Alberto Melucci, poeta dialettale.
Coferenza del 27.3.2006, presso la Fondazione Righetti.

Archivio 2015

I. Melucci studioso
Alberto Melucci è uno dei più conosciuti ed apprezzati studiosi di Sociologia a livello internazionale. Nato a Rimini nel 1943, è scomparso nel 2001.
È stato ordinario di Sociologia dei processi culturali e docente presso la Scuola di specializzazione in Psicologia Clinica dell'Università di Milano. Ha insegnato anche in Europa, negli Stati Uniti, in Asia e America Latina, ricoprendo importanti incarichi accademici e svolgendo un'intensa attività di ricerca. I suoi numerosi volumi sono entrati nel dibattito culturale di tutte le Università straniere.
Nel 2002, ad un anno dalla morte, l'Università degli Studi di Milano, Dipartimento di Studi sociali e politici, ha organizzato un seminario in suo ricordo.
Al seminario, intitolato «Identità e movimenti sociali in una società planetaria», hanno partecipato studiosi italiani e stranieri. L'incontro, come si leggeva nella presentazione, voleva «ribadire l'importanza e l'attualità» dei temi tipici trattati da Melucci, dei suoi contributi teorici e del lavoro di ricerca da lui svolto «nel panorama delle scienze sociali, e non solo della sociologia, a livello internazionale».
Nel seminario si sono affrontate e approfondite «le tematiche con le quali gli scienziati sociali si confrontano quotidianamente nel loro lavoro di ricerca in questo straordinario passaggio d'epoca», nella consapevolezza che «i temi della globalizzazione, dell'identità e dei movimenti collettivi non possono oggi prescindere dal contributo» portato da Melucci.
I suoi studi si sono concentrati sui problemi della teoria sociologica, sull'analisi dell'azione collettiva, su identità e mutamento culturale.
Tra i temi che lo hanno appassionato, ci sono i rapporti tra movimenti, bisogni individuali e forme politiche di rappresentanza, anche in relazione ai movimenti etnico-nazionali.
Con una vasta ricerca sulle aree di movimento nella metropoli, Melucci si è aperto ai temi della pace, delle mobilitazioni giovanili, dei movimenti delle donne, delle questioni ecologiche e delle forme di solidarietà neo-religiose.
Alla fine degli anni Settanta ha fondato con Anna Fabbrini un centro per lo studio e la ricerca in psicologia clinica, e si è dedicato alla formazione e al lavoro psicoterapeutico.
Negli ultimi anni la sua ricerca si è concentrata sui temi della trasformazione del sé, dell'adolescenza e della creatività.
Negli Stati Uniti ha pubblicato alcuni volumi che rappresentano la sintesi teorica del suo lavoro, raggiungendo fama internazionale. Pure sul tema del multiculturalismo, ha dato innovativi contributi alla ricerca sociologica.


II. Melucci poeta
Nel 2000 ha pubblicato i primi due volumi della sua produzione poetica: Giorni e cose e la raccolta in dialetto romagnolo Zénta. Nel 2002 è apparsa l'opera inedita Mongolfiere, con una postfazione di Ezio Raimondi che trascrive il discorso pronunciato dallo stesso il 26 maggio 2000 a Rimini per presentare i due volumi Giorni e cose e Zénta. Volumi che, ha spiegato Raimondi, sono «intimamente legati perché l'uno rimanda all'altro e probabilmente l'uno non si intende senza l'altro» (p. 86).
Con essi Alberto Melucci volle lasciare un pubblico testamento, una confessione aperta, per tutti: gli amici, i colleghi degli studi, i suoi concittadini tra i quali era tornato felice, per presentarsi in questa veste inedita, che poteva apparire persino bizzarra ai tanti, inevitabili censori.
Autorevole era la prefazione a Giorni e cose, scritta da Lalla Romano. Pregevole l'oratore di quel pomeriggio, come ho già detto: il celebre italianista Raimondi, antico maestro di tanti insegnanti riminesi.
Quel pomeriggio Alberto Melucci aveva lo sguardo commosso, un sorriso quasi immobile stampato sul viso, per conversare non tanto con ipotetiche Muse lontane, ma con i numerosi intervenuti che affettuosamente gli si stringevano attorno.
Aveva già descritto l'«ombra leggera / vestita di nulla» della morte. Un conto però è trattare di quella degli altri, un altro è vederla veleggiare attorno al proprio corpo. Ma la speranza sembrava ribellarsi al destino, negli occhi sereni di Alberto Melucci.
Raimondi svolse una minuziosa lezione, mirando soprattutto a cogliere i legami tra le due opere: il dialetto serve a recuperare quel passato da cui trae alimento la poesia in lingua. Il dialetto !non è più una ragione di nostalgia. È una ragione insieme di fedeltà e di identità» (p. 86).
Sulla parola «identità» occorre intendersi preliminarmente: non è una deriva verso le posizioni di chi sfodera la spada, ma è la definizione di uno status che non preclude il dialogo con gli altri; è il riconoscimento autobiografico di questo status, non la negazione della molteplicità o la sua esclusione.
La raccolta Giorni e cose ha una sua architettura segreta, che ruota tutta, come scrive Lalla Romano nella prefazione, attorno al tema del dolore: «Un dolore fecondo, che genera vita e non porta alla disperazione».
Un esempio, ci pare di poterlo trovare in «Cose senz'anima»:

«Piangere perché
nessuno ti sorride
è inutile
come il gocciolìo
tedioso della gronda.
Di cose senz'anima
è fatto il nostro andare
camminiamo tutti
in questo deserto
d'amore».

Giorni e cose si apre con dei «fuochi di frontiera» attorno a cui vegliano «i custodi dell'ultima nuvola». E si chiude con il mattutino risveglio che vede riproporsi «la domanda sulle labbra / ed il sorriso».
Tra queste due immagini che segnano entrambe il senso ultimo dell'attesa e della vita, si distendono tutte le altre parole che intessono la poesia di Melucci: la foresta, il nulla che irrompe «nelle mani vuote», il vento che si alza dall'orizzonte, i sentieri perduti.


III. La poesia dialettale
Qualcosa di tutto ciò ritorna in Zénta, ovviamente, perché l'autore non si sdoppia, come dimostra nell'avvio (con quel «fil d'èrba» che deve fare i conti «sla forza / dla buféra») o in «Farfàli» (perso ad occhi chiusi tra la gente, il poeta si avverte come «un èrbur / fiurìd ad primavera»).
Ma lentamente, lo strumento dialettale, porta Melucci verso sentieri che, pur raggiungendo un significato sempre importante, talora sembrano troppo condiscendenti ad un uso «medio» e non «alto» del vernacolo. Il discorso diventa più disteso, il concetto non si raccoglie nella sintesi della parola unica, ma si apre ad immagini che richiedono frasi lunghe ed attente spiegazioni.
Parlare di un uso «medio» dello stile letterario (ed in questo caso del dialetto), significa ricollegarsi ad un'antica tradizione dotta che risale alla Rethorica ad Herennium di Anonimo (II d. C.). In quest'opera si distinguono tre stili: il «grave», il «medio» e l'«umile». E si precisa che lo stile «medio» non usa né le parole difficili dello stile «grave» né quelle quotidiane dello stile «umile». Con la poesia di Melucci, per questa definizione retorica, saremmo di fronte ad un caso di stile «umile».
Con il Dante del De vulgari eloquentia (II, 4), lo stile «superiore» è identificato in quello della tragedia, mentre la commedia (anche la sua «divina commedia», come fu poi da altri definita) ricorre allo stile «mediocre» e talora a quello «umile». Quindi nel caso nostro, parlare di un uso «medio» dello stile letterario non indica altro che collocare il discorso su Melucci in un contesto di teorie stilistiche che aiutano meglio a comprendere il significato di tutta l'operazione letteraria del nostro autore.
Per Melucci, l'uso «medio» significa non utilizzare forme e contenuti complessi e difficilmente assimilabili da parte del «lettore comune», bensì esprimersi concettualmente sulla stessa lunghezza d'onda di questo «lettore comune», per non fare del dialetto un ostacolo, mentre esso è (proprio per la sua natura) il veicolo più diretto di comunicazione.
Aggiungo, non sulla poesia di Melucci ma sul dialetto da lui usato, che esso ingloba termini quale «santificètur» (il baciapile) di cui il nostro autore parla a proposito dei riminesi. (Essi non sono mai stati dei «gran santificètur», dice Melucci.)
Questa parola («santificètur») è la dimostrazione più evidente che anche lo stile solenne del latino è triturato dal dialetto nello stile «comico», nello stile «medio»: per cui la parola dotta, nel passaggio al vernacolo, assume una valenza di ironia e caricatura che non ha in origine. (Su queste parole ha composto un interessante saggio Gian Luigi Beccaria: Sicuterat, 1999)
Torniamo alla poesia 'dialettale' di Melucci: essa si arricchisce di una moralità da favola o da racconto popolare. «La lamèta nova» insegna, ad esempio, che per sentirsi «un sgnór» basta cambiare «rasór» tutte le mattine. Si veda anche l'elogio dei riminesi («U s piès la verità / dètta in fàza / senza zirèi datórne», p. 94) o «La furtùna dal dòni», un'esaltazione della bellezza femminile che nel contesto dialettale si colloca splendidamente, strappando un sorriso convinto di conferma, ma che il Melucci in lingua non avrebbe mai composto in quelle forme.
Queste due facce non segnano una contraddizione. Completano un ritratto, raccolgono in un collage motivi diversi, opposti, quelle differenze che siamo noi, tutti.
Il lettore, confrontando le due produzioni, cerca di capire perché Melucci abbia avvertito la necessità di scegliere due strade diverse, ma rivolte al medesimo scopo: narrare se stesso, riassumere gli enigmi, i misteri, le oscurità e gli slanci quotidiani della nostra vita, dell'esistenza comune.
Di tutto ciò Melucci offre una sintesi simbolica in Zénta quando racconta di essere andato «sóra al steli». Un senso profondamente religioso si vede proiettato in quell'infinito, in cui «te t si ardót un gnint / e t si tótt», ti sei ridotto un niente e sei tutto.


IV. Dialetto, «dialogo interiore»
Ho parlato di un uso «medio» e non «alto» del vernacolo. Ciò non significa considerare l'esperienza dialettale di Melucci come inferiore rispetto all'espressione in lingua. Vuol semplicemente tentare di spiegare l'essenza e la sostanza della sua produzione dialettale. La quale crea situazioni e contesti diversi (rispetto alla poesia in lingua), come in certe occasioni differente può presentarsi l'autore stesso.
Occorre chiedersi allora il perché di questo divario. Tento una risposta.
Il dialetto è uno strumento che rivela le cose non attraverso la ricerca della parola geometricamente esatta che sintetizzi concetti ed emozioni, ma mediante un «dialogo interiore» che presiede all'operazione letteraria. Un dialogo che si sviluppa come una tela di ragno, invisibile ma resistente, attorno ad un nucleo centrale che è quello della «meraviglia».
La meraviglia è la scoperta dell'invisibile, è la decodificazione della realtà, è la sua trascrizione e personificazione in un atteggiamento controcorrente.
Se di solito noi, nei nostri sguardi veloci, siamo portati ad accogliere la superficie delle cose, Melucci nelle liriche dialettali scrosta quella superficie per scoprirne il segreto o il mistero, il disegno nascosto che la vita, l'esperienza e la storia hanno celato dietro di essa, e che i nostri comuni sguardi veloci non sanno né intuire né percepire.
Ecco l'importanza di questa esperienza poetica dialettale di Melucci: partire dal fatto, smontarlo, tentare di leggere con occhi diversi i legami che sorreggono le azioni ed i giorni, per contare quanti gesti reali ma sconosciuti costituiscano il cammino esistenziale.
Tentiamo di ricostruire questo cammino attraverso alcune citazioni, raggruppandole attorno a tre parole.

La prima è «dimenticanza». Scrive Melucci: «mò i n s'arcòrda pió gnint» (Le radici, p. 28). (Ricordiamo, a proposito, dei suoi studi sull'identità.)
L'evoluzione sociale ed economica ha portato omologazione: «a sémm dvèint tótt cumpagn», siamo diventati tutto uguali. Dimenticando le radici, il passato individuale, la storia collettiva, gli uomini e le donne appunto «non ricordano più niente».
In contrapposizione alle amnesie collettive, Melucci rammenta perfettamente il proprio itinerario esistenziale (ma il suo non è un «amarcord» di tipo felliniano).
È diventato un personaggio importante («I m cèma dimppartótt», Il figlio ingegnere, p. 34), ma invecchiando non corre verso la complessità tipica dei discorsi «da professore», bensì verso l'opposto: verso una semplificazione che consiste nel ridurre la concezione del mondo ad una semplice, povera consapevolezza: «che siamo qui / soltanto per poterci dire / che a vivere si fa fatica / ma è bello»: «a campè u s fa fadìga / mò l'è bèl».
Una consapevolezza che da giovane ha ignorato perché riteneva che suo padre non avrebbe potuto comprendere i discorsi «da professore» del figlio. Adesso che anche il figlio è invecchiato, si rovesciano le antiche opinioni. Per capire il mondo, non si sale in cattedra, si scende da essa. (Ed a questo proposito ha ragione Giuseppe Prosperi nella sua acuta prefazione al volume: «Forse c'è un momento, nella vita di ognuno, nel quale bisogna regolare i conti con i padri e le madri».)

Dunque, «a vivere si fa fatica / ma è bello». Questo «male di vivere», per usare la classica etichetta montaliana, c'introduce alla seconda parola che è quasi in contrapposizione alla prima. Dalla «dimenticanza» passiamo alla «meraviglia».
Penso alla poesia dedicata al Duomo: un'immagine che toglie il fiato («ta l guèrd a bäca vèrta»), non raggelando ma facendo sognare, e ti fa sentire in paradiso, «e ta n pègh gnènca e' biièt».
La stessa meraviglia si manifesta nel ricordo dei genitori: per cinquant'anni hanno litigato dalla mattina alla sera, «dó tistàzi urgugliósi», ma si sono cercati sempre. L'amore, dicono, va diritto al cuore, commenta Melucci: «Sa lór l'avrà ciapè / dal vèi travèrsi», ma alla fine «i' à tnù bòta / e mè a sò i quà».
Il male di vivere è il contrapporsi, ma le «vie traverse» dell'amore possono rendere l'esistenza sopportabile con una dignità che appare là dove meno ce l'aspettiamo.
La conclusione non sta in una formula, ma in un «discorso aperto e problematico» per usare le parole di Ezio Raimondi a proposito di tutt'altro argomento, la cultura e lo spirito filosofico di padre Benedetto Bacchini (1651-1721). Questo «discorso aperto» è interrogazione sui fatti che accadono ma non sappiamo come e perché accadano, in quanto non possiamo scoprire le «vie traverse» che ci fanno camminare nel mondo.
Ed il fatto stesso che c'interroghiamo su quanto non possiamo scoprire, costituisce il nucleo essenziale di questo atteggiamento problematico: il quale è invito a capire e nello stesso tempo suggerimento ad evitare critiche e sentenze verso i comportamenti del prossimo.

La terza parola è anch'essa in contrapposizione alla precedente. Dalla «meraviglia» passiamo allo «stupore», nel senso di incredulità.
Una lunga lirica è dedicata alla cattiveria umana: pensavo che fossimo tutti un po' buoni…, «a pènseva ch'a sirmi tótt / un pò bòn e un pò catìv». Non immaginavo mai, dice Melucci, che ci fosse tanta gente che vuol fare il male agli altri.
Li elenca questi cattivi come peccatori di un girone infernale dantesco: «Invidiós, fèls, rabióus, / sgudéble cum la mèrda». Se non stai attento, «i t fa murì». Occorre reagire. I buoni debbono farsi avanti: «A sémm iqué / a n sèmm di sènt / e gnènca di cuiùn». Né santi né coglioni, pieni di pazienza per far diventare il mondo migliore.
E quell'elenco di dantesca imitazione prelude alla chiusa della lirica, in cui proprio l'Alighieri (Inferno, XXVI) fornisce a Melucci la sentenza dei due versi famosi tratti dal discorso di Ulisse ai compagni:

«Fatti non foste per viver come bruti,
ma per seguir virtute e canoscenza».

La conclusione colta, nel linguaggio alto della poesia classica, non crea distanza rispetto al tono medio della lirica dialettale, ma conferma un amalgama, un'originalità che rispecchia l'intelligenza delle cose in un'immagine composita. Il professore, l'intellettuale, per decifrare il mondo deve riandare a quella semplicità di toni che permette di scoprire il vero non nel proprio pensiero, ma nelle cose della vita.
In quelle cose che potremmo definire «piccole», sulla scia della formula applicata ad una parte della produzione di Giovanni Pascoli, se in esse non fosse custodito, come dimostra Melucci, il segreto del nostro essere.
L'aspetto ironico delle composizioni in dialetto, che abbiamo sottolineato a proposito di Zénta, ha un'evoluzione significativa e di ampia portata letteraria nella sezione in vernacolo di Mongolfiere (l'opera postuma), intitolata «La voia ad rid».
Tralasciamo le liriche più riflessive: «T'è voia a córr / mo tènt ta gn'ariv mai». Oppure quella sulla «bela burdèla» che illumina il giorno.
Soffermiamoci sopra un efficacissimo ritratto del tipo che ha girato sempre «se Porsc», e gli è venuto «un préll te cafè»: «l'è arvenz ilé / e u n l'à tólt só nisun».
È il ritratto perfettamente calibrato di un personaggio che ragionava soltanto con quei luoghi comuni che s'esprimono e condensano in una battuta dialettale:

«mo per e' rest
bongiorno e buonasera
mei nu fidès 'd nisùn
ch'u n si sa mai».

Ecco che il dialetto nel suo tono più semplice non ha bisogno di alcun commento: è nudo nella sua essenzialità che dice tutto per l'accumulo che ogni parola ha acquistato con il trascorrere del tempo nel passaggio da una bocca all'altra, rimanendo nello stesso modo immutabile come una sentenza tramandata da giorni ormai indecifrabili e lontanissimi rispetto a noi.
Il montaggio delle espressioni è esso stesso il meccanismo che provoca la comprensione del discorso, lo smascheramento non autobiografico del poeta, ma biografico dei personaggi raccontati. La descrizione sociologica di tipi in cui una cultura si coagula come commedia umana. Ha ragione Raimondi quando segnala la presenza nel Melucci poeta di temi che si trovano anche nel Melucci scienziato sociale.
Dice il titolo di questa sezione: «La voia ad rid». E la parola «voglia» denuncia ciò che manca, più che una tendenza presente al momento della scrittura. È l'ansia, il desiderio di trovare l'«antidoto della malinconia» per usare il titolo del bellissimo romanzo di Piero Meldini.
E la raccolta di Mongolfiere si chiude proprio con una ricetta consolatoria:

«Nell'ultima stazione
l'amore
aspetta sempre di fiorire
tra vasi di gerani»

(da «Quello che mi dirà l'amore»).

Anche se punge la consapevolezza che

«La storia senza pietà
solo scorre
e infine cancella».

(da «Nessuno è tornato»)
Antonio Montanari

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