Antonio Montanari

BIBLIOTECA MALATESTIANA DI SAN FRANCESCO A RIMINI
Notizie e documenti, nuova edizione (2012)


Scheda 4.

Petrarca e la Biblioteca pubblica. Documenti.


4A. La supplica al doge.
Al doge Lorenzo Celsi si rivolge Petrarca con una supplica scritta di sua mano, per donare la sua biblioteca: «Francesco desidera lasciare in legato a S. Marco i libri, ch'egli ha e che averà, con patto che non saranno né venduti, né distrutti, e che saranno custoditi in luogo a coperto dell'acqua e del fuoco, per comodo dei Nobili Veneziani, che ameranno le scienze. Questi libri non sono né in gran numero, né molto preziosi; ma spera, che questa Città ve ne aggiungerà degli altri; che molti particolari ed anco forestieri a suo esempio aumenteranno questa raccolta; di modo che si potrà pervenire col tempo a formare una Biblioteca simile alle Biblioteche antiche e celebri: ciò che ridonderà in onore di S. Marco. Se ciò succede, Francesco goderà di aver dato principio a tanto bene: dimanda non una casa grande, ma una casa onesta, dove vi sia un alloggio anco per lui, risolvendo di rimanervi il restante di sua vita; di che non è certo, ma lo spera».
La supplica fu accettata con decreto del Maggior Consiglio che dispose fosse stabilita la somma da spendere per dare al poeta la casa che richiedeva.
«Petrarca non si fermò in Venezia, ma continuò a menare una vita errante in diversi luoghi d'Italia: la sua Biblioteca però restò tra le mani de' Veneziani. Questo è il primo fondamento, che ha dato principio alla Biblioteca di San Marco. Più di cento anni dopo il Cardinale Bessarione l'arricchì molto, aggiungendovi la preziosa raccolta dei suoi libri: così furono adempiti i voti del Petrarca, e la Biblioteca di S. Marco, che lo considera per suo istitutore, è divenuta una delle più celebri Biblioteche di Europa».
[«Storia della Repubblica di Venezia dalla sua fondazione al presente del Sig. Abate Laugier, IV, Venezia 1768, pp. 100-102.]

4B. Donazione della biblioteca alla Repubblica di Venezia.
Documenti pubblicati nel 2008 dal Dipartimento di Italianistica dell’Università di Firenze per la mostra "La Biblioteca del Petrarca". [Fonte web.]
Archivio di Stato di Venezia, Maggior Consiglio, Deliberazioni,
Reg. 19 Novella (1350-1384), f. 85r
Die iiijto Sept(embris)
Considerato quoniam [1] ad laudem Dei et beati Marci evangeliste ac honorem et famam civitatis nostre futurum est illud quod offertur per dominum Franciscum Petrarcham, cuius fama hodie tanta est in toto orbe quod in memoria hominum non est iamdudum inter christianos fuisse vel esse philosophum moralem et poetam qui possit eidem comparari, acceptetur oblatio sua secundum formam infrascripte cedule scripte manu sua; et ex nunc sit captum quod possit expendi de Monte [2] pro domo et habitatione sua in vita eius per modum affictus, sicut videbitur Domino, Consiliariis et Capitibus vel maiori parti, cum procuratores Ecclesie Sancti Marci offerant facere expensas necessarias pro loco ubi debuerint reponi et conservari libri sui. Et est capta per vj Consiliarios [3], tria Capita, xxxii de xl et ultra duas partes [4] Maioris Consilii. Tenor autem dicte cedule talis est: capta.

4 settembre 1362
approvata
Considerato che tornerà a gloria di Dio e del beato Marco evangelista nonché ad onore e fama della nostra città l’offerta che fa il signor Francesco Petrarca, la cui fama oggi è sì grande in tutto il mondo che non si ricorda a memoria d’uomo essere da lungo tempo esistito o esistere fra i cristiani un filosofo morale e poeta che gli si possa mettere a confronto, si accetti il suo dono secondo la forma del sotto riportato documento scritto di sua mano; e sia fin d’ora approvato che si possa attingere al Monte per l’affitto di una casa da abitare vita sua natural durante, come piacerà al Doge, ai Consiglieri e ai Capi ovvero alla maggioranza di loro; offrendosi i procuratori della chiesa di S. Marco di assumersi le spese necessarie per la sede dove i suoi libri si debbano collocare e conservare. Approvato coi voti dei sei Consiglieri, dei tre Capi, di trentadue membri della Quarantia, e di più di due parti del Maggior Consiglio.
Il testo del documento è il seguente:
Cupit F(ranciscus) beatum Marcum evangelistam, si Christo et sibi sit placitum, heredem habere nescio quot libellorum [5] quos nunc habet vel est forsitan habiturus, hac lege quod libri non vendantur neque quomodolibet distrahantur, sed in loco aliquo ad hoc deputando, qui sit tutus ab incendiis atque imbribus, ad sancti ipsius honorem et sui memoriam, nec non ad ingeniosorum et nobilium civitatis illius quos continget in talibus delectari consolationem qualem qualem [6] et comodum, perpetuo conserventur.
Neque appetit hoc quia libri vel valde multi, vel valde preciosi sint, sed sub hac spe quod postea de tempore in tempus et illa gloriosa civitas alios supperaddet e publico, et privatim nobiles atque amantes patrie, cives vel forte eciam alienigene, secuti exemplum, librorum suorum partem suppremis suis relinquent voluntatibus ecclesie supradicte; atque ita facile poterit ad unam magnam et famosam bibliothecam ac parem veteribus perveniri, que quante glorie futura sit illi Dominio nemo literatus est puto nec ydiota qui nesciat. Quod si Deo et illo tanto patrono urbis vestre auxiliante contigerit, gaudebit ipse F(ranciscus) et in Domino gloriabitur se quodammodo fuisse principium tanti boni. Super quo, si res procedat, forte aliquid latius scribet. Verum ut aliquid plus quam verba ponere in tanto negocio videatur, vult hoc facere quod promisit etc.
Pro se interim et pro dictis libris vellet unam non magnam sed honestam domum, ut, quicquid de ipso humanitus [7] contingeret, non posset hoc eius propositum impediri; ipse quoque libentissime moram trahet ibidem, si bono modo possit; de hoc enim non est ad plenum certus propter multas rerum difficultates: sperat tamen».

«F(rancesco) desidera che il beato Marco evangelista, col beneplacito di Cristo e di Marco stesso, diventi erede di non so quanti libricciuoli che al presente possiede o che potrà possedere in futuro, a condizione che i libri non vengano venduti né vengano in alcun modo dispersi, ma siano conservati in perpetuo in un luogo da scegliere allo scopo, che sia sicuro da incendi e piogge, a onore del santo e a memoria di se stesso, nonché a conforto, quale che sia, e comodità di quegli uomini d’ingegno e nobiltà di quella città che vorranno dilettarsi di queste cose.
Né aspira a ciò perché i libri siano molto numerosi o molto preziosi, ma nella speranza che in seguito, di tanto in tanto, quella gloriosa città ne aggiunga altri a spese pubbliche, e che privatamente nobili e amanti della patria, cittadini e magari anche stranieri, seguendo l’esempio, lascino parte dei loro libri alla detta chiesa nelle loro ultime volontà; e così si potrà facilmente arrivare ad avere una grande e famosa biblioteca, pari a quelle degli antichi, che non c’è dotto o analfabeta che non sappia quanta gloria recherà a quella Signoria. E se ciò avverrà con l’aiuto di Dio e di quel grande patrono della vostra città, ne avrà gioia F(rancesco) e si glorierà nel Signore di essere stato in certo qual modo il punto di partenza di tanto bene. Su questo argomento, se l’iniziativa andrà avanti, forse scriverà più ampiamente. Ma perché appaia di avere l’intenzione di porre in sì grande progetto qualcosa di più delle parole, vuole fare quel che ha promesso, ecc.
Nel frattempo per sé e per i detti libri vorrebbe una casa non grande, ma onorevole, affinché, se anche gli dovesse capitare qualcosa che capita agli uomini, questo suo progetto non abbia ad essere ostacolato; lui stesso trascorrerebbe volentieri la vita nella stessa casa, se ciò si potesse fare comodamente; di ciò però non è pienamente sicuro per via di molteplici difficoltà: tuttavia lo spera».

Note
[1] quoniam: alcuni hanno letto quantum (paleograficamente possibile) e persino l’impossibile quanto; pare preferibile quoniam col valore di quod dichiarativo, perchè la propos. dipendente è assertiva e non interr. indiretta.
[2] de Monte: i titoli del debito pubblico (Antonia Borlandi).
[3] per vj consiliarios: non ‘da sei Consiglieri’, bensì ‘dai sei C.’, perché il Minor Consiglio era composto da sei Consiglieri in rappresentanza dei sestieri della città; e così pure intendi non tre Capitani generici, bensì i ‘i tre Capi’ (scil. di Quarantia, detti anche Capi superiori). Questa interpretazione aumenta il numero dei suffragi a favore della proposta di Petrarca.
[4] ultra: certamente ultra il ms., e non, come leggono vari editori, ultro o ultimo. ultra duas partes: normalmente viene inteso come ‘più di due terzi’; ma la formula potrebbe significare ‘più della metà dei votanti’.
[5] "libellus" è usato frequentemente da Petrarca con valore ipocoristico; qui c’è un tocco di understatement; ma poi nello stesso documento questi i libelli sono chiamati tre volte semplicemente libri.
[6] qualis qualis è agg. della latinità giuridica, caro al Petrarca, che lo usa altre volte nelle Familiari, nella postilla 2 all’agostiniano De vera religione (Parig. Lat. 2201, f. 23v, dove l’editore, «Italia medioev. e um.», XVII, 1974, p. 317, espunge uno dei due qualis), e (occhio di Fera) nella prima pagina dell’Iliade tradotta da Leonzio (Parig. Lat. 7880.1, f. 1r, dove anche l’editore di queste postille, Milano 2003, omette tacitamente un qualis). L’ortografia delle Familiari lega in una le due parole: a torto, come mostrano gli autografi e lo scriba veneziano.
[7] humanitus: la parola è stata letta finora come humaniter da tutti tranne, pare, Fracassetti; il segno finale di compendio sta per troncamento generico; e a favore dello scioglimento in humanitus militano il senso e il confronto con Fam., XXIII 2, 33 «siquid tibi humanitus accidisset», e Cic., Phil., I 10 «si quid mihi humanitus accidisset». Il senso è ‘se anche dovesse morire’, e non, come vuole Nolhac, «afin qu’aucune circonstance fâcheuse ne puisse...». Recogn. brevique adnot. instr. m. f. die dedicationis beati Michaelis Archangeli.

4C. Petrarca, lettera a Benintendi Ravagnani.
Ad Benintendi Venetiarum cancellarium de instituenda ibi bibliotheca publica.
Omnis, ut arbitror, inter nos gratiarum actio deinceps supervacua est. Eo enim amicitie progressi sumus, ut quod michi facis tibi facias. Egisse te meis in rebus, que sunt tue, quod in propriis ageres scio, et fortassis eo amplius quo generosa mens ad amicitie nomen altius expergisci et stimulis ardentioribus agi solet. De eventu viderit non Fortuna, sed Fortune Dominus qui michi hunc tibique illum dedit animum, ut et hoc ego velle inciperem, et tu pium hoc propositum adiuvares; quod si optato successerit, erit ni fallor, tibi ac posteris tueque reipublice, non audeo dicere gloriosum, sed secure dixerim ad gloriam via. Multe enim, magne et preclare res ex non maioribus initiis prodiere. Michi equidem bone voluntatis candida et illimis conscientia satis est, que se utinam tempestivius obtulisset, dum scilicet anima illa sanctissima summe rerum preerat, que quantum hinc gavisura fuerit ipse qui eam plane noras estima. Certe ego illam nunc de celo gaudere super his que inter nos aguntur, et rei exitum expectare (quid loquor?), imo vero iam presentem spectare non sum dubius non tam equo sed leto animo ferentem, quod cum sibi omnes virtutis et glorie titulos in celum auferre contigerit, quantum nescio an ulli unquam Venetorum Ducum, bibliothece decus publice successori suo quarto, et viro et duci optimo atque fortissimo communisque status amantissimo reservatum sit; quamvis, ut michi apparet, admiratione non careat quod res talis altius quam illius tempore non inciderit. Sed sic est ut queque cogitaris aggredi liceat, cogitare autem nichil queas antequam cogites; sic in rebus hominum cogitatio prima est. Preit illa ferme omnia que agimus, illam nichil: et querentibus cur non hoc aut illud ante cogitaveris, ipsa eadem interrogatione responsum est. Si prius fuisset, prius, fateor, his te curis involvissem. Sed nunc etiam tempus adest, ni respuitur. Verbum est summum imperatoris sepe michi usurpatum: satis cito fieri quidquid satis bene fit. Restat illud Comicum: ne quid nimis. Nolo nimium labores. Nolo defatigeris, exercere te velim, non afficere. Profecto autem qui in re qualibet omne quod potest facit, lassitudini proximus sit oportet. Fac ergo quod satis est, et que modestiam nostram decent. Non petimus propter quod importunitatis aut tedii suffragio opus sit: nisi nos amor urgeret, rogandi essemus. Perinde sine rem sibi, nec tibi nec alteri sis molestus. Senum nostrorum est proverbium; magnas res per se ipsas fieri. Sepe longum iter egit melius qui lentius. Nosti mores populorum, et quid velim vides. Vale virûm optime.
Patavii, V kalendas Septembris.
Padova, 28 agosto [1362]
[58 (Var. 43)]

Traduzione, da "Libro Unico", p. 373 ed. a cura di Giuseppe Fracassetti.
LETTERA XLIII. AL BENINTENDI.
Omnis, ut arbitror.
Raccomanda vivamente alla sua amicizia che ottenga dalla Signoria di Venezia l'accettazione dell'offerta da lui fattale de'libri suoi.
[Di Padova, 28 agosto 1362.]
Omai non debbono a parer mio aver più luogo ringraziamenti fra noi, ché l'amicizia nostra venuta é a tale da doversi credere quello che per me fai aver tu fatto per te medesimo. In quanto a me son persuaso che gli affari miei, i quali son pur tuoi, tu hai trattati come trattati avresti i tuoi veramente; anzi con tanto più di zelo quanto al santo nome dell'amicizia più si solleva e s'infiamma un'anima generosa. Dell'evento risponda fortuna, o a dir più vero il Signore che la fortuna governa, e che spirò ne' nostri cuori, perché in me si destasse, e tu aiutassi dell'opera tua questo mio buon volere. Il quale se riesca a bene, io son d'avviso che debba a te, a' tuoi posteri, alla Repubblica tua, se non tornar glorioso, aprire almeno e agevolare il cammino alla gloria. Conciossiaché molte siano le cose che da cominciamenti non meno umili riusciron grandi e magnifiche. A me basta la coscienza candida e pura di aver voluto il bene. Ed oh! così avessi prima pensato a procacciarlo, quando delle pubbliche cose reggeva il freno quell'anima santissima, dì cui tu che sì bene la conoscevi puoi far ragione di quanto l'avrebbe avuto a grado. Quanto a me non mi lascio pur dubitare che su nel cielo di questo nostro adoperarci egli si allegri, ed ansioso ne aspetti il successo: credo anzi che amorosamente guatandoci, non che averselo a male, grandemente si piaccia che seco avendo ei portato tanta lode di gloria e di virtù, quanta per avventura a nessun altro dei Veneti Dogi ne fu sortita, il vanto d'istituire una pubblica biblioteca al quarto de' suoi successori uomo anch'egli eccellente, invitto doge, e della pubblica prosperità zelatore valorosissimo sia riservato. Ed io non posso non meravigliarmi che anche prima di lui questo non avvenisse. Tale peraltro é la natura delle cose che appena tu le hai pensate puoi dar mano ad operarle, ma pensarvi non puoi se prima non ti vennero in mente : ond'é che delle umane azioni primo elemento sempre é il pensiero: tutte esso le precede, e nulla é prima di quello. E se alcuno ti chiegga perché non v'hai pensato prima, colle stesse parole della domanda puoi tu far la risposta. Se prima pertanto mi fosse questo venuto alla mente, prima io t'avrei dato tal briga. Ma é tempo ancora di potervisi adoperare quando ciò si voglia, e cade in acconcio quella sapientissima sentenza, ond'io soventi volte mi valgo, di un antico imperatore: farsi sempre presto abbastanza quello che abbastanza bene si fa. Lascia poi che or qui sulla fine col comico io ti ripeta: guardati dal troppo. Io non voglio che soverchiamente tu ti affatichi: sta bene che tu ti adoperi, non però che ti dia travaglio tale da non poterlo più reggere. Chi fa tutto quello che può, finisce coll'essere stanco. Tu dunque fai quanto basta e nulla più: e pensa a non offendere colle domande la nostra modestia. La domanda nostra tale non é che debba aiutarsi della improntitudine e del fastidio: se non fosse che amore ci sprona, dovremmo noi esser pregati. Lascia dunque che vada la cosa co' piedi suoi, e non volerti fare agli altri ed a te stesso importuno. Le cose grandi, dice un antico proverbio, si fanno da loro. Chi va piano, va sano. Tu sai con chi si tratta e conosci le mie intenzioni. Addio, o tu, fra gli uomini tutti, uomo eccellente.
Di Padova, 28 agosto.

NOTA (di G. Fracassetti, ivi).
Siccome per noi fu detto nella Nota alla lett. 1 del lib. XXIII, il doppio flagello della peste e delle incursioni della Gran Compagnia obbligarono il Petrarca a lasciare il soggiorno di Milano, ove per otto anni sotto l'ombra amica de' signori Visconti aveva egli fatto tranquilla ad un tempo ed onorata dimora. Già il 1O agosto del 1361 egli annunziava al suo Guglielmo di Pastrengo essersi a lui ravvicinato ed aver posta sua stanza in Padova (Var., 35, Nomen tuum). Poco prima di partire dalla città capitale di Lombardia aveva egli scritto all'amico Nelli (Sen., I, 2) "essere omai sazio delle cose d'Italia": lui invitare a gara l'Acciaiuoli a Napoli, il Re di Francia a Parigi, Carlo IV in Germania, e il Papa volerlo suo segretario in Avignone: ma fare esso il sordo a tutti cotesti inviti, e prevedere come cosa facile ad avvenire, che fra pochi mesi si ridurrebbe di nuovo alla sua diletta Valchiusa. Di fatto pochi mesi più tardi, cioé il 1O gennaio 1362, ei moveva da Padova alla volta di Milano, per proseguire a traverso delle Alpi il suo viaggio ad Avignone. Quando però, passato il rigor dell'inverno, si risolse a mettersi in cammino, gravissimi ostacoli glie lo impedirono. Erasi di quel tempo riaccesa la guerra tra Galeazzo Visconti ed il Marchese di Monferrato: le genti della Compagnia Bianca avevano occupati tutti i paesi che nel Piemonte obbedivano al signore di Milano, e rendevano estremamente pericolosa la strada per alla Francia. Ed il Petrarca, visto impossibile l'andarvi, abbandonò Milano, e navigando prima sul Po, poi mettendosi per vie battute, com'egli dice, sol dagli uccelli, agli undici di maggio rientrò le mura di Padova (Sen., I, 3, Stare nescius). Com'egli di se stesso confessa, tornato appena pensava a ripartirne non più per Francia, ma per Lamagna, ove con onorevoli e replicati inviti chiamavalo l'Imperatore (ivi). E poco stante tornava a Milano, e di là moveva verso Settentrione. Ma come appena ebbe intrapreso il viaggio, gli fu forza di smetterne ogni pensiero per quelle cause medesime che impedito lo avevano di andare in Francia. E convien dire che cresciuto fosse il pericolo; dappoiché non solo l'andare innanzi, ma gli fu vietalo eziandio il ricalcare il fatto cammino, siccome scrisse subito all'Arcivescovo di Olmutz (Fam., XXIII, 14), annunciandogli che a mala pena gli era riuscito d'afferrare un porto di salvezza in Venezia. Poco perallro visi trattenne: perocché un'altra letlera (Sen., 1, 5), colla quale rende conto al Boccaccio di quel viaggio inutilmente tentato, ha pur la data di Padova. Si dilatava intanto la peste e già invadeva questa citta. Gli amici, e spezialmente il Bruni, lo esortavano a cercare salvezza colla fuga: ed egli sebbene affettasse una stoica impassibilità, e con gravi sentenze rispondesse esser non da savio il temere la morte, e da pazzo il volerla fuggire, mostrò di cedere ai loro consigli e tramutossi a Venezia (Sen., I, 7, e lI, 2). Questa famosa città aveva egli veduta da giovanetto venendovi con uno de' professori di Bologna quando dal 1323 al 1326 in questa università attendeva agli studi del Diritto (Sen., X, 2). V'era poscia probabilmente tornato più volte, ma certamente nel 1353 allorché andò ambasciadore dell'Arcivescovo signore di Milano alla Repubblica (Note alle Fam., VII, 15; XVIII, 16). E come già prima col Doge Andrea Dandolo (ivi), così allora col Benintendi Cancelliere della Repubblica Veneta, aveva contratto amicizia. Or come appena balenò nella mente del Petrarca il pensiero che dovendosi partir da Padova, sarebbe Venezia per lui il luogo di più sicuro e tranquillo ricetto, formò il disegno di cattivarsi la benevolenza della Repubblica, e di procacciarsi ad un tempo in quella città senza danno della sua mediocre fortuna una casa decente ed onorata. Questa lettera (Omnem, ut arbitror) che finora inedita si conservò nel pregevolissimo Cod. Morelliano, di cui parlammo in altra Nota (alla lett. 25, Var., lucundum negocium) ci svela come prima di muoversi di Padova, ond'essa é scritta, egli ordinasse la bisogna col Benintendi. D'accordo adunque con lui, e secondato dal suo zelo per lo felice successo di quello a che intendeva, scrisse di sua mano ed inviò al Senato della Veneta Repubblica un foglio del seguente tenore:
Cupit Franciscus Beatum Marcum Evangelistam, si Christo et sibi sit placitum, haeredem habere nescio quot libellorum quos nunc habet vel est forsitan habiturus, hac lege: quod libri non vendantur neque quomodolibet distrahantur; sed in loco aliquo ad hoc deputando, qui sit tutus ab incendiis atque imbribus, ad sui ipsius honorem et sui memoriam nec non ad ingeniosorum et nobilium Civitatis illius, quos contingent in talibus delectari, consolationem qualemqualem et commodum perpetuo conservantur. Neque appetit hoc quod libri vel valde multi vel valde pretiosi sint: sed sub hac spe quod postea de tempore in tempus et illa gloriosa Civitas alios superaddet e publico, et privatim nobiles et amantes patriae cives vel forte etiam alienigenae secuti exemplum, librorum suorum partem supremis suis relinquent voluntatibus Ecclesiae supradictae: atque ita facile poterit ad unam magnam et famosam bibliothecam ac parem veteribus perveniri. Quae quantae gloriae futura sit illi dominio nemo literatus est puto nec idiota qui nesciat. Quod si Deo et illo tanto patrono urbis nostrae auxiliante contigerit, gaudebit ipse Franciscus et in Domino gloriabitur se qundammodo fuisse principium tanti boni. Super quo, si res procedat, forte aliquid latius scribet. Verum ut aliquid plus quam verba ponere in tanto negotio videatur, vult hoc facere quod promisit etc. Pro se interim et pro dictis libris vellet unam non magnam sed honestam domum: ut quidquid de ipso humanitus contigerit, non possit hoc eius propositum impedire. Ipse quoque libentissime moram trahet si bono modo possit: de hoc enim non est ad plenum certus propter multas rerum diflicultates. Sperat tamen.

Questa carta tratta dall'antico archivio di Venezia e che noi togliemmo dall'elegantissimo scritto «Del Petrarca», del conte Carlo Leoni, non ha la data. Certo é però ch'essa era stata già presentata al Senato quando il 28 di agosto 1362 il Petrarca scriveva al Benintendi pieno di speranza che la sua offerta venisse accettata. E così fu: poiché nell'Archivio stesso si trova messo innanzi l'atto suddetto il seguente partito preso dal Maggior Consiglio di Venezia.

«1562, die IV Septembris.
Considerato quantum ad laudem Dei et B. Marci Evangelistae ac honorem et famam Civitatis nostrae futurum est illud quod offertur per Dominum Franciscum Petrarcham, cuius fama hodie tanta est in toto orbe quod in memoria hominum non est iamdiu inter Christianos fuisse vel esse philosophum moralem et poetam qui possit eidem comparari: acceptetur oblatio sua secundum formam infrascriptae Cedulae scriptae manu sua: et ex nunc sit captum quod possit expendi de Monte pro domo et habitatione sua in vita eius per modum affictus sicut videbitur Dominio, Consiliariis et Capitibus vel malori parti: cum Procuratores Ecclesiae S. Marci offerant facere expensas necessarias pro loco ubi debuerint reponi et conservari libri sui. Et est capta per VI Consiliarios tria Capita de XL et ultra duas partes Maioris Consilii.»
Che Iddio scampi e liberi ogni fedel cristiano da cosiffatto latino, ch'é forse quello a cui chiedevano che il Petrarca abbassasse il suo stile i Cardinali che nel 1352 lo volevano far segretario di Papa Clemente (vedi Nota alla lett. 7, XVIII). E ch'ei potesse, volendo, adoperare questo barbaro gergo assai ben lo dimostra la sua Cedola al Senato, la qual ci prova che chi voleva essere inteso dai pubblici ufficiali era costretto ad esprimersi in quel tenore; ond'é tanto più da lodarsi il suo felice proponimento di discostarsene le mille miglia non solo nelle opere di lunga lena, ma eziandio nella sua corrispondenza epistolare.
Accettata pertanto l'offerta di lui, gli assegnò la Repubblica, com'ei chiedeva, una casa, e fu il palazzo detto allora delle due Torri, fabbricato già da Arrigo Molina, che quantunque mutata l'antica forma e servito poscia ad uso di monistero, sta tuttora in piedi sull'angolo al Ponte del Sepolcro sopra la riva degli Schiavoni; ed ivi sul cader di quell'anno 1362 venne egli a stabilire la sua dimora, seco conducendo Francesca sua figlia già maritata al De Brossano. Doge di Venezia era allora Lorenzo Celso, che a ragione il Petrarca in questa lettera al Benintendi chiama quarto dopo Andrea Dandolo, «vere Celsus vir», come dice egli stesso, «et magnitudine animi et suavitate morum et virtutum studio, superque omnia singulari pietate atque amore patriae memorandus» (Sen.. IV, 3), del quale si narra che per obbligare suo padre a scoprirsi il capo alla sua presenza, senza che da questo paresse offesa la paterna dignità, appose sul dinnanzi del berretto ducale il santo segno della croce. Egli onorò grandemente il Petrarca, e quando nel 1363 per la guerra di Creta ebbe bisogno la Repubblica di assoldare un esperto valoroso condottiero del suo esercito, posti gli occhi sul Veronese Luchino del Verme, ad avvalorare la richiesta che del suo servigio fece il Senato, volle il Doge che aggiungesse le sue preghiere il Petrarca, il quale con quel famoso guerriero aveva contratto in Milano stretta amicizia quando militava per i Visconti (Sen., IV, 9, e V, 1). Ed accettò Luchino l'onorevole offerta: ed a brevissima guerra tenne dietro compiuto trionfo. Sbarcarono a Candia i Veneziani il giorno 8 maggio, e il dì 10 assaliti i Candiotti li posero in fuga, s'impadroniron di Candia, e in poco d'ora ridussero tutta l'isola in soggezione. Era il 4 di giugno, e stavasi il nostro poeta ad una finestra della sua casa, che dava sul mare, in familiare colloquio intertenendosi con Bartolomeo Papazzurri che traslocato dal Vescovato di Chieti a quel di Patrasso nella Morea s'era fermato in quella estate a Venezia, ed era ospite del Petrarca già da gran tempo suo amicissimo : quando vide entrare nel porto adorna a festa e incoronata con segni di vittoria una galera, che annunziava il trionfo delle armi Venete sugl'Isolani. Bellissima è la lettera (Sen., IV, 3) nella quale narra il Petrarca il commovimento a pubblica gioia che a tal annunzio si vide in Venezia, e le solenni grazie che ne furono rese al Signor degli eserciti, e le pompe che minutamente ei descrive de' torneamenti e delle giostre a splendidissima manifestazione di letizia celebrate sulla piazza di San Marco. E poiché troppo ne trarrebbe in lungo il riportare qui per intero quella descrizione, ci terremo contenti a riferirne ciò che più spezialmente torna ad onore del nostro poeta: ed é che invitatolo ad assistere a quegli spettacoli il Doge seguito dal corteggio de' Senatori e de' Grandi a sé chiamandolo lo fece sedere alla sua destra in cospetto di tutto il popolo sulla marmorea loggia che sovrasta alla porta maggiore della basilica di San Marco.

[[Nostra nota. Lettera I, 1.9.1361, ad ignoto (pag. 1 del volume), nota a pag. 6.]]


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