene il filologo Guglielmo Gorni) «quei fatti sanguinosi sono ignorati dalle cronache contemporanee», ed appaiono come invenzione di Dante. Il poeta «aveva dovuto conoscere Paolo» nel 1282 a Firenze quando il Malatesti vi era stato inviato a marzo da papa Martino IV quale Capitano del Popolo e Conservatore della Pace [10]. Il primo febbraio 1283 Paolo aveva rinunciato all'incarico [11]. Alla Romagna, come abbiamo visto, Dante ritorna nel secondo regno per rimpiangere la società cortese, richiamata citando «le donne e ' cavalier, li affanni e li agi» che invogliavano «amore e cortesia / là dove i cuor son fatti sì malvagi» (Pg., XIV, 109-111). Il passo incarna una visione letteraria che ha fatto acutamente osservare: «Il valore di pagine come questa dedicata alla Romagna è più poetico che storico» [12].
Per restare invece alle vicende reali, dopo la citazione di Verucchio fatta da Dante occorre introdurre quella di un suo illustre commentatore, Benvenuto da Imola che scrive [13] verso la fine del secolo XIV. Benvenuto sovverte tutta la genesi malatestiana, costruendo un itinerario inedito quando pone le origini della illustre famiglia "riminese" nella «Penna Billorum». Benvenuto appare un lettore diverso da quello a cui si rivolgeva Dante. Per comprendere questa differenza, è fondamentale una pagina di Ezio Raimondi. Pur trattando di tutt'altro argomento [14], essa fornisce una definizione di «Libro» che rimanda proprio ai tempi dell'Alighieri. Quando ogni opera si presentava come «mappa di significati simbolici definiti in anticipo». Successivamente il lettore si distacca da essi, vedendo nel «Libro» una «mappa geografica», una «totalità aperta». Proprio già con Benvenuto che commenta la Comedia, succede questo.



5. M FERRARIS, Documentalità. Perché è necessario lasciar tracce, Bari 2009, p. 281, ricorda che gli «atti sociali» che possiamo analizzare attraverso i documenti «mutano nella storia e nella geografia».
6. K. SCHLÖGEL, Leggere il tempo nello spazio. Saggi di storia e geopolitica, Milano 2009, pp. 1-2.
7. H. HOLENSTEIN, Atlante di filosofia, Torino 2009.
8. Cfr. l'introduzione al testo di HOLENSTEIN, Atlante di filosofia, a cura di F. FARINELLI, Filosofia dell'atlante, p. IX, dove si cita un passo del Tractatus di Wittgenstein che torna utile al nostro discorso: su ogni mappa «il nome significa l'oggetto. L'oggetto è il suo significato».
9. A. VASINA, Dante e la Romagna, in Romagna medievale, Ravenna 1970, p. 30: l'esperienza di esule «bastava di certo a farlo avvertito che non solo nelle contrade di Romagna esistevano torbidi e lotte intestine, ma anche e prima, forse, che altrove nella sua Firenze, e pure in quasi tutti i centri della nostra penisola». Su Dante e la Romagna cfr. A. MONTANARI, Esilio di fiorentini in Romagna nell'età di Dante, «Quaderni Accademia Fanestre», 8/2009, Fano [2010], pp. 83 -134. Ne riprendiamo alcuni punti in questa sede.
10. G. GORNI, Dante. Storia di un visionario, Bari 2008, pp. 246-247. La prima notizia in tal senso è in F. TORRACA, Il canto V dell'Inferno, «Nuova Antologia» 184, Roma 1 e 16.VII.1902, p. 433. Martino IV era stato eletto l'anno prima nel conclave di Viterbo durato sei mesi.
11. Egli giustifica la scelta con i negozi famigliari da curare. Alla base della sua decisione c'è forse il contrasto nato tra il suo ufficio e quello con analoghi poteri del nuovo Difensore delle Arti, istituito sul finire del 1282.
12. D. ALIGHIERI, La divina commedia, Purgatorio, note a c. di T. DI SALVO, Bologna 1985, p. 247.
13. Il suo Comentum super Dantis Aldigherij Comoediam è disponibile sul web in «Biblioteca Italiana», 2005.
14, E. RAIMONDI, La passione per il possibile: dal Libro all'Enciclopedia, in Ma questa è un'altra storia, a cura di V. CICALA e V. FERORELLI, Bologna 2008, pp. 105-113, 109.
Geografia culturale e mappa dei simboli

Anche le concezioni politiche di Dante sono ispirate ad un simbolismo derivante da una sua particolare «geografia culturale» [15]. Egli contrappone l'inesistente «reggia» italiana alla «curia di Alemagna», le cui membra «sono unite da un unico principe» [16]. Le gesta dei signori tedeschi, nel periodo storico anteriore a Dante, coinvolgono così da vicino l'Italia che, chi vuol trattarne la storia, non deve dimenticare quanto esse abbiamo profondamente interessato pure le articolazioni locali del potere. Il caso dell'origine germanica dei Malatesti ne è un esempio doppiamente significativo: sia per gli eventi antichi accaduti, sia per la loro successiva rimozione dalla memoria di un territorio.
La «mappa di significati simbolici definiti in anticipo», in Dante riguarda sia il piano letterario sia quello del discorso politico. Per quest'ultimo aspetto, ci soccorre un'osservazione a proposito del Monarchia, il cui dato formale è caratterizzato dal «latino solenne e ritmico delle dispute scolastiche» che s'accompagna ad un ragionamento sillogistico, per cui «ogni particolare deve essere esattamente collocato dentro un'architettura onnicomprensiva» [17]. Di conseguenza, Dante esprime «una posizione di equidistanza e di equilibrio tra impero e papato», riassumibile nella forma gilsoniana che affida il corpo dell'uomo all'imperatore, e l'anima al papa [18]. Questa posizione di equidistanza e di equilibrio nella raffigurazione degli eventi politici, comporta per Dante una censura ed una condanna verso tutto ciò che, quale frutto del particolarismo, si allontana dalle istanze universalistiche di impero e papato. Come avviene appunto nel caso della Romagna e dei suoi «tiranni».
La «mappa di significati simbolici», per quanto riguarda invece il discorso dantesco sulla lingua e sulla letteratura, rappresenta l'Italia quale sistema verticale determinato dal giogo dell'Appennino [19]. Vicende come quelle malatestiane di cui trattiamo, e la stessa esperienza dell'esilio del poeta, dimostrano che l'Appennino può unire anziché dividere. Dell'esperienza e della vicenda politica dell'Italia, nelle opere di Dante, è meglio praticare soltanto una lettura per via metaforica, allo scopo di intendere non soltanto il senso dell'opera ma in primis la biografia stessa del poeta [20]. Gorni invita a considerare «rischioso» ogni procedimento che promuova citazioni di luoghi, realtà geografiche e lessici locali a «conoscenza reale, oggettiva e particolarmente luminosa» [21].



15. F. FARINELLI, La crisi della ragione cartografica, Torino, 2009, p. 55.
16. D. ALIGHIERI, De vulgari eloquentia, XVIII, 5.
17. G. BELLINI-G. MAZZONI, Letteratura italiana. Storia, forme, testi. I, Bari 1990, p. 526.
18. Ibidem, p. 531.
19. R. ANTONELLI, Storia e geografia, tempo e spazio nell'indagine letteraria, in Letteratura Italiana, Storia e Geografia, I, L'età medievale, Torino 1987, p. 16.
20. Attraverso un'analisi dei metodi di rappresentazione poetica («tra la fisica della tavola e la metafisica del globo», ovvero tra natura e Dio), Dante è visto (FARINELLI, cit., p. 53), come «il poeta più mobile dell'intera letteratura occidentale», prima di essere costretto «alla forzata immobilità». Ed in questa condizione finale, sentendosi escluso dal mondo delle origini, Dante trova confermata la sua idea metaforica della realtà (letteraria o politica, non conta) quale contrapposizione dolorosa e distruttrice.
21. GORNI, cit., p. 185.
Benvenuto alla «Penna dei Billi»

Torniamo a Benvenuto. Il suo occhio problematico destruttura il verso dei Mastini di Verucchio, inserendo la descrizione di una diversa strada che non conduce a Rimini bensì risale alla «Penna dei Billi» [22]. E come osserva Raimondi nella stessa pagina già ricordata (avanzando nel suo discorso verso epoche successive), il lettore scopre nell'opera letteraria dei valori che «mutano proprio secondo i diversi criteri di ordinamento». I criteri che avevano ispirato Dante, erano il dato autobiografico e l'allegoria del potere politico. Il quale si dimostra incapace di dominare gli eventi, come il lettore constata attraverso i sesti canti della Commedia. Dedicati a descrivere nell'Inferno la crisi di Firenze, nel Purgatorio la servitù dell'Italia, e nel Paradiso la dissoluzione dell'unità imperiale accompagnata dalla corruzione della Chiesa.
Benvenuto per primo introduce una diversa lectio del testo dantesco, analizzandolo passo dopo passo, come dimostra il tema dei Mastini di Verucchio. Allontana da Rimini l'origine della famiglia dei Malatesti che riescono ad impossessarsene soltanto nel 1295. Scrive infatti: «… in provincia Romandiolae, in comitatu Montisfeltri, est unum castellum, quod vocatur Penna Billorum, ex quo olim traxerunt originem Malatestae». Proprio al 13 dicembre 1295 rimanda Dante quando scrive che i due Mastini «fecer di Montagna il mal governo». Montagna è il fratello di Parcitade, capo dei ghibellini riminesi. Parcitade fugge prima a San Marino e poi a Venezia (dove morirà). Montagna è imprigionato ed ucciso assieme a parenti ed amici, da Malatestino, figlio di Malatesta e di Concordia, nata da una sorella di Parcitade. Concordia è pure madre di Giovanni lo zoppo, marito di Francesca, e di Paolo il bello.
L'importanza del passo di Benvenuto da Imola laddove inserisce il richiamo alla «Penna dei Billi», non sfuggì a Cristoforo Landino che proprio un secolo dopo [23] lo ripropone con un successo che, in edizioni ottocentesche del poema, oscura completamente la primogenitura di Benvenuto [24]. Pennabilli costituisce una specie di linea di confine tra la mappa ideologica dantesca e la geografia della storia. La quale, forte del commento di Benvenuto, ci obbliga ad affacciarci come da un balcone panoramico, per cogliere i tratti del fondovalle. Dove transitano personaggi che collegano le pagine di Dante e di Benvenuto ad altri documenti relativi alla vicenda anteriore dei Malatesti romagnoli. Quel fondovalle è stato cancellato da chi ha definito fantasiose le genealogie che collegavano i Malatesti alla Germania [25]. E così si è persino arrivati alla derisione citando il Perù quale possibile terra d'origine della nostra famiglia [26] …
L'aureo principio secondo cui ogni fatto ha una propria causa, applicato alle sorti di qualsiasi persona obbliga a delinearne i dati anagrafici. Facciamolo pure per i Malatesti, ricordando una pagina di Carlo M. Cipolla, che offre un insegnamento metodologico relativo alla storia economica ma valido per le analoghe discipline: «Le "spiegazioni" facili di complessi fenomeni storici affascinano la gente, proprio perché sono facili e quindi "comode". La "spiegazione" piace. La "problematica" irrita. Eppure la "spiegazione" è il più delle volte irraggiungibile, mentre la "problematica" resta sovente la sola cosa valida» [27]. Si aggiunga che spesso (o sempre?) le discussioni malatestiane sono state condizionate dalle pure gioie ascose del campanilismo. Il quale cerca di ridurre nella propria piccola patria non una testimonianza delle tante possibili, ma la genesi del Tutto. Come se le dinastie avessero avuto origine dal Nulla eterno.




22. M. DELFICO, Memorie storiche della Repubblica di San Marino, Sonzogno Milano 1804, p. 36 osserva che «si potrebbe anche giustamente pensare, che questa stirpe fosse pur essa una più antica diramazione della famiglia Carpegna, poiché essendosi denominata da un nome proprio di persona, cioè Malatesta, si trova questo nome fra gli ascendenti della famiglia nominata».
23. Il suo Comento sopra la Comedia reca la data di «Firenze, 30 agosto 1481 presso Nicolò di Lorenzo della Magna».
24. Il canonico Luigi Besi ci ha lasciato un'interessante «monografia» (come recita il titolo) sullo Stato di Romagna ed i nostri Mastini (Gatteo 1900). Nel cap. V dedicato a Rimini ed all'origine della famiglia Malatesti, Besi inizia proprio citando ampiamente Landino ed il passo che pone quella origine alla «Penna de' Billi» (p. 19). Soltanto nella nota relativa (p. 50) spunta il nome di Benvenuto, ricordato assieme a fra Giovanni Bertoldi da Serravalle (autore di Translatio et comentum totius libri Dantis Aldigherii cum textu Italico, a cura di Bartolomeo da Colle, Prato 1891), cit. a pag. 33. Giovanni e Benvenuto sono detti «gli altri più antichi ed autorevoli Commentatori di Dante». Besi precisa che essi «concordano col Landino». Logica vorrebbe che si rovesciasse il discorso: Landino, venuto dopo, concorda con Benvenuto e con il «maggior allievo» di costui, il francescano Giovanni da Serravalle, le cui glosse a Dante furono «stese sui primi del Quattrocento durante le riunioni del Concilio di Costanza» a cui partecipò come vescovo (cfr. C. BOLOGNA, La letteratura dell'Italia settentrionale nel Trecento in Letteratura italiana. Storia e geografia. I. L'età medievale, Torino 1987, pp. 511-600, p. 590). Besi (p. 26) ricorda anche un testo del 1653, la Dissertatio Theologica etc., apparsa a Bologna, opera di Matteo Magnani (p. 33). Al proposito Besi scrive che allora (1653) l'«origine dei Malatesti da Pennabilli» era «una cosa controversa», contraddicendosi rispetto a quanto sostenuto a p. 19, a proposito di Landino. Da registrare come notizia bibliografica, un'altra pubblicazione del 1925 (edita a Reggio Emilia), curata da Luigi DOMINICI con il titolo La culla de' Malatesti e il nido de' Faggiolani, come risposta ad uno scritto del verucchiese Giuseppe PECCI che rivendicava per la propria patria l'origine della famiglia ricordata da Dante (p. 17). Dominici ha il merito di porre in ordine cronologico le fonti favorevoli alla sua tesi, compreso Benvenuto ed il suo commento (1375). Il tema è riproposto da DOMINICI in altro suo testo, Pennabilli culla dei Malatesti (Urbino 1956, pp. 16-19). Nella Culla (1925), p. 26, Dominici condanna aspramente chi ha preteso «dar ad intendere che i Malatesta venissero alla Penna da Roma, dalla Germania o … dal Perù!».
25. Sulla «favolosa» origine tedesca, cfr. infra la tesi di L. TONINI ripresa da C. CURRADI.
26. DOMINICI, cit., p. 26.
27. C. M. CIPOLLA, Storia economica dell'Europa pre-industriale, Bologna 2009, p. 215.
Tra imperatori e progenitori

Prima di affacciarci a vedere chi può esser transitato in quel fondovalle appenninico che collega Pennabilli alle zone vicine del versante toscano, occorre riflettere sopra un particolare. La questione (fondamentale) dei rapporti fra le famiglie locali e quelle imperiali, non tocca soltanto la Romagna ed i Malatesti. Un esempio illustre, lo troviamo nell'Orlando furioso, III, strofe 26-27: «Ecco Albertazzo, il cui savio consiglio / Torrà d'Italia Berengario e il figlio; / E sarà degno a cui Cesare Ottone / Alda sua figlia in matrimonio aggiunga» [28]. La notizia è poi ripresa da Giovan Battista Pigna (Historia de' Principi d'Este, Valgrisi, Venezia 1572) e da Leandro Alberti (Descrittione di tutta Italia, Giaccarello, Bologna 1550), ma non confermata da Ludovico Antonio Muratori che sviluppa diversamente (e con autorevolezza scientifica) le genealogie dei signori di Ferrara [29].
L'imperatore è Ottone I (912-973), Albertazzo è Oberto (od Alberto) I, attestato nel 972 quale marchese d'Italia e conte del Sacro Palazzo [30]. Muratori elenca Oberto I tra i progenitori di casa d'Este. Un discendente di Oberto I, Guelfo IV [31], nel 1055 diviene duca di Baviera, succedendo a Guelfo III, fratello della madre Cunegonda di Svevia [32] (che è una delle tre mogli del padre Alberto Azzo II, nominato conte di Milano nel 1045 da Federico II). Così «il sangue de' principi estensi per mezzo di questo principe si propagò e divenne gloriosissimo in Germania» per la discendenza della «reale ed elettoral casa di Brunsvic», scrive Muratori [33].
Guelfo V, figlio di Guelfo IV, è il secondo marito di Matilde di Canossa, «la gran contessa». Matilde riguarda da vicino anche il nostro sguardo sul fondovalle appenninico. Matilde di Canossa è figlia di Beatrice di Lorena (1017-1076), nata da Federico II di Lorena e Matilde di Svevia. Una sorella di Matilde di Svevia, Gisella, attorno al 1017 sposa in terze nozze l'imperatore Corrado II di Sassonia, a cui dà Enrico III pure lui imperatore. Il padre di Matilde di Canossa, Bonifacio III (ucciso nel 1052) nel 1027 è governatore di Lombardia e nel 1028 (con nomina di Corrado II) marchese di Toscana [34]. Ovvero della terra da cui provengono gli antenati "certi" dei nostri Malatesti. Forse ha un qualche significato il fatto che, nelle genealogie malatestiane "ufficiali", sul finire del sec. XII si incontri una Matilde, come zia di Malatesta della Penna, padre di Malatesta da Verucchio [35]. La ritroveremo più avanti.
Va aggiunto che Bonifacio III, secondo Muratori, è figlio di Willa (di ignoto parentado) e di Tedaldo nato da Ildegarda e Adalberto Azzo I figlio di Oberto II, generato da quell'Oberto I andato a nozze nel 973 circa con Alda [36] o Adelaide figlia di Ottone I (e di altra Adelaide nata da Rodolfo re burgundo, e vedova di Lotario re d'Italia [37]). Ma Alda, a quanto è dato di ricavare dalle carte, non è la madre di Oberto II. Il quale invece figura come figlio di Willa di Camerino nata da Bonifazio I (marchese pure di Bologna e Spoleto) e Waldrada di Borgogna. Waldrada o Gualdrada è figlia di Rodolfo I e sorella di Rodolfo II entrambi re di Borgogna. Anche Willa di Camerino (925-978) ha doppie nozze, figurando moglie, oltre che di Oberto II, anche di Umberto (o Uberto) di Toscana. Umberto, primo marito di Willa, è figlio naturale di Ugo di Arles o di Provenza (+947), re d'Italia nel 926. (Di Umberto di Toscana dovremo riparlare.) Questo intreccio genealogico tra famiglie di lontana origine geografica, permette di leggere la carta politica dell'Italia nel sec. X come una realtà piena di legami che escono dalle piccole realtà sotto il segno della politica gestita da re ed imperatori pure attraverso le unioni matrimoniali, e non soltanto con le campagne militari.




28. Sull'argomento, cfr. C. MONTAGNANI, "Queste historie di fabulosi sogni son dipincte": Boiardo, Ariosto e la genealogia degli Este, ne Il principe e la storia. Atti del Convegno, Scandiano, 18-20 settembre 2003, Novara 2005, p. 157-179.
29. Cfr. la Dissertazione settima, De' conti del sacro Palazzo, in Dissertazioni sulle antichità italiane, pp. 118-132, Pasquali Venezia 1740. Qui l'autore rimanda alle proprie Antichità estensi, Stamperia Ducale Modena 1717-1740 (cfr. cap. XII, p. 131). Nella Dissertazione settima, Muratori spiega che i conti del sacro Palazzo erano giudici supremi d'ultima istanza, nelle cause riservate al re.
30. Oberto I avrebbe due mogli: Alda e Willa di Camerino. Cfr. infra nel testo.
31. Oberto I lascia Oberto II (marchese di Genova e Tortona, +1014) da cui nasce Alberto Azzo I (attestato fra 1014 e 1029), padre di Alberto Azzo II (+1097) che genera Guelfo IV. Alda sarebbe la madre di Oberto II. L'Annalista Sassone definisce Guelfo IV "vir illustris, acer, et bellicosus" (cfr. Annalista Saxo «apud Eccardum», ovvero J. G. ECCARDUS, Historia genealogica principum Saxoniae superioris, Gleditsch, Lipsiae 1722).
32. Cunegonda (o Cunizza) e Guelfo III sono nipoti, dal lato della madre Ermengarda (Irmintrude, Imiza), di Sigfrido di Lussemburgo che è padre pure di Cunegonda «la Santa» moglie di Enrico II imperatore, succeduto ad Ottone III. Pure lui sarà detto «il Santo». La Chiesa li innalza alla gloria degli altari: prima lui, rimasto vedovo, nel 1146, poi lei quasi mezzo secolo dopo, nel 1200. Cunegonda, fatto il voto di castità alla vigilia delle nozze, ne informò il consorte che accettò di vivere in perfetta continenza. Le agiografie attribuiscono alla gelosia del diavolo una calunnia che rendeva Cunegonda complice di una tresca amorosa con un paggio. Lei avrebbe affrontato il «giudizio di Dio» per provare la sua innocenza, camminando a piedi nudi sui carboni ardenti, ed uscendone indenne. Altre fonti parlano di una verga infuocata retta tranquillamente con le mani. Il consorte, morendo, attestò ai parenti di Cunegonda: «Vergine me l'avete data, vergine ve la restituisco». Circa Enrico II imperatore, va detto che suo padre, duca di Baviera, si chiama Enrico Ezelone detto «il Rissoso» (oppure, chissà perché, anche «il Pacifico»…), mentre suo nonno (pure lui Enrico) è fratello di Ottone I, essendo figlio di Enrico di Sassonia e di Matilde. Quell'«Ezelone» secondo nome di Enrico «il Rissoso» sembra rimandare all'«Ezone» con cui è ricordato l'Erenfredo I capostipite degli Azzoni (od Ezzoni) su cui cfr. infra. Circa Enrico II, Lorenzo PATAROLO (1674-1757) nella serie degli imperatori (cfr. in Opera omnia, I, Pasquali Venezia 1743, p. 92), scrive: «Henricus II Henrici Ezelonis Bavariae Ducis filius, Othonis I ex fratre Henrico Rixoso nepos…». Enrico Rissoso è lo stesso suo padre Enrico Ezelone. Il fratello di Ottone (come si è visto) è il nonno, padre del Rissoso.
33. MURATORI, Annali III (998-1357), Ubicini, Milano 1838, p. 85. In RR.II.SS., Chronicon Estense cum additamentis usque ad annum 1478, a cura di L. A. MURATORI, Typographia Societatis Palatine, Milano 1729, p. 4 nota 3, leggiamo che Guelfo IV «trapiantò in Germania la famiglia Estense».
34. La madre di Matilde di Canossa, Beatrice di Lorena, è la seconda moglie di Bonifacio III. La prima è Richilde di Lussemburgo (+1036).
35. Cfr. la tav. 1, Origine dei Malatesti di Rimini di L. VENDRAMIN, ne I Malatesti, a cura di A. FALCIONI e R. IOTTI, Rimini 2002, p. 461. Su Matilde, cfr. L. TONINI, Rimini dal principio dell'era volgare all'anno MCC, II vol. della Storia civile e sacra riminese, Malvolti ed Ercolani Rimini 1856, pp. 401-403. Cfr. infra.
36. «Hebbe per moglie Alda figliuola naturale dell'istesso Imperadore, e Frausburgh in dote» (ovvero Friburgo), si legge in M. EQUICOLA D'ALVETO, Dell'Istoria di Mantova libri cinque, Osanna, Mantova 1607, p. 31.
37. PATAROLO, cit., p. 87.
Verucchio ed il «primo seggio»

All'epoca di Ottone I, scendendo verso i nostri territori, si rimanda per l'arrivo di Malatestino Malatesta I a Verucchio come «primo seggio» concessogli dallo stesso imperatore, «allorché venne questa famiglia con lui dalla Germania» [38]. Quindi siamo ante 973, anno della scomparsa di Ottone I. Diversa datazione, il 983, leggiamo in Pietro Maria Amiani [39]. Al 997 rinvia Carlo Sigonio nelle sue storie del Regno d'Italia [40], scrivendo che in quell'aprile a Ravenna l'imperatore (Ottone III, 980-1002) nominò dei marchesi ed onorò, con la concessione di alcuni feudi in Romagna, un tal Malatesta che taluni definiscono «il Tedesco» («Germanum nonnulli fuisse perhibent»): da lui «nobilis Malatestarum familia in hunc usque diem est in ea provincia propagata»[41]. La raffinatezza linguistica di Sigonio ci obbliga a segnalare che egli scrive «Malamtestam quendam […] feudis aliquot in Romaniola honestavit». Nell'accusativo doppio di quel nome composto («Malamtestam» e non semplicemente «Malatestam»), incontriamo traccia di un aspetto su cui ritorneremo. (Non tralasciamo fonti contemporanee. Francesco Vitali osserva che «l'agire politico di Ottone III istituisce una chiara dipendenza della penisola dalle risoluzioni imperiali» [42].)
Al 1002 si fa risalire la nomina di un Malatesta quale vicario imperiale di Ottone III per Rimini. Ottone III (detto dai contemporanei «Mirabilia Mundi» [43] ) scompare proprio in quell'anno, il 24 gennaio. Sulle fonti di questa notizia ritorniamo tra qualche riga. Il 1004 è invece citato in uno stemma marmoreo «rinvenuto fra le ruine del palazzo Malatestiano» di Pennabilli, ed in documento pubblicato nel 1617 dallo storico riminese Cesare Clementini. Si tratta di un contratto con gli «operai addetti alla costruzione della Rocca del Roccione» [44]. Queste fonti dunque sostengono che i Malatesti vengono dalla Germania con gli Ottoni, fanno fortuna tra Verucchio e Pennabili (prima nell'una o nell'altra località?), ed infine diventano vicari imperiali a Rimini all'inizio del sec. XI.




38. G. MORONI, Dizionario di erudizione storico-ecclesiastica, XXV, Tipografia Emiliana, Venezia 1846, p. 199.
39. Nelle sue Memorie istoriche della Città di Fano, I, Leopardi, Fano 1751, p. 122, si legge: Ottone II (che scompare nello stesso 983) a Ravenna «concedé alcune terre della Romagna in feudo a Malatesta suo gentiluomo, che di Germania aveva condotto, onde poi i Malatesti» che conosciamo come signori di Fano, Pesaro Rimini e di altre città, «discesero».
40. C. SIGONII, Historiarum de Regno Italiae libri viginti, Typis Wechelianis apud haeredes Claudii Marnii, Hanoviae 1613, p. 184.
41. Sigonio è cit. da F. G. BATTAGLINI, Memorie istoriche di Rimino, Lelio Della Volpe, Bologna 1789 (ed. an. Rimini 1976), p. 164.
42. F. VITALI, Pierfrancesco Giambullari e la prima storia d'Europa, p. 218 (doc. web <padis.uniroma1.it>).
43. PATAROLO, cit., p. 91.
44. DOMINICI, cit., pp. 15-16.
Anno Domini 1002

Leandro Alberti nel 1550 scrive di Rimini che fu soggetta «a' Romani infin che durò la maestà dell'Imperio loro, e parimenti ubidì a gli Essarchi di Ravenna, insin che si mantenerono nella loro grandezza, e poi anch'ella sottopose il giogo al collo de i Longobardi. I quali scacciati d'Italia fu soggetta a i Re d'Italia, e poi agl'Imperatori, e ai Malatesti fatti Vicarij da quelli. Il primo de i quali fu Malatesta Tedesco, instituto Vicario di essa da Ottone III Imperatore, e donogli molti castelli, et altri luoghi per le sue virtù; che fu nel 1002 anni dopo che Christo pigliò la carne humana»[45].
La fonte di Alberti è Raffaele Maffei detto il Volterrano (1451-1522) il quale «nel sesto libro della Geografia scrive queste parole: "Quae familia a Malatesta initium sumpsit temporibus Othonis III cuius amicitia, atque authoritate plura ille obtinuit loca. Ex hoc nati Mastinus etc."». Questo osserva Francesco Sansovino che in Della origine e de' fatti delle famiglie illustri d'Italia (Salicato, Venezia 1582) accusa Alberti di aver tradotto «quasi di parola in parola quanto dice» il Volterrano nel 1506 (cc. 221-222). Sansovino cita poi frate Iacomo Filippo Foresti da Bergamo (1434-1520), autore del Supplementum Cronicarum (Albertino da Lissona, Venezia 1503).
Fra Iacomo appartenne all'Ordine degli Eremitani di sant'Agostino, essendo priore ad Imola nel 1494 ed a Forlì nel 1496 [46]. Nel libro XII del Supplementum, «sotto il titolo, Malatestarum Principum procursus, adherendo alla predetta opinione», fra Iacomo scrive: «Malatestarum autem vetustissima et regia Flamineae Provinciae familia, hoc anno seu his temporibus ex Germania in Italiam veniens, plurimo adiutorio contra tyrannos Romano Imperio fuit, ob cuius beneficia atque servitia Otho Tertius Caesar et Augustus, Ariminum vetustissimam Urbem eidem dono dedit et concessit, et multis ac magnis priviligiis et gratijs illam decoravit. Hi namque a Germanis originem ducentes, ex illis fuerunt Theutonicis Malatestis, qui flamineae provinciae partem ab isto Caesare Othone dissidentem occuparunt, et Cesenae Urbi in primis frenum imposuerunt, propter quod et concedente Augusto ipso, Arimino ac multiis alijs locis potiri promeruerunt, etc».



45. L. ALBERTI, Descrittione di tutta l'Italia, Giaccarello, Bologna 1550, cc. 299rv.
46. G. PETRELLA, L'Officina del geografo. La «Descrittione di tutta l'Italia» di Leandro Alberti…, Milano 2004, p. 293 nota 343.


La questione romana

Sansovino fa nascere la dinastia dei Malatesti «in Roma», pur ammettendo che la loro famiglia «discese di Germania» al tempo di Ottone III, e «mise le sue radici in Italia». La venuta dei Malatesti dalla Germania era stata presentata con molta cautela dallo stesso Sansovino in una precedente opera, il Ritratto delle più nobili e famose città d'Italia (Venezia 1575, c. 102v), spiegando: «non se ne ha niuna certa autorità». Nel testo del 1582 dedicato alle famiglie illustri d'Italia, Sansovino prende un'altra strada, dopo aver letto le storie riminesi di Baldo de Branchi, Lodovico Marcheselli, Matteo Bruno [recte: Bruni], Claudio Paci e Stefano Parti (che ci permettiamo di considerare inaffidabile [47]), per concludere appunto: «trovo che l'origine loro nacque in Roma». Sansovino aggiunge che furono detti Malatesti («o perché erano testieri, o come si suol dire in proverbio di testa bronzina, o ostinati nelle loro opinioni»), con cambiamento del cognome originale (Catani), forse derivato dalla loro funzione di capitani («huomini di giurisdizione, principali, nobili, e come Signori fra gli altri»).
Alla città di Roma rimandano pure Broglio e Marco Battagli. Broglio la prende come punto di partenza dell'avventura dei due fratelli Malatesta e Gianni, «nobili cavalieri discesi dalla illustrissima casa delli Scipioni», da Roma cacciati e confinati in Romagna, dove andarono ad abitare a «La Penna» [48]. Della Penna riferisce Battagli nella sua Marcha, citando un cavaliere nobile molto reputato che aveva una certa giurisdizione da molto tempo, «regnante Imperio».
La pista lasciataci da Sansovino, pur partendo da Roma, rimanda inevitabilmente alla Germania [49]: «Con tutto ciò si può credere, come scrivono i predetti» (ovvero Volterrano, frate Foresti e Sabellico), «che ne tempi di Othone Terzo» la famiglia dei Malatesti «nascesse: e che poi sopita dall'anno 900 fino al 1248, risorgesse di nuovo nel predetto millesimo». Vedremo come la notizia della famiglia «sopita» sia smentita da documenti prodotti da altri autori. Della stranezza di questo lungo silenzio è consapevole lo stesso Sansovino che osserva: «Tuttavia parrebbe gran cosa che dal 900 fino al 1248 essendo stato Malatesta arricchito da Othone di Castella, di giurisditioni, e di altri titoli di grandezza, si fosse per lo spatio di 348 anni del tutto estinta ogni memoria fino all'anno 1248 e tanto più che Arimino era camera di Imperio [50], e fu posseduta da gli Imperatori».
Resta da osservare soltanto che di origini tedesche è pieno il testo di Sansovino. Lo dimostra pure la dedica «Al serenissimo et sacratissimo imperatore Rodolfo Secondo Cesare sempre Augusto» (1552-1612), composta il 10 novembre 1582 in Venezia (cc. 1-3), dove si ricorda che «una gran parte» delle «famiglie illustri» d'Italia «trasse il principio suo dall'antichissimo sangue Tedesco, trasfuso nel proprio sangue di questa sempre floridissima e nobilissima nostra Provincia». Sansovino aggiunge un particolare sui predecessori di Rodolfo II. Essi, «discendendo in Italia per occasione di guerra con esserciti armati, vi lasciarono i loro principalissimi Capitani e Condottieri, come Vicari per conservarla a devotione del Sacro Imperio». E ribadisce immediatamente il concetto, per ricavarne gloria alle «famiglie illustri» italiane: i «Principi grandi» discesi fra noi «vi radicarono le stirpi loro illustrissime e chiare».




47. Circa le Croniche de' Malatesti di STEFANO PARTI (ms. di fine XVI sec. ed. a cura di M. T. BIANCHI, Rimini 1989), va precisato che il loro autore non era molto informato, come vedremo nei dettagli infra.
48. Cfr. c. 20v della Cronaca universale (SC-Ms. 4, Biblioteca Gambalunga Rimini [BGR]), edita parzialmente in Cronaca malatestiana del secolo XV, a cura di A. G. LUCIANI, Rimini 1982 (qui v. p. 3), in cui mancano pagine fondamentali per la storia malatestiana.
49 Giuseppe BETUSSI (1515-1575) scriveva nel 1547 dei Malatesti chiamandoli «antichissimi signori di Arimino, il cui principio e la cui grandezza incomincia ai tempi di Ottone III». E non con «l'Antichissimo» padre del «Minore» e nonno del «della Penna», da cui discende il «Mastin Vecchio da Verucchio». Betussi identifica il Malatesta amico di Ottone III nel Malatesta che fu padre del Mastino e visse però due secoli dopo Ottone III. Betussi aggiunge che Malatesta «con l'amicizia, e autorità» di Ottone III, «dal quale ottenne più luoghi, diventò gran Signore». Il testo cit. di Betussi è nella Addizione al libro delle donne illustri di Boccaccio (Pietro de' Nicolini, Venezia 1545-1547), al cap. 46 dedicato a Ginevra Malatesta. Il cap. 6 è dedicato a «Batista Malatesta prima», figlia di «Guido di Montefeltro chiarissimo signor d'Urbino, moglie de Galeazzo Malatesta signor di Pesero».
50. L'espressione «camera di Imperio» indica una «città fedele all'impero», come spiegava un tempo il glorioso Zingarelli zanichelliano, prima che i neologismi soffocassero le parole "antiche".
Hezzelin, «der unsinnige» o «Furiosus»

E qual è dunque la stirpe originaria da cui nascono i Malatesti di casa nostra? Currado Curradi scrive che secondo alcuni il capostipite germanico sarebbe un «nipote dell'imperatore» Ottone III, «quale figlio della sorella» [51]. Questa sorella si chiama Matilde di Sassonia ed è dal 990 la moglie di Ezzo [52] conte palatino di Lorena (955-1034). Matilde, essendo nata attorno al 980 (da Ottone II e Anna Theophania o Teofano Skleros di Bisanzio [53]), non poteva aver generato un erede che nel 1002 fosse già in età tale da ricevere la carica di vicario imperiale [54].
Ezzo di Lorena (detto anche Erenfrido [55]) ha un fratello, Hezzelin (Ezzelino) chiamato pure Herman od Hezilo (+1033), che è padre di Enrico I (+1060) definito «der unsinnige» ovvero «senza testa» o «Furiosus», conte palatino di Lorena dal 1045 alla scomparsa. Il vicario nominato da Ottone III potrebbe essere proprio questo Ezzelino, e la dinastia dei Malatesti essere stata chiamata così dal soprannome affibbiato ad Enrico I suo figlio. Lodovico Antonio Muratori insegna che spesso i soprannomi «tuttoché fossero imposti più per vituperio che per onore, tuttavia passarono di poi in cognomi di famiglia» [56].
Il primo Malatesti, sempre vicario imperiale all'inizio dell'XI sec. e d'origine germanica, fu identificato erroneamente da un oscuro autore del 1500 in un personaggio della casa absburgica, Hunifridus [57], forse per assonanza con il nome Erenfredo con cui veniva chiamato lo stesso Ezzo di Lorena.Circa la nostra ipotesi su Ezzelino, aggiungiamo che suo figlio Enrico I «der unsinnige» sposa Mathilde di Verdun, figlia di Gozelo di Lotaringia e sorella di Federico divenuto papa Stefano IX (1057-1058). Il diacono cardinal Federico, cancelliere di Santa Romana Chiesa, fu costretto da Enrico III a ritirarsi nel convento di Monte Cassino per ripicca contro suo fratello Goffredo il Barbuto. Il quale è padre del primo marito (1069) di Matilde di Canossa, Goffredo il Gobbo (o Gozelone), ucciso nel 1076 mentre di notte era, come racconta Muratori [58], in luogo adatto per i bisogni del corpo. Fu colpito proprio nella parte più attiva al momento dell'agguato mortale. Ma soprattutto va detto che Goffredo il Barbuto dal 1054 fu pure secondo marito della madre di Matilde, Beatrice di Lorena vedova di Bonifacio III padre della stessa Matilde. Grazie a queste nozze Goffredo il Barbuto diventa signore di gran parte dell'Italia settentrionale. Facendo inquietare «forte la corte imperiale in Germania» [59]. Ecco perché Enrico III lo "rinchiude" a Monte Cassino.
Goffredo il Barbuto in qualità di cognato di Enrico I «der unsinnige» e suo figlio Goffredo il Gobbo come marito di Matilde di Canossa, ci introducono direttamente nel territorio toscano al quale (discorrendo del padre di Matilde, Bonifacio III) abbiamo fatto riferimento circa gli antenati "certi" dei nostri Malatesti. Che è ora di ricordare nei dettagli.











51. C. CURRADI, I Malatesti. Origine e affermazione della Signoria, Storia illustrata di Rimini, 10, Milano 1989, p. 145: qui si precisa che si ritiene «favolosa» l'origine tedesca dei Malatesti. Curradi rispecchia quanto autorevolmente sostenuto da Luigi Tonini (cfr. Rimini dal principio dell'era volgare all'anno MCC, cit., p. 398), ovvero di lasciare «alla vanità degli Scrittori di più splendide Genealogie il farli venire o da Roma o dalla Germania». Già nel 1837 Pietro Castellano nel saggio su Lo Stato pontificio ne' suoi rapporti geografici, storici, politici (Mezzana, Roma, pp. 596-597) aveva scritto su Rimini: «havvi chi pretende esserle stato preposto dal terzo Ottone in Vicario Imperiale nello incominciare del secolo undecimo un Malatesta di tedesca origine, ma oltreché non ve ne sono ragionevoli prove, ciò non si concilia colla più probabile Genealogia di quella famiglia». Castellano poi esalta il ruolo svolto durante il XIII sec. dai Malatesti nel «partito guelfo», così caro anche ai contemporanei ai quali egli si rivolgeva, negando quella specie di peccato originale della nascita della famiglia riminese da una costola imperiale.
52. Circa la grafia di Ezzo (mediato tramite lo spagnolo Aizon dall'arabo Ayshûn), va detto che essa varia, per cui troviamo pure Azzo, Edzo, Ezan. Vale l'osservazione metodologica di Muratori (Annali, V, Raimondi, Napoli 1752, p. 366): «I nomi di questi secoli barbari si truovano alterati nel linguaggio de' popoli» per cui «Azzo si mutava in Attone; […] Aldelaide si pronunziava Adela, Alda, Adelaita, Adelgida; Cunegonda si convertiva in Cuniza, e simili…».
53. Teofano (958-991) è figlia di Romano II (nato da Costantino VII ed Elena di Romano I) e di Teofanone Augusta, figlia di Giovanni I Zimisce (+976). Teofano sposa Ottone II nel 972.
54. Loro figli sono Otto II e Richeza (Richenza, Rica, Rixa). Otto, nato verso l'anno 1000 e morto nel 1047, sposa una Matilda di Polonia, mentre Richeza (circa 1000-1063) diventa moglie di Miezko II re di Polonia: la loro figlia (Rixa pure lei) diventa regina di Ungheria, unendosi a Bela I.
55. Erenfrido è il nome del nonno paterno di Ezzo, mentre suo padre si chiama Herman I detto il Piccolo (o Pusillus). Cfr. infra la genealogia degli Azzoni od Ezzoni.
56. MURATORI, Annali III (998-1357),cit., p. 21. Sul tema è utile anche esaminare le dissertazioni XLI, De i Nomi e sopranomi de gli antichi; e XLII, Dell'origine dei Cognomi, «Dissertazioni sopra le antichità italiane», II, a spese di G. Pasquali, Milano 1751, rispettivamente pp. 556-572 (a p. 572 si ricorda il diminutivo Malatestinus da Malatesta) e 572-588.
57. «Ex Geltruda et Otberto Comite Habsburgi, a quo ducunt originem Comites Habsburgenses», nasce «Hunifridus, cognominatus Malatesta propter eius severissimam naturam», si legge in De genealogia familiarum illustrium Germaniae di Cristoforo ZAROTTI (XVI sec.), cit. nel 1859 da H. C. BARLOW, Francesca da Rimini, her lament, and vindication (Nutt London, p. 43). Zarotti (o Zaroto), originario di Capodistria, è noto come commentatore di Ovidio. Egli aggiunge che Hunifridus è nominato vicario imperiale da Ottone III, avendo conferma dell'incarico nel 1009 da Enrico II. L'Hunifridus nato da Geltrude ed Oberto, non si ritrova nelle genealogie moderne degli Asburgo. Per l'inizio dell'XI sec. si registra un Lanzellino conte di Altenburg, i cui figli sono Werner e Radbod. Il nome Hunifridus o Hufridus (da cui Onfroy) è ricorrente nelle vicende medievali. C'è quello inglese «aurei testiculi», e quello appunto absburgico che sposa una figlia di Bernardo d'Ivrea. Da loro nasce un Hunifridus II che prende in moglie Anastasia di Svevia. Forse Zarotti confonde, come si è detto nel testo, Erenfredo (ovvero Azzo di Lorena) con Hunifridus. Il testo di Zarotti è pure in F. SCOLARI, Proposta e saggio per una edizione del testo della Divina Commedia di Dante, Gaspari, Venezia 1865, p. 106. (Notizie su Zarotti, si trovano in P. STANCOVICH, Biografie degli uomini distinti dell'Istria, I, Marenigh, Trieste 1829, p. 84.)
58. MURATORI, Annali VI, Giuntini, Lucca 1763, p. 210.
59. MURATORI, Annali III (998-1357), cit., p. 1358.
Fra Toscana e Romagna

Lo «spatio di 348 anni» di cui parla Sansovino (seguendo Alberti e non ritrovando «memoria» di «Malatesta Tedesco»), va di molto ridotto in base ad un atto di concessione da parte di Ugo detto «Malatesta» [60], datato 1121 e relativo ad un monastero della Toscana, San Lorenzo di Coltibuono. Nel 1129 lo stesso «Malatesta» si avvicina alla Romagna, figurando proprietario di un terreno sulla costa marchigiana a Casteldimezzo, fra Cattolica e Pesaro [61]. Infine il 18 aprile 1131 il nome di Ugo appare in un atto relativo alla località riminese di San Lorenzo in Monte [62]. Un «Istrumento del 1132» (sempre per San Lorenzo in Monte) reca fra i testimoni «un Ugo Malatesta», come scriveva Luigi Tonini [63], richiamando «il Battaglini» ovvero Francesco Gaetano Battaglini autore delle Memorie istoriche di Rimino. Qui, circa l'articolarsi di vari rami della famiglia dei Malatesti, si propende per un unico ceppo derivato «per ventura da quell'Ugo Malatesta, che il nostro Monsignor Giacomo Villani, ricercatore diligentissimo degli antichi documenti, ne scoperse all'anno 1132 nei suoi Mss. de Vetusta Arimini Urbe et ejus Episcopis» [64].
Nel 1184 una Berta degli Onesti di Ravenna è moglie di tal Malatesta [65], che lo storico ravennate Vincenzo Carrari battezza «Minore»[66]. Dalle loro nozze nascerebbe quella Matilde Malatesti di cui si è detto. Usiamo il condizionale ricordando che Luigi Tonini considera il «Minore» figlio e non marito di Berta, per cui sarebbe anche fratello e non padre di Matilde [67]. Chi sia «quell'Ugo Malatesta», ce lo spiegano altri due documenti mai pubblicati in relazione alla storia della nostra famiglia, e riferiti pure essi alla badia di San Lorenzo di Coltibuono. In una sentenza del 1103, favorevole all'abate di San Lorenzo per beni donati appunto da Ugo «Malatesta» (nella ricordata concessione del 1121), questi è detto figlio di Azzo e di Adelagia [68]. Nel 1091 appare un Azzo del fu Azzo e marito di Imelda figlia di Ridolfo [69]. Il contesto geografico e la vicinanza temporale fra i due documenti (appena dodici anni di differenza) suggeriscono come possibile l'identificazione del padre di Ugo detto «Malatesta» in questo Azzo [A] del fu Azzo [B]. Secondo la nostra ipotesi, l'Azzo del fu Azzo ha due mogli. La prima è Imelda (cfr. sub 1091), la seconda Adelagia (cfr. sub 1103).
Il nome di Azzo [B], che figura defunto nel 1091, rimanda alla dinastia degli Azzoni (od Ezzoni) conti palatini della Lotaringia o Lorena [70]. Azzo od Ezzo, marito di Matilde di Sassonia (nata da Ottone II) [71], è conte palatino di Lorena dal 1015 al 1034. Sono conti lorenesi pure suo fratello Ezzelino (dal 1020 al 1033) ed figlio di questi, Enrico I «der unsinnige» [72] dal 1045 al 1060. Sembra possibile ipotizzare che l'Azzo [B], padre di Azzo [A] e nonno di Ugo detto «Malatesta», nasca da Enrico I «der unsinnigen» , a sua volta figlio dell'Ezzelino fratello di Ezzo di Lorena [73]. Il cerchio si chiuderebbe così, proprio nel punto da dove eravamo partiti.
L'Ugo detto «Malatesta» figlio di Azzo che appare nel 1121 in Toscana (San Lorenzo di Coltibuono), nel 1129 nelle Marche (Casteldimezzo) ed infine nel 1131-1132 a Rimini (San Lorenzo in Monte), potrebbe essere lo stesso Ugo di Azzo che troviamo in altri documenti toscani. Nel gennaio 1103 Ugo di Azzo è testimone in atto di vendita di parte del castello di Subbiano nei pressi di Arezzo [74] ai «canonici di Pionta», ovvero del vecchio duomo aretino dell'XI sec., posto appunto sul colle del Pionta. Il 6 maggio 1106 Ugo di Azzo figura in un atto di «mundio» (amministrazione di beni di parenti [75]), conservato a Firenze assieme all'altra pergamena che lo riguarda, una donazione del 1140 da parte del presbitero Ugo figlio di Azzo «ex natione longobarda» alla ricordata abbazia di Coltibuono [76].
Un Ugo figlio di Adelagia o Adelasia (e così si chiama la madre dell'Ugo detto «Malatesta»), indicato come marito di Ventura figlia di Pietro, appare in atto del novembre 1094. Nel 1110 egli è ricordato in altro documento assieme a suo cugino Azzo (allora pievano di Santa Maria a Spaltenna, nei pressi di Gaiole in Chianti) [77]. Non sappiamo se questo Ugo sposato con Ventura sia lo stesso che nel 1140 è detto «presbitero». Nel cit. documento del 6 maggio 1106 appare «Gradalone figlio di Azzo» («Gradalone filius Azzonis») [78] , che è quindi fratello di Ugo detto «Malatesta». Da Azzo dunque deriverebbero due rami, quello di Ugo detto «Malatesta» (che risulta defunto nel 1163) e quello di Gradalone [79]. Qui interessa soltanto il primo ramo, soprattutto perché al riguardo nel Regestum Volaterranum incontriamo il cognome [80] Malatesti nella duplice forma di «Malateste» e «Maleteste» [81]. Ugo risulta padre di Gualandello («Gualandelli qd. Maleteste» [82]), e di Ildebrandino. Gualandello ha tre figli: Galgano, Ugolino e Ruggerino [83]. Da Ildebrandino nasce Lamberto [84]. Il cui nome ricorda il più noto Ramberto che appare nelle storie malatestiane riminesi.
Ritorniamo a Ugo detto «Malatesta» ed ai suoi rapporti con San Lorenzo di Coltibuono: è noto un documento del 1127 [85], relativo ad un prestito (allo scopo di compiere un viaggio al Santo Sepolcro) tra lo stesso Ugo e l'abate di San Lorenzo di Coltibuono, redatto a Castellare di Marciana (Marciano della Chiana, Arezzo). Pure qui Ugo si presenta quale «Malatesta», come nella pergamena del 1121. Forse Ugo è già ritornato in Toscana definitivamente. Se è lui il presbitero di cui si legge (figlio di Azzo «ex natione longobarda», 1140), divenuto prete dopo la scomparsa della moglie Ventura, è possibile che la scelta della vita religiosa sia stata fatta dopo il ritorno in Toscana.
Nelle zone adriatiche restano i suoi «eredi» (dei quali si ha la citazione proprio nell'atto del 1127), con quel Lamberto che all'inizio del sec. XIII potrebbe essere compagno di viaggio o protagonista della storia malatestiana, stando il fatto che nessuna genealogia dell'epoca ha sicurezza matematica. Ricordiamoci della citazione di Cipolla: «… la "spiegazione" è il più delle volte irraggiungibile, mentre la "problematica" resta sovente la sola cosa valida».



60. «Ego Ugo qui Malatesta vocor» si legge nella pergamena conservata in Archivio di Stato di Firenze («Normali», cod. id. 00003753, segn. antica 1121 […] Badia di Coltibuono), e non «Ugo qui vocatur…», come riportato nelle fonti a stampa (cfr. CURRADI, Alle origini dei Malatesti, «Romagna arte e storia», 48, 1996, p. 11).
61. Il documento (ravennate) è in CURRADI, Da Gabicce a Gradara nelle pergamente medievali, in Gabicce una paese sull'Adriatico tra Marche e Romagna, Gabicce 1985, pp. 153-207, p. 186, n. 19 (cfr. pure ID., Alle origini dei Malatesti, cit., p. 13). Qui (p. 191, n. 35) è cit. un atto forlimpopolese del 1144 relativo a Fiorenzuola di Focara di Pesaro, in cui appare come teste un «Malatesta». In ID., Alle origini dei Malatesti, cit., p. 14, si legge che il documento del 1144 «non può essere preso in considerazione», in quanto il nome del teste non va letto «Malatesta» bensì «Malatasca».
62. La fonte è un ms. di Cesare Clementini, cfr. in CURRADI, Alle origini dei Malatesti, cit., pp. 13-14.
63. TONINI, cit., p. 400.
64. BATTAGLINI, cit., pp. 308-309.
65. Schede Garampi Malatesti, n. 9, SC-Ms. 206, BGR.
66. BATTAGLINI, cit., p. 309.
67. TONINI, cit., p. 401. L'albero qui presentato è quello proposto dal cit. VENDRAMIN.
68. E. REPETTI, Dizionario geografico, fisico, storico della Toscana, II, Tofani, Firenze 1835, p. 916. La fonte è padre Ippolito Maria CAMICI autore De' duchi e marchesi di Toscana, t. III, Albizziniana, Firenze 1779, in prosecuzione dell'opera omonima del capitano Cosimo della Rena apparsa in parte a Firenze nel 1690 presso Cocchini. (I sei voll. del Dizionario di Repetti sono sul web, <www.archeogr.unisi.it/repett>.)
69. REPETTI, Dizionario geografico, fisico, storico della Toscana, III, Allegrini e Mazzoni, Firenze 1839, p. 639. (Fonte web: < www.archeogr.unisi.it/repetti>.)
70. Capostipite degli Azzoni (o Ezzoni) è considerato Erenfrido I (866-904), detto pure Ezone. Il nome alla dinastia è dato dal ricordato Azzo (Ezzo) marito di Matilde (o Matilda), conte palatino di Lorena tra 1015 e 1034. A lui succede nella carica Otto I (1035-1045) che diventa pure signore di Svevia (1045-1047) come Otto II (cfr. supra). Poi c'è Enrico I di Lorena dal 1045 al 1060, figlio di Ezzelino (signore di Lorena tra 1020 e 1033, assieme al fratello Ezzo marito di Matilda).
71. Nella Cronaca di Thietmar (o Titmaro) vescovo di Merseburg (976-1008) si legge: «Cesaris eiusdem soror, Mahtild nomine, Herimanni comitis palatini filio Ezoni nupsit. Et hoc multis displicuit; sed quia id non valuit emendare legaliter, sustulit hoc unicus frater illius pacienter, dans ei quam plurima, ne vilesceret innata sibi a parentibus summis gloria» (IV 60, S. 176, cit. in D. MULLER-WIENGAND, Vermitteln - Beraten - Erinner. Funktionen und Aufgabenfelder von Frauen in der ottonischen Herrscherfamilie (919-1024), Kassel 2005, p. 91, nota 318). Della Cronaca (o Chronicon Thietmari Merseburgensis) esistono varie versioni digitali: una trascrizione (<hbar.phys.msu.ru/gorm/chrons/thietmar.htm>), le riproduzioni dell'originale (in «Projekt Merseburger Schriftlichkeit»), l'ed. a cura di R. HOLTZMANN, Monaco 1966, e quella del 1980 (Die Chronik des Bischofs Thietmar von Merseburg und ihre Korweier Überarbeitung. Thietmari Merseburgensis episcopi Chronicon. Edited by Robert Holtzmann, 1935. Reprint Monumenta Germaniae Historica, Monaco). Cfr. pure la traduzione inglese, per opera di D. A. WARNER, edita dalla Manchester University Press in Manchester Medieval Sources Series, 2001, Ottonian Germany. The Cronicon of Thietmar of Merseburg, p. 194. Su Titmaro, cfr. G. DUBY, L'Anno Mille. Storia religiosa e psicologia collettiva, Torino 1967, p. 12.
72. Enrico I ha un altro figlio, Poppo vescovo di Metz dal 1090 al 1103.
73. Tra i tredici figli di Ezzo di Lorena, l'ultimo porta il suo nome, ed è vissuto dal 1021 al 1075: ma va escluso da ogni ipotesi politica figurando nelle fonti come abate. Cfr. D. SCHWENNICKE, Europaische Stammtafeln, VI, Table 1, Generation 8, Klostermann 2002.
74. Cfr. <www.comune.subbiano.ar.it/web_subbiano/Mille100.htm>.
75. Lo stesso documento nel Regesto di Coltibuono (a cura di L. PAGLIAI, Roma 1909, p. 117, riedito in an. a Firenze nel 2008 con presentazione di S. MOSCARDELLI), è letto diversamente: al posto del chiaro «Ugo figlio di Azzo», si offre un Azzo figlio del fu Guiberto di cui non c'è traccia nel documento (<www.archiviodistato.firenze.it>).
76. Cfr. in Archivio di Stato di Firenze, Diplomatico pergamene (secc. VIII-XVI), rispettivamente Normali; cod. id. 3161 (Riformagioni, 1106), e Normali; cod. id. 4536 (Badia di Coltibuono, 1140).
77. I documenti del 1094 e del 1110 sono citt. in L. PASSERINI, Genealogia e storia della famiglia Ricasoli, Cellini, Firenze 1861, pp. 26-29.
78. «… venit Gradalone, filius Azzonis», si legge in C. FABBRI, Statuti e riforme del Comune di Terranuova, 1487-1675, «Biblioteca storica toscana», 25, 1989, p. 343.
79. In F. SCHENEIDER, Regestum volaterranum. Regesten der Urkunden von Volterra (778-1303), Roma 1907, passim, troviamo altre notizie su questo Gradalone (1106). Altre fonti (cfr. Documenti di storia italiana, X, Cellini, Firenze 1895, passim; Il Libro Bianco di San Gimignano. I documenti più antichi del comune (secoli XII-XIV), a cura di D. CIAMPOLI, saggio introduttivo di D. WALEY, con trascrizioni di J. VICHI IMBERCIADORI, p. 310; R. DAVIDSONH, Forschungen Geschicte von Florenz, Berlin 1900, pp. 98, 122, 294) permettono di raccogliere notizie ulteriori sulla sua famiglia. Indichiamo tra parentesi la data del documento in cui le singole persone sono ricordate. Suoi figli sembrano Paganello (1167) e Bonaventura (1190). Da Paganello pare nascere un altro Gradolone («de Santo Ieminiano»). Da questo secondo Gradolone potrebbero derivare Ildebrandino di San Gimignano (1205), Dando (1224 e 1251) ed un Gradolone junior (1255). In altro atto del 1265 si cita la «famiglia di Gradolone».
80. Si ricordi quanto si legge in MURATORI, Antichità Estensi, I, Stamperia Ducale, Modena 1717, p. 254: «…nel decimo secolo ebbe origine l'uso di aggiungere il cognome al nome di Battesimo».
81. Abbiamo già ricordato il «Malamtestam» di Sigonio.
82. Regestum Volaterranum, cit., doc. 194 del 1163, p. 69. Nel doc. 202 del 1167, p. 72, si legge invece Gualandello «Malateste».
84 Regestum volaterranum, cit., doc. n. 245 del 1198 (Pietra), p. 84 per «Galganus», doc. n. 341 del 1216 (Arezzo), p. 120 per «Ugolinus», e doc. 442 del 1227 (Monte Voltrajo), p. 156 per «Rugerinus».
85. Regestum volaterranum, cit., docc. n. 247 e 248 del 1199, p. 89.
85. CURRADI, Alle origini dei Malatesti, cit., pp. 11-13.
Una strada per Canossa

Abbiamo ricordato che Willa di Camerino ha doppie nozze: è moglie, oltre che di Oberto II, pure di Umberto di Toscana. Umberto e Willa generano Ugo od Ugone. Il quale da Giuditta (sposata nel 961) ha soltanto una figlia, a cui si dà il nome della nonna, Willa. Mancando eredi maschi, alla scomparsa (21.12.1001) di Ugone il suo titolo di marchese di Toscana passa a Bonifazio II, il cui padre Alberto di Panico (figlio di Teobaldo II fratello di Willa di Camerino) era cugino di Ugone. Bonifazio II scompare attorno al 1012. Il titolo di marchese di Toscana passa prima a Ranieri I Del Monte Santa Maria che muore attorno al 1026, e poi (1027) a Bonifazio III padre di Matilde, per volere di Corrado II.
La dinastia dei Del Monte Santa Maria poi detta «de' Bourboni» [86] interessa anche il nostro argomento malatestiano. Ritorniamo a Bonifazio II, per indagare circa il passaggio del titolo di marchese di Toscana da lui a Ranieri I Del Monte Santa Maria. Diverse genealogie sono state costruite per spiegare la nascita di Ranieri I, ma nessuna convince Emanuele Repetti che conclude: «La cosa meno dubbia è che il Marchese Ranieri Del Monte S. Maria dovè succedere immediatamente al Marchese Bonifazio giuniore nel governo della Toscana e forse anche in quello di Camerino e di Spoleto» [87]. Certo è che da un figlio di Ranieri I, che si chiama Ugo I (Uguccione +1059), discende un Ranieri II il quale, da tale contessa Willa o Gisla [88], ha Ranieri III documentato nel 1100 [89]. Ranieri III potrebbe essere il padre di Uberto Salico secondo marito di Odierna del fu Rodolfo (o Ridolfo). Questa Odierna ci avvicina ai nostri Malatesti. In un documento del 1111, figura sposata con Uberto (detto Pennato in carte senesi [90]) e vedova di un Federigo Longobardo. Odierna ha una sorella, Imelda (attestata nel 1091), che è la prima moglie di quell'Azzo che da Adelagia, sua seconda consorte, ha l'Ugo «Malatesta» documentato nel 1103. «La cosa meno dubbia è che» quel Ranieri padre di Uberto Salico fa parte di una famiglia politicamente importante nella Toscana d'inizio XI sec. quando vi si trova anche l'Ugo «Malatesta» che ci interessa [91].
Interessa pure, a questo punto, riandare alla notizia che abbiamo riportato a proposito della donazione (1140) all'abbazia di Coltibuono da parte di Ugo figlio di Azzo «ex natione longobarda». Essa è inedita per quanto riguarda la storia malatestiana, al pari di quelle ricordate del 1091 (Azzo del fu Azzo) e del 1103 (Ugo «Malatesta» figlio di Azzo e di Adelagia). Va sottolineata l'importanza di quell'«ex natione longobarda» che si legge sul verso del documento del 1140. Lo facciamo riportando un'osservazione relativa agli Estensi: essi anticamente si dichiaravo «di nazion Longobarda: il che vuol dire che, o gli antenati loro dalla Germania a poco a poco ci comparvero pressanti la nazion Longobarda. Così il Signor Muratori» [92].
Insomma, seguendo appunto «il Signor Muratori», sulla cui autorità crediamo non possano sorgere quelle infondate discussioni che affascinano tanti attaccabrighe palazzeschiani (i quali sono «oggidì, / a tutte le porte»), il nostro Ugo figlio di Azzo «ex natione longobarda» lo si può considerare disceso da antenati venuti «dalla Germania». Aggiungeremo che varie fonti [93] ricordano come la stessa contessa Matilde si dichiarasse, per via del padre, «di nazione longobarda», pur avendo avuto madre e primo marito di «legge salica».
86. E. REPETTI, Dizionario geografico, fisico, storico della Toscana, IV, Allegrini e Mazzoni, Firenze 1841, p. 18.
87. Ibidem, p. 17.
88. REPETTI, Dizionario…, II, cit., p. 512.
89. La tavola genealogica V («Dei primi Marchesi del Monte S. Maria dopo la metà del secolo X fino dopo la metà del secolo XIII»), in REPETTI, Appendiceal Dizionario…, VI, Mazzoni, Firenze 1846, pone al vertice un marchese Ugo attestato nel 960. Da suo figlio conte Guido (972) nascono Elemberto vescovo di Cesa ed il marchese Ranieri I di Toscana e duca di Spoleto. La moglie di Ranieri I è Gualdrada la quale, rimasta vedova, si risposa con «un Conte Ubertino dal 1014 al 1027». Da Gualdrada e Ranieri I nasce Uguccione I, padre a sua volta di Arrigo I, Ugo o Uguccione II e Ranieri II (padre di Ranieri III).
90. Bullettino senese di storia patria, XXIX (1922), Siena 1922, pp. 60-62.
91. Le vicende medievali sono piene di dubbi e di smentite: Giambattista VERCI ne La storia degli Ecelini (Remondini, Bassano 1779, I, p. XXVI-XXXIV) racconta il caso di quell'«Ezerinus quondam Albrici» che («miles gregarius») si dice esser venuto in Italia con Ottone III imperatore nel 993 quale «contestabile», ma che in realtà arrivò dall'Alemagna soltanto quasi cento anni dopo, come attesta «lo storico Rolandino, che certamente è il più veridico».
92. Cronica della città di Verona descritta da Pier Zagata, colla continuazione di Jacopo Rizzoni, ampliata e supplita da Giambattista Biancolini, p. II, 1, Ramanzina, Verona 1747, p. 264. Ci si riferisce ad un passo delle citt. Antichità estensi, I, c. 15, poi ripreso dallo stesso MURATORI in Annali, tomo V, per il libraro Giovambattista Pasquali di Venezia, Milano 1744, p. 513, che ricorda (sotto la data del 998) un documento relativo ad Oberto II di Carrara «Progenitore de' Principi della Casa d'Este», in cui lo stesso Oberto si dichiara di nazione e legge longobarda.
93. Cfr. oltre ad ibidem, p. 263, e F. M. FIORENTINI, Memorie della gran contessa Matilda, Giuntini, Lucca 1756, p. 364; soprattutto MURATORI, Dissertazione ventiduesima, Delle leggi dell'Italia ne' secoli barbarici, e dell'origine degli Statuti, Vol. I, p. I delle Dissertazioni sopra le antichità italiane, III ed., Nicolj, Roma 1740, p. 357.
Romagna, il ruolo di Ravenna

Circa la Toscana, va aggiunto con Giovanni Tabacco che da essa i Canossa si trasferiscono in Emilia attorno al 940, e che nel sec. XI oltre alla marca di Toscana essi governano anche su Ferrara ed altre città (Brescia, Mantova, Reggio e Modena) [94]. Circa la Romagna Gina Fasoli scrisse che in essa «la Santa Sede non era mai stata in grado di governare direttamente e con efficacia le terre dell'antico Esarcato, dove si era invece andata affermando l'autorità degli arcivescovi di Ravenna» [95]. Ottone III riconosce lo stato di fatto conferendo appunto agli arcivescovi «il possesso di quella specie di principato ecclesiastico che si estendeva da Imola a Ferrara, Comacchio, Rimini, il Montefeltro (999)».
Una «costante tendenza autonomistica e antipapale» caratterizza la Chiesa ravennate. Che «per realizzarla si era sempre costantemente appoggiata all'impero» [96]. Questo particolare atteggiamento è importante proprio per segnalare un altro aspetto, legato alle attività temporali dei vescovi ed all'amministrazione dei patrimoni ecclesiastici che «avevano offerto a molte famiglie cittadine la possibilità di acquisire ricchezza e poteri» [97]. Per Rimini va aggiunto che, pur facendo parte della Pentapoli, essa «non ha rapporti di dipendenza ecclesiastica con Ravenna» [98]. I collegamenti avvengono soltanto attraverso i canali politici, in momenti che sono di intenso contrasto fra Chiesa ed Impero.
Al proposito, è interessante un'osservazione che si legge nelle Notizie storiche di Pesaro di Camillo Marcolini (Nobili, Pesaro 1868, p. 45): «... giova sempre ricordare che la signoria pontificia mentre lo impero fu tenuto da mani sì vigorose come quelle de' principi di Sassonia, era quasi affatto dimenticata dalle nostre città marittime le quali invece che da' Papi, dipendevano volentieri da' Cesari di Germania». Marcolini aggiunge: «Sembra poi che nel secolo XI cominciassero a salire in credito que' feudatari che furono chiamati Marchesi, e che divennero per gl'Imperatori veri governanti di provincie, aventi il possesso de' gran feudi soggetti unicamente alla sovranità imperiale». Nel corso dell'XI secolo, va pure ricordato con Gina Fasoli, gli uomini di governo «procedevano empiricamente» non preoccupandosi di organizzare in modo unitario ed omogeneo i loro territori, e si contentavano di mettere loro uomini di fiducia nei posti di comando [99]. Tra la fine del sec. XI e gli inizi del XII nella Romagna si ha un «moto centrifugo e antiravennate» che porta alla formazione dei Comuni [100]. Quel «groviglio di poteri emergenti dalle situazioni locali» [101] è lo sfondo su cui agiscono ed interagiscono personaggi noti (ovvero documentati) e protagonisti finiti in un dimenticatoio che non assurge a certificazione della loro inesistenza, come succede appunto per i Malatesti «tedeschi».
Il contesto politico europeo in cui si svolgono le vicende «locali» italiane d'età medievale, è un buon avviso per ricordare che in esso operano i Malatesti pure nei secoli successivi. Non sappiamo (per mancanza di studi, dovuti proprio a quella pregiudiziale circa la loro origine germanica), se fra Tre e Quattrocento il loro ruolo internazionale sia soltanto frutto di un'evoluzione immediatamente anteriore a quel periodo, oppure se derivi dalla stessa origine tedesca. Troppo acqua è passata sotto i ponti. E troppe fiamme hanno distrutto documenti che facilmente si presumono importanti. Come vedremo nelle pagine seguenti.
94. G. TABACCO, La storia politica e sociale, Storia d'Italia 2.1, Torino 1974, pp. 5-276, pp. 123-125.
95. G. FASOLI, Profilo storico dall'VIII al XV secolo, in Storia della Emilia Romagna, I, Bologna 1975, pp. 365-404, pp. 372-373.
96. Ibidem, p. 374.
97. Ibidem, p. 375.
98. M. G. TAVONI, Le città romagnole conquistano la loro autonomia. I tentativi egemonici di Bologna, in Storia della Emilia Romagna, I,cit., pp. 435-460, p. 441.
99. FASOLI, cit., p. 373.
100. A. I. PINI, Produzione artigianato e commercio a Bologna e in Romagna nel Medioevo, in Storia della Emilia Romagna, I,cit., pp. 519-548, p. 522.
101. TABACCO, cit., p. 125.
Non «fantasie» ma conferme

Restando sulla questione dell'origine tedesca dei Malatesti, alle cinque notizie accreditate sinora [102], possiamo aggiungere le diciotto riportate in queste nostre pagine [103] che ricostruiscono un preciso, incancellabile itinerario. Sul quale non possono gravare contraddizioni metodologiche che vanno risolte sul piano logico prima che su quello storiografico. Due esempi, per concludere il discorso.
Raffaele Adimari nel suo Sito riminese (la prima storia cittadina, 1616), pubblica la copia di un documento (1185) di conferma [104] da parte di Federico I delle concessioni fatte ai Malatesti da Ottone III. Nel 1610 quel documento è stato dichiarato falso da padre Cristoforo Facciardi detto Il Verucchino [105]. Adimari lo accredita come vero in relazione a quanto osservato [106] circa il ruolo della famiglia dei Malatesti di Rimini («ò di Germania, ò di Roma della penna de i Bille, ò d'altri luochi venisse»). Ruolo svolto con «molte onoratissime prove, per lo Sacro Imperio Romano contro i Tiranni d'Italia, massime al tempo d'Ottone Secondo Imperatore, della cui liberalità, per i servitij ricevuti, diede ordine, Ottone al Figliuolo Ottone Terzo, essendo ambedue insieme, che lo rimunerasse, e così da lui li fù concessa la Città di Rimino…» [107]. Se è falsa la parte relativa a Federico I (stando al Verucchino), non automaticamente è invalidata pure quella che richiama le precedenti concessioni di Ottone III.
Ai nostri giorni si continua definire frutto di «semplici fantasie» la questione delle origini germaniche dei Malatesti, ma poi si sostiene che ciò non compromette «l'attendibilità» di un documento [108] del 1186 che riguarda appunto un «Malatesta Tedesco» [109]. Ma quest'ultimo personaggio rimanda proprio all'omonimo «Germanus» che due secoli avanti (997) da Ottone III ricevette un'investitura, come abbiamo letto in Carlo Sigonio [110].
Allo stesso secolo X appartiene lo «scudo triangolare con tre bande scacchate» visto a Pesaro domenica 17 luglio 1763 da Giovanni Bianchi. Il quale così ricorda l'episodio: «La mattina m'alzai per tempo, e scrissi una lettera al Sig. Canonico Garampi in Roma […]. Prima che uscissi di casa venne da me il Sig. Conte Francesco fratello del Sig. Canonico […] e con Lui era il Sig. Serafino Calindri Perugino Appassatore, il quale ci mostrò un'arme di casa Malatesti ritrovata in marmo da Lui nella Penna de' Billi fatta a scudo triangolare con tre bande scacchate, e sopra ci era inciso DCCCCL. Io ebbi difficoltà se i Malatesti della Penna avessero il blasone del 950 e restammo che se ne scrivesse al Sig. Canonico» [111]. Questo canonico è l'illustre studioso Giuseppe Garampi (1725-1792) futuro cardinale. Serafino era giunto a Rimini alla fine dell'anno prima per redi¬gere il nuovo cata¬sto del ter¬ritorio [112].
Quella pietra «con tre bande scacchate» [113] e la data del 950, rimanda alle dispute erudite sull'origine dei Malatesti raccontate da Luigi Tonini [114], e riguardanti pure gli stemmi di famiglia con la stessa scacchiera: si va da quello della Penna con la data del 1004 all'altro di Pietrarubbia «anteriore al 1100». Tonini ricorda che «l'Antonini nel Discorso in fine del Supplemento alla Cronica di Verucchio ebbe a produrre più dubbj intorno alla antichità di questi stemmi». Tonini aggiunge: «a noi sta a dire che troviamo Malatesti in Rimini molto prima che vi scendessero quelli da Verucchio: e quei primi stessi che ci vennero da quel Castello si confessano riminesi o almeno aventi origine di qua» [115].
Francesco Gaetano Battaglini sin dal 1789 aveva constatato che «il Casato de' Malatesti» all'inizio del XIII sec. appare «già potente di castella, e di giurisdizioni, ed in antico possesso d'esenzione da ogni gravezza nel nostro contado» come nessun altro, per cui ipotizzava: è «assai verisimile, che gli antenati de' Malatesti fossero già da gran tempo infeudati di luoghi assai forti nel contorno del Riminese, ed avessero loro vassalli da capitaniare in sull'armi» [116]. La conclusione di Battaglini è questa: «io preferirei volentieri d'attribuir loro per insegna maggiore quella semplicissima dello scacchiere». Che Bianchi aveva osservato a Pesaro nel 1763, e noi possiamo vedere ancor oggi a Rimini nell'attuale piazza Malatesta, non soltanto sulla facciata di Castelsismondo ma pure nell'addizione del palazzo comunale o dei Consoli, che risale attorno al 1330 [117]. L'immagine dello scacchiere, con il suo etimo tedesco («mandare») [118], suggerisce la funzione di chi se ne fregiava, quella di «missus» (ovvero giudice o commissario [119] ) del potere politico, come si constata proprio nel nostro caso, con il Malatesta «Tedesco».
102. Esse sono relative agli anni 1121, 1127, 1129, 1131, 1132: cfr. CURRADI, Alle origini dei Malatesti, cit., pp. 11-14.
103 Le fonti, come risulta dalle singole citazioni riportate, sono relative agli anni 1091, 1094, 1103, 1106, 1110, 1140, 1163, 1167, 1190, 1198, 1199, 1205, 1216, 1224, 1227, 1251, 1255 e 1265.
104. R. ADIMARI, Sito riminese, Bozzòli, Brescia 1616, p. 51.
105. Cfr. la sua Appendice d'intorno alla prima e vera origine di casa Malatesta, pp. 10-16 in Vita del beato Giovanni…, Simbeni, Rimini 1610; CURRADI, Alle origini dei Malatesti, cit., p. 17.
106 ADIMARI, cit., pp. 44-45. A p. 51 si legge: «… senza estraherne argomenti da luochi lontanti, come hanno forsi fatto alcuni altri; e tanto più, perche mi par conveniente a dire col Volterrano, Sabellico…».
107. Il Sito riminese è una rielaborazione di pagine «sparse» composte dal dottor don Adimario Adimari, rettore di Sant'Agnese e figlio del cavalier Nicolò. Nell'introduzione [p. V], Raffaele non precisa quale sia la parentela che lo lega al sacerdote, ma altrove lascia un importante indizio. Raccontando la congiura antimalatestiana del 1498, scrive che essa fu organizzata nella casa dei suoi «antecessori», cioè il cavalier Nicolò e «Adimario suo Padre» (II, p. 54). Questo Nicolò padre del prete-scrittore Adimario, e morto nel 1565 (come apprendiamo dallo storico Gaetano Urbani, Raccolta di scrittori e prelati riminesi, SC-Ms. 195, inizio sec. XIX, BGR, c. 2.) ebbe altri quattro figli: Tiberio e Cesare, entrambi senza prole, Antonio ed Ottaviano. Raffaele è quindi figlio di uno di questi ultimi due. Ed il prete-scrittore è uno zio (e non prozio come talora si legge) di Raffaele. Il quale ricevette in dono le 62 carte «sparse» dell'Elogio del sito riminese (SC-Ms. 617, BGR) di don Adimario il 20 dicembre 1605 dal nobile Francesco Rigazzi che le possedeva (Schede Gambetti, nn. 111, 113 fasc. 1; 25, fasc. 76, BGR). Su Adimari, cfr. il saggio cit. Esilio di fiorentini in Romagna nell'età di Dante.
108. BATTAGLINI, cit., p. 309.
109. G. L. MASETTI ZANNINI, I rami collaterali della famiglia Malatesti, ne I Malatesti, cit., pp. 307-342, 318; CURRADI, Alle origini dei Malatesti, cit., p. 18.
110. SIGONII, Historiarum de Regno Italiae, cit., p. 184.
111. G. BIANCHI, Odeporici 1755-1766, Edizioni CISVA (Centro Interuniversitario Internazionale di Studi sul Viaggio Adriatico), Lecce 2007, p. 80 (<www.viaggioadriatico.it/ViaggiADR>).
112. A. MONTANARI, Lumi di Romagna. Il Settecento a Rimini e dintorni, Rimini 1992, pp. 27-34 su Garampi, pp. 65-70 per Calindri.
113. In altri passi degli Odeporici si legge: «in Pesaro m'era scordato di dire che passando innanzi alla Chiesa di San Francesco vidi che c'era una bella porta di marmo intagliata, ma alla gottica, e da ciascuna parte al di sopra ci era un elmo, e dentro dell'elmo ci era l'arme de' Malatesti, cioè tre bande scaccate, e sopra dell'elmo ci è come un cuscinetto, e sopra di questo ci è un'ala, come sopra gli elefanti di San Francesco di Rimino» (1757, p. 28); «in Verucchio poco distante dalla Porta a man sinistra nell'abitazione del Maestrato, sulla facciata […] a man sinistra si ritrova un altro scudo coll'arme solita de Malatesti, che sono tre bande scaccate…» (1762, p. 72).
114. TONINI, Rimini cit., II, pp. 398-400.
115. Ibidem. Tonini rimanda al documento 92 del dicembre 1197 (pp. 603-607).
116. BATTAGLINI, cit., p. 192.
117. G. GOBBI-P. SICA, Rimini, Bari 1982, p. 41; BATTAGLINI, cit., p. 217.
118. Su ciò, cfr. M. MÉNAGE, Dictionnaire etymologique de la langue françoise, I, Biasson, Paris, 1750, pp. 508-509. Dello stesso autore, sono Les origines de la langue françoise, Courbé, Paris 1650, e Le origini della lingua italiana, Chouet, Geneva 1685. Ménage (italianizzato in Menagio) è ampiamente cit. da L. A. Muratori nella diss. XXXII, Dell'origine della lingua italiana, «Dissertazioni sopra le antichità italiane», II, cit., pp. 71-114.
119. Si veda il cit. MÉNAGE, Dictionnaire etymologique…, p. 508.
Federico II: Rimini 1226 e 123

Rimanda al discorso sulle origini tedesche dei Malatesti anche quanto accade a Rimini nel 1226 e nel 1231. Cominciamo da quest'ultimo evento, non «citato né dalla storiografia locale, né dalle fonti documentarie e cronachistiche coeve» [120]. Esso infatti può contribuire a comprendere i legami tra la città di Rimini ed il potere imperiale, di cui essa stessa è considerata un «caposaldo» [121]. Nel 1231 Federico II transita nel territorio riminese, come attesta l'epigrafe di San Martino in XX venuta «alla luce nel 1973-74» [122]. Tale epigrafe è considerata da Anna Falcioni «una preziosa testimonianza storica a conferma della costante presenza di Federico II di Svevia nel mondo romagnolo, quale roccaforte nel programma di restaurazione imperiale da attuare nel Regnum Italiae» [123]. Presenza che nel 1226 ha avuto attestazione di grande rilevanza, quando proprio da Rimini Federico II ha promulgato la sua Bolla d'oro.
I due episodi del 1226 e del 1231 non possono essere disgiunti dai fatti successivi che avvengono a Rimini sul finire del sec. XIII. Abbiamo già ricordato che nel 1295 il guelfo Malatesta da Verucchio mette in fuga il capo dei ghibellini Parcitade, il cui fratello Montagna è ucciso in carcere dal figlio di Malatesta. Con la vittoria sul partito imperiale, ogni richiamo alle origini tedesche di casa Malatesti poteva suonare contraddittorio rispetto agli interessi contingenti della politica.
Possiamo riepilogare i fatti che li documentano. Il re dei Romani Rodolfo d'Asburgo, in cambio della corona imperiale nel 1278 lascia al papato il dominio della Romagna, piena di moti di ribellione. I magistrati riminesi, per aver imposto collette alle terre arcivescovili, sono scomunicati (1279), mentre restano per il momento ottimi i rapporti fra la Chiesa e Malatesta. Martino V nel 1281 elogia la sua devozione e l'aiuto in armi ricevuto, però gli intima di non dare in moglie una sua figlia ad un figlio di Guido da Montefeltro. Come ringraziamento per altri interventi armati, il papa nel 1283 conferma ai riminesi gli antichi privilegi. Nel 1285 Malatesta scampa a Cesena ad un attentato, ed è ancora podestà di Rimini mentre suo figlio Giovanni lo è a Pesaro. Il loro potere si estende alle città vicine.
Onorio IV attraverso il conte di Romagna tenta di soffocare le tendenze autonomistiche. Malatesta cerca di eliminare le controversie locali per costituire un fronte antipapale. Fa pace nel 1287 con i faentini, al cui signore (Francesco Manfredi) dà in sposa la figlia Rengarda. Sfugge ad un altro attentato, preparatogli dal conte di Romagna sulla strada tra Cervia a Rimini: suo fratello Giovanni da Sogliano, è catturato con molti del seguito. La loro liberazione gli costa 4.000 lire ravennati.
Per aver assediato la Rocca di Cervia e aver fatto ribellare alcuni Comuni, Malatesta il 3 febbraio 1288 è accusato di lesa maestà, con l'ordine di discolparsi entro cinque giorni. Disattesa l'ingiunzione, è condannato a morte. Il 22 febbraio viene eletto il nuovo papa, Niccolò IV, che mira ad una politica di conciliazione. Per avervi aderito, Malatesta viene cacciato da Rimini quale ribelle, benché podestà. Per ristabilirsi in patria si allea con il conte di Romagna, mentre i suoi figli Giovanni e Malatestino occupano Santarcangelo e Montescudo. Rimini lo grazia, obbligandolo a pagare le collette e sottostare alle imposizioni come ogni altro cittadino.
Nel 1290 fallisce una rivolta popolare contro il dominio papale. Il nuovo conte, Stefano Colonna, perdona le offese. La 'giustizia' tuttavia fa il suo corso. Un capopopolo, Martin Cataldi, confessa sotto tortura la congiura e finisce alla forca. Rimini è sottoposta all'interdetto, da cui sarà prosciolta nel 1295, e viene privata dell'elezione del podestà. Ravenna si solleva contro Colonna, e lo imprigiona. Malatesta ed altri capi guelfi delle città vicine, cacciano da Forlì il Legato pontificio: «tutta Romagna fu tolta agli Ufficiali della Chiesa» [124]. Rimini ripassa nelle mani di Malatesta che chiama come podestà Rodolfino da Calisese. Nel 1294 incaricherà il proprio genero, Bernardino Da Polenta.
Durante la sede vacante (1292-1294) si forma una vittoriosa lega romagnola contro la Chiesa. Malatesta è podestà di Cesena; Malatestino, di Bertinoro; Giovanni, di Faenza. Il governatore di Romagna, dopo l'elezione di Bonifacio VIII (1295), vorrebbe umiliare i Malatesti, e medita di atterrare le loro case. I guelfi ottengono in ottobre un nuovo conte, Guglielmo Durante, subito omaggiato dai ghibellini. Cresce dovunque la tensione. I partiti avversi si armano anche a Rimini. Nessuno si decide a cominciare lo scontro. Finché arriva il 13 dicembre 1295, con la nascita della signoria malatestiana.
L'episodio del 1231 con Federico II che transita nel territorio riminese, obbliga ad una veloce, finale annotazione sulla scorta di quanto osserva Anna Falcioni [125]: l'«iter tiberinum» costituisce un antico collegamento fra Toscana e Romagna. Aggiungiamo con Elena Rodriguez che c'è poi da considerare la via «ariminensis» «o iter arretinum», diramazione da Sansepolcro dell'«iter tiberinum» stesso [126]. Queste due strade sono ben visibili nel panorama di quel fondovalle di cui abbiamo detto all'inizio, e che i primi Malatesti percorrono. Come dimostrano i documenti che abbiamo letto [127].
[120] A. Falcioni, Federico II di Svevia e l’epigrafe di S. Martino in XX di Rimini, Rimini 1997, p. 12.
[121] Ibidem, p. 11.
[122] Ibidem, p. 3. Una traduzione di Aurelio Roncaglia (1982) ci propone questo testo: «Nell’anno del Signore 1231, sotto il papato di Gregorio e l’impero di Federico, nella quarta indizione, al tempo in cui l’imperatore Federico venne a Rimini…» (ibidem, p. 8).
[123] Ibidem, pp. 8-9.
[124] Tonini, Rimini nel secolo XIII, III vol. della Storia civile e sacra riminese, Malvolti ed Ercolani, Rimini 1862, p. 161.
[125] Falcioni, Federico II, cit., pp. 21-22.
[126] E. Rodriguez, La valle del Marecchia nel quadro delle comunicazioni tra Toscana e Romagna, in Urbanizzazione delle campagne nell’Italia antica, Atlante Tematico di Topografia Antica, 10, Roma 2001, pp. 89-107. Cfr. pure A. Alessandri, I municipi romani di Sarsina e Mevaniola, Milano 1928, p. 78.
[127] Sono quelli relativi alle ventitré notizie (le cinque accreditate sinora e le diciotto riportate in queste nostre pagine) che, come si è osservato, ricostruiscono un preciso, incancellabile itinerario.
Cleofe, la sposa per Bisanzio

Cleofe Malatesti [128] di Pesaro «visse miseramente, soffrendo da buona Cattolica mille insulti dallo scismatico Teodoro suo marito» (1396-1448), despota di Morea e figlio dell'imperatore bizantino Manuele II (1350-1425), sposato il 19 gennaio 1421[129]. Nel 1782 Annibale Degli Abati Olivieri Giordani [130] per primo ne rivela la drammatica vicenda pubblicando la lettera inedita inviata nel 1427 [131] da Battista di Montefeltro (1384-1448) a Martino V, Oddone Colonna, per invocarne un intervento «in difensionem» della propria cognata. Malatesti e Montefeltro sono imparentati con il papa tramite due sue nipoti: Vittoria Colonna nel 1416 ha sposato Carlo, fratello di Cleofe; Caterina Colonna dal 1424 è la seconda moglie di Guidantonio di Montefeltro (1377-1443) [132], fratello di Battista. La prima consorte di Guidantonio era stata, dal 1397 al 1423, Rengarda, figlia di Galeotto I Malatesti (1299-1385) di Rimini.
Battista, dotta [133] e coraggiosa, è divenuta moglie di Galeazzo Malatesti (1385-1448) fratello di Cleofe nel 1405. Nel 1416 Galeazzo e Carlo Malatesti (1368-1429) di Rimini, fratello di Rengarda, sono stati catturati da un capo-brigante, Braccio di Montone (1368-1424) figlio del nobile perugino Oddo, ingaggiato da Giovanni XXIII, antipapa dalla tempra di condottiero spietato degna d'un principe laico. Per ottenere la loro liberazione la moglie di Carlo di Rimini, Elisabetta Gonzaga, si è appellata ai padri conciliari riuniti a Costanza (1414-1418). La parentela fra il ramo marchigiano e quello riminese, è in apparenza lontana. Da Pandolfo I (1304-1326) figlio del fondatore della dinastia Malatesta da Verucchio, sono nati il ricordato Galeotto I e Malatesta Antico detto Guastafamiglia (1322-1364). A costui fa capo il ramo marchigiano con suo figlio Pandolfo II [134] signore di Pesaro, Fano e Fossombrone, ed il figlio di costui Malatesta I, detto «dei Sonetti o Senatore» (1366?-1429), padre di Carlo, Cleofe e Galeazzo [135]. Il ramo riminese-romagnolo deriva da Galeotto I, fratello del bisnonno di Cleofe. A consolidare la parentela, oltre agli affari ed alle imprese mercenarie, sono state le due sorelle Da Varano di Camerino: Gentile sposatasi (1367) con Galeotto I [136], ed Elisabetta moglie di Malatesta I dal 1383.
Per le proprie nozze Cleofe riceve da Martino V la speciale dispensa che le garantisce il rispetto della fede cattolica [137]. Il futuro marito per iscritto il 29 maggio 1419 le promette «libertà di vivere secondo suo rito, e secondo i costumi d'Italia» [138], oltre alla completa autonomia circa le funzioni liturgiche. Teodoro viene poi meno ai patti. Battista nel 1427 scrive al papa che Cleofe «a viro suo cogebatur sequi opinionem Graecorum». Le «diuturnae ac incredibiles angustiae» che affliggono Cleofe, preoccupano Battista per la salute spirituale della cognata: «Timendum namque est, ne mens illa, quae invisibili subsidio roborata hucusque incredibili fortitudine immota permansit, deicenps pusillanimitatem deficiat, praesertim si in mediis fluctibus se derelictam senserit, nec saltem sibi manum porrigi sublevatam».





































































[128] L’argomento di queste pagine è stato da noi esaminato in due precedenti scritti: Cleofe Malatesti, 1421. Tragiche nozze bizantine, «Civiltà del Mediterraneo», VIII (XIII), 15, Giugno 2009, Edizioni di storia e letteratura, Roma 2009, pp. 19-45; Pietre sul Mediterraneo. Il tempio di Sigismondo Malatesti, in «Civiltà del Mediterraneo», VI-VII (2007-2008), Guida, Napoli 2008, 12-13, pp. 13-33.
[129] Cleofe nasce ante 1405, anno della morte di sua madre Elisabetta Da Varano (nata nel 1367). Per la data delle nozze (1421), cfr. C. Diehl, Figures byzantines, II, Paris 19278, pp. 284-285; A. E. Vakalopoulos, Origins of the Greek Nation: The Byzantine Period, 1204-1461, New Brunswick NJ 1970 («19 gennaio 1421»); G. Franceschini, I Malatesta, Varese 1973, p. 283; S. Ronchey, L’enigma di Piero, Milano 2006, p. 38 (il cui Regesto minore, pp. 447-510, va integrato con il Regesto Maior, <www.silviaronchey.it/materiali/regesto.pdf>). Altri testi indicano il 1420, nel cui agosto Cleofe parte da Rimini: cfr. G. Broglio Tartaglia, Cronaca malatestiana del secolo XV, a cura di A. G. Luciani, Rimini 1982, p. 14.
[130] A. Degli Abati Olivieri Giordani, Notizie di Battista di Montefeltro, Gavelli, Pesaro 1782, p. XXXV.
[131] La lettera, senza data, forse risale al 1427 (cfr. infra). Essa è poi pubblicata nel 1851, senza citare Olivieri come fonte, in J. Dennistoun, Memoirs of the Dukes of Urbino, Illustrating the Arms, Arts, and Literature of Italy, from 1440 to 1630, I, Longman, Brown, Green, ad Longmans, London 1851, pp. 412-413. La lettera è conservata nel «prezioso Codice del Marchese Locatelli», scrive Olivieri, Notizie cit., p. XXXV. Al «codice Locatelli» si fa riferimento (non rinviando ad Olivieri) in O. F. Tencajoli, Principesse italiane, Roma 1933, p. 118.
[132] Sull’importanza politica di tali nozze, cfr. B. Roeck, Piero della Francesca e l’assassino, Torino 2007, pp. 76-77. Al centro della drammatica vicenda qui narrata c’è Oddantonio, figlio di Caterina Colonna e Guidantonio (p. 78), il «giovane scalzo in tunica rossa» della Flagellazione di Piero della Francesca (pp. 15, 19) ucciso nel luglio 1444 (pp. 26-27).
[133] P. Parroni, La cultura letteraria a Pesaro sotto i Malatesti e gli Sforza, in Pesaro tra Medioevo e Rinascimento, Venezia 1989, pp. 208-209.
[134] Si considera nato nel 1325 e defunto nel 1373 a 48 anni, in base a fonte (autore ignoto) riportata da Olivieri nel 1784 in Orazioni in morte di alcuni sigori di Pesaro, Gavelli, Pesaro pp. XXIV-XXVII. Circa la prima data, secondo L. Mascetta-Caracci, Sulle pretese rime prepostere del Petrarca (27.7.06), in Zeitschrift für romanische Philologie, XXXI, Halle 1907, pp. 36-105, «il nostro Pandolfo dal 1331 al 1338 spiega tutta la maturità di capitano, di dominatore, di politico e di mestatore: e sarebbe nato nel 1325, e avrebbe fatto mostra di tanta precocità fra i sei e i tredici anni!» (p. 59). In un passo precedente (pp. 54-55) Mascetta-Caracci dichiara il suo disaccordo con quanti ritengono che Pandolfo II «nascesse non prima del 1325, e che la sua prima impresa militare fosse quella contro Fano nel 1343». Poi, riandando all’Amiani (1751), ricorda che i fratelli Galeotto e Pandolfo Malatesti nel 1331 «premuravano il loro parente Ferrantino a rendere Rimini e il suo contado alla Chiesa». Quindi precisa: «Nessun dubbio, inoltre, sulla parte presa da Pandolfo negli avvenimenti di Romagna durante gli anni 1335 e successivi» (p. 57). Infine Mascetta-Caracci ricorda che l’abate De Sade (cfr. infra) aveva «fatto conoscere agli studiosi come Pandolfo nel 1331 conseguisse da Papa Giovanni XXII una dispensa di matrimonio con una Lupa Francesca figlia di Bernardo, conte di Marsano [recte: Marsciano], diocesi di Perugia; la qual notizia egli traeva dai Regesti dei papi Avignonesi» (pp. 61-62). Il documento è in L. Tonini, Rimini nella signoria de’ Malatesti, Albertini, Rimini 1880, IV, 2, pp. 123-124, dove si legge «Puppa» anziché «Lupa». La dispensa è diretta personalmente a Pandolfo (chiamato «vir» al pari del padre) ed a Lupa, che quindi non dovevano essere bambini (pp. 62-63). Mascetta-Caracci esamina l’origine di quella data 1325, e conclude (p. 69) che Pandolfo II «dev’esser nato fra il 1310 e il 1315», analizzando la fonte presente in Olivieri (pp. 67-68). A proposito della quale suggerisce: «Pandolfo morì in tarda età […] di molto superiore ai 48 anni» (p. 69). In J. F. P. A. de Sade, Mémoires pour la vie de François Petrarque, Chez Arskée et Mercus, [falsa data di] Amsterdam 1767, p. 425, si citano le nozze di Pandolfo nel 1331 con Lupa Francesca, con in nota la fonte della dispensa papale: «Reg. Joann. XXII. tom. 38, fol. 771». L’ecclesiastico e letterato francese Jacques François Paul Aldonce de Sade, 1705-1778, pubblicò anonima ad Avignone la sua opera (con la ricordata falsa data di Amsterdam, com’era frequente costume del tempo). La sua opera è analizzata da Girolamo Tiraboschi nelle Riflessioni..., pp. LXXXV-CXVIII che si leggono nel vol. I delle Rime petrarchesche, apparso nel 1805 a Milano per la Società Tipografica de’ Classici Italiani, con note del p. Francesco Soave, dopo la Vita di F. Petrarca, composta dallo stesso Tiraboschi, pp. VII-LXXXIII. Con Mascetta-Caracci si è dichiarata d’accordo Gunilla Sävborg presentando l’edizione critica delle Epistole tardive di Francesco Petrarca (Acta Universitatis Stockholmiensis. Studia Latina Stockholmiensia, 51, Stockholm 2004): «Mascetta-Caracci argomenta, senza precisare nessuna fonte, contro il fatto che Pandolfo fosse nato nel 1325. Durante il periodo 1331-1338 Pandolfo agì come uomo maturo e come politico ed io sono d’accordo con Mascetta-Caracci nel domandarmi se Pandolfo avesse potuto fare questo se fosse nato così tardi…» (cfr. p. 46, nota 75). Sävborg scrive per la nascita di Pandolfo «circa 1310-1315». Ringrazio per la collaborazione la dott. Maria Luisa Salvadori della Biblioteca comunale di Orvieto.
[135] Cfr. le biografie (composte da A. Falcioni) in Dizionario Biografico degli Italiani [DBI], 68, Roma 2007, di Malatesta I (pp. 77-81), Carlo (pp. 21-23) e Galeazzo (pp. 37-40). Omettiamo infra i riferimenti per i personaggi non pesaresi ivi presenti. In molti testi si erra sulla genealogia di Cleofe, definendola figlia di Carlo di Rimini: cfr. ad es. C. A. Maltezou - P. Schreiner (a cura di), Bisanzio, Venezia e il mondo franco-greco (13.-15. sec.), Helleniko Instituto Byzantion, Venezia 2002, pp. 135-138.
[136] È la seconda moglie di Galeotto I Malatesti. La prima, Elisa (sposata il 3.6.1324) è figlia di Guglielmo signore della Valletta e nipote del rettore della Marca d'Ancona; genera Rengarda e muore nel 1366. Pure Rengarda scompare nel 1366. Anche Gentile (o Gentilina) Da Varano era reduce da un precedente matrimonio, con Gentile Orsini conte di Sovana, a cui dette Nicolina. Gentile Orsini era figlio di Guido e di Agostina della Gherardesca. Guido era nato da Romano (detto pure Raimondo) e da Anastasia Aldobrandesca-Monfort, sposatisi nel 1293. Romano è nipote di Bertoldo Orsini un cui fratello, Orso (1240-1304), è il nonno di Paola (1323-1371) divenuta nel 1362 moglie di Pandolfo II Malatesti: da loro nasce Malatesta I «dei Sonetti», il padre della nostra Cleofe. Fratello dei ricordati Bertoldo ed Orso Orsini, è il cardinale Matteo Rosso (1230-1305).
[137] Il papa in precedenza, l'8 aprile 1418, aveva autorizzato i figli dell'imperatore bizantino a sposare donne cattoliche (RONCHEY, L'enigma, cit., p. 21). La lettera di Martino V a Cleofe, tratta dal Codice Barberiniano Latino 878, cc. 229-230, si legge in D. ZAKYTTHINOS, Le despotat grec de Morée, I, Parigi 1932, pp. 301-302. La riproduciamo integralmente: «Putabamus, dilecta in Christo filia, ut postquam te dilecto filio excellenti principi Theodoro Palaeologo disposito more matrimoniali toro coniuxeramus et ad partes illas profecta fueras alios ad veram fidem Christi et cognitionem catholicae veritatis pro tua sapientia et doctrina, prout teneris et debes allicere et inducere debuisses. Et propterea quia de salute tua paterna semper sumus affectione soliciti, et plurimum formidamus, ne propter quotidianam conversationem cum illis ritui orientalis Ecclesiae assuescas et devies a catholicae fidei documentis, quod mentem nostram non mediocriter anxiaret, tibi in virtute sanctae oboedientiae et sub excommunicationis poena, quam si confeceris te incurrere volumus eo ipso, praecipimus et mandamus, ut quantum nostram gratiam et benedictionem in te desideras conservare omnibus illis patriae ritu, moribus caerimoniisque reiectis, a doctrina catholicae fidei penitus alienis, ad veram christianam religionem et unicam sanctam Romanam Ecclesiam, extra quem non est salus cum omni humilitate et cordis contritione ac paenitentia si forsan excesseris revertatur et in divinis officiis audiendis et missis celebrandis iuxta formam catholicae Ecclesiae consuetam praeter quam in certis casibus per nos et literas nostras tibi permissis atque concessis immutabiliter perseveres. Quod si te forsan contra facere contingat et viam relinquere catholicae veritatis et orientalis Ecclesiae ritui et caerimoniis inherere, quod te tamen non putamus esse facturam si nostris potius monitis obsequentem,arctiorem a nabis poenam consequeris. Caeterum, carissima filia, ut saluti animae tuae, quam semper appetimus, consulatur et in partibus Noricae aliquem locum pro usu et habitatione fratrum tam mendicantium, quamaliorum ordinum, aut presbyterorum secularium, qui inibi iuxta catholicae Ecclesiae documenta vivant et in divinis Domino solemniter cum nostra gratia et licentia sedis Apostolicae construere possis, unam super hoc et quasdam alias literas, quas tibi necessarias esse putavimus ad salutem per dilectum filium Lucam de Offida, ordinis fratrum Heremitarum Sancti Augustini professorem in Theologia magistrum latorem praesentium destinamus, cui in iis, quae tibi pro parte nostra reserabit, adhibe credentiae plenam fidem».
[138] F. UGOLINI, Storia dei conti e dei duchi d'Urbino, Grazzini Giannini, Firenze 1859, p. 192. In nota 5 si indica la provenienza: «Archivio centrale, registro delle pergamene d' Urbino, N. 23d». Anziché 29 maggio 1419 in RONCHEY, L'enigma, cit., p. 77, si legge 29 marzo. UGOLINI riprende questa come altre notizie presenti nella stessa p. 192, da un autore ricordato nelle rispettive note 3 e 4, cioè DENNISTOUN, Memoirs of the Dukes of Urbino, I, cit., p. 36, nota 2 in cui leggiamo: «A very curious contract, preserved in Archivio Diplomatico at Florence, and dated 29th May 1419, secures to her the exercise of her own religion and native usages during the marriage, and in case of widowhood, permits her return to Italy». Cfr. S. LAMPROS, Palaiologeia kai Peloponnesiaka, I-IV (Athenai 1926-1930), IV, Athenai, 1930, pp. 102-103. Il testo italiano del patto nuziale derivato da LAMPROS, è in TENCAJOLI, Principesse cit., p. 117: questa è la fonte (non cit.) di L. SAMPAOLI, Guillame Dufay: un musicista alla corte dei Malatesti, Rimini 1985. p. 42.
«Ch'ella infine tornasse a casa»

La lettera di Battista di Montefeltro ed il testo di Annibale Olivieri del 1782 finiscono sotto gli occhi di Francesco Gaetano Battaglini (1753-1810) che a Rimini sta preparando una biografia di Sigismondo Pandolfo Malatesti, da inserire nell'edizione dell'Hesperis di Basinio Parmense (1794), assieme ad un saggio di suo fratello Angelo Battaglini (1759-1842) sulla «corte letteraria» dello stesso Sigismondo [139]. L'introduzione all'opera, composta da Francesco Gaetano con dedica a Lorenzo Drudi, medico e futuro bibliotecario gambalunghiano (1797-1818), permette di entrare in quella che, per usare il termine caro sia a Roberto Longhi sia a Dante Isella, possiamo definire la loro «officina» letteraria. Dove la figura di Cleofe occupa un posto non secondario, come testimonia il passo in cui Battaglini confida a Drudi: «Ma io debbo pure ricordarmi avere voi preveduto, che alcune notizie che avevamo in pronto, non sarebbero cadute acconciamente nel mio scritto, e che tra l'altre non vi sarebbe caduto di ricordare comodamente quella Cleofe figliuola di Malatesta Signor di Pesaro…».
Battaglini mette a fuoco la vicenda di Cleofe con pochi cenni: «nel 1420 andò maritata a Teodoro Paleologo Deposta della Morea, ch'era figliuolo d'Emanuele Imperatore di Costantinopoli», ma «ella non durò quasi a convivere tranquillamente al marito, non cessando lui di volerla costringere di conformarsi agli errori dello scisma de' Greci». Battaglini rimanda alla lettera «prodotta dal Signor Olivieri», con cui Battista di Montefeltro si «raccomandava a Papa Martino V» di soccorrere Cleofe «in quelle angustie». Segnalando la novità introdotta dallo studioso di Pesaro con quell'inedito, Battaglini sottolinea come nella vicenda di Cleofe sia centrale la questione religiosa. Alla quale va riferito pure lo stesso progetto delle nozze di Cleofe e Teodoro. Esse non sono l'atto avventato di una famiglia prestigiosa come i Malatesti, ma il risultato di un piano predisposto da Martino V (che sceglie «personalmente» Cleofe [140]) per riunire la Chiesa latina e quella greca, separate sin dal 1054.
Battaglini spiega che tra le tante altre notizie che non avrebbe potuto elencare trattando di Sigismondo, c'era quella che Cleofe «infine tornasse a casa». Lasciato il modo verbale della certezza usato nelle frasi precedenti, Battaglini ricorre ad un congiuntivo con cui ci avverte trattarsi soltanto di una ipotesi. Battaglini non aggiunge altro, confidando nella capacità dei suoi lettori di cogliere il senso di quello scarto stilistico, tanto discreto da poter passare anche inosservato. Sembra essersene accorto invece Luigi Tonini con l'acribia che gli era propria. Anche se non cita Battaglini, in una breve scheda su Cleofe annota: «Morì nel 1433, dicono in Pesaro» [141]. Ciò che invece Tonini tralascia, è la drammatica situazione vissuta da Cleofe, e testimoniata da Battista di Montefeltro a Martino V. Luigi Tonini (morto nel 1874 [142]) non poteva ignorare quella lettera «in difensionem» di Cleofe, oltretutto riproposta a Londra nel 1851 dallo scozzese James Dennistoun [143] (1803-1855) e da Filippo Ugolini nel testo [144] sulla storia di Urbino edito nel 1859.
La cautela di Battaglini rispecchia le incertezze manifestate dallo stesso Olivieri a proposito di alcuni particolari della vita di Cleofe, quando esamina due passi del Raccolto istorico (1617) del riminese Cesare Clementini (1561-1624), relativi alla data delle nozze di Cleofe: nel primo (II, p, 102) è il 1416, nel secondo (II, p. 208) il 1420. Olivieri spiega che quel 1416 «fu certamente error di stampa», volendosi forse indicare il 1419 sulla scia del «Cangio nelle famiglie Bizantine Hist. Bizant. Tom. XXI, p. 198» [145]. Come si è visto la data esatta delle nozze è il 19 gennaio 1421, mentre al 29 maggio 1419 risale la «promessa solenne» di Teodoro a Cleofe per la sua «libertà di vivere secondo il suo rito, e secondo i costumi d'Italia» [146], ed è del 18 agosto 1420 la partenza di Cleofe da Rimini verso Costantinopoli. Cangio, aggiunge Olivieri, fissa la morte di Cleofe nel 1433, «onde non so da qual cattivo fonte prendesse il nostro Almerici, ch'ella morì in Rimino mentre andava a marito. Ella non morì certamente allora, e non sol visse forse quanto il Cangio scrisse, ma visse miseramente, soffrendo da buona Cattolica mille insulti dallo scismatico Teodoro suo marito» [147].




[139] L'impresa editoriale, sotto il titolo di Basini Parmensis poetae opera praestantiora (Albertini, Rimini 1794), è suddivisa in due volumi. Il primo presenta le opere di Basinio. Il secondo è ripartito in due tomi: nel primo sono le Notizie intorno la vita e le opere di BasinioBasini (pp. 1-42) del padre Ireneo AFFÒ dei Minori Osservanti (1741-1797, dal 1785 alla scomparsa prefetto della Biblioteca Palatina di Parma); ed il cit. testo di A. BATTAGLINI, bibliotecario alla Vaticana, pp. 43-255. Tutto il secondo tomo è dedicato al testo di F. G. BATTAGLINI, Della vita e fatti di Sigismondo Pandolfo Malatesta, pp. 257-698. L'impresa editoriale è anticipata in F. G. BATTAGLINI, Memorie istoriche di Rimino e de' suoi signori, Lelio Della Volpe, Bologna 1789, p. 232: «Di questo Principe dovrò io parlar lungamente in un Commentario, quando uscirà alla luce il Poema Epico l'Esperide, scritto in sua lode da Basinio Parmense». L'Hesperis «è il Poema epico sopra i trionfi di Sigismondo Malatesta contro Alfonso d'Aragona» (1448): cfr. AFFÒ, II, 1, p. 32. Il testo di A. BATTAGLINI sulla «corte letteraria» di Sigismondo (II, 1), esamina i letterati forestieri (pp. 43-160) e i riminesi (pp. 161-255). Una lettera dello stesso A. BATTAGLINI (datata Roma, 20 novembre 1801) allo studioso Alessandro DA MORRONA (1741-1821) che la pubblica nella sua Pisa illustrata nelle arti del disegno, II (Pieraccini, Pisa 1812), ricorda l'impresa editoriale: «Sono sette anni […] che alle opere più singolari e non mai pubblicate per l'innanzi di Basinio Basinj da Parma io aggiunsi un commentario della Corte Letteraria di Sigismondo Pandolfo Malatesta Signor di Rimino, presso il quale visse e terminò i suoi giorni l'anzidetto elegante poeta latino» (<dante.di.unipi.it/ricerca/html/morrona.html>).
[140] RONCHEY, L'enigma, cit., p. 21.
[141] L. TONINI, Rimini nella signoria de' Malatesti, Albertini, Rimini 1880, IV, 1, p. 334, ove come fonti si citano C. CLEMENTINI, Raccolto istorico, I, Simbeni, Rimini 1617, e C. DU CANGE, Familiae Byzantinae in Historia Byzantina (richiamando per questi la Scheda Garampi n. 78 in Malatesti, SC-Ms. 206, BGR): su tali autori, cfr. infra. Tonini aggiunge, p. 335, che Cleofe fu condotta in Italia dal fratello Pandolfo arcivescovo di Patrasso.
[142] Il volume IV, 1, come risulta dalla precedente nota, esce postumo nel 1880.
[143] DENNISTOUN, Memoirs of the Dukes of Urbino, I cit.: la lettera di Battista (su cui cfr. pp. 35-36) a Martino V è alle pp. 412-413. Di Cleofe sepolta a Mistra, scrive nel 1908 William Miller (1864-1945) in un celebre testo, The Latins in the Levant. A History of Frankish Greece (1204-1566), Cambridge and New York 1908, p. 415 («It is a picturesque fact, which the Greeks should not forget when they raise their contemplated monument to him, that the last emperor of Constantinople was crowned at Mistra, where his first wife, Theodora Tocco, like Cleopa Malatesta, the wife of his brother Theodore, lay buried in the Zoodòtou monastery»). Questo passo non si legge in RONCHEY, L'enigma, cit., dove (p. 428) Miller è invece cit. per Trebizond, the last Greeke Empire, London 1926. Sul tema ritorna nel 1978 Kennetth M. SETTON nel secondo vol. di The Papacy ad the Levant (1204-1571) edito a Philadelphia; a p. 33 si legge: «Maddalena-Theodora was buried, like Cleopa Malatesta four years later, in the Katholikon of the monastery of the Zoodotes at Mistra, identified as the church of Hagia Sophia, which apparently served as the palace chapel. Many graves have been excavated here, but none has yielded any evidence relating either to Theodora or to Cleopa. In the narthex of the Pantanassa at Mistra there is another grave sometimes identified as that of Theodora, but again without convincing evidente». (Maddalena Tocco era cognata di Cleofe, essendo sposa di Costantino Paleologo, fratello di Teodoro suo coniuge.) Alla nota 75 di p. 253, SETTON ricorda il cit. passo di p. 415 di Miller, assieme a SPHRANTZES (p. 50 dell'«ed. Grecu» della sua Chronica minus, 1966): «Cleopa was also buried at Mistra, in the Zoodotou monastery, but her grave has not been identified...».
[144] Nella Storia dei conti e duchi d'Urbino, cit., a p. 192 si legge: «Battista fa istanza al pontefice che la sorregga e l'ajuti. E Cleofe aveva doppia ragione…». UGOLINI poi corregge CLEMENTINI per altre notizie errate (p. 193).
[145] DUCANGE, Historia Byzantina, Billaine, Lutetiae Parisiorum 1680, p. 243: «circa annum MCCCCXIX». È il passo ripreso da TONINI, Rimini cit., IV, 1, p. 334.
[146] UGOLINI, Storia cit., p. 192. Qui si definisce erroneamente «signore di Rimini» il padre di Cleofe, Malatesta.
[147] Sul 1433 (esattamente il 18 aprile, primo sabato dopo Pasqua) come anno della morte di Cleofe, c'è altra fonte, Giorgio SFRANTZES (su cui cfr. infra), cit. da Eugenio CECCONI nel I vol. dei suoi Studi storici sul Concilio di Firenze, Sant'Antonino, Firenze 1869, p. 30. Qui si legge che Sfrantzes (italianizzato in «Franza») nel lib. II, cap. 10 del suo Chronicon de ultimis orientalis Imperii temporibus, traduzione latina di Giacomo Pontano, A. Sartorii, Ingolstadii 1614 (di cui si dirà), reca: «Anno 6941 (Christi 1433) domina Cloepa, filia Malatestae, uxor Theodori despotae Porphyronennetae, vitam finivit…». CECCONI e SFRANTZES sono ripresi in J. GILL, The Council of Florecnce, Cambridge 1959, pp. 23-25.
Gli appelli a Martino V

Alla fine dell'introduzione, Battaglini rimanda ad un brano dell'Hesperis (VII, 72-86) di Basinio Basini (1425-1457), riassumibile con il titolo del libro settimo in cui esso è contenuto: «Ad Cypri reginam agnatam suam navigare se velle simulat» [148]. Battaglini spiega: «quello che forse prima non si sapeva, s'intende da' versi di Basinio in quel luogo del libro settimo, dove fa che Sigismondo imbarcandosi, finge che il suo navigare abbia ad essere a Cipro per visitare quella reina. La quale egualmente sarebbe piacciuto di ricordare, sendo quell'Elena figliuola di Cleofe». Elena quando viene alla luce (sul finire del 1427 [149] o all'inizio del 1428), è «in linea di successione la prima erede diretta al trono di Costantinopoli», oltre che di Mistra [150], l'antica Sparta capitale della Morea, perché i fratelli di suo padre non hanno e non avrebbero avuto figli. Elena sposa Giovanni III re di Cipro nel 1442 (Nicosia, 3 febbraio) e muore nel 1458. Genera Carlotta (1442-1487) ed un'altra Cleofe morta molto giovane. Carlotta è dapprima (1456) moglie per un solo anno di Giovanni di Portogallo (1433-1457), poi (1459) di Luigi di Savoia [151] conte di Genova (1436-1482).
Carlotta regna su Cipro dal 1458 al 1460. Le subentra Giacomo II il Bastardo [152] che scompare nel 1473, lasciando sul trono la vedova Caterina Cornaro, celebre «ultima regina» di Cipro [153]. Carlotta fugge in Occidente nel 1463, ed è sepolta a Roma in San Pietro. Di Elena, il nostro Battaglini ricorda che, conservando «l'erronea credenza del padre», poi «dispose a sua voglia, sin tanto che visse, del regno con ingiuria della Chiesa latina». Si torna al punto di partenza, a quel problema religioso che condiziona la sorte di Cleofe. Sei documenti di cui cinque inediti, fondamentali per questo aspetto, sono studiati da Anna Falcioni ad oltre due secoli di distanza da Olivieri e Battaglini, nel 2004.
Essi sono l'appello di Paola Malatesti Gonzaga a Martino V (22 gennaio 1427) a favore della sorella Cleofe; la missiva (già nota [154]) inviata da Battista di Montefeltro alla cognata Paola (12 febbraio 1427); e quattro lettere (1426-1428) di Cleofe alla stessa Paola. La quale nel 1410 ha sposato Gian Francesco Gonzaga [155] (1395-1444) figlio di Margherita Malatesti (+1399) [156], sorella di Carlo di Rimini e Pandolfo III (1370-1427) signore di Brescia dal 1404 al 24 febbraio 1421. Nel 1407 Gian Francesco Gonzaga ancora in età minorile è diventato signore di Mantova alla morte del padre Francesco I [157], sotto la tutela dello zio Carlo Malatesti di Rimini. Esaminiamo i sei documenti studiati da Falcioni, nella loro successione cronologica.
1) Il 5 ottobre 1426 Cleofe supplica Paola d'aver «qualche pietà, et che se degne operare in quello gli è possibile per la salute» della propria anima: «Vero è ch'io so stata e sto ancora […] cum gravissime pene et cun poco contentamento» [158].
2) Il 22 gennaio 1427 Paola scrive a Martino V: «… non desisterà adunqua la signoria vostra da la sua opera incepta de la humanità de la qual confixa et astretta da ardua necessità de quella poverecta […] bisognosa cum el vecchio padre» [159].
3) Il 12 febbraio 1427, Battista di Montefeltro comunica a Paola: «Ho recevuda vostra lettera et vedendo quello che la signoria vostra me commanda…» [160]. Manca l'epistola di Paola a Battista a cui si accenna qui, e nella quale molto probabilmente c'era anche la richiesta della sorella di Cleofe alla cognata di rivolgersi pure lei al papa. Quindi, come ipotizza Silvia Ronchey [161], l'appello di Battista a Martino V si potrebbe collocare tra la lettera di Paola Malatesti al pontefice (22 gennaio 1427) e la risposta di Battista di Montefeltro alla stessa Paola (12 febbraio 1427). In questa risposta, Battista tratta della presunta conversione [162] di Cleofe, riportandone una confessione ricevuta per interposta persona [163]: «Habito non fa monaco, bench'eo sia stata unta con un poco d'olio, sia certo ch'eo son con lo core così franca como eo fu mai» [164]. Seguono particolari sulla «castità et astintentia» del marito di Cleofe che sembra le abbia promesso di «habitare con lei sei anni et non più». Battista in tal modo smentisce le parole di Giorgio Gemisto Pletone circa la «compiutissima conversione» [165] di Cleofe. Ammesso che Cleofe avesse barato con i congiunti, dichiarando che «Habito non fa monaco…», si tratterebbe di un'ulteriore conferma della sua condizione di ostaggio in mano bizantina [166]. Nella stessa lettera Battista ricorda un «ser Michele» che, infermo, non poté visitare Cleofe, ed un «Christofano venudo a Patras et ha reportato lì ch'ella è più perfida greca del mondo». Per cui, precisa Battista, «non pensamo ch'ella se fide de lui et che tucto questo la facia simulatamente» [167]. Riandiamo alle ultime tre epistole (1428) di Cleofe alla sorella Paola.
4) Il 26 gennaio Cleofe chiede preghiere per la sua anima «che del corpo non me ne incuro» [168].
5) Il 20 marzo Cleofe lamenta di non aver da «più tempo» notizie dei famigliari, per cui è «in grande pensiere», e dichiara di avere l'animo «asà pieno de tosecho e d'amaritudine» [169].
6) Il 18 luglio Cleofe si definisce «sagurata» ed invoca nuovamente orazioni [170]. I contatti tenuti dalla corte di Pesaro con Cleofe, sono da lei richiamati tre volte. Il 5 ottobre 1426 cita la partenza da Mistra di un «ambasiadore de nostro signore» (ovvero del padre), indicato come «messer Antonio da Fossombrone», che identifichiamo in Antonio Malatesti di Ghiaggiolo [171]. Il 26 gennaio 1428 Cleofe cita un «conte Riciardo» che «se partì de qua»: crediamo possa trattarsi di Ricciardo Guidi Di Bagno [172] marito di Filippa Gonzaga, figlia di Guido Gonzaga (signore di Novellara) e Ginevra Malatesti. Ginevra, nata da Malatesta Antico detto Guastafamiglia, era zia di Malatesta I di Pesaro, padre di Cleofe. Il quale era quindi cugino di Filippa e Ricciardo.
Infine nella lettera del 18 luglio ritorna il nome di «messer Antonio», al quale Cleofe ha rivolto la preghiera «che ghe piacia venirve a visitare e ad informare de tute le mie pene, sì che penso che lui virà dalla signoria vostra, e pertanto non me stendo in più scrivere» [173]. Un terzo personaggio, mai nominato nella carte superstiti, potrebbe aver giocato nella vicenda di Cleofe un ruolo di mediazione fra le Chiese di Roma e di Costantinopoli. È Ugo Lancillotto di Lusignano, personaggio di tutto rispetto nella vita ecclesiastica romana ma soprattutto zio di Giovanni III re di Cipro sposo (1442) di Elena Paleologa, la figlia di Cleofe e di Teodoro. Ugo è patriarca latino di Gerusalemme ed arcivescovo di Nicosia dal 1424 al 1431 quando diventa vescovo di Palestrina, dopo esser stato nominato cardinale il 24 maggio 1426 da Martino V. Ugo è reggente di Cipro per undici mesi durante la prigionia del fratello Janus (1426-1427). Infine diventa vescovo di Frascati dal 1436 sino alla morte (ante 24 agosto 1442). A lui si può pensare anche come intermediario per il matrimonio (Nicosia, 3.2.1442) tra suo nipote Giovanni III ed Elena Paleologa, quale ultimo atto di un itinerario diplomatico mediterraneo che tocca Roma, Costantinopoli e Cipro. Particolare non secondario, Elena Paleologa è la seconda moglie di Giovanni III. La cui prima sposa, Amadea di Monferrato (1420-1440), è figlia di Giangiacomo [174] (1395-1445) il fratello di Sofia (+1434) che, come si vedrà, era stata unita in matrimonio con Giovanni Paleologo cognato della nostra Cleofe [175].















[148] Il riassunto del libro VII (tomo I, p. XXVI), inizia così: «Dum Sigismundus meditatur Neapolim ne, an Iberiam invadat»...
[149] RONCHEY, L'enigma, cit., p. 456: qui si rimanda allo studioso Thierry Grandemange, per il quale vedasi in «Regesto Maior» cit., p. 46.
[150] RONCHEY, L'enigma, cit., p. 65.
[151] Anche Luigi era alle seconde nozze, dopo quelle con Annabella di Scozia. Luigi è figlio di Ludovico di Savoia (1413-1465) e di Anna di Lusignano (sorella di Giovanni III marito prima di Amadea e poi di Elena Paleologa figlia di Cleofe: cfr. infra). Dopo Carlotta, il titolo di re di Cipro passa ai Savoia che lo conservano (puramente onorifico) sino al 1946, attraverso Carlo I "il Guerriero", figlio del duca Amedeo IX di Savoia, che nel 1485 riceve dalla zia Carlotta di Lusignano, i diritti sui regni di Cipro, Gerusalemme, Armenia.
[152] Giacomo II il Bastardo «debarque à Larnaca avec 18 galères et, à la tète d'un détachement de Mamelouks, prend l'ile. Reine et barons se refugient au chateau de Kyenia (pris en sept. 1463). Charlotte part en Occident. 1485, elle cede ses droits à son neveu Charles Ier de Savoie». Nel 1456 Giacomo II era stato dal padre fatto nominare arcivescovo di Nicosia. Il papa aveva rifiutato il provvedimento. Nello stesso anno Giacomo II «fait assassiner Thomas de Moree, chambellan d'Helene, et se refugie à Rhodes».
[153] Giacomo II scompare il 7 luglio 1473. Suo figlio Giacomo III nasce il 28 agosto 1473 e muore il 26 agosto 1474.
[154] Apparsa nel 1917 (cfr. FALCIONI, Cleofe Malatesti nelle fonti epistolari mantovane, in «Donne di Casa Malatesti», II, Rimini 2005, p. 965), è riprodotta (1999) in EAD., Pandolfo Malatesti, arcivescovo di Patrasso, in «Bizantinistica. Rivista di studi bizantini e slavi», serie II, I (1999), pp. 73-89, p. 86, doc. 1: proviene dal fondo Gonzaga, carteggio Affari in Rimini, in ASMn (cfr. ibidem p. 81 nota 35).
[155] Da Gian Francesco Gonzaga e Paola Malatesti nasce Lodovico (1412-1478) che nel 1437 sposa Barbara di Hohenzollern, nipote dell'imperatore Sigismondo. Il nome di Lodovico Gonzaga è legato ai tre volumi manoscritti delle Postillae alla Bibbia, di Nicolò di Lira (1270-1349), presenti alla John Rylands Library di Manchester. Egli infatti il 23 marzo 1469 li dona alla biblioteca conventuale di San Francesco di Mantova, «ad usum et spiritualem consolationem» di quei frati. Quei volumi manoscritti delle Postilla, sono completati nell'aprile 1402 dal francescano Ugolino di Marino Gibertuzzi da Sarnano, nel convento dei frati minori di Pesaro, per ordine non di Pandolfo III Malatesti di Rimini (come è stato scritto anche di recente), ma di Malatesta "dei Sonetti". Lo si ricava dal catalogo (1921) dei manoscritti latini della stessa John Rylands Library. Dove è riportato il testo latino di Gibertuzzi, posto alla fine del terzo volume dell'opera. Ai Gonzaga si dicono appartenuti anche i «Libelli antigiudaici» (Tractatus adversus Iudeos) di Nicolò di Lira e Girolamo Ispano attualmente alla Biblioteca Alessandro Gambalunga di Rimini (SC-Ms. 39). Dai Gonzaga furono poi donati alla riminese Confraternita di San Girolamo che li cedette, dietro pressioni del cardinal Giuseppe Garampi sulla Curia romana (1753), alla Gambalunga. Nicolò di Lira, con il suo codice Super Psalmos, è uno degli autori citati nell'inventario del 1560 conservato a Perugia e pubblicato nel 1901 da G. MAZZATINTI in un saggio intitolato La biblioteca di San Francesco (Tempio malatestiano) di Rimini, ora scomparsa, contenuto nel volume «Scritti vari di Filologia» apparso a Roma presso Forzani, Tipografi del Senato, pp. 345-352. Il saggio di Mazzatinti è datato «Forlì, agosto 1901». Un Super Psalmos (recte: «Postilla super librum Psalmorum», 1460) è conservato anche in Malatestiana a Cesena (ora D-VI.3). Dove incontriamo pure, dello stesso Nicolò di Lira, i commenti al Vecchio Testamento (D.VI.2 e 5). Dalla dott. Daniela Ferrari, direttrice dell'Archivio di Stato di Mantova [ASMn], a cui ci siamo rivolti per ricevere informazioni sull'antica biblioteca conventuale di San Francesco (a cui, come s'è visto, erano state donate le Postillae di Nicolò di Lira), apprendiamo: "L'archivio del convento di San Francesco in Mantova è andato perduto per il periodo antecedente al 1436 (cfr. C. CENCI, I Gonzaga e i frati minori dal 1365 al 1430, estratto da Archivum Franciscanum historicum, An. 58, 1965, Firenze 1965, p. 5, nota 3). Nell'archivio delle Corporazioni Religiose Soppresse, qui conservato, alcuni volumi relativi all'ordine dei Minori di San Francesco in Mantova (voll. 192-204), comprendono rogiti diversi, legati perpetui, libri mastri, crediti e obblighi, spese ed elemosine, riscossioni, entrate e varie, datati dal 1535 al 1805. Nell'Archivio Gonzaga, rubrica P (materie ecclesiastiche), la b. 3310 contiene documentazione dei Minori Osservanti di San Francesco (anni 1258, 1279, 1401, 1486, 1494, 1519-20, 1555-1771). Da uno spoglio sommario non sono state tuttavia reperite notizie relative all'argomento. Nell'indice delle registrazioni notarili, relativo all'anno 1469, non è stato rintracciato alcun atto di donazione del codice in parola da parte del marchese Ludovico alla biblioteca conventuale di San Francesco". Ringraziamo la dott. Ferrari per queste notizie.
[156] Margherita &egrave; la seconda moglie (1393) di Francesco I Gonzaga. La prima, Agnese Visconti, &egrave; fatta decapitare (1391) dal marito per motivi politici, mascherati dall'accusa di adulterio. Elisabetta Gonzaga, sorella di Francesco I, nel 1386 &egrave; andata sposa a Carlo Malatesti di Rimini fratello di Margherita e di Pandolfo III.
[157] Francesco I Gonzaga discende da Ludovico che era nipote di un Luigi (+1360) marito di una non meglio identificata Caterina Malatesti (C. CARDINALI-A. MAIARELLI, Figure femminili alla 'corte' malatestiana di Rimini nel Trecento, in «Donne di Casa Malatesti», I, cit., 252).
[158] Doc. n. 1, FALCIONI, Cleofe, cit., p. 964.
[159] Doc. n. 2, ibidem, pp. 964-965.
[160] Doc. n. 3, ibidem, pp. 965-966.
[161] L'epistola di Paola «sembrerebbe precedente, per tono e contenuto» a quella «più nota e ancor più drammatica lettera, purtroppo priva di data, scritta al pontefice interamente in latino dalla dotta Battista»: cfr. RONCHEY, L'enigma, cit., p. 77.
[162] RONCHEY, L'enigma, cit., Regesto Maior cit., p. 46: la conversione di Cleofe dovette avvenire nel 1428, il che «indusse il marito, quanto meno per ragion di stato, a consumare finalmente il matrimonio con lei». Cfr. pure L'enigma, cit., pp. 71, 457; ed infra.
[163] Si tratta del gentiluomo padovano Iacomo de Sancto Agnolo che da Patrasso era andato a trovare Cleofe.
[164] FALCIONI, Pandolfo, cit, p. 86.
[165] RONCHEY, L'enigma, cit., p. 77.
[166] Ibidem, p. 78: "… non possiamo sapere con chi stia barando, se con i bizantini […], o se con i cattolici per timore della punizione del papa".
[167] Per ciò, Cleofe è contattata dal cit. gentiluomo padovano.
[168] "Faxate pregare a Dio per l'anima mia…", doc. 4, FALCIONI, Cleofe cit., p. 966.
[169] Doc. 5, ibidem, p. 608.
[170] Doc. 6, ibidem, p. 609.
[171] Antonio da Fossombrone (città nella cui cattedrale è preposto dal 1429), nel 1435 diviene vescovo di Cesena: «cieco e da bene» lo ricorda Fantaguzzi (cfr. P. G. FABBRI, Gli aspetti politici, militari, economici ed istituzionali della signoria di Malatesta Novello, ne «La Signoria di Malatesta Novello Malatesti», Rimini 2003, pp. 84, 417). Cfr. pure la biografia in FABBRI, DBI, 68 cit. pp. 15-16. Il ramo di Ghiaggiolo discende da Paolo il Bello che verso il 1269 aveva preso in moglie la poco più giovane quindicenne Orabile Beatrice, figlia di Uberto di Ghiaggiolo. La quale gli dette due eredi, Uberto jr. e Margherita, nata dopo l'uccisione del padre. Anche Uberto jr. fu ucciso (1323). Dal cugino Ramberto, figlio di Giovanni il marito di Francesca da Polenta. Da Uberto jr. derivano in successione Ramberto, Francesco, Nicolò Filippo ed Antonio da Fossombrone.
[172] La sua famiglia s'era rifugiata da Firenze a Mantova nel 1417.
[173] Alla morte dell'arcivescovo Pandolfo nel 1441, un "ser Antonio" è cit. come suo cancelliere (ma ovviamente si tratta di altra persona perché Antonio da Fossombrone dal 1435 è vescovo di Cesena) in lettera di Elisabetta Malatesti, vedova di Piergentile Da Varano (v. infra), alla zia Paola Malatesti, sorella dell'arcivescovo Pandolfo (in cui è descritta la morte di quest'ultimo): cfr. G. PATRIGNANI, Le donne del ramo di Pesaro, Appendice documentaria a c. di EAD. e FALCIONI, in «Donne di Casa Malatesti», II, cit., pp. 915-916. L'arcivescovo Pandolfo nel 1437 in varie lettere definisce suo "cancellero" tale Orlandino, mentre il 29.5.1430 (n. 59) Pandolfo cita un "Antonio da Col[dimez]zo" come suo "famiglio" e nel 1439 (29.3, n. 169) un Antonio è detto suo "camelero" (Archivio Gonzaga, busta 1081, ASMn). In altra lettera del 1429 (ibidem, p. 910) di Battista di Montefeltro alla cognata Paola Malatesti Gonzaga, è ancora cit. un "signor Antonio": in questo caso dovrebbe essere proprio Antonio da Fossombrone perché si parla una missione a Mantova presso gli stessi Gonzaga.
[174] La madre di Amadea è Giovanna di Savoia (1392-1460) figlia di Amedeo VII detto il Conte Rosso (1360-1391).
[175] In C. FLEURY, Historia Ecclesiastica, XXVI, Wolff, Augusta 1748, pp. 440-441 al cap. CLXVII, «Emanuelis Imperatoris Filii Catholicorum Principum Filiabus desponsati», si ricordano soltanto i nomi dei figli dell'imperatore (vedi supra il permesso papale per le nozze, dell'8 aprile 1418). Nel cap. CLVIII, p. 441, si cita soltanto il matrimonio di Giovanni con Sofia di Monferrato. Di Cleofe neppure l'ombra.
«Ma se volite savere…»

Sia nella missiva di Battista del 12 febbraio 1427 sia nelle lettere di Cleofe alla sorella Paola (1426-1428) appare un personaggio che nella nostra storia gioca il ruolo di «secondo protagonista»: è l'arcivescovo di Patrasso, Pandolfo Malatesti (1390-1441) fratello di Cleofe [176]. «Grande religioso di bona vita» e «dottissimo in iscienza» lo descrive Gaspare Broglio [177]. Nel 1415 Pandolfo è stato presente al concilio di Costanza e nel 1417 al conclave [178] che ha eletto Martino V. Arcidiacono bolognese (1404), governatore dell'abbazia di Pomposa (1407) ed amministratore loco episcopi (1413-1418) della diocesi della città di Brescia governata da Pandolfo III fratello di Carlo di Rimini, egli è poi stato vescovo di Coutances in Normandia sino al 1424, nei duri momenti della conquista inglese durante la guerra dei cento anni [179]. Nel 1430, quando Patrasso passa dal dominio veneziano (iniziato 1424) a quello bizantino [180], Pandolfo fugge dalla propria sede e ritorna a Pesaro [181]. Nel 1429 a difenderlo presso i sovrani bizantini [182] si era recato suo padre Malatesta I, approfittando di una fallita missione a Mistra affidatagli da Venezia [183]. A Pesaro il 19 settembre 1430 Pandolfo risulta vicario in temporalibus assieme ai fratelli Galeazzo e Carlo. Ma la sua presenza in Italia è documentata già da maggio [184].
La lettera di Battista di Montefeltro a Martino V per chiedere soccorso a favore di Cleofe (forse del 1427, come si è visto), giunge al papa attraverso l'arcivescovo di Patrasso [185]. A ciò si riferisce la stessa Battista quando il 12 febbraio 1427 comunica alla cognata Paola di aver eseguito i suoi comandi [186], e di aver preso contatto con «el signor nostro Pandolfo et monsignor l'arcivescovo» [187]. Del fratello arcivescovo, Cleofe parla nella seconda lettera alla sorella Paola (26 gennaio 1428), precisando di non dilungarsi perché non ha tempo, ed aggiunge: «[…] ma se volite savere, scrivite a quello vostro reverendissimo fradello», appunto a Pandolfo, «che ve n'avixe e save, sarite informata» [188]. Quel «save» è l'aperta dichiarazione che l'arcivescovo di Patrasso conosceva le sue sventure, e che le avrebbe potute raccontare compiutamente alla sorella. Mentre Cleofe stessa doveva tacere perché non ne aveva «tempo», ovvero non era libera di farlo.
Il 9 giugno 1427 è morta per peste un'altra figlia di Malatesta I, Taddea [189], sposa di Ludovico Migliorati signore di Fermo, dei cui figli si preoccupa Cleofe scrivendo alla sorella Paola il 26 gennaio 1428: «De quilli orfanitti de quella nostra sorella poverella piaciave avixarmene, che Dio sa, se io fosse in altri paexe, ne toria qualche una». La frase sottolinea uno stato di sofferenza e sudditanza al marito, in cui Cleofe è costretta. Il 23 dicembre 1429 Vittoria Colonna e Battista di Montefeltro, informano Paola della morte del padre Malatesta I, e parlano del «martirio del suo corpo, che quasi se può dire martirio per le acerbe passioni che sì longo tempo ello ha portato» [190]. Il 27 dicembre 1429 da Pesaro, Battista scrive alla cognata Paola sempre parlando della scomparsa di Malatesta I: «[…] dubito forte ch'el dolore non facia danno assai a la persona vostra, et a nui non bisognaria questa giunta» [191]. Le «passioni» ed il «dolore» sofferti da Malatesta I erano stati aggravati dalla dura presa di posizione di Martino V in risposta a Paola Malatesti ed alla sua invocazione di aiuto (1427) per l'«infelice» Cleofe «bisognosa cum el vecchio padre». Con un solenne decreto Martino V ha minacciato la scomunica [192] per la giovane mandata tra i greci allo scopo di convertirli alla vera fede, se non fosse tornata alla confessione cattolica, nel caso in cui se ne fosse allontanata [193].
Il papa rivelava in tal modo lo scopo della missione per cui aveva scelto Cleofe. Il suo atto burocratico mascherava l'arroganza di chi non conosce umana pietà verso la sposa bizantina, da lui stesso avviata a quel destino. Cleofe era alle prese con un marito già afflitto, nei primi anni del matrimonio, da una vocazione monastica che aveva impedito la consumazione delle nozze. Aveva pure dovuto scontrarsi con una corte da cui era stata costretta ad una formale abiura della propria fede. Soltanto in quel 1427 Cleofe rimane incinta di Elena, forse per motivi esclusivamente politici [194].

[176] Su costui si veda Falcioni, Pandolfo, cit., e la biografia della stessa Falcioni in DBI, 68 cit., pp. 95-97.
[177] Broglio, Cronaca cit., pp. 32-33: nel ricostruire la storia dei Malatesti di Pesaro, Broglio equivoca sulla loro genealogia: «miser Malatesta» (padre dell’arcivescovo di Patrasso) è detto suo fratello. Dell’arcivescovo, Broglio scrive che fu «grande religioso di bona vita» e «dottissimo in iscienza».
[178] La delegazione italiana che accompagna i cardinali in conclave (dall’8 all’11 novembre 1417) è composta di sei persone: il nostro Pandolfo, i tre vescovi Francesco Scondito di Melfi, Enrico Scarampi di Belluno e Feltre, e Giacomo de Camplo di Penne ed Atri, l’arcivescovo di Milano Bartolomeo de la Capra, ed il maestro generale dei domenicani Leonardo Dati
[179] Il successore di Pandolfo, Philibert de Montjeu, «est contemporain du procès de Jeanne d’Arc», come mi comunica Françoise Laty di Coutances che ringraziamo.
[180] «Il fatto che Pandolfo fosse cognato del despota Teodoro non aveva impedito ai fratelli Paleologhi di attaccare» Patrasso nel 1428 (Ronchey, L'enigma, cit., p. 88).
[181] Tonini, Rimini cit., IV, 1, p. 335 scrive che Pandolfo «tornò in patria conducendo seco la sorella Cleofe», senza indicare la fonte della seconda parte notizia relativa alla sposa bizantina. E che può derivare dalla fusione tra l’informazione relativa al ritorno di Pandolfo e l’eco del passo cit. di Battaglini in cui si dice che Cleofe «infine tornasse a casa» (per cui Tonini scrive di Cleofe che «morì nel 1433, dicono in Pesaro» (vedi supra).
[182] Ronchey, pp. 217, 72. A p. 72 si parla di Malatesta padre di Cleofe, che arriva a Mistra nel 1429; a p. 217 signore di Pesaro, è detto erroneamente Carlo, «padre adottivo di Cleofe», ed a lui si attribuisce «una cruciale missione diplomatica in difesa di Pandolfo presso i sovrani bizantini» nello stesso 1429: questo «signore di Pesaro» non può essere che lo stesso Malatesta I. Sempre a p. 72, di costui si dice che ritorna in Italia nel 1430 circa, mentre muore il 19 dicembre 1429. Infine a p. 126, si legge che la legazione veneziana del 1429 aveva «come ambasciatore il padre di Cleopa in persona, Malatesta dei Sonetti»: cfr. nota seguente.
[183] Ronchey, p. 126: con lui c’era il genero Gian Francesco Gonzaga duca di Mantova. «Il fallimento della missione» affidata a Cleofe con le nozze, deluse ancor più del papa i veneziani (ibidem).
[184] Cfr. la lettera conservata in ASMn, fondo Gonzaga, busta 1081, c. 59.
[185] Donne di Casa Malatesti, II cit., p. 836.
[186] Si tratta del passo cit. supra, «Ho recevuda vostra lettera et vedendo quello che la signoria vostra me commanda…».
[187] Donne di Casa Malatesti, II cit., pp. 965-966.
[188] Ibidem.
[189] Taddea era stata cancellata da Clementini, Raccolto II, cit., p. 102 nell’elenco delle figlie di Malatesta di Pesaro, come ebbe a notare Olivieri, Notizie, cit., p. XI. L’umanista pesarese Pandolfo Collenuccio (1444-1504) l’aveva invece ricordata nell’orazione composta nel 1475 per le nozze di Costanzo Sforza con Camilla d’Aragona (Donne di Casa Malatesti, II, cit., p. 829). Una curiosità riminese: il medico e scienziato Giovanni Bianchi (1693-1775) faceva risalire le sue origini, da parte di madre, allo stesso Collenuccio «difensore di Plinio, e storico, che il Tiranno di Pesaro [Giovanni] Sforza aveva crudelmente ucciso», come si legge nell’autobiografia latina del 1742: cfr. A. Montanari, Modelli letterari dell’autobiografia latina di Giovanni Bianchi (Iano Planco, 1693-1775), «Studi Romagnoli» XLV (1994), Cesena 1997, pp. 278-279. Su Taddea, cfr. Donne di Casa Malatesti, II, cit., pp. 818-829.
[190] La Signoria di Malatesta "Dei sonetti" Malatesti (1391-1429), a cura di E. Angiolini e A. Falcioni, Rimini 2002, pp. 169-170.
[191] Ibidem, pp. 170-171.
[192] «Sub excommunicationis poena»: cfr. Ronchey, L’enigma, cit., Regesto Maior cit., pp. 53-54.
[193] Ronchey, L'enigma, cit, p. 76. Questa lettera si legge «all’inizio del primo dei volumi degli atti del concilio di Ferrara-Firenze», assieme a quella indirizzata dal papa al marito di Cleofe.
[194] Oltre al passo cit. da Ronchey, Regesto Maior cit., p. 46 sul matrimonio consumato «quanto meno per ragion di stato», cfr. ibidem p. 48 la tesi di T. Grandemange circa «la nécessité politique d’un héritier» («Ce n’est donc qu’à partir de cette conversion, donc à partir de c. 1426-1427 que se conjuguent favorablement trois éléments qui rendent plausible la naissance d’Hélène: les sentiments personnels, la religion et la nécessité politique d’un héritier»).
Il «papa ha tanto bisogno» dell'imperatore

L'arcivescovo Pandolfo il primo marzo 1438, alla vigilia del concilio di Ferrara, invia alla sorella Paola Gonzaga un'epistola in cui parla della situazione della Chiesa di Patrasso illegalmente usurpata dai Paleologi [195] , esprimendo il suo rammarico verso il papa che gli appariva «non molto benivolo» nei suoi riguardi [196]. Pandolfo sa che a Ferrara è atteso l'imperatore greco Giovanni VIII Paleologo [197], cognato di Cleofe e marito di Sofia di Monferrato. Sofia e Cleofe sono state unite nello stesso progetto papale. Assieme s'erano imbarcate a Venezia per Costantinopoli [198]. Il prologo del viaggio [199] di Cleofe era stato segnato dal triste presagio dell'imbarcazione costretta dal maltempo a rientrare in porto a Rimini, per cui dovette compiere via terra il viaggio sino alla laguna.
Anche di Sofia di Monferrato le cronache del tempo offrono scarse notizie. Una c'interessa. Nell'agosto 1425 Sofia scappa da Costantinopoli, pochi giorni dopo la scomparsa (21 luglio) del suocero, l'imperatore Manuele II [200]. Al potere dal 1391, Manuele II aveva ricevuto un'eccellente educazione che espresse in numerosi scritti. Dimostrò profonda erudizione ecclesiastica e vasta conoscenza dell'antica letteratura greca. Fu uno degli spiriti più raffinati dell'ultima rinascenza bizantina. Al figlio Giovanni dedicò i Precetti d'una educazione regale. Si rivelò capo di Stato coraggioso e prudente. L'opera che meglio esprime il suo talento di scrittore è un trattato di polemica e di apologia rivolto all'Islam, i Dialoghi con un musulmano [201], la cui settima «controversia» (la più nota) affronta le differenze fra la legge di Mosé, il messaggio cristiano e la legge islamica [202].
Forse il racconto della fuga di Cleofe fu modellato su quelle di Sofia da Costantinopoli (1425) e di Carlotta da Cipro (1463), associandola alla partenza del fratello arcivescovo di Patrasso (1430). Certo è che sul finire del 1427 o nel 1428 Cleofe dà alla luce una bambina, Elena. Di lei non tengono conto le antiche storie (o piuttosto leggende), quando narrano il rientro in Italia di sua madre. Con quell'intelligenza «imbarazzante» che le viene accreditata [203], Cleofe non avrebbe potuto abbandonare Elena ad un padre miserabile e fanatico. Al contrario, per veder rispettati i patti matrimoniali, Cleofe accettò di percorrere la propria via dolorosa sino ad una possibile morte violenta [204].
Pandolfo quel primo marzo 1438 scrive a Paola che Giovanni VIII ed i fratelli «hanno usurpato» la Chiesa di Patrasso [205]. Ciononostante, se l'imperatore si accorderà con il concilio, alla fine il pontefice dovrà accontentare Giovanni VIII privando lo stesso Pandolfo della carica di arcivescovo, perché il «papa ha tanto bisogno de esso imperadore». La lettera di Pandolfo esamina questioni di galateo diplomatico in un frangente confuso per la Chiesa, in cui le pretese del primato conciliare s'oppongono a quello del pontefice. Proprio il passo sul papa che «ha tanto bisogno de esso imperadore», fa comprendere il silenzio caduto sulla sorte di Cleofe lasciata al suo destino da Martino V, come testimonia la minaccia di scomunica.
A nulla è servita la rete di protezione intessuta dai Malatesti con le alleanze matrimoniali. Essi hanno sempre cercato di tenere i contatti con lei, tramite gli ambasciatori evocati da Cleofe nelle sue lettere, ed identificabili (come s'è visto) in Antonio Malatesti di Ghiaggiolo e Ricciardo Guidi Di Bagno. Accanto a questi nomi certi, ripetiamo pure quello da noi ipotizzato di un personaggio autorevolissimo (di cui non si parla mai nella carte), come Ugo Lancillotto di Lusignano, zio del marito di Elena Paleologa figlia di Cleofe. Forse per essere lui il più importante di tutti gli altri ambasciatori, non è mai evocato attraverso i documenti.
La fuga dell'arcivescovo Pandolfo da Patrasso ed il ritorno a Pesaro, non sono una pavida rinuncia alle proprie responsabilità ma un ultimo, inutile tentativo che lo «sfortunato» [206] Malatesti fa per salvare la sorella rimasta in Morea. Il contesto politico nel quale egli si trova ad agire una volta giunto in Italia, è sfavorevole non soltanto alla sua persona ma pure a tutta la sua famiglia e quindi anche a Cleofe. Un ottimo conoscitore delle carte mantovane osserva (1920): «A riscattar la sorella dalle unghie del marito scismatico s'adoprava assai l'arcivescovo di Patrasso» [207]. Quando Pandolfo scrive a Paola che il papa è «non molto benivolo» verso di lui, ha già contattato a Venezia tramite un proprio messo («Gentilino [208] mio famiglio» [209]) il cardinale di Sant'Angelo, Giuliano Cesarini. Gli ha chiesto un suggerimento per risolvere il suo dubbio: se andare o non al concilio di Ferrara allo scopo di trattare la questione di Patrasso. Ne ha ricevuto una risposta tanto vaga ed ambigua da risultare inutile. Pandolfo così prega la sorella Paola di conferire con lo stesso cardinale quando costui passerà da Mantova, per averne una risposta inequivocabile: «Poiché voi sapete tutto, ve dignate informarne de tutto el supradicto…».
Il concilio di Ferrara, convocato a Basilea da Martino V nel 1431 poco prima della morte (avvenuta in febbraio), per tentare di chiudere lo scisma d'Oriente, inizia sotto il suo successore Eugenio IV, eletto il 3 marzo 1431. A Basilea si conducono le trattative con i Greci, finalizzate a riallacciare i rapporti fra Chiesa ortodossa e la cattolica. Quando sono espresse posizioni sempre più contrarie al primato pontificio, Eugenio IV lo trasferisce a Ferrara (1437). La venuta di truppe milanesi a Ravenna, Bologna e Rimini, suggerisce al papa di spostarlo a Firenze. Qui nel 1439 si stabilisce l'unione delle due Chiese, respinta da quella russa e fortemente osteggiata da Costantinopoli, mentre si elegge l'antipapa Felice V. Il concilio si chiude nel 1442 a Roma. Il ricordo di Cleofe non dovette mancare fra quanti frequentarono il concilio di Eugenio IV a Firenze, anche perché in quella città Sigismondo Pandolfo Malatesti era ben conosciuto per avervi compiuto due viaggi tra 1435 e 1436.
[195] Falcioni, La politica militare e diplomatica di Sigismondo Pandolfo e di Malatesta Novello. Profilo di due singolari personalità, ne I Malatesti, Rimini 2002, p. 149.
[196] Ibidem, pp. 202-203.
[197] Broglio, Cronaca, cit., p. 56. Poi arriva anche il patriarca di Costantinopoli Giuseppe II.
[198] Pure da fonti relative a Sofia di Monferrato ricaviamo la data del 19 gennaio 1421 (cfr. supra) per la celebrazione delle comune cerimonia di nozze di Sofia e di Cleofe.
[199] Sulla partenza di Cleofe da Rimini, cfr. Clementini, Raccolto istorico II, Rimini 1627, p. 208: «Alli XVIII d’Agosto Cleofe, figliuola di Malatesta da Pesaro, che per lo più stava in Rimino, montò nel porto sopra una galea, per andar à marito in Grecia al Dispoto della Morea, figliuolo dell’Imperatore di Costantinopoli, ma perché i venti più volte la contrariarono, si risolse di far il viaggio per terra, accompagnandola per buona pezza di strada il Padre Galeotto Roberto, e Carlo [...]». In Broglio, Cronaca, cit., p. 14, è indicato il 12 agosto anziché il 18: qui una frase («la dicta madonna Cleofa») sembra rimandare ad una precedente memoria della stessa Malatesti, però non rintracciabile nel testo edito. Dove si legge che Cleofe «era figliola dello inperadore di Costantinopoli», mentre la frase (recte: «era figliolo») va riferita a suo marito «Dispoto della Morea».
[200] Ronchey, L'enigma, cit., 43-44, 453, e Regesto Maior, cit., p. 20. Tencajoli, Principesse, cit., p. 117, la dà per ripudiata. Nel cit. Cecconi, Studi storici..., I, p. 30, si legge il testo di Sfrantzes (I, 41) che ricorda il ritorno in patria di Sofia, «quod a viro Iohanne imperatore parum diligeretur, nec inter eos pax esset quoniam alias foeminas amaret, quando despoenae natura formam negavisset». Despoena o Despena, dal greco Déspoina, è sinonimo di padrona o regina, dal nome della figlia di Demetra (Cerere) e Poseidone (Nettuno), sorella del cavallo Arione (Demetra, divenuta giumenta per sfuggire a Poseidone, fu sedotta a quest’ultimo mutatosi in cavallo). Circa la data del 1425 per la fuga di Sofia, va precisato che molte fonti parlano del 1426 (come in C. Du Cange, Historia Bizantina, cit., p. 246: «clam Constanipoli egressa, in Italiam rediit mense Augusto anno Cristi MCCCCXXVI»). La differenza nascerebbe dal fatto che la fuga medesima avviene nell’agosto 1425, e poi c’è l’atto con cui Sofia è ripudiata (1426). Si narra addirittura che sia stato lo stesso Giovanni ad organizzare la fuga di Sofia. Sul tema, cfr. il cit. Regesto Maior cit., pp. 29-30.
[201] Diálogos metá tinos Pérsou (Dialogi cum Mohametano): cfr. Manuel II. Paléologue, Entretiens avec un musulman, Editions du cerf, Paris 1966; ed. ital. Roma 2007.
[202] Th. Khoury, L'empereur Manuel II Paléologue (1350-1425). Esquisse biographique, «Proche-Orient Chrétien» 15, Jérusalem 1965, pp. 127-144; 18, 1968, pp. 29-49; Id., Introduzione al cit. Manuel II. Paléologue, Entretiens avec un Musulman.
[203] Ronchey, L’enigma, cit., p. 44.
[204] Ronchey, L’enigma, cit. p. 376 In Diehl, Figures byzantines, cit., p. 286, il decesso avviene per malattia.
[205] Nel 1428 Patrasso era stata attaccata dai Paleologi, e nel 1430, come si è già visto, era passata sotto il loro controllo. Cfr Ronchey, L’enigma, cit., p. 88.
[206] Ronchey, L’enigma, cit., p. 249. Il realismo mostrato da Pandolfo nella lettera alla sorella, lo può forse riscattare dal giudizio di «inetto» (Ronchey, L’enigma, cit., p. 96).
[207] P. Torelli, L’archivio Gonzaga di Mantova, Ostiglia, 1920, p. 181: di Pandolfo «esistono molte lettere in cifra, che non sarebbe difficile tradurre». L’ultima missiva reca la data del 30 marzo 1441, e contiene una premonizione della sua morte (avvenuta il successivo il 17 aprile, Battaglini, Della vita, cit., p. 342): «… perché non veggia che altramente la vita me possa durare» (cfr. in Falcioni, Pandolfo Malatesti, cit., p. 87).
[208] Il nome lo fa immaginare appartenente ai Da Varano (su cui cfr. infra): potrebbe essere uno dei 64 figli (di cui 24 legittimi) di Rodolfo III suocero di Elisabetta Malatesti (nipote dell’arcivescovo, alla cui morte diventa sua erede universale), e quindi cognati della stessa.
[209] Falcioni, La politica militare, cit., p. 202.
Croce e pugnale, delitti in famiglia

Non tutto ciò che è taciuto, è dimenticato. L'ombra di Cleofe non poté non tormentare i severi custodi dell'ortodossia delle due Chiese. La sua morte (violenta o non) riassumeva lo scontro religioso fra Roma e Costantinopoli. Sulla sua sorte e sull'oblio che scende sopra di lei quando è ancora viva, pesano pure altre vicende malatestiane ed ecclesiastiche. Dopo la scomparsa di Carlo di Rimini (14 settembre 1429), i suoi territori sono dichiarati da Martino V devoluti alla Chiesa (1430), con l'offerta però agli eredi del diritto di rivalsa. Il papa vuole alzare il prezzo della concessione, vedere saldati i debiti e ridurre l'estensione del vicariato. L'11 marzo 1430 la controversia è chiusa. L'investitura dell'8 settembre riguarda soltanto Cesena, Fano e Rimini.
Sempre nel 1429, il 19 dicembre, scompare Malatesta I di Pesaro. Nel 1430, come abbiamo visto, il vicariato di Pesaro è concesso all'arcivescovo Pandolfo ed ai fratelli Galeazzo e Carlo. Nel giugno 1432, dopo la morte di Martino V e la successione di Eugenio IV (1431), i tre signori di Pesaro sono espulsi da armati al soldo della Chiesa. La quale nel frattempo ha manovrato per allontanare i Malatesti pure da Cesena, Fano e Rimini, fomentando tumulti abilmente mascherati da azioni del ramo pesarese (1431).
Una grave crisi segna il papato dopo l'elezione di Eugenio IV, costretto a stare lontano da Roma per nove anni dagli Orsini, parenti del papa scomparso, non avendo mantenuto le promesse fatte loro. Tra 1433 e 1434, per iniziativa pontificia, avviene una serie di delitti tra i Da Varano, che coinvolgono anche i Malatesti. Come abbiamo ricordato, le sorelle Gentile ed Elisabetta Da Varano avevano sposato rispettivamente Galeotto I di Rimini e Malatesta I di Pesaro. Tra i dieci figli nati da Elisabetta Malatesti (sorella di Malatesta I) e da Rodolfo III Da Varano (cugino di Gentile ed Elisabetta), ci sono Gentile IV Pandolfo e Berardo III i quali nell'agosto 1433 uccidono il fratellastro Giovanni II, nato da Costanza Smeducci (+1420). Il 6 settembre 1433 è decapitato Piergentile Da Varano, fratello di Giovanni II, ancora per volere di Eugenio IV. Il papa agisce tramite il cardinal Giovanni Vitelleschi, vescovo di Recanati, Legato della Marca e suo inviato personale. Gentile IV Pandolfo e Berardo III sono trucidati nel 1434 da un tumulto popolare favorito dagli Sforza.
Piergentile aveva sposato Elisabetta Malatesti (1407-1477) figlia di Galeazzo di Pesaro (fratello di Cleofe) e di Battista di Montefeltro. Elisabetta nel 1441 alla morte dello zio arcivescovo Pandolfo, è nominata sua erede. Da Piergentile ed Elisabetta nascono Rodolfo IV Da Varano e Costanza (1428-1447). Costanza nel 1444 andrà in sposa ad Alessandro Sforza (1409-1473). Gli darà una figlia, Battista, futura moglie di Federico da Montefeltro. Nel 1445 Alessandro Sforza diverrà signore di Pesaro. Giovanni II Da Varano quando è ucciso dai fratellastri nel 1433, ha da poco avuto (da Bartolomea Smeducci) un figlio, Giulio Cesare (1432-1502), che nel 1451 sposerà Giovanna Malatesti (1443-1511), figlia di Polissena Sforza e Sigismondo Pandolfo signore di Rimini [210]. Una sorella di Giovanni II, Nicolina (+1429) ha come primo marito Galeotto Malatesti (di Andrea Malatesti di Cesena figlio di Galeotto I), morto nel 1416; e come secondo quel Braccio di Montone che nel 1416 aveva catturato Galeazzo e Carlo Malatesti, ed a cui nel 1421 dà Carlo Fortebraccio che ripristina in famiglia la nobiltà degli avi.
Un altro figlio di Galeotto I, quel Pandolfo III signore di Brescia sposa in seconde nozze nel 1421 Ansovina (+1423) sorella di Nicolina. La prima moglie di Pandolfo III (1386) è stata un'altra Malatesti, Paola Bianca di Pesaro (vedova di Sinibaldo Ordelaffi), zia di Cleofe e sorella di Elisabetta prima moglie di Rodolfo III padre di Nicolina, Ansovina, Giovanni II e Piergentile Da Varano nati dalle seconde nozze con Costanza Smeducci. Per salvare Piergentile Da Varano dalla pena di morte (poi eseguita il 6 settembre 1433), sua moglie Elisabetta Malatesti aveva inviato ad Urbino un messo all'imperatore Sigismondo [211]. Piergentile era stato arrestato agli inizi di agosto, e suo fratello Giovanni ucciso dai fratellastri poco dopo. L'imperatore, incoronato a Roma da Eugenio IV e diretto al concilio di Basilea, fa tappa ad Urbino il 30 agosto 1433 presso la famiglia da cui proviene Battista di Montefeltro, madre di Elisabetta Malatesti.
La stessa Battista (rifugiatasi presso la famiglia ad Urbino con il marito Galeazzo dopo la cacciata da Pesaro del 18 giugno 1432), pronuncia davanti all'imperatore Sigismondo una commossa orazione latina per ribadire quanto sua figlia Elisabetta ha implorato per Piergentile, ovvero grazia e liberazione. Tutto è inutile, Sigismondo se ne lava le mani avendo ricevuto una diffida dal papa [212]. Battista ricorda all'imperatore pure le sventure dei Malatesti di Pesaro, ovvero la loro cacciata dalla città nel giugno precedente. Se poco dopo, all'inizio di settembre, i Malatesti possono ritornare a Pesaro (la pace con la Chiesa è del 15 settembre), non lo debbono né al papa né all'imperatore, ma all'attività diplomatica di estensi e veneziani. E ad una rivolta popolare nata dopo che Carlo ha assediato la città e devastato il contado. Tra le sventure ricordate da Battista di Montefeltro all'imperatore, è da porre la sorte di Cleofe. Se non la sua stessa morte (ne ignoriamo la data esatta), avvenuta in quello stesso 1433.
Da Urbino l'imperatore Sigismondo il 3 settembre scende a Rimini. Qui Sigismondo Pandolfo ed il fratello Malatesta Novello Malatesti ricevono da lui un'investitura laica che si contrappone a quella in temporalibus concessa dal papa. Preoccupati da una ferrea, egoistica Realpolitik, essi non hanno di certo il modo ed il tempo di riandare con il pensiero a Cleofe.
[210] M. MAZZALUPI, "La politica matrimoniale tra i Malatesti e i Da Varano", in Donne di Casa Malatesti I, cit., pp. 347-348. Al momento delle nozze, Giovanna non aveva compiuto ancora gli otto anni: "L'età tenera della sposa [...] costrinse Giulio a trattenersi fuori di Camerino negli impieghi militari" (cfr. il testo di Camillo Lilii, p. 347).
[211] G. PATRIGNANI, "Le donne del ramo di Pesaro", cit., p. 852.
[212] Ibidem, pp. 852-853.
Tra due concili, Costanza e Ferrara

L'immagine dell'imperatore Sigismondo, già protagonista del concilio di Costanza e diretto nell'estate del 1433 a quello di Basilea, sembra il sigillo più perfetto per celare la verità sulla sorte di Cleofe. Il destino della giovane pesarese è stato forse deciso proprio nel 1415 a Costanza. Dove Carlo Malatesti signore di Rimini e rettore vicario della Romagna dal 1385, è intervenuto quale procuratore speciale di Gregorio XII «ad sacram unionem perficendam» [213]. Carlo era molto legato a Cleofe che frequentemente soggiornava presso di lui a Rimini [214]. Carlo giunge a Costanza sabato 15 giugno. Domenica 16 si presenta all'imperatore, «significandogli la propria missione, e come fosse diretto a lui, non al Concilio, che Papa Gregorio non riconosceva» [215]. Lo stesso 16 giugno Carlo incontra pure Manuele II imperatore d'Oriente e futuro suocero di Cleofe.
Nei giorni successivi Carlo visita i deputati delle singole nazioni, con particolari ricevimenti da parte di quelli italiani, inglesi, tedeschi e francesi, dimostrandosi mediatore sapiente e fermo ma aperto alle altrui ragioni. A Costanza si trova pure il patriarca di Costantinopoli Jean de la Rochetaillée [De Rupescissa]. Anche il padre di Cleofe, Malatesta I, ha acquisito benemerenze religiose nei tormentati anni dello scisma occidentale (1378-1417). Nel 1410 l'antipapa Giovanni XXIII (quello che ingaggia il capo-brigante Braccio di Montone) lo ha ricompensato dei servizi ampi e fruttuosi prestati alla Chiesa durante il concilio di Pisa, «circa extirpationem detestabilis scismatis et consecutionem desideratissimae unionis», attribuendogli «vita durante» la somma di seimila fiorini l'anno, pari a cinque volte il censo che il signore di Pesaro pagava a Roma.
A Pisa, all'epoca del concilio, è arcivescovo Alamanno Adimari (1362-1422) della famiglia fiorentina protagonista nelle lotte dell'età di Dante sia in fazione nera sia in quella bianca: un ramo di quest'ultima è mandato in esilio e si trasferisce a Rimini [216]. Alamanno Adimari partecipa «in posizione di prestigio» allo stesso concilio, trattando anche con Carlo Malatesti la venuta a Pisa di Gregorio XII; inviato come Legato a latere in Spagna e in Francia, e fatto cardinale, è presente poi al concilio di Costanza «divenendo uno dei collaboratori più vicini al nuovo papa Martino V» [217].
Un discendente della famiglia dell'arcivescovo di Pisa il 20 gennaio 1498 guida a Rimini la sommossa nobiliare contro Pandolfo IV Malatesti: è Adimario Adimari, giustiziato il successivo 13 febbraio, affiancato dal figlio Nicola. La madre di Nicola è Elisabetta degli Atti, figlia di Antonio fratello di Isotta, la moglie di Sigismondo Pandolfo Malatesti. Elisabetta degli Atti ha sposato Adimario in seconde nozze. Suo primo marito era stato Nicola Agolanti, trovato impiccato il 9 novembre 1468. Elisabetta ha avuto come amante Roberto Malatesti (padre di Pandolfo IV) da cui nasce Troilo, fratellastro di Pandolfo IV (figlio di Elisabetta Aldobrandini) e fratello uterino del congiurato Nicola Adimari (nato nel 1472). Adimario era stato allontanato da Roberto dalla propria casa e dalla propria moglie. Con il figlio Nicola, Adimario se ne era andato da Rimini facendovi ritorno nel 1482 dopo la scomparsa del rivale e signore della città.
A Giovanni XXIII Carlo di Rimini ha scritto prospettandogli vari progetti per addivenire alla riunione della Chiesa, prima di muovergli guerra nell'aprile 1411 come rettore della Romagna per ordine di Gregorio XII e con l'aiuto di Pandolfo III di Brescia, al fine di «reperire pacem et unionem Sactae Matris Ecclesiae» [218]. Gregorio XII in una bolla del 20 aprile 1411 scrive che Carlo, «verae fidei propugnator», aveva giustamente deciso «se de mandato nostro movere, et pro defensione catholicae fidei, ac honore et statu, atque vera unione ac pace universali Ecclesiae» [219]. In dicembre a Carlo i veneziani, fedeli a Giovanni XXIII, hanno affidato un esercito da guidare contro l'imperatore Sigismondo. Nell'agosto 1412, Carlo è rimasto ferito per cui ha lasciato il comando al fratello Pandolfo III.
Nel 1417 a Pandolfo III è nato Sigismondo Pandolfo, il signore di Rimini di cui scrivono i fratelli Battaglini. Nel 1418 è venuto alla luce Domenico (Malatesta Novello) che sarà signore di Cesena [220]. Nell'ottobre 1418 Martino V, mentre sta ritornando da Costanza, fa sosta prima a Brescia e poi a Mantova. A Brescia avviene il suo incontro con l'arcidiacono Pandolfo, fratello di Cleofe, amministratore della diocesi loco episcopi. A Brescia il papa [221] trova il signore di Rimini Carlo accompagnato dalla moglie Elisabetta Gonzaga, e Malatesta I di Pesaro. Il quale ottiene dal pontefice due provvedimenti: la rinnovazione della propria signoria e la sede vescovile di Coutances per il figlio arcidiacono.
[213] Sul ruolo politico dei Malatesti molto documentato e puntuale è F. A. Becchetti, Istoria degli ultimi quattro secoli della Chiesa, III, Fulgoni, Roma 1790, ad indicem. A p. 5 si ricorda la partenza di Carlo Malatesti da Costanza il 25 luglio 1415, assieme ai cardinali Giovanni di San Sisto ed Antonio di Santa Susanna «legati del fu Gregorio XII per esporre al medesimo l'esito della loro commissione, ed ottenerne una pubblica approvazione».
[214] Clementini, Raccolto, II, cit., p. 208 («per lo più stava in Rimino», come si è gią riportato); Olivieri, Notizie cit., p. XXXIV. Il 12 novembre 1417 Cleofe è tra le dame della corte malatestiana che partecipano alla cerimonia della prima pietra per i lavori al porto di Rimini: cfr. L. Tonini, Rimini nella signoria de' Malatesti, Albertini, Rimini 1880, V, 1, p. 66. In Setton, The papacy..., cit., pp. 40-41, si legge dell'accordo raggiunto dalla missione bizantina a Costanza per le duplici «infelici» nozze di Sofia e Cleofe («And thus the way was prepared for the unhappy marriages of Sophia of Monferrat to John VIII and of Cleopa Malatesta to Theodore II, the depost of Mistra», p. 41).
[215] L. Tonini, Papa Gregorio XII e Carlo Malatesti, o sia la cessazione dello Scisma durato mezzo secolo nella Chiesa di Roma, SC-Ms. 1344, BGR, c. 111r. Sulle strategiche alleanze dinastiche di Bisanzio con il papa, cfr. gli atti del XXI congresso di Studi Bizantini (Londra 2006, Burlington 2006), vol. I, pp. 323, 334.
[216] Montanari, Esilio di fiorentini..., cit., pp. 83-93.
[217] DBI, I, Roma 1960, ad vocem.
[218] Tonini, Rimini IV, 2, cit., p. 84. Documento del 16 aprile 1411.
[219] Ibidem, p. 86.
[220] La loro madre è una concubina, Antonia da Barignano. Assieme a lei nel 1421 Sigismondo e Novello sono lasciati presso Carlo a Rimini dal padre Pandolfo III che, perduta la signoria di Brescia, fa base a Fano e diventa capitano generale della Chiesa (1422) e di Firenze (1423), prima di morire a 57 anni il 4 ottobre 1427, durante un pellegrinaggio a piedi da Rimini a Loreto. Si narra che lo stesse compiendo per invocare la guarigione dai malanni che lo affliggevano, aggravati dalle fresche nozze (12 giugno) con una giovane fanciulla, Margherita Anna dei conti Guidi di Poppi. Le cronache malatestiane ricostruiscono la scena della sua scomparsa, con lui «ben confesso e contrito» fra le braccia di frate Iacono della Marcha, noto per le sue predicazioni contro gli hussiti in Ungheria e gli eretici «fraticelli» d'ispirazione francescana nell'Italia centrale. Nel 1399 Pandolfo III aveva compiuto un pellegrinaggio «con onoratissima compagnia al Santo Sepolcro, ove ricevette l'ordine di Cavalleria per mano del Gran Maresciallo d'Inghilterra» (Clementini, II, cit., p. 194). Sulla presenza di Novello a Rimini, cfr. A. Montanari, Novello, scolaro a corte. Educazione umanistica e progetto della Malatestiana, «La piź», LXXVII, 3, maggio-giugno 2008, pp. 123-125.
[221] Becchetti, cit. p. 214, ricorda che il papa arriva a Brescia il 27 ottobre, fermandosi in questa cittą per il resto dell'anno, «persuaso che in essa avrebbe avuto maggior comodo che in Genova involta nel furore delle guerre civili, di applicarsi agli affari della Chiesa, e dei suoi domini».
Archivi "cancellati" nel fuoco

Ha osservato un eminente storico della filosofia, Paolo Rossi: «… ci sono molti modi per indurre alla dimenticanza e molte ragioni per le quali s'intende provocarla. Il "cancellare" [222] ha anche a che fare con nascondere, occultare, depistare, confondere le tracce, allontanare dalla verità, distruggere la verità» [222]. Per "cancellare" la storia di Cleofe, bastano le fiamme che nel 1462 distruggono a Rimini gran parte dell'archivio malatestiano (poi spogliato delle carte superstiti su iniziativa pontificia fra 1511 e 1520); ed a Pesaro il 15 dicembre 1514 la biblioteca ed i documenti della famiglia della sposa bizantina [223], dopo che nel 1432 e nel 1503 l'«arrabbiato popolo» vi aveva distrutto «le scritture» pubbliche [224]. In quelle fiamme scompaiono le tracce che potevano portare ad accusare la Chiesa di Roma del sacrificio di una giovane innocente, scelta dal papa con soddisfazione del suo casato. Per i Malatesti, in quei giorni attorno al 1420, erano aumentati potere e prestigio.
Sopravvivono soltanto le memorie orientali come la cronaca veneto-moreota ed il Chronicon minus di Giorgio Sfrantzes [225] (1401-1478), contenente la storia della famiglia dei Paleologi fra 1258 e 1476, oltre alle orazioni funebri di Basilio (Giovanni) Bessarione e Giorgio Gemisto Pletone [226]. E resta la leggenda del ritorno in patria di Cleofe: forse accreditata dagli stessi Malatesti per nascondere la sconfitta politica subìta, o forse diffusa dalla Chiesa al fine di mascherare le proprie colpe. Roma, consapevole di possibili tracce accusatorie lasciate a Pesaro ed a Rimini dalla clamorosa vicenda, avrebbe provveduto a distruggerle. Sono semplici ipotesi. Come quella che un'autorevole studiosa, Silvia Ronchey, ha di recente esposto circa la fine di Cleofe: una morte che ha «poche probabilità di essere stata accidentale», e che sarebbe dovuta alla «longa manus della curia romana» [227].
Cleofe «probabilmente assassinata, certamente travolta dal doppio gioco al quale era stata costretta fin dal suo arrivo a Bisanzio», visse cercando un impossibile equilibrio sul filo che collegava il papa ed il consorte [228]. Giocò con coraggio una partita che da sola non poteva vincere. Silvia Ronchey ipotizza l'uccisione di Cleofe per evitare che mettesse al mondo un erede al trono bizantino. Se un figlio maschio fosse nato, «il corso della storia avrebbe potuto essere diverso»: «se la storia potesse farsi con i se» [229]. E se è di Cleofe il corpo esaminato a Ginevra al Musèe d'Art et d'Histoire «con analisi molto sofisticate» (che lo attribuiscono ad «una giovane aristocratica occidentale, per la precisione un'italiana», eventualmente adriatica), resta il mistero di un particolare autoptico: «una perforazione all'altezza del cuore, la cui natura non è certa» [230].
[222] P. Rossi, Il passato, la memoria, l’oblio, Bologna 1991, p. 25.
[223] P. Parroni, La cultura letteraria a Pesaro sotto i Malatesti e gli Sforza, in Pesaro tra Medioevo e Rinascimento, Venezia 1989, pp. 209, 218 (nota 105)
[224] Olivieri, Della patria della beata Michelina e del beato Cecco del Terz’Ordine di San Francesco, Amati, Pesaro 1772, p. VIII. Il 1432 è l’anno della cacciata dei Malatesti, il 1503 di quella di Giovanni Sforza.
[225] Ronchey, L’enigma cit 146. Su Sfrantzes cfr. Falcioni, Cleofe cit., p. 963.
[226] Scheda Garampi n. 78 cit.: qui si rinvia a L. Allatii, Diatriba de Georgiis eorumque scriptis (Typographia regia, Parigi 1651; Felginer, Amburgo 1721). Sull’orazione di Pletone, cfr. M. Pade, The reception of Plutarch’s Lives in fifteenth-century Italy, Museum Tusculanum Press, University of Copenhagen, Copenhagen 2007, p. 316.
[227] Ronchey, L'enigma, cit., p. 376.
[228] Ibidem, p. 44.
[229] Ibidem, pp. 134-135.
[230] Ibidem, pp. 201-202.
La «questione turca» prima e dopo il 1453

Giovanni VIII Paleologo, figlio dell'imperatore Manuele che aveva combinato con il papa i matrimoni di Cleofe e Sofia, al concilio di Ferrara testimonia l'angustia provata dal padre per la minaccia turca [231]. Costantinopoli nel 1397-1399 era stata assediata dagli ottomani: «la popolazione presa nella morsa della fame» aveva desiderato «che la città fosse conquistata» per porre fine alle proprie sofferenze [232]. Nel 1410 Manuele II aveva chiesto ad Alessandro V poco prima che questi morisse, di trattare per l'unificazione della Chiesa d'Oriente a quella d'Occidente. La pericolosità dei musulmani aveva ricevuto conferma nel 1422 da un altro assedio, fallito per essere troppo esiguo il loro esercito. La presenza di Giovanni VIII a Ferrara nel 1438 è un intermezzo che precede la scena finale del 29 maggio 1453, quando avviene la conquista turca di Costantinopoli. Mentre nel suo porto si trovano anche navi veneziane e genovesi [233], segno di quel terzo incomodo fra autorità laiche e religiose, impersonato dal potere economico.
Dopo il 1453 un altro Malatesti, Sigismondo Pandolfo di Rimini, torna ad essere protagonista nei rapporti con l'Oriente mussulmano. Nel 1461, tenta un simbolico abbraccio culturale aderendo all'invito del sultano dei Turchi ad inviargli uno dei migliori artisti della sua corte, Matteo de' Pasti, con l'incarico di fargli un ritratto [234]. Contro Sigismondo i suoi avversari inventano l'accusa d'aver invitato Maometto II a combattere il papa [235]. Nel 1464 Sigismondo arruolato da Venezia va in Morea per lottare contro il Turco [236]. Il 25 gennaio 1466 fa ritorno in patria da uomo sconfitto. Reca con sé le ossa di Giorgio Gemisto Pletone, il filosofo che aveva conosciuto Cleofe e ne aveva elogiato la bellezza fisica e spirituale: «Sia il suo corpo sia la sua anima rifulgevano di una superiore armonia» [237]. Con la tomba riminese di Gemisto Pletone, il cerchio della storia di Cleofe idealmente si chiude. Le sue nozze erano state progettate proprio per riunire le due Chiese. La tomba riminese, come il tempio che la ospita, diventa il simbolo di un abbraccio culturale che coinvolge l'intero mondo mediterraneo e la sua cultura universale costruita da greci, romani ed arabi. Un mondo in cui le divisioni politiche hanno inutilmente cercato di cancellare la continuità storica del passato, fatta di sintesi unificatrice.
Sigismondo non poteva essersi dimenticato di Cleofe, vissuta «per lo più», come si è ripetutamente visto [238], alla corte di Rimini. Dove lo stesso Sigismondo era stato portato fanciullo da Brescia nel 1421, l'anno delle nozze della giovane pesarese. Di lei certamente aveva sentito parlare dai famigliari, con narrazioni che risalivano al concilio di Costanza. In quel summit politico-religioso l'aspirazione all'unità dei cristiani non si era limitata alla risoluzione dello scisma d'Occidente. Ma riguardò pure quello d'Oriente [239], più antico, più complesso e meno facile da sanare, come gli sviluppi successivi avrebbero dimostrato. E proprio allora tra quelle analisi e discussioni, venne forse deciso il destino di Cleofe.
Navigando verso la Morea nel 1464, Sigismondo non poteva non avvertire il peso di una storia ormai lontana nel tempo e rimossa nella memoria politica [240], tuttavia sempre presente alla sua coscienza di principe indocile ma sapiente. Il suo sguardo era senza i sereni accenti immaginati dalla poesia di Basinio nell'Hesperis (VII, 72-86). Dove leggiamo che la bella Cleofe aveva generato Elena «alle spiagge dolci di graziosa luce». Anche Elena era già scomparsa, a trent'anni, nel 1458. Basinio aggiunge che il glorioso Malatesti aveva concesso a Cleofe d'andare ad uno sposo greco, essendosi degnato d'imparentarsi con gli antichi Achei. Non un greco qualsiasi, però, bensì un grande re. Che la condusse alle patrie rive [241]. Sotto la retorica encomiastica di Basinio, c'è una verità storica: il ricordo di Cleofe era presente nella corte riminese, anche se il poeta nulla dice (o nulla sa?) della sua sorte.
Avvicinandosi a quelle rive, Sigismondo non è orgoglioso per i propri antenati come lo descrive invece Basinio (che in altro scritto colloca nella mitologia greca le origini dei Malatesti [242]). Sigismondo sente pesare il dramma della storia. Sia per la vicenda passata di Cleofe, sia per la propria sorte futura. Due anni prima, il 26 aprile 1462, tre fantocci raffiguranti Sigismondo sono stati bruciati in altrettanti diversi punti di Roma, ed il giorno seguente il papa ha emanato la bolla Discipula veritatis per scomunicare ed interdire il signore di Rimini. Navigando verso la Morea, Sigismondo avverte in sé il lacerante contrasto fra i drammi della politica incisi nella propria coscienza, e la speranza di una armonia fra i popoli che aveva alimentato gli ideali umanistici, espressi a Rimini prima nella biblioteca malatestiana presso i francescani e poi nel tempio.
Alla biblioteca egli aveva donato «moltissimi volumi di libri sacri e profani, e di tutte le migliori discipline» [243], testi latini, greci, ebraici, caldei ed arabi per diffondere una conoscenza aperta all'ascolto di tutte le voci [244]. Nel tempio, a testimoniare il suo libero intelletto attratto dall'antica sapienza, ci sono le immagini suggerite dallo stesso Sigismondo traendo spunto «ex abditis philosophiae penetralibus» come scrisse Valturio nel De re militari (XII, 13) [245]. Nella cosiddetta cappella «delle arti liberali», che più propriamente dovremmo chiamare «del pensiero umanistico» [246], c'è un bassorilievo che illustra la Concordia, con due giovani che si tendono la mano in un gesto di delicata eleganza. Forse sono lo stesso Sigismondo e la sua Isotta. Ma potrebbero raffigurare anche la nostra Cleofe e Teodoro. Nulla autorizza a crederlo. Nulla vieta di leggere nella stessa Concordia un richiamo alla speranza di pacificazione fra i popoli e le Chiese, all'indomani del 1453. La cultura del tempo la faceva balenare alle menti più illuminate. La cronaca di ogni giorno la smentiva, registrandone il fallimento con il succedersi degli eventi militari. Per quella speranza Cleofe era stata dapprima prescelta in giorni remoti, e poi sacrificata alle ragioni «particulari» della parti in causa. In quel gioco al massacro che, in tutti i tempi e sotto tutte le latitudini, è (e sarà) la Storia.















[231] A. Landi, Il papa deposto. Pisa 1409, l’idea conciliare nel Grande scisma, Torino 1985, p. 219.
[232] A. Pertusi, Introduzione a La Caduta di Costantinopoli. Le testimonianze dei contemporanei, I, Milano 1997, p. XI.
[233] Ibidem, p. LXIII.
[234] Soranzo, Una missione di Sigismondo Pandolfo Malatesta a Maometto II nel 1461, in «La Romagna», VI, 1909, p. 51. La vicenda è ricostruita in A. Montanari, G. A. Barbari da Savignano (1647-1707), Rimini 2005, pp. 111-122.
[235] Soranzo, Una missione,cit., p. 44.
[236] Sigismondo chiede una raccomandazione presso il papa, Venezia lo accontenta, anche per giustificare con Pio II la propria scelta: non si trovava chi volesse accettare il mandato. Sulla crociata in Morea, cfr. l’importante documentazione prodotta in Falcioni, Le ultime imprese militari (1464-1468), ne La Signoria di Sigismondo Pandolfo Malatesti, II. 2, La politica e le imprese militari, Rimini 2006, pp. 147-169. La crociata ancora oggi suscita interesse presso gli studiosi, come testimonia il recente Roeck, Piero della Francesca cit., p. 184: «La campagna si trasformò in un’impresa disperata. In breve tempo gli furono tagliati i rifornimenti di munizioni e vettovaglie: incalzato dalla superiorità turca e a corto di risorse finanziarie, Sigismondo dovette abbandonare l’assedio della cittadella di Mistrà e battere in ritirata. Alla fine si aggiunsero anche delle piogge insolitamente violente a metter alla prova le truppe, mentre […] la malaria» si era abbattuta sugli sconfitti.
[237] Ronchey, L’enigma, cit., p. 44. Leopardi, leggiamo in Ronchey, Il guscio della tartaruga. Vite più che vere di persone illustri, Roma 2009, p. 117 (alla voce Leopardi),«amava Giorgio Gemisto Pletone, la cui fama tace al presente non per altra causa se non che la celebrità degli uomini, come in effetti ogni cosa, dipende più da fortuna che da ragione». A Pletone è dedicata la voce biografica alle pp. 160-162.
[238] Cfr. alle note 71, 86.
[239] «Il grande spettacolo di Costanza costituì il vero punto d’avvio del piano di salvataggio occidentale di Bisanzio…», Ronchey, L’enigma, cit., p. 324.
[240] Il nome Cleofe ritorna soltanto più tardi nelle famiglie malatestiane, e soltanto nel ramo di Cusercoli, con due giovani delle quali sappiamo che andarono spose rispettivamente nel 1512 e nel 1614. La prima Cleofe è figlia di Antonio di Galeotto I di Nicolò di Ramberto (nipote di Paolo il Bello). La seconda è nipote ex fratre dell’altra: è cioè figlia di Cesare di Galeotto II (fratello dell’altra Cleofe e figlio di Antonio di Galeotto I). Cfr. Donne di Casa Malatesti, II cit., ad indicem. Dal Ramberto nipote di Paolo il Bello, deriva anche il ramo a cui appartiene Antonio da Fossombrone vescovo di Cesena, del quale si è detto supra.
[241] Rendo con libera traduzione, senza quindi poter usare il virgolettato, il testo latino di Basinio.
[242] Si tratta dell’epistola latina Ausoniae decus (1449-1450) dove Basinio «quasi divinizza Sigismondo»: cfr. A. Piromalli, La cultura letteraria nelle corti dei Malatesti, Rimini 2002, p. 54; e per il testo (parziale) in Broglio, Cronaca, cit., pp. 165-166. La poesia encomiastica di Basinio rimanda ad un tema ricorrente nell’elogio dei principi, la ricerca di antiche e prestigiose origini: cfr. Broglio, Cronaca, cit., p. 3 (i Malatesti sono fatti discendere dagli Scipioni), e le citt. Croniche de’ Malatesti di S. Parti, pp. 1-2. Parti non era molto informato: ad esempio, Galeazzo fratello di Cleofe e figlio di Malatesta I di Pesaro, è detto (p. 5) figlio di Galeotto I e fratello di Carlo di Rimini. A sua volta Galeotto I è considerato (p. 4) figlio di Malatesta da Verucchio, mentre ne è nipote, essendo nato da Pandolfo I. Inoltre Parti attribuisce a Galeazzo di Pesaro una figlia (Ginevra) andata sposa ad Alessandro Sforza. In realtà la Costanza Da Varano che nel 1444 sposa lo Sforza, è figlia di Elisabetta Malatesti nata da Galeazzo di Pesaro, e moglie di quel Piergentile Da Varano decapitato nel 1433 (v. supra). Lo Sforza morì nel 1473 e non nel 1413 come si legge in Parti. Infine, nell’elenco delle ventiquattro donne «date e tolte in matrimonio» dai Malatesti, manca proprio la nostra Cleofe. L’omissione potrebbe rivelare una dimenticanza collettiva, più imposta che involontaria nella tradizione (nel senso etimologico del termine) delle storie malatestiane.
[243] R. Valturio, De re militari, XII, 13, Wechelum, Parisiis 1534, p. 383: «plurima denique sacrorum ethnicorum librorum, ac omium optimarum artium volumina una donatione contuleris».
[244] Montanari Sigismondo, filosofo umanista, ne La Signoria di Sigismondo Pandolfo Malatesti, II. 2, cit., p. 322. A differenza della biblioteca cesenate voluta da Malatesta Novello, quella di Rimini è andata dispersa. Non per opera di Giulio II nel 1511, secondo la tesi settecentesca di padre Francesco Antonio Righini; ma, come ha sostenuto Federico Sartoni (1730-1786), per responsabilità degli stessi frati che la vendettero alla famiglia romana dei Cesi, la stessa di Angelo vescovo di Rimini dal 1627 al 1646, e di Federico, fondatore dell’Accademia dei Lincei nel 1603. Cfr. L. Tonini, Rimini dopo il Mille, Rimini 1975, p. 94, ove si rimanda al ms. di Sartoni, in BGR contenuto in L. Tonini, Cronache riminesi... (cc. 222-97), SC-Ms.1136. La parte che interessa è alle cc. 49-50. Cfr. Montanari, Biblioteca malatestiana di san Francesco a Rimini, <www.webalice.it/antoniomontanari1/c/ilrimino/2007/1217.html>.
[245] Valturio, cit., p. 383.
[246] Nelle due colonne della cappella, su tre lati per ciascuna, sono raffigurate le arti liberali e le muse, in diciotto immagini da ‘leggere’ verticalmente dall’alto verso il basso. Sul loro significato simbolico esistono diverse interpretazioni, che non possiamo qui riassumere (cfr. G. Fattorini, Il Tempio di Sigismondo, ne I Malatesti, a cura di A. Falcioni e R. Iotti, Rimini 2002 [pp. 389-414], 409-410, 413). Sintetizziamo la nostra. Colonna di sinistra: 1. natura, etica, filosofia; 2. poesia, storia, retorica; 3. metafisica, aritmetica, musica. Colonna di destra: 4. geografia, astronomia, logica; 5. matematica, mitologia, scienza della natura; 6. concordia, arte edificatoria, educazione. (La «concordia dei cittadini» d’ispirazione ciceroniana, è cit. in un proverbio latino: «Concordia civium murus urbium». Di qui il collegamento allegorico tra la stessa concordia e l’arte edificatoria.) La natura è l’incipit dell’ammaestramento umanistico che ne deriva l’etica, con cui struttura la filosofia. Seguono gli strumenti di formazione: poesia, storia, retorica; metafisica, aritmetica, musica. Nella colonna di destra sono elencati i sei ‘strumenti’ attraverso cui far conoscere la natura: geografia, astronomia, logica; matematica, mitologia, scienza della natura. La figura che appare dopo la matematica, detta della «danza», sembra indicare invece la forma di conoscenza che avviene attraverso il «mito» (Microbio, In somnium Scipionis, la chiama «narratio fabulosa»: «haec ipsa veritas per quaedam composita et ficta proferetur», 2, 7). Nelle ultime tre immagini è sintetizzato lo scopo dell’ideale umanistico da realizzarsi con la concordia (intesa quale virtù civica), in una città nuova, per mezzo dell’educazione. In tutte le immagini è compendiato un programma pedagogico di impronta umanistica: per formare una società rinnovata dalla concordia, si parte dallo studio della natura. In tal modo è eclissata la teologia. Ecco la rivoluzione di Sigismondo e del suo circolo di intellettuali ed artisti, che tanto dispiacque a Pio II. Il tema della città nuova si collega a quello della «città ideale» proposto dalla famosa opera della scuola di Piero della Francesca, dietro la quale ci sarebbe invece la mano del progettista del tempio riminese, Leon Battista Alberti, autore del De Re Aedificatoria: cfr. G. Morolli, La vittoria postuma: una città niente affatto ‘ideale’, ne L’Uomo del Rinascimento. Leon Battista Alberti e le arti a Firenze fra Ragione e Bellezza, Firenze 2006, pp. 393-399.
1357, a Milano, Praga e Londra

Amico del Petrarca, è detto Pandolfo II nonno di Cleofe. Si conoscono nel 1356. Il poeta arriva a Milano presso i fratelli Galeazzo e Bernabò Visconti che l'inviano come ambasciatore a Praga dall'imperatore Carlo IV. Pandolfo è ingaggiato dai Visconti quale comandante dell'esercito. La situazione nei loro territori è inquieta, con una rivolta a Bologna e la minaccia del marchese del Monferrato di conquistare le città del Piemonte. Petrarca va a Praga verso la fine di maggio, passando per Basilea. Ritorna dopo tre mesi. In autunno Pandolfo si ammala seriamente. Petrarca si reca da lui quasi ogni giorno. Quando sta meglio Pandolfo restituisce le visite. Non può camminare, e si fa trasportare dai servi.
Il vicario imperiale, vescovo di Augusta, Markward von Randeck che sta a Pisa, capeggia l'opposizione italiana ai Visconti per i danni arrecati alla Chiesa ed all'imperatore. Intima loro di discolparsi davanti a lui l'11 ottobre 1356. Galeazzo gli risponde con una lettera ingiuriosa. L'ha composta Petrarca. Il vicario si mette in marcia contro Milano: è fermato soltanto a Casorate il 14 novembre. I Visconti fanno prigioniero Markward trattandolo «decorosamente» e rispedendolo in Germania [247]. Novara è conquistata dal marchese del Monferrato, mentre a Genova scoppia una rivolta antiviscontea.
Secondo il cronista trecentesco Matteo Villani [248], Bernabò teme che Pandolfo faccia troppo montare suo fratello Galeazzo nella comune signoria. Per questo lo aggredisce, minacciandolo di un'esecuzione capitale. Bernabò ha la fama di tiranno sfrenato, al cui nome «tutti tremavano né alcuno ardiva far parola. Due frati minori che osarono fare a lui stesso lagnanza di tante estorsioni li fece bruciar vivi». Per giustificarsi Bernabò accusa Pandolfo di aver corteggiato una sua concubina, Giovannola di Montebretto, che gli ha dato una bimba (Bernarda) nel 1353, quando nasce pure Marco, suo terzo figlio legittimo. Bernabò è un «sovrano truce e ignorante» secondo Verri. Nel 1361 accoglie due nunzi papali ad un ponte sul Lambro, imponendo loro la scelta «o mangiare o bere», cioè essere buttati nel fiume. Essi masticano tutta intera, compreso il bollo di piombo, la pergamena pontificia che gli avevano recato. Uno dei due nunzi, Guillaume de Grimoard, nel 1362 diventa papa con il nome di Urbano V.
Nel 1367 Pandolfo II è uno dei signori che accompagnano da Napoli a Roma Urbano V, per difenderlo dai cardinali contrari al suo progetto, realizzato soltanto per un triennio, di riportare a casa da Avignone la sede di Pietro. Urbano V scomunica Bernabò, dichiarandolo eretico e comandando «che alcuno non osasse più trattare con lui». Nello stesso 1362 i messi di Padova, Verona, Ferrara e Rovigo sono fatti vilipendere dalla ciurmaglia, vestiti con tuniche bianche e mandati a cavallo in giro per Milano. Il vicario arcivescovile Tommaso Brivio è torturato. L'abate di San Barnaba, è impiccato per aver preso delle lepri. Bernabò si accontenta di sbattere in carcere il presunto rivale in amore. Galeazzo fa poi liberare Pandolfo che scappa da Milano e prepara la sua vendetta. La quale coinvolge il vecchio amico Petrarca, costretto a scrivere cose turche contro Pandolfo. Nel primo semestre del 1357 Petrarca si rivolge a Ludovico (Luigi) di Taranto re di Gerusalemme e Sicilia, secondo marito della regina Giovanna I di Napoli e nipote del defunto re Roberto d'Angiò. Giovanna, donna bella e gentile, di cuor tenero ed appassionato, era rimasta vedova del cugino Andrea d'Ungheria, un tipo selvaggio e duro, fattole sposare quando entrambi non avevano ancora otto anni. La morte di Andrea è attribuita ad uno strangolamento deciso da Giovanna e da Ludovico per coronare il loro sogno d'amore, racconta Ambrogio Levati [249]. La chiamavano la Cleopatra napoletana.
Il titolo dell'epistola di Petrarca dice tutto, Contro Pandolfo Malatesti. Allo stesso 1357 appartiene la lettera inviata da Petrarca ad Aldobrandino III d'Este a nome di Bernabò Visconti, in cui si parla della perfidia di Pandolfo verso il signore di Milano che invece lo aveva amato come un fratello. Bernabò non si riferisce soltanto alla storia della presunta relazione con Giovannola. Si basa su fatti veri. Pandolfo liberato da Galeazzo e fuggito da Milano, partecipa ad un intrigo internazionale in cui agisce da provetto politico, ma non per il solo scopo di togliersi la soddisfazione di sparlare dei Visconti e di danneggiarli. Un testimone del tempo, il dotto cronista (e notaio delle truppe viscontee) Pietro Azario, scrive che il Malatesti fu a Milano, su ordine di Bernabò, talmente offeso che, per vergogna ed altre azioni commesse contro di lui, provò dolore in perpetuo [250]. L'esperienza personale di Pandolfo va collegata al contesto politico. I Malatesti sono in pace con la Chiesa dall'8 luglio 1355, data del documento scoperto dal cardinal Giuseppe Garampi nell'Archivio segreto apostolico vaticano, con cui si concedono ai Malatesti in vicariato le città di Rimini, Pesaro, Fano e Fossombrone ed i loro contadi [251]. Mentre è del 14 luglio 1356 un altro documento "garampiano" con le lodi di papa Innocenzo VI verso Malatesta Malatesti [252].
Matteo Villani attribuisce la resa dei Malatesti alla mancanza di denaro e rendite [253]. Dal luglio 1355, comunque essi rientrano nel gran gioco della politica. La loro sottomissione al papa «si traduce ben presto in un fattivo e duraturo rapporto di collaborazione militare» [254], quando la Chiesa cerca di evitare che i signori cittadini «potessero far blocco fra di loro e costituire un ostacolo insormontabile all'esercizio della sovranità papale» [255]. Nel 1362 Pandolfo II sposa Paola Orsini il cui nonno Orso è figlio di un fratello di papa Niccolò III (1277-1280). Con il quale un suo altro nipote, Bertoldo fratello di Orso, nel 1278 è conte di Romagna.
Prima a Praga e poi a Londra, Pandolfo non opera per proprio conto, o in difesa di Galeazzo Visconti. Lo dimostra un altro documento scoperto da Garampi [256]. Pandolfo il 2 giugno 1357 è invitato dal papa a recarsi ad Avignone. Al suo posto (perché impedito dagli impegni militari con i fiorentini), va il padre che due anni prima aveva già incontrato il cardinal Egidio Albornoz Legato di Romagna con il quale viaggia verso Avignone. Dove arriva il 24 ottobre e si ferma per oltre tre mesi, tornando a Rimini il 16 febbraio 1358.
La pace con i Malatesti, si legge in Carlo Tonini [257], libera il Legato da una guerra che poteva essere lunga e difficile, e gli fornisce un alleato contro gli altri signori romagnoli per prendere Cesena, Forli e Faenza. Albornoz rappresenta la linea dura con i Visconti, che il papa voleva invece favorire per usarli contro gli Ordelaffi. Nel 1360 i Malatesti sono al fianco della Chiesa avversando Bernabò Visconti. Il 29 luglio 1361 alla battaglia di San Ruffillo a Bologna, Bernabò è sconfitto dalle truppe del Legato guidate da Galeotto I Malatesti, figlio di Pandolfo I che era il nonno del nostro Pandolfo II. Da Galeotto I discende il ramo riminese (suo nipote è Sigismondo Pandolfo).
I commentatori alla «Storia di Milano» di Bernardino Corio (1459-1519) scrivono che la sconfitta dei Visconti avviene ad «opera del vecchio Malatesti di Rimini», uomo che «come tiranno e come Romagnolo, doveva essere in concetto di consumato maestro di perfidia: che di questi tempi la malvagia fede degli abitanti della Romagna era in ogni parte d'Italia passata in proverbio» [258]. Perfidia è la parola usata, come si è visto, da Petrarca contro Pandolfo nell'epistola scritta ad Aldobrandino III d'Este a nome di Bernabò Visconti. Nessuna perfidia invece dimostra Pandolfo II verso Petrarca. Nell'ottobre 1364 il poeta esprime a lui ed al fratello Malatesta Ungaro il suo dolore per la morte del loro padre Malatesta Antico, di cui attesta il grandissimo ricordo lasciato con la sua vita piena di gloria. Nel 1372 il Malatesti invita il poeta a Pesaro. La risposta (negativa) del 4 gennaio successivo contiene le condoglianze per la morte della moglie e del fratello di Pandolfo, e l'annuncio dell'invio delle proprie rime volgari, ovverosia il «Canzoniere», che definisce «nugellae».
Pandolfo e Petrarca sanno che la vita politica (di cui entrambi sono testimoni e protagonisti), richiede sottomissioni, umiliazioni ed astuzie. Nel 1366 i Malatesti congiurano con il papa per far sconfiggere i Visconti. Con loro s'incontrano a Pavia (dove trovano Petrarca) e Milano, mentre sono diretti ad Avignone. Non è una riconciliazione, come scrive un oscuro cronista bolognese del tempo, il cartolaio Floriano Villola rilanciato nel 1949 da Roberto Weiss [259]. Ma una manovra di aggiramento, ben descritta da Muratori [260]. Alla fine i Visconti si dimostrano i più abili e danarosi, e possono assoldare truppe inglesi e tedesche. La loro penetrazione in Emilia è irresistibile, come osserva Gina Fasoli [261].
La gloria del ricordo, Pandolfo II Malatesti la riceve dai biografi di Francesco Petrarca, nelle pagine che narrano la partecipazione del poeta alle lotte politiche del suo tempo. Pandolfo non brilla mai di luce propria, ma riceve timidi e confusi sprazzi di quella che illumina i racconti sulla vita del cantore di Laura. Seguendo Petrarca incontriamo Pandolfo ed altri personaggi del loro mondo, come il nobile francese Sagremor de Pommier che lavora a Milano quale agente diplomatico e fidato corriere dei Visconti. Nel 1356 lo troviamo in viaggio verso Basilea assieme a Petrarca, in missione ufficiale presso l'imperatore Carlo IV. Negli stessi momenti Pandolfo è al servizio dei Visconti quale comandante delle loro truppe.
Carlo IV era giunto in Italia nell'ottobre 1354 diretto a Roma per ricevere la corona imperiale. La Chiesa lo aveva appoggiato sin dal 1346 quando era soltanto re di Lussemburgo e viveva l'imperatore Ludovico il Bavaro. Alla cui scomparsa (1347) Carlo ne prende il posto. Carlo è un esperto giurista: metà tedesco e metà slavo (dal lato materno), è stato educato in Francia. Molto abile a fare i propri interessi, emana la «Bolla d'oro» (1356) che lo trasforma in un imperatore senza potere, in balìa dei suoi sette elettori: gli arcivescovi di Magonza, Treviri e Colonia, i principi di Palatinato, Sassonia e Brandeburgo ed il re di Boemia. Può controllare cancelleria e tesoro del regno, ma la politica la fanno gli altri [262]. Appena eletto re di Germania grazie all'intervento di Clemente VI (1346), Carlo giura che una volta proclamato imperatore, rispetterà i dominii della Chiesa in Italia: per questo lo chiamano «imperatore dei preti» [263]. Papa Clemente diffida, temendo che Carlo usurpi i diritti della Chiesa e non vuole incoronarlo. Le cose cambiano con l'elezione di Innocenzo VI (1352).
Il 1356 è un anno particolare per la Francia, messa in ginocchio a Poitier dal re inglese Edoardo III che nel 1337 ha iniziato la guerra detta dei cento anni, sbarcando in quelle terre sul cui trono vantava diritti per via della madre Isabella, figlia di Filippo IV il Bello. Nel 1358 l'Inghilterra ottiene quasi un terzo della Francia per cui Edoardo rinunzia alle vecchie rivendicazioni. La Francia ne esce con le ossa rotte anche in rapporto al papato, su cui non può più esercitare alcun predominio [264]. Mentre l'Inghilterra vuol tenere a freno la Chiesa. La quale reagisce inviando da Avignone in Italia (1353) il cardinal Egidio Albornoz.
Tra le lotte armate continentali, nel 1356 si svolge la missione di Sagremor e Petrarca a Basilea alla ricerca dell'imperatore. Lo attendono invano per un mese (Petrarca incontra vecchi amici del tempo degli studi di Diritto a Bologna), poi si avviano verso Praga, dove Carlo IV vive felice. Non si illude, ha osservato P. Lafue [265], sul potere della sua corona, per un sano realismo fatto di conoscenza della Storia. E soprattutto crede nel potere del denaro, non ritirandosi davanti ad imprese politicamente disoneste per intascare somme di denaro, come fa in l'Italia, e come farebbe «un qualsiasi capobanda mercenario» [266]. L. A. Muratori è sferzante: «Attendeva questo Imperadore più a far danaro, che a guarir le piaghe dell'Italia...» [267]. Cesare Cantù lo definisce un fantoccio a cui i letterati prodigavano latine adulazioni, i giuristi rammentavano i diritti imperiali ed i tiranni volentieri si rivolgevano invocandolo come giudice nei litigi politici [268].
L'itinerario per Praga, durato tre settimane, è raccontato dallo stesso Petrarca quale viaggio da incubo, con una scorta armata ed in continuo pericolo per gli attacchi dei predoni. L'unica soddisfazione per Petrarca è di aver conosciuto l'imperatrice Anna Schweidnitz (terza moglie di Carlo), la sola donna a cui (congratulandosi per aver generato una femmina) indirizza una lettera (1358), considerata «un vero trattatello in lode delle donne famose» [269]. All'imperatore Petrarca, con la testa piena delle idee politiche astratte degli intellettuali, si è rivolto il 24 febbraio 1351 invocandone la discesa in Italia, per darle una regolata. Nella sua lettera, fa parlare la Roma stracciona dei suoi giorni, un tempo venerabile matrona. Petrarca guarda alle glorie del passato, forse più presenti nelle pagine degli scrittori che nella vita della gente comune di tutti i giorni. Cantù liquida la cotta di Petrarca verso Carlo IV con una brutale battuta: in Avignone l'imperatore aveva voluto vedere la sua Laura, e baciarla per ammirazione. Carlo IV gli risponde che non c'erano più i Latini di una volta: hanno perso la libertà avendo sposato la servitù.
Nel 1355 Carlo riceve la doppia incoronazione, come re d'Italia a Milano il 4 gennaio e come imperatore in aprile a Roma, poi a metà giugno scappa dall'Italia in Boemia per non disturbare la Chiesa. Petrarca gli scrive «un'acerba lettera di rimproveri» (come la definisce Dotti [270]), dichiarando di censurarsi per non dire tutto quello che pensava di lui («non audeo clare tibi dicere...»). Sagremor ha un progetto in testa per il proprio futuro, passare al servizio dell'imperatore. A cui fa scrivere una lettera di raccomandazione da Petrarca che lo presenta come ottimo soldato, gran banditore delle gesta di Carlo e profondo conoscitore delle cose segrete del poeta. Poi Sagremor cambia idea, forse constatando che la vita politica non è tutta rose e fiori. Qualche anno dopo (1367 o 1368) scrive a Petrarca di esser diventato monaco cistercense.
A Praga, l'anno successivo rispetto a Petrarca e Sagremor, cioè nel gennaio 1357, va anche Pandolfo II quando fugge da Milano dopo la disavventura con Bernabò Visconti che lo fa imprigionare, e dopo la liberazione da parte di Galeazzo Visconti. A febbraio lo insegue Sagremor che poi ritorna a Milano, a rapporto dai Visconti con la facile notizia che Pandolfo con tutti stava sparlando di loro. Sagremor vola di nuovo a Praga dove scopre che il Malatesti si è diretto a Londra. Qui Sagremor lo raggiunge per dargli una lezione: lo sfida a duello. Pandolfo fa finta di nulla e Sagremor va a lamentarsi con il re Edoardo III. Il quale mette per iscritto quello che Sagremor gli ha riferito, per difendere l'onore del messo francese dei Visconti e denigrare l'italiano Malatesti.
Ma il Malatesti non viaggia per conto proprio a far la malalingua per vendetta personale: è un uomo politico la cui famiglia ha appena fatto pace con la Chiesa (8 luglio 1355), soddisfatta anche per gli insuccessi viscontei del 1356 (perdita di Bologna, Pavia, Novara, Genova, Asti e d'altri possedimenti piemontesi). L'accordo con i Malatesti è per la Chiesa una prova generale di quanto poi fa con l'intero territorio del suo Stato [271]. Per questo fatto la missione europea di Pandolfo appare come parte di un progetto ecclesiastico che doveva tener d'occhio il contesto continentale, e che culmina nello stesso 1357 con le «Costituzioni» promulgate da Albornoz per sistemare una volta per tutte le questioni politiche nelle terre dello Stato della Chiesa, con un stabile ordinamento giuridico ed amministrativo. L'anno dopo i Visconti fanno pace con la lega che li aveva combattuti. Cantù narra che quando il papa gli chiede conto del denaro speso nella campagna durata 14 anni per domare i signori dello Stato ecclesiastico, Albornoz gli manda un carro con le chiavi di tutte le città assoggettate. Di tasca propria Albornoz lascia un'eredità per fondare a Bologna il collegio spagnolo, tuttora esistente.
Sull'azione politica di Albornoz restano fondamentali le pagine di Gina Fasoli. Alternando trattative diplomatiche a vigorose azioni militari, Albornoz crea «un sistema di poteri locali abbastanza forti per non essere sopraffatti dai vicini, ma non tanto forti da potersi unire e formare fra di loro un blocco» mirante ad ostacolare la sovranità papale. Le «Costituzione» da lui emanate (e chiamate egidiane dal suo nome di battesimo), riprendono vecchie leggi, corrette ed adattate alle nuove esigenze. Si fornisce così «un testo che costituiva il diritto generale cui le leggi locali e particolari dovevano conformarsi». In questo contesto fa sorridere il racconto su Pandolfo II che gira l'Europa per spiegare la notizia più ovvia di tutte fra le diplomazie continentali, ovvero che Bernabò Visconti era un figlio di buona donna.
Quando Pandolfo II arriva a Praga (1357), l'imperatore Carlo IV conosceva già dal marzo 1355 la famiglia Malatesti, per aver nominato allora suo vicario a Siena Malatesta Ungaro, fratello di Pandolfo II.
La lettera dal re inglese consegnata a Sagremor su Pandolfo, il quale non ha accettato la sua sfida a duello, serve al francese per incassare il soldo della missione, dimostrando ai Visconti di aver fatto quanto era in suo potere per umiliare il Malatesti davanti alla più alta autorità politica del momento. Ma, dato che ogni fatto ha il suo risvolto segreto, quella lettera fa di Pandolfo un protagonista della vita continentale. Non un codardo come lo accreditava Sagremor, ma un politico che sapeva muoversi bene, proteggendo dagli sguardi indiscreti il vero scopo del suo lavoro da diplomatico (o da agente segreto, che dir si voglia) [272].
[247] P. Verri, Storia di Milano, I, Morelli, Milano 1783, pp. 374-375.
[248] Cfr. al c. VII, 48 della sua Cronica, vol. XXX della «Biblioteca Enciclopedica Italiana», Bettoni, Milano 1834, pp. 220-221.
[249] A. Levati, Donne illustri, II, Bettoni, Milano 1822, pp. 93-94.
[250] Petri Azarii Liber gestorum in Lombardia, a c. di F. Cognasso, «Rerum Italicarum scriptores», Tomo XVI, parte IV, fascicoli 1-2, Bologna 1926, passim. (La prima ed. muratoriana è del 1729.) Le cronache di Azario vanno dal 1250 al 1364. Azario è cit. in F. Novati, Il Petrarca e i Visconti, in «F. Petrarca e la Lombardia» a c. di A. Annoni, Milano 1904, pp. 45-46: ed in P. J. Jones, The Malatesta of Rimini and the Papal State, Cambridge 1974, p. 84 (qui si riporta il fatto che Pandolfo è «vituperatus» da Bernabò Visconti).
[251] Tonini, Rimini IV, 2, cit., doc. CXVIII, pp. 209-224
[252] Ibidem, doc. CXX, pp. 225-226
[253] Cfr. V, 46, p. 168 dell’ed. Milano 1834 cit. supra.
[254] A. Vasina, Il mondo emiliano-romagnolo nel periodo delle Signorie (secoli XIII-XVI), in Storia della Emilia Romagna cit., pp. 675-748, 722.
[255] Fasoli, cit., pp. 395-396.
[256] Tonini, Rimini IV, 1, cit., p. 156.
[257] C. Tonini, Compendio della Storia di Rimini, I,Rimini 1895 (ed. an. Bologna 1969), p. 391.
[258] B. Corio, Storia di Milano, a cura di A. Butti e R. Ferrario, Colombo, Milano 1856, Note al cap. V, p. 247.
[259] R. Weiss, Il primo secolo dell’Umanesimo, Roma 1949, p. 90.
[260] Cfr. sub anno in Annali, VIII, Giuntini, Lucca 1763, pp. 264-265. A p. 263 si rimanda al Corpus Chronicorum Bononiensium, edito dallo stesso Muratori in Rerum Italicarum Scriptores, tomo XVIII, I, vol. III (ora cfr. in ed. a cura di A. Sordelli, Città di Castello 1916-1939).
[261] Fasoli, cit., 394 e segg.
[262] G. Sodano, Il Sacro Romano Impero Germanico, ne Il Medioevo a cura di Umberto Eco, 7. Basso Medioevo. Storia, Roma 2009, pp. 211-219, 129.
[263] U. Dotti, Vita di Petrarca, Bari 2004, p. 228. A questo testo rimandiamo per tutte le notizie sull’epistolario che non riportiamo per esigenze di spazio
[264] A. Saitta, Il cammino della civiltà, I, Firenze 1953, pp. 479-482
[265] P. Lafue, Storia della Germania, Bologna 1958, pp. 191-196.
[266] C. Vivanti, La storia politica e sociale, in Storia d’Italia, 2.1, Dalla caduta dell’impero romano al secolo XVIII, Torino 1974, p. 308.
[267] Cfr. in Annali, VIII, a spese di Pasquali libraro in Venezia, Milano 1746, p. 292.
[268] C. Cantù, Storia degli italiani, IV, Torino 1855, p. 340.
[269] Dotti, cit., p. 315.
[270] Ibidem, pp. 309-313.
[271] E. Cuozzo, Lo Stato della Chiesa, Il Medioevo a cura di Umberto Eco, 7 cit., pp. 176-184, 183.
[272] Un particolare ringraziamento debbo, oltre che alle persone già citt. in precedenti note, ai colleghi Pier Luigi Sacchini (Rimini), Lena Vanzi (Roma) e Chiara Zoli (Firenze) per le pazienti, preziose ricerche effettuate nelle biblioteche di materiali utilizzati nel presente lavoro. Senza la loro fondamentale collaborazione, molte parti non avrebbero potuto essere documentate.
Antonio Montanari
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