«Confiscate tutto il bestiame»
L'ordine dei nazisti nel 1944. Un libro di Bruno Ghigi




UNA CELEBRE poesia di Eugenio Montale, «Dora Markus» (quella che ha un attacco romagnolo: «Fu dove il ponte di legno/ mette a Porto Corsini…»), contiene nella seconda parte, scritta nel 1939, l'eco drammatica del tempo: «distilla veleno una fede feroce». La croce uncinata proiettava sull'Europa le sue ombre sinistre. Tanti, da quell'anno al 1945, ne subirono i tragici effetti. Un nuovo contributo a conoscerli arriva dal libro che Bruno Ghigi, da qualche tempo scrittore in proprio oltre che editore ormai da trent'anni, ha appena pubblicato, e che è intitolato «Lungo le strade della deportazione. Storie di bestie, uomini e di un esercito in ritirata», con presentazione di Giuliano Vassalli.
Il volume, pensato in tempo di pace, esce in tempo di guerra. Noi la chiamiamo «dei Balcani», i giornali americani sbrigativamente la definiscono «d'Europa». Rileggendo queste «storie» si rivive un dramma che chi appartiene alla mia generazione (sono del '42) ha vissuto indirettamente, subendone però i graffi sul proprio animo, nelle memorie di famiglia, nei lunghi e miseri anni del dopoguerra.
Di fronte alla situazione che si è creata con i bombardamenti in Serbia e nella Kosòva (così i suoi abitanti chiamano il Paese, e non Kosòvo come fanno i serbi), e di fronte alle prospettive che il conflitto possa estendersi con un intervento di truppe via terra, vengono a mente altri versi di Montale, di una diversa poesia: «la bussola va impazzita alla ventura/ e il calcolo dei dadi più non torna». Sembra che ancora una volta la ragione sia stata oscurata. Dal libro di Ghigi cito la testimonianza di un sacerdote, don Mario Molari, allora giovane seminarista. Siamo nel settembre 1944. A Montefiore, il Seminario sfollato da Rimini è stato chiuso dai tedeschi. I ragazzi se ne sono andati. Mario Molari è con un compagno di classe vicino a Dogana di San Marino: «Non era una buona decisione, ma ringrazio il Signore che mi ha fatto sperimentare tutta la durezza della guerra per detestarla per sempre».
Scrivo queste righe venerdì 21 maggio. «La Stampa» di oggi riferisce che «Le Br tornano a uccidere» e pubblica una nota dell'ex ambasciatore Boris Biancheri, allarmante già dal titolo («Ombre sul pacifismo»): «Non credo che ci sia un rapporto stretto o diretto tra le ragioni della maggior parte del movimento pacifista e le frange estreme di terrorismo che ieri, nel volantino di rivendicazione dell'assassinio di Massimo D'Antona, hanno motivato la loro azione collegandola anche alla guerra. Ma è chiaro che dopo quello che è successo ci vorrà più attenzione prima di adoperare certi argomenti». Da oggi, dunque, parlare contro la guerra ci potrebbe far scambiare, da parte di ragionatori un poco approssimativi, per simpatizzanti di un'altra guerra, quella del terrorismo? Veramente, «il calcolo dei dadi più non torna».
Tante pagine di questo libro raccontano la «bussola impazzita», la perdita di umanità, il feroce bisogno di sopravvivere. La parola a Maria Giovagnoli, classe 1926. Un carro armato precipita da un ponte distrutto con undici soldati dentro. Muoiono tutti: «Quando li hanno raccolti per seppellirli furono caricati sul biroccio di mio padre e le persone che erano rimaste scalze, perché tra quello che avevano portato via i tedeschi e quello che avevano distrutto le granate e le bombe non gli era rimasto niente, hanno cavato le scarpe ai morti e preso l'altra roba. Faceva un certo effetto vedere spogliare quei morti».
Nel sottotitolo del volume si parla pure di «bestie». Ghigi ha raccolto documenti e testimonianze della requisizione degli animali bovini da parte dei tedeschi, dalle Marche e dalla Romagna sino al Friuli. Augusto Gabrielli, da Ospedaletto: «Il luogo di sosta era nel mio campo e nell'aia ai margini del torrente Marano. In casa nostra si era sistemato il Comando che controllava l'arrivo e la partenza delle bestie». Gianni Fucci, celebrato poeta di Santarcangelo, classe 1928: «Il campo sportivo era pieno di bestie, arrivate da non so dove. I militari tedeschi per trasferirle verso Ravenna catturarono diversi civili, me compreso. Con dei militari in testa e alla fine della lunga colonna, un mattino siamo partiti per Savignano; poco prima di arrivare, un aereo alleato ci ha mitragliato senza conseguenze per persone e animali. Poi abbiamo raggiunto San Mauro, Sant'Angelo, Villalta, Pisignano». Elena Papini, del ghetto Zingarina di Rimini: «Una volta per guidare quelle bestie i tedeschi hanno preso anche mio fratello Pietro, nonostante che fosse un bambino. Mia madre, quando è tornata a casa dal lavoro appena saputo, disperata è partita a piedi, scalza, per andare a cercarlo a Santarcangelo e trovatolo l'ha portato a casa».
Nelle sue interviste, Ghigi allarga il discorso ad altri ricordi di vita sociale e politica. Ne riporto, come esempio, soltanto due, alquanto significativi. Il primo racconta di come si votava, “sotto il fascismo”, in un paese particolarmente sfegatato come Corpolò: nel soffitto dove era sistemato il seggio elettorale, erano stati fatti dei buchi da quali si controllava la cabina. (Nel '28 una riforma elettorale introdusse il sistema dell'approvazione o del rifiuto in blocco dei candidati alla Camera, scelti «in base a una lista redatta dai sindacati operai e padronali»: «Soltanto nell'eventualità, in pratica irrealizzabile, che la lista così presentata venisse respinta si sarebbero tenute elezioni con il concorso di vari partiti», scrive lo storico inglese Denis Mack Smith.) «Agli elettori che votavano contro la scheda fascista», spiega Gino Mondaini, classe 1935, «buttavano da quei buchi un pizzico di farina che cadeva addosso agli elettori; quando questi uscivano di fuori venivano subito individuati, pestati a sangue dai fascisti. A mio zio Enrico Mondaini gliene diedero tante che non visse a lungo».
Il secondo riguarda la vita dei contadini. Parla la già citata Elena Papini: «Appena finita la scuola elementare, nei mesi di maggio e giugno, andavo con i miei genitori lungo i fossi ed i greppi delle strade a falciare l'erba, una parte della quale, fresca, caricata su un biroccio tirato a mano, mio babbo e mia mamma la mattina dopo la portavano in piazza Malatesta vicino al castello, per venderla ai fiaccherai, carrettieri» per i loro animali. «Una parte invece la facevamo essicare al sole per farla diventare fieno, che usavamo d'inverno per dar da mangiare alle pecore e capre e per venderlo ai fiaccherai, carrettieri e contadini. Era un'attività fatta di fatiche, perché l'erba si doveva a volte raccogliere in mezzo agli spini delle siepi, portarla sulla schiena; ma ci permetteva di rimediare i soldi per comprare grano, fagioli, granoturco, olio per l'inverno. In giugno dopo la falciatura del grano, dove gli uomini che mietevano una settimana, per paga ricevevano un quintale di grano, le donne, mietendo due giorni gratis, acquistavano il diritto di andare a raccogliere le poche spighe che cadevano dalla mano dei mietitori mentre le falciavano. A raccogliere le spighe portavano anche noi bambini; ricordo di aver sofferto tanto perché bisognava prenderle in mezzo allo strame al quale la falce lasciava punte aguzze che tagliavano braccia e gambe».
Questo è il mondo «sano di una volta», come dicono i nostalgici del passato che però non hanno mai sperimentato in prima persona questo tipo di vita, al quale vorrebbero tanto farci ritornare.

Antonio Montanari, 1999

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