il Rimino - Riministoria

ANTONIO MONTANARI
Dante esule. Tra biografia e poesia.
Romagna, l'antica cortesia ed i nuovi tiranni
«... sed reliquit nobis investigandum»
Benvenuto da Imola

I. PRIGIONIERO DI BONIFACIO VIII

Sembra un'ordinaria storia di spionaggio politico. Nella Roma «dove Cristo tutto dì si merca» (Pd. 17, 51), il guelfo di parte bianca Dante Alighieri è considerato al pari degli «sconsigliati» contro i quali si scagliava Bonifacio VIII perché ne mettevano in dubbio l'autorità, seminandogli attorno il sospetto d'eresia [1]. Il papa si riferiva non al poeta ma al giudice Lapo Saltarelli, uno dei «malvagi cittadini procuratori della distruzione» di Firenze [2]. Lapo, autore di sonetti amorosi, «uomo molto lascivo» [3], fratello di Simone arcivescovo di Pisa, ma soprattutto «arrogante, altezzoso, litigioso, gran mestatore e faccendiere» [4], è priore nel bimestre 15 aprile-15 maggio 1300. Poco prima, in marzo, è stata scoperta una congiura ispirata dal pontefice. In questo bimestre è condannato a morte il capo dei Neri, Corso Donati, ed è ordinata la distruzione delle sue case. Dante elegge «Lapo Saltarello» a simbolo della corruzione di Firenze assieme alla nobile e dissoluta Cianghella della Tosa [5], con le parole del suo antenato Cacciaguida. Il quale rimpiange la città «dentro da la cerchia antica» (Pd. 15, 128), ancora senza la «gente nuova» affamata di quei «súbiti guadagni» causa di «orgoglio e dismisura» (Inf. 16, 73-75) [6].
I nemici di Dante dipingono il poeta a Bonifacio VIII come un ghibellino. La sua colpa, al pari dei colleghi di parte bianca, è di voler difendere l'indipendenza di Firenze da ogni intrusione del papato, mentre la fazione nera è disposta ad accettarla pur di poter espandere i propri affari [7]. Il papa si dichiara a favore dei Donati con linguaggio scurrile: non vuole «perdere gli huomini per le femminelle» [8]. Il 23 maggio 1300 Bonifacio VIII, sollecitato dagli stessi guelfi della città [9], nomina il cardinale Matteo Bentivegna d'Acquasparta (1240-1302), a legato papale per la Toscana, la Romagna ed altre parti d'Italia, con lo specifico compito di esercitare le funzioni di paciaro tra le opposte fazioni di Firenze. Dalla Romagna vi si precipita ai primi di giugno, adoperandosi poi in segreto «a rafforzare al massimo i Neri» [10]. Per riconciliare la Romagna e riportarla all'obbedienza della Chiesa [11], il papa vi ha ripristinato la curia rettoriale provinciale [12].
Matteo d'Acquasparta nella sua missione in Romagna è aiutato da Malatestino Malatesti [13] podestà di Rimini, la cui famiglia offre appoggio al cardinale sperando di averne in cambio il controllo di Cesena. Dove Malatestino è stato podestà nel 1292, 1294 e 1295 [14]. Suo fratello Paolo [15] nel 1282 era stato inviato a Firenze da papa Martino IV come nuovo capitano del popolo e conservatore della pace. Il primo febbraio 1283 Paolo aveva però rinunciato all'incarico. Malatesta da Verucchio, padre di Malatestino e di Paolo, si è impadronito di Rimini il 13 dicembre 1295, cacciando i Parcitadi che erano funzionari imperiali. Alla cui famiglia apparteneva sua moglie Concordia, nipote di quel Montagna ucciso in carcere e ricordato da Dante assieme ai suoi assassini: «'l mastin vecchio e 'l novo da Verucchio / che fecer di Montagna il mal governo» (Inf. 27, 46-47) [16].
Il legato d'Acquasparta è stato ministro generale dell'ordine dei frati minori per venticinque anni, prima di esser nominato cardinale nel 1288. Dante lo ricorda tra gli interpreti scorretti ed infedeli della regola francescana (Pd. 12, 124). Frate Matteo voleva evitarne il rigore, per cui «favorì e sostenne quelli che pur facendo verbale omaggio alla povertà erano per un ordine potente e ricco» [17]. A lui Dante contrappone il 'rigorista' Ubertino da Casale [18] che aveva conosciuto personalmente e con il quale ebbe «fertili incontri» [19].
Pochi giorni dopo che il cardinal Matteo è giunto a Firenze, il 13 giugno Dante è eletto priore, ed il 15 ne assume la carica. Neppure al legato riesce di sistemare le cose. Alla fine di settembre egli lascia la città «come disubbidiente, interdetta» [20], dopo essere sfuggito ad un attentato realizzato mediante un colpo di balestra [21]. Il legato d'Acquasparta torna in Romagna portando in salvo a Rimini alcuni nobili fiorentini «della fattione bianca» [22].
Tra loro ci sono esponenti delle famiglie Adimari ed Agolanti [23], che nel 1862 lo storico Luigi Tonini ricordava aver poi fatto «ceppo di cospicua discendenza» [24] nella stessa Rimini. Prima di loro, nel 1246, a Rimini sono giunti gli Agli, mentre a Firenze imperversa la caccia ai guelfi di cui parla Machiavelli nelle Istorie fiorentine [25].
L'«infausto priorato di Dante» [26] si chiude il 15 agosto 1300. Sono stati due mesi resi difficilissimi dalle contese mai sopite [27]. Per porre fine alle risse cruente delle opposte anime guelfe, Dante ed i suoi cinque colleghi [28] hanno decretato l'esilio di sette capi delle bande in lotta, provocando l'inasprirsi della crisi [29].
Vista fallire la propria politica di pacificazione, nella quale (scrive Boccaccio) aveva posto «ogni ingegno, ogni arte, ogni studio», Dante «prima propone di lasciare del tutto ogni pubblico uffizio e viver seco privatamente; poi dalla dolcezza della gloria tirato e dal vano favore popolaresco, ed ancor per le persuasioni de' maggiori [...] non si seppe e non si poté» sottrarre alle lusinghe della «stolta vaghezza degli umani splendori». E decide di «voler seguire gli onori caduchi e la vana pompa de' pubblici uffizi [...] operando continuamente ciò che salutevole alla sua patria e a' suoi concittadini conoscea» [30].

1 T. GALLARATI SCOTTI, Vita di Dante, Milano 1957, p. 138: alla corte papale «Dante era ormai conosciuto come uno degli oppositori alla politica fiorentina di Bonifazio». Dalla cronologia di L. G. TENCONI (pp. 355-364) in questo testo, abbiamo attinto infra altre notizie.
2 D. COMPAGNI, Cronica delle cose occorrenti ne' tempi suoi, II, 22, a c. di F. PITTORRU, Milano 1965, p. 90.
3 La definizione è di un commentatore anonimo trecentesco (forse fiorentino) della Commedia, cit. in G. B. PICCIOLI, Intorno alla scoperta de' commenti del Bambagioli alla D. C., «Antologia», XLIV, Firenze 1831, p. 143. Graziolo de' Bambagioli era bolognese. A lui il teologo domenicano Guido Vernani da Rimini dedica il De Reprobatione Monarchiae (1327) che accusa Dante di ispirazione averroistica per il De Monarchia, opera messa al rogo dalla Chiesa nel 1328: cfr. A. MONTANARI, Sigismondo, filosofo umanista, ne La Signoria di Sigismondo Pandolfo Malatesti, La politica e le imprese militari (Storia delle Signorie dei Malatesti, II.2), Rimini 2006, pp. 319-339, p. 339.
4 G. SIEBZEHNER-VIVANTI, Dizionario della D. C., Milano, 1965, p. 324.
5 Sposatasi con Lito degli Alidosi di Imola, tornò a Firenze quando rimase vedova «e quivi condusse vita sregolata e dedita a lussuria» (ibidem, pp. 112-113).
6 Le citt. dalla Commedia seguono il testo nell'ed. di Giorgio Petrocchi (Milano 1965-1967).
7 GALLARATI SCOTTI, Vita di Dante cit., p. 380.
8 COMPAGNI, Cronica... cit, II, 11, p. 76.
9 C. BALBO, Vita di Dante Alighieri, Napoli 1852, p. 134. La fonte è in G. VILLANI, Cronica, VIII, XL.
10 G. PETROCCHI, Vita di Dante, Bari 1983, p. 79.
11 C. GHIRARDACCI, Istoria di Bologna, I, Rossi, Bologna 1596, p. 415, ricorda che il legato doveva riconquistare alla Chiesa le città di Cesena, Forlì, Faenza ed Imola.
12 S. PARI, La signoria di Malatesta da Verucchio (Storia delle Signorie dei Malatesti, I), Rimini 1998, pp. 233, 264.
13 Grazie a Malatestino il legato riesce «ad ottenere in Romagna qualche risultato»: ibidem, p. 235.
14 C. DOLCINI, Comune e signoria, in Storia di Cesena, II, Il medioevo 1, Rimini 1983, pp. 240-241: i Montefeltro governano Cesena dal luglio 1300 al 13 maggio 1301, quando con una sollevazione popolare contro Federico, figlio di Guido cacciato dalla città, questa «si affida nuovamente al legato pontificio di Romagna, Matteo d'Acquasparta» (ibidem pp. 250-251; PARI, La signoria di Malatesta da Verucchio cit., p. 234). Guido nel 1271 era stato catturato da Malatesta da Verucchio soltanto perché caduto da cavallo. Nel 1275 Guido ha sconfitto Malatesta che guidava i guelfi di Bologna, e nel 1277 ha conquistato Civitella, facendo fallire il tentativo di fiorentini e bolognesi di assaltare Forlì. Contro Malatesta nel 1287 il ramo dei Montefeltro di Pietrarubbia ha compiuto un attentato (PARI, La signoria di Malatesta da Verucchio cit., p. 10). Sul ruolo di Guido capitano del comune di Forlì ed il «sanguinoso mucchio» del 1282, cfr. infra nota 78. Dopo il 1289 Guido «lottò tenacemente contro Firenze. Per la sua virulenza nel combattere i Guelfi fu più volte scomunicato dal papa; ma finì col riconciliarsi con Bonifacio VIII nel 1295», tre anni prima di morire (SIEBZEHNER-VIVANTI, Dizionario della D. C. cit., p. 288). Sulla storia dei Montefeltro, cfr. A. FALCIONI, Il castrum di Monte Copiolo in età feltresca, ne Il castello di Monte Copiolo nel Montefeltro, Ricerche e scavi, Pesaro 2006, pp. 13-20.
15 La moglie di Paolo Malatesti, Orabile Beatrice di Uberto di Ghiaggiolo, è nipote di Guido da Montefeltro il quale ha sposato sua zia Manentessa di Ghiaggiolo. Alla morte di Uberto (1262) il cognato Guido di Montefeltro ha assunto il governo della famiglia del defunto. Le nozze tra Paolo ed Orabile Beatrice (da cui nascono Uberto jr. e Margherita) sono state combinate perché i Malatesta non hanno voluto perdere l'investitura di Ghiaggiolo ricevuta tra 1262 e 1263, e contestata da Guido da Montefeltro pure a nome della stessa Orabile Beatrice. Il loro figlio Uberto jr. nel 1297 è stato nominato capitano dei ghibellini di Romagna (che però scesero a patti col papa), e sarà podestà a Cesena (1303-1308): cfr. PARI, La signoria di Malatesta da Verucchio cit., pp. 210, 243. Margherita nasce dopo l'uccisione del padre, e sposa Oberto Guidi da Romena (cfr. infra nota 124).
16 Il «mastin novo» torna tra i seminatori di discordie, come «tiranno fello» e «traditore» (Inf., 28, 81, 85).
17 D. ALIGHIERI, La divina commedia, Paradiso, note a c. di T. DI SALVO, Bologna 1985, pp. 225-226: «Certo nel giudizio di Dante non dovette aver parte irrilevante il modo colpevole con cui il cardinale operò a Firenze».
18 Ubertino, autore dell'Arbor vitae crucifixae Jesu, e capo dei francescani spirituali, «fu efficace oltre gli assiomi filosofici e teologici, investendo la pratica stessa, particolarmente spirituale, di Dante»: cfr. G. GORNI, Dante. Storia di un visionario, Bari 2008, p. 34.
19 PETROCCHI, Vita di Dante cit., p. 32.
20 N. MACHIAVELLI, Istorie fiorentine, II, 19, Milano 1962, p. 166. Il cardinale «si partì di Firenze sdegnato e la interdisse: di modo che la rimase in maggior confusione che la non era avanti la venuta sua» (ibidem, II, 17, p. 163).
21 COMPAGNI, Cronica... cit, I, 21, p. 56. Il cardinale ritorna a Firenze l'anno successivo in novembre per «moderare i Neri», ma fallendo ancora nella sua missione: «egli lasciò, partendo, la Città interdetta in mano loro, come l'avea lasciata l'anno innanzi in mano ai Bianchi» (BALBO, Vita di Dante Alighieri cit., p. 90).
22 C. CLEMENTINI, Raccolto istorico, I, Simbeni, Rimini 1617, p. 522.
23 M. A. ZANOTTI, Genealogie di famiglie riminesi, I, SC-Ms. 187, Biblioteca A. Gambalunga di Rimini, c. 2, anticipa la venuta di queste famiglie al 1260, anno della sconfitta fiorentina a Montaperti, seguendo VILLANI, Cronica cit., VI, LXXIX, dove però non sono citt. gli Agolanti. Un «Johannes Agolante» è attestato a Saludecio già nel 1256: cfr. L. VENDRAMIN, Per una storia della nobile famiglia riminese degli Agolanti e del loro 'castello' di Riccione, in Gli Agolanti e il Castello di Riccione a c. di R. COPIOLI, Rimini 2003, pp. 219-254, p. 231. Nella vicina Meleto sono presenti attorno al 1246, altri esuli fiorentini, gli Agli: cfr. in questo stesso volume, MONTANARI, Esuli fiorentini a Rimini. Le famiglie Adimari, Agli, Agolanti. Gli Agolanti militano nella parte ghibellina: cfr. A. VANNUCCI, I primi anni della libertà fiorentina, Firenze 1861, p. 100 nota 1.
24 L. TONINI, Rimini nel secolo XIII, Storia civile e sacra III, Rimini 1862 (ed. an. Rimini 1971), p. 109. Sull'argomento, cfr. MONTANARI, Esuli fiorentini a Rimini cit.
25 MACHIAVELLI, Istorie fiorentine cit., II, 4, p. 144.
26 GALLARATI SCOTTI, Vita di Dante cit., p. 137.
27 GORNI, Dante cit., p. 182.
28 Essi sono Nolfo di Guido, Neri di messer Jacopo del Giudice, Nello (o Neri) di Arighetto Doni, Bindo dei Donati Bilenchi, Ricco Falconetti (BALBO, Vita di Dante Alighieri cit., p. 160).
29 GALLARATI SCOTTI, Vita di Dante cit., p. 360.
30 G. BOCCACCIO, Vita di Dante, Napoli 1856, p. 12. Di solito è riportata soltanto la prima parte, sul proposito di Dante di «viver seco privatamente».


II. CACCIATO DA FIRENZE

La notizia fornita da Boccaccio sull'iniziale decisione del poeta di abbandonare la vita politica, è confermata da una lunga epistola latina dello stesso Dante (intitolata con le parole del Passio, Popule mee, quid feci tibi?), vista e tradotta dall'umanista Leonardo Bruni: «Tutti li mali e l'inconvenienti miei dalli infausti comitii del mio priorato [31] ebbono cagione e principio» [32]. La si legge nella biografia di Dante [33] composta da Bruni nel 1436 e dedicata alla dotta e coraggiosa Battista di Montefeltro moglie di Galeazzo Malatesti di Pesaro. Nel 1409 quale segretario pontificio, Bruni ha incontrato a Rimini Carlo Malatesti [34] che ospitava papa Gregorio XII abbandonato da tutti [35].
In rapporto con Bruni è stato Alamanno Adimari, arcivescovo di Pisa all'epoca del concilio tenutosi in questa città nello stesso 1409. Adimari tratta con Carlo Malatesti di Rimini la venuta a Pisa di Gregorio XII [36]. Pure il padre di Galeazzo, Malatesta I, è stato attivo nei tormentati anni dello scisma occidentale (1378-1417), meritando nel 1410 dall'antipapa Giovanni XXIII una cospicua ricompensa per i servizi ampi e fruttuosi prestati alla Chiesa durante il concilio di Pisa.
Il ruolo di Dante nel priorato è definito «modesto» da Guglielmo Gorni [37], sulla scia di Michele Barbi [38]. Il quale riteneva che Boccaccio avesse esagerato nel sottolinearne l'importanza, e che valesse la definizione data da Villani di Dante come uno «de' maggiori governatori» [39] e non protagonista assoluto della scena politica fiorentina. Dal primo aprile al 30 settembre 1301 Dante fa parte del consiglio dei cento. Dove fronteggia il cardinale Matteo, quando questi chiede a Firenze di continuare a mantenere un centinaio di soldati a disposizione del papa «in partibus maritime»: ma finisce in minoranza [40].
«Fu questa una delle cause dell'irriducibile odio del papa contro» il poeta [41]. Anche in tale occasione Dante vuole «difendere la libertà della sua repubblica», facendosi forte del «coraggio temerario» di chi rifiutava «una politica di opportunità e di realismo storico» [42].
Il 30 novembre 1300 Bonifacio VIII, «venuto dopo il Giubileo in maggior superbia» [43] oltre che aver rastrellato «pecunia infinita» [44], chiede al clero di Francia di mandare in Italia Carlo di Valois, fratello di Filippo il Bello re a Parigi [45]. Il papa dichiara di volerlo in Firenze come nuovo «paciaro».
In realtà, anziché sanare i contrasti esistenti tra i guelfi, Carlo deve riportare i Neri al potere. A questo punto Dante si lascia convincere ad andare come ambasciatore dei Bianchi presso la corte papale ad Anagni [46]. Dove però non conclude nulla, ed inizia la disavventura del suo esilio. Carlo di Valois, che dal papa ha ricevuto pure «il titolo di conte di Romagna» [47], entra in Firenze soltanto undici mesi dopo, il primo novembre 1301 [48].
Per l'occasione Malatestino («cosa ancor più grave agli occhi di Dante» dell'aiuto prestato al legato cardinal Matteo), è presente in città «per accrescere il prestigio della propria famiglia» [49]. La missione di Dante presso il papa è iniziata circa un mese prima. Con lui sono altri due imbelli concittadini [50] ai quali il papa concede di tornare in patria mentre Dante è trattenuto come un ostaggio.
Nel giro di un anno l'ordinaria storia di spionaggio politico diventa per Dante un terribile tranello. A Firenze Cante de' Gabrielli da Gubbio, nuovo podestà insediato da Carlo di Valois, istruisce i processi che piegano la resistenza dei Bianchi [51]. La città precipita nel caos. Carlo di Valois è applaudito da «tiranni e malfattori»: dopo aver «presa baldanza», essi cominciano ad assaltare case e negozi dei Bianchi [52].
Carlo, scrive Machiavelli, è disceso «per disunire non per unire» [53]. Lo disprezzano gli onesti, lo temono i liberi, lo desiderano soltanto i facinorosi ed i prepotenti [54]. Quando è scoperta «una congiura tenuta dai Bianchi», Carlo ne confisca i beni e distrugge le case. Tra i destinatari del provvedimento, precisa Machiavelli, «fu Dante poeta» [55]. Il quale «non metterà più piede a Firenze, dato che nel frattempo la parte a lui avversa dei guelfi neri, sostenitori degli Angiò e legati al papa, aveva preso il potere» [56].
I beni di Dante sono occupati da Boccaccio Adimari, la cui famiglia si era divisa nelle due opposte fazioni cittadine. Ad uno di loro, Nerlo, è mozzata la testa dal podestà Fulcieri da Calboli [57]. Altri Adimari sono cacciati in esilio e li ritroveremo a Rimini [58]. Boccaccio Adimari, come scrivono i commentatori a partire da Cristoforo Landino (1481), fu sempre avversario acerrimo di Dante e si adoprò affinché il poeta non fosse richiamato in patria, per non perdere quei beni usurpati. Per un altro Adimari, Baldinaccio (mandato in esilio già da Dante e dai suoi colleghi priori nell'estate 1300), è rinnovato il provvedimento proprio in contemporanea con quello contro il poeta.
Agli inizi dell'aprile 1302 [59] Carlo abbandona Firenze «solo con la lancia / con la quale giostrò Giuda» [60], per «seguire la impresa sua di Sicilia; nella quale non fu più savio né migliore che si fusse stato in Firenze; tanto che vituperato, con perdita di molti suoi si tornò in Francia» [61].
Prima della sua partenza sono cacciati da Firenze oltre seicento cittadini che «andorono stentando per lo mondo, chi qua e chi là». Tra loro c'è pure Dante «ch'era ambasciatore a Roma» [62]. Come dimostrano documenti ritrovati a Firenze e pubblicati da Gerolamo Tiraboschi (1731-1794) [63], il poeta ha già «avuto l'onore di due condanne speciali», il 27 gennaio ed il 10 marzo dello stesso 1302 [64].

31 La lettera prosegue: «del quale priorato, benché per prudenzia io non fussi degno, niente di meno per fede e per età non ne ero indegno, perocché dieci anni erano già passati dopo la battaglia di Campaldino, nella quale la parte ghibellina fu quasi del tutto morta e disfatta, dove mi trovai non fanciullo nell'armi, dove ebbi temenza molta, e nella fine allegrezza grandissima, per li vari casi di quella battaglia». Cfr. PETROCCHI, Biografia di Dante Alighieri, cap. 3, <http://www.danteonline.it/italiano/vita_frames/petrocchi/3.htm>.
32 L. BRUNI, Della vita studi e costumi di Dante, ne Le vite di Dante, a c. di G. L. PASSERINI, Firenze, 1917, cap. 5, <www.liberliber.it>; BALBO, Vita di Dante Alighieri cit., pp. 74-75. La prima ed. dell'opera di Bruni è del 1671 (a c. di Giovanni Cinelli presso Zecchini di Perugia). L'anno appresso essa appare a Firenze all'insegna della Stella, per iniziativa di Francesco Redi.
33 In BRUNI, Della vita studi e costumi di Dante cit., cap. 1, si legge che Boccaccio «le gravi e sustanzievoli parti della vita di Dante lascia a dietro e trapassa con silenzio, ricordando le cose leggiere e tacendo le gravi». Tra Umanesimo e Settecento, Bruni resta «la mente più operosa e veramente critica»: cfr. A. VALLONE, Gli studi danteschi dal 1940 al 1949, Firenze 1950, p. 85.
34 Da Pandolfo I (1304-1326) figlio del fondatore della dinastia Malatesta da Verucchio, nascono Galeotto I (1299-1385) e Malatesta Antico detto Guastafamiglia (1322-1364) al quale fa capo il ramo marchigiano con suo figlio Pandolfo II (1325-73) signore di Pesaro, Fano e Fossombrone, ed il figlio di costui Malatesta I «dei Sonetti o Senatore» (1366-1429), padre di Galeazzo. Il ramo riminese-romagnolo deriva da Galeotto I, marito (1367) di Gentile da Varano di Camerino, la cui sorella Elisabetta sposa Malatesta I (1383). Carlo, figlio di Galeotto I, è fratello di Pandolfo III signore di Brescia da cui nascono Sigismondo Pandolfo, signore di Rimini, e Domenico Malatesta Novello, signore di Cesena.
35 MONTANARI, Sigismondo, filosofo umanista cit., pp. 326-327.
36 E. PAZTOR, Adimari, Alamanno, DBI, I, Roma 1960, pp. 276-277. Circa gli Adimari, cfr. MONTANARI, Esuli fiorentini a Rimini cit. Sul ramo pesarese dei Malatesti, cfr. il nostro scritto, di prossima pubblicazione, Cleofe, una sposa per Bisanzio (Storia delle Signorie dei Malatesti).
37 GORNI, Dante cit., p. 182.
38 Ibidem, p. 186 si rimanda a M. BARBI, L'ordinamento della repubblica fiorentina e la vita politica di Dante (1899) in ID., Problemi di critica dantesca. Prima serie (1893-1918), Firenze 1934 (reprint 1975), pp. 141-156.
39 VILLANI, Cronica cit., IX, CXXXVI (in altre edizioni CXXXIV o CXXXV).
40 PETROCCHI, Vita di Dante cit., pp. 83-84.
41 SIEBZEHNER-VIVANTI, Dizionario della D. C. cit., pp. 360-361.
42 GALLARATI SCOTTI, Vita di Dante cit., pp. 149-150.
43 F. DE SANCTIS, Storia della letteratura italiana, I, Milano 1956, p. 143.
44 La notizia è di un «cronachista d'Asti», Guglielmo Ventura: cfr. BALBO, Vita di Dante Alighieri cit., p. 156. Il giubileo «recò una grande prosperità ai cittadini» di Roma: cfr. G. FASOLI, Roma dal Medioevo al Rinascimenti, Firenze 1940, p. 40.
45 GALLARATI SCOTTI, Vita di Dante cit., p. 147.
46 G. L. PASSERINI, La vita di Dante (1265-1321), Firenze 1929, p. 160.
47 BALBO, Vita di Dante Alighieri cit., p. 85: «Carlo venne in Italia con parecchi conti e baroni, ma con soli 500 cavalieri francesi, a cui s'aggiunsero bensì molti fuorusciti Guelfi e Neri di Romagna e Toscana».
48 Sulla disputa circa la vera data, suggerita dal «quasi inerrabile Muratori», cfr. BALBO, Vita di Dante Alighieri cit., p. 187 nota a.
49 PARI, La signoria di Malatesta da Verucchio cit., p. 264. «Dante nel suo risentimento poteva a buon diritto accomunare il da Verucchio e suo figlio a coloro che a Firenze avevano causato la sua rovina» (ibidem, 265). Sul finire del sec. XIII Bonifacio VIII aveva infeudato il Malatesti da Verucchio di ampi possedimenti nel Pesarese (ibidem, p. 264).
50 COMPAGNI, Cronica... cit, II, 11, pp. 75-76. Essi sono Maso Minerbetti «uomo senza volontà propria» e Corazza da Signa «tanto Guelfo, che appena credea potesse rimaner volontà in nessuno narrandogli le parole del Papa»: cfr. BALBO, Vita di Dante Alighieri cit., p. 188.
51 GORNI, Dante cit., p. 179.
52 VILLANI, Cronica cit., VIII, cit. in GALLARATI SCOTTI, Vita di Dante cit., pp. 159-160. In ed. Parma 1991, <liberliber.it>, il brano di VILLANI è in 9, 49, pp. 251-252.
53 MACHIAVELLI, Istorie fiorentine cit., II, 19, p. 166.
54 GALLARATI SCOTTI, Vita di Dante cit., p. 150.
55 MACHIAVELLI, Istorie fiorentine cit., II, 19, p. 167.
56 GORNI, Dante cit., p. 178.
57 VILLANI, Cronica cit., VIII, LX.
58 Cfr. MONTANARI, Esuli fiorentini a Rimini cit.
59 COMPAGNI, Cronica... cit, p. 220 nota 344.
60 «Sanz'arme n'esce e solo con la lancia / con la quale giostrò Giuda, e quella ponta / sì che a Fiorenza fa scoppiar la pancia», Pg. 20, 73-75. Si allude alla «città tutta ridotta per un certo tempo a un campo di violenze tollerate, ammesse, sollecitate dal finto paciere, apparentemente disarmato, ma in sostanza armato dall'arma di Giuda, quella del tradimento»: ALIGHIERI, La divina commedia, Purgatorio, note a c. di DI SALVO, Bologna 1985, p. 355.
61 MACHIAVELLI, Istorie fiorentine cit., II, 19, p. 167.
62 COMPAGNI, Cronica... cit, II, 25, p. 94.
63 G. TIRABOSCHI, Storia della letteratura italiana , V, II, 2, Modena 1775, p. 494.
64 BALBO, Vita di Dante Alighieri cit., p. 91.

III. LE DUE CONDANNE A MORTE

Nella dolorosa 'vacanza' presso la corte papale ad Anagni od a Roma [65], Dante ha tempo e modo per riflettere sul senso ideale della sua esperienza e sulle condizioni politiche dell'Italia, non soltanto di Firenze. Ne trarrà spunto per due potenti immagini della Commedia. Quella di Bonifacio VIII destinato con profezia ante eventum tra i dannati (Inf. 19, 52-57). E quella della Chiesa «puttana sciolta» che amoreggia con il «gigante», Filippo il Bello re di Francia (Pg. 32, 149). Ovvero la «grande meretrice che si vende e dona a chi meglio ne soddisfa la cupidigia» [66]. Bonifacio VIII è stato eletto nel dicembre 1294 a Napoli, dopo la cattura di Celestino V.
«Taluno stima che Dante, ma è ipotesi considerata 'fragilissima' da Petrocchi [67], facesse parte della delegazione dei nobili fiorentini che il 5 ottobre 1294 accompagnò» a Napoli Carlo Martello (1271-1295). Il quale «avrebbe catturato il pontefice dimissionario Celestino V»: dopo l'elezione di Bonifacio VIII, Dante fa «i conti con la visione teocratica, accentratrice e interessata al potere temporale del nuovo papa», e l'anno successivo (1295) entra in politica, iscrivendosi alla sesta arte maggiore di medici, speziali e merciai [68].
Mentre è prigioniero del papa, Dante subisce le «due condanne speciali». Con la prima (27 gennaio 1302) è bandito da Firenze per un biennio. L'accusa è di lucri illeciti e d'inique estorsioni «sia di denaro sia di cose» [69], per lottare contro Bonifacio VIII e respingere Carlo di Valois. Chiamato dal podestà di Firenze a presentare la propria discolpa, Dante non può obbedire, per cui il 10 marzo è colpito da una più grave condanna: sentenza di morte sul rogo e confisca dei beni.
Tra il 1302 ed il 1303 per due volte gli esuli tentano di rientrare in armi in città. Leonardo Bruni racconta il loro primo incontro, databile tra il 27 gennaio ed il 10 marzo 1302, a Gargonza dove essi «fermarono la sedia in Arezzo». La città di «Arezzo quasi sola Ghibellina nella Toscana occidentale», dava «la mano ai Ghibellini di Romagna, al Comune di Forlì, ai conti di Montefeltro, ed a' signorotti della Faggiola, un castello e regione dei monti Feltrii. Uno di questi, Uguccione della Faggiola, era allora podestà di Arezzo; e fu importante nell'esilio di Dante» [70]. Infatti Uguccione sarà convertito dal papa alla propria causa.
A Gargonza Dante è scelto tra i dodici consiglieri incaricati di guidare l'impresa del ritorno in armi a Firenze [71].
Di quella «compagnia malvagia e scempia» parla Cacciaguida descrivendola «tutta ingrata, tutta matta et empia» contro il poeta (Pd. 17, 61-65). «Il campo dei fuoriusciti diventava a poco a poco un vespaio» per Dante, costretto a vivere con quella «gente nuova» ineducata ed ingrata, incapace di guardare al bene comune e non soltanto ai propri interessi particolari [72].
Il voltafaccia di Arezzo che ospitava gli esuli e che passa con il suo podestà Uguccione [73] dalla parte di Bonifacio VIII, li costringe a disperdersi. Bianchi e ghibellini s'incontrano a San Godenzo in Mugello l'8 giugno 1302. Nell'autunno successivo Dante va a Forlì con altri Bianchi espulsi [74]. Nelle Istorie di Forlì (1661) di Paolo Bonoli (1630-1670), è data per certa una lunga presenza (dal 1302 al 1308) di Dante in quella città, ospite della casa di Scarpetta degli Ordelaffi, «in qualità di segretario» [75].
La famiglia di Scarpetta è tra quelle punite nel 1297 dal legato [76]. Nel luglio 1296 Scarpetta ha fatto prigioniero Guido da Polenta e Malatestino che militavano con i guelfi i quali avevano assaltato Forlì, e ne erano stati scacciati con la strage di milletrecento soldati [77]. Scarpetta «sotto le insegne delle verdi branche moderava la città» [78].
Gli esuli fiorentini eleggono Scarpetta loro capitano generale, dotandolo di un esercito di seimila fanti e di ottocento cavalli, destinato a soccorrere «li Bianchi nello Stato di Firenze, di cui Fulchiero Calboli, forlivese, egli pure di nera fazione, dopo sei mesi ne era stato confermato pretore» [79]. Secondo l'umanista forlivese Flavio Biondo (1392-1463), è lo stesso Dante a negoziare l'aiuto di Scarpetta alla fine del 1302. Flavio Biondo «avrebbe visto materiale coevo lasciato da Pellegrino Calvi [80], a suo tempo cancelliere-capo di Scarpetta» [81].
Dante nell'autunno del 1302 riesce a far rimandare l'impresa nel marzo successivo. Quando a Castel Puliciano, «lui dissenziente e non partecipante» [82], i Bianchi sono sbaragliati dal podestà di Firenze, Fulcieri da Calboli [83]. Il quale «vende la carne» degli avversari «essendo viva», e come «antica belva» ne fa strage orrenda in Firenze (Pg. 14, 61-66). Quel sangue innocente angoscia Dante su cui si riversano «molto odio e ira» [84]: «Qualcuno pare giungesse fino ad accusarlo di essersi lasciato corrompere dal denaro fiorentino» [85]. Dante smette di essere guelfo bianco e decide di «far parte per se stesso» (Pd. 17, 64-69). Spiega il filologo Guglielmo Gorni: il gesto del poeta è un «dirsi fuori della partita», per cui Ugo Foscolo poté accreditare l'idea del «ghibellin fuggiasco» [86]. Siamo tra il marzo 1303 (rotta di Castel Puliciano) e 20 luglio 1304 [87] (battaglia della Lastra [88]), quando i Bianchi «giunti quasi in Firenze e sul punto di rientravi e di ottenere di nuovo il potere [...] furono respinti e in parte appiccati agli alberi» [89].
Aggiunge Gorni: «Restano misteriose le ragioni di questo traumatico distacco, che non ebbe però la virtù di separare il destino di Dante da quello degli altri esuli» [90]. E circa la condotta del poeta, si chiede che cosa significhi in sostanza il «far parte» per se stesso: Dante «forse all'inizio voleva rientrare in Firenze, magari lui solo, per meriti letterari, poi - passati i primi anni - si affezionò all'idea di starsene in esilio», immaginando soltanto di ritornarvi per quei «meriti letterari speciali, non già per una sanatoria politica» [91].
Tra maggio-giugno 1303 ed inizio 1304 Dante è a Verona presso Bartolomeo della Scala. Torna in Toscana forse alla scomparsa di Bartolomeo [92], avvenuta il 7 marzo 1304; o forse successivamente al 31 gennaio 1304 quando il nuovo papa Benedetto XI, ex maestro generale dei Domenicani, sceglie il cardinale Niccolò da Prato quale legato per la Toscana e paciaro per Firenze. Il rientro in Toscana comunque succede dopo che Dante ha invano cercato un accordo con il Comune di Firenze, «come attesta il suo biografo Leonardo Bruni che vide» la ricordata epistola Popule mee, quid feci tibi? [93].
«Nel biennio 1304-1306» Dante sarebbe stato a Bologna, mentre «l'eventuale andata a Parigi» [94] si collocherebbe tra 1309 e 1310. Nel 1311 egli è escluso dall'amnistia. Nell'agosto 1313 a Buonconvento presso Siena muore Arrigo VII: così «le utopie politiche di Dante furono vanificate» [95]. Il poeta aveva sostenuto con entusiasmo l'imperatore eletto nel novembre 1308 ed incoronato da Clemente V nel febbraio 1312, ma «l'utopia dantesca dell'Impero [...] è priva di fondamento, è un'idea contraria alla storia [...]».
Quel «far parte per se stesso», precisa Gorni, «significò per Dante un distacco dalla politica attiva e dai suoi chiaroscuri, per assumere una posizione morale al di sopra delle parti» [96].
Nel 1315 il poeta rifiuta le condizioni poste all'indulto, ritenendole troppo onerose ed umilianti. Assieme alla prole è nuovamente condannato a morte, alla confisca ed alla distruzione dei beni, non essendosi presentato come sospetto ghibellino «a ricevere l'assegnazione del confino e a sodarne l'osservanza» [97]. La seconda tappa veneta durerebbe dal 1312-1313 al 1318 [98]. Quando c'è l'approdo all'ultimo «rifugio» [99] presso i da Polenta a Ravenna ed al loro «fervido cenacolo» di dotti e letterati, ma soprattutto vicino alla figlia Antonia, monaca a Santo Stefano degli Ulivi [100].
Guido da Polenta (scomparso nel 1310) era stato nel 1290 podestà a Firenze. Qui può aver conosciuto Dante. Al cui arrivo a Ravenna comanda Lamberto, figlio di Guido e fratello della povera Francesca «da Rimini». Lamberto muore nel 1316 lasciando il potere al figlio Guido Novello. Il quale nei primi mesi del 1321 utilizza il poeta come ambasciatore a Venezia. Di ritorno dalla laguna, Dante contrae a Comacchio le febbri malariche che lo portano alla tomba [101].
Quando i Malatesti nel 1275 combinarono il matrimonio tra Giovanni e Francesca, ad un altro fratello di costei, Bernardino (forse podestà a Rimini nel 1294), fu promessa in sposa Maddalena, sorella minore dello stesso Giovanni. Una figlia di Bernardino e Maddalena fu battezzata con il nome di Franceschina, e poi avviata prudenzialmente al chiostro, al pari di una sua sorella, Polentesia.

65 «Dove poi da Anagni, da Roma o d'altrove» Dante andasse «non è facile dire» (PASSERINI, La vita di Dante cit., p. 160). Sulla questione cfr. PETROCCHI, Vita di Dante cit., pp. 87-88 (e ID., Dante a Roma, in Dante e le città dell'esilio, Ravenna 1989, pp. 25-32). Sulle difficoltà e le invenzioni nel ricostruire gli itinerari danteschi, cfr. L. COGLIEVINA, La leggenda sui passi dell'esule, in Dante e le città dell'esilio cit., pp. 46-74.
66 ALIGHIERI, La divina commedia, Purgatorio, note a c. di DI SALVO cit., p. 519.
67 PETROCCHI, Vita di Dante cit., p. 61: «ipotesi fragilissima se non addirittura insussistente».
68 GORNI, Dante cit., pp. 177-178.
69 GALLARATI SCOTTI, Vita di Dante cit., p. 161, Libro del Chiodo in Archivio di Stato di Firenze; GORNI, Dante cit., p. 179: qui sul Libro del Chiodo, cfr. p. 186.
70 BALBO, Vita di Dante Alighieri cit., p. 106; PASSERINI, La vita di Dante cit., p. 171.
71 Per le notizie di questo paragrafo, cfr. GORNI, Dante cit., pp. 179-180.
72 GALLARATI SCOTTI, Vita di Dante cit., pp. 174-175.
73 Uguccione «antico ghibellino» allora era «già forse in segreti accordi con Corso Donati del quale sposò la figliuola»: cfr. PASSERINI, La vita di Dante cit., p. 172.
74 PETROCCHI, Vita di Dante cit., p. 93.
75 P. BONOLI, Storia di Forlì, Bordandini, Forlì 18262, p. 340.
76 Ibidem, pp. 312-313.
77 TONINI, Rimini nel secolo XIII cit., p. 183.
78 M. MISSIRINI, Vita di Dante Alighieri, Milano e Vienna, Tendler e Schaefer, 1844, p. 110. Cfr. Inf. 27, 43-45: «La terra che fe' già la lunga prova / e di Franceschi sanguinoso mucchio, / sotto le branche verdi si ritrova». Gli Ordelaffi avevano come stemma un leone verde. Le branche di cui parla Dante sono le zampe del leone: «Due branche avea, pilose infin l'ascelle...», Inf. 17, 13. Il «sanguinoso mucchio» ricorda quando, il primo maggio 1282, Guido da Montefeltro capitano del comune di Forlì inflisse una durissima sconfitta ai «mercenari francesi al servizio dei papi, per domare la ribellione dei Romagnoli alla Chiesa» (cfr. A. VASINA, Dante e la Romagna, in Romagna medievale, Ravenna 1970, p. 306). Nell'estate successiva Guido fu costretto ad abbandonare Forlì alle forze pontificie. Nel 1299 (cfr. U. BOSCO, Introduzione al c. XXVII, p. 394 in ALIGHIERI, La D. C., con pagine critiche. Inferno, I, Firenze 1988: «Il Torraca ci ha detto...»), le opposte fazioni romagnole addivengono ad una pace giurata, dopo due anni di trattative volute da Bonifacio VIII: Guido è scomparso nel 1298; per l'inscienza del presente o del tempo vicino propria dei dannati, deve chiedere a Dante: «...dimmi se Romagnuoli han pace o guerra» (Inf. 27, 28).
79 BONOLI, Storia di Forlì cit., p. 327.
80 GALLARATI SCOTTI, Vita di Dante cit., p. 182. Calvi è stato in «familiare carteggio con Dante» (BONOLI, Storia di Forlì cit., p. 327 nota 1; PETROCCHI, Vita di Dante cit., p. 93 nota 1). Le lettere di Dante, dettate a Calvi sono andate disperse «per fanatico zelo» assieme alle carte degli Ordelaffi (P. FRATICELLI, Proemio alle Epistole ne Il Convito di D. A. e le Epistole, Firenze 1862, p. 406). Francesco Filelfo scrisse che Dante «edidit et epistulas innumerabiles» (ibidem, p. 404). Ma U. Foscolo osservò (La Commedia di D. A. illustrata da U. F., Vanelli, Lugano, 1827, p. 181), che i fiorentini non potevano possedere le opere autografe d'uno scrittore che lasciò le ossa, e tutta la sua discendenza fino all'ultima generazione fuori di Toscana». Il figlio di Francesco Filelfo, Mario, inventò una storia dei ghibellini scritta da Dante (FOSCOLO, ibidem, p. 68), e citò come inediti dei testi invece noti a tutti. A F. Filelfo presta fede BALBO, Vita di Dante Alighieri cit., p. 135, a proposito delle pretese quattordici ambascerie di Dante per la Repubblica, tra cui quattro presso Bonifacio VIII: con cui «sempre impetrò ciò che volle, fuorché in quella legazione che non era compiuta quando fu esiliato». Cfr. pure TIRABOSCHI, Storia della letteratura italiana cit., pp. 717-718.
81 GORNI, Dante cit., p. 180. La testimonianza di Flavio Biondo è «erroneamente interpretata e recata a conseguenze irragionevoli segnatamente da Carlo Troya» nel suo testo Del veltro allegorico di Dante, Firenze 1826: cfr. PASSERINI, La vita di Dante cit., p. 172. In BARBI, L'ordinamento della repubblica fiorentina cit., si attribuisce a Calvi la qualifica di «epistolarum magister» (cfr. VALLONE, Gli studi danteschi cit., p. 88).
82 GALLARATI SCOTTI, Vita di Dante cit., p. 361.
83 Fulcieri de Calboli è cit. in Pg. 14, 55-72, come nipote di Rinieri («'l pregio e l'onore /de la casa de Calboli, ove nullo / fatto s'è reda poi del suo valore», Pg. 14, 88-90). Rinieri è sconfitto nel 1276 da Guido da Montefeltro e muore combattendo nel 1296. Il ritratto che Dante fa di Fulcieri è a forti tinte. Lo chiama cacciatore di quei «lupi» (i fiorentini) che abitano lungo le rive del «fiero fiume» (Pg. 14, 58-60). Fulcieri è «il tipico podestà» del tempo. Chiamato per un governo non settario, finisce «con l'allearsi col gruppo politicamente più forte e economicamente più ricco e ne diventa lo strumento esecutivo». Ancora una volta, Dante non vede «le ragioni politiche» della crisi comunale. Che non deriva da una singola figura negativa di podestà come Fulcieri, ma dalla stessa sua istituzione. La quale «era un vistoso segno di debolezza politica» (ALIGHIERI, La divina commedia, Purgatorio, note a c. di DI SALVO cit., p. 243). Fulcieri, podestà di Firenze ma romagnolo d'origine, fa da cerniera tra le due regioni offrendo «a Dante l'occasione per una severa meditazione sul destino dell'uomo non solo individuale ma associato e politicamente operante» (ibidem, p. 237).
84 Cfr. OTTIMO, Comento, in GALLARATI SCOTTI, Vita di Dante cit., p. 184. Sull'Ottimo, cfr. GORNI, Dante cit., p. 180.
85 GALLARATI SCOTTI, Vita di Dante cit., p. 184.
86 GORNI, Dante cit., p. 187.
87 Secondo PASSERINI, La vita di Dante cit., p. 173, siamo nella primavera del 1304.
88 Ad epoca successiva a questa sconfitta si colloca il canto di Farinata: cfr. TROYA, Del veltro allegorico di Dante cit., pp. 74-76.
89 GALLARATI SCOTTI, Vita di Dante cit., p. 185.
90 GORNI, Dante cit., p. 180.
91 Ibidem, pp. 187-188: questi meriti, «se ben s'interpretano le tarde parole dell'esordio di Paradiso 25», sono quelli a cui pensa Dante quando confida che il «poema sacro / al quale ha posto mano e cielo e terra», possa vincere «la crudeltà che fuor» lo serra dalla sua città («bello ovile ov'io dormi' agnello»), e possa farvelo ritornare «poeta» (cfr. Pd 25, 1-9). A quel tempo, l'esilio aveva una tragicità dovuta alla solitudine ed all'esclusione che comportava: cfr. A. BATTISTINI, L'estremo approdo: Ravenna, in Dante e le città dell'esilio cit, pp. 158-159.
92 Secondo PETROCCHI, Vita di Dante cit., p. 95, la decisione di Dante non è presa in conseguenza della morte di Bartolomeo della Scala: l'ipotesi è definita «poco probabile», mentre è «più convincente» quella che la fa dipendere dalla nomina del nuovo paciaro.
93 GORNI, Dante cit., p. 183.
94 Ibidem, p. 184.
95 Ibidem, p. 181.
96 Ibidem.
97 Ibidem, p. 179.
98 PETROCCHI, Vita di Dante cit., p. 189.
99 Dante usa la parola in Pd. 17, 70: «Lo primo tuo rifugio e 'l primo ostello...».
100 PETROCCHI, Vita di Dante cit., pp. 192, 198-199.
101 GORNI, Dante cit., p. 299. Dante muore tra 13 e 14 settembre 1321. La pace di Ravenna con Venezia è del 4 maggio 1322 (cfr. FRATICELLI, Proemio alle Epistole cit., p. 258: si cita una controversa epistola di Dante da Venezia del 30 marzo, pubblicata in Prose antiche di Dante, Petrarcha, et Boccaccio, et di molti altri nobili et virtuosi ingegni, Doni, Firenze 1547).

IV. TIRANNI E BASTARDI DI ROMAGNA

Dante scrive di esser stato costretto dai concittadini a farsi «peregrino, quasi mendicando» e mostrando contro sua voglia «la piaga de la fortuna, che suole ingiustamente al piagato molte volte esser imputata». Si definisce «legno sanza vela e sanza governo, portato a diversi porti e foci e liti dal vento che vapora la dolorosa povertade» (Convivio, I, 3). Ha dovuto subire angustie e povertà per colpa di Firenze che, «vòta d'amore e nuda di pietate» (Rime, 15 [CXVI], 79), lo ha serrato fuori delle proprie mura. Nella lupa che appare all'inizio della Commedia (Inf. 1, 49-60), Dante raffigura la società che lo ha mandato in esilio, «fondata sul dominio di una borghesia intraprendente ma anche priva di scrupoli, in cui la ricerca del denaro, il mito del potere economico costituivano una forza attiva, ma anche dirompente e contaminante» [102]. Dante assume la propria vicenda a parabola della condizione umana ed a simbolo della storia collettiva partorita dalla crisi morale delle istituzioni laiche e religiose. La narra sperando che la sua conoscenza possa contribuire a far rinascere l'Italia e la Chiesa. Dante così si offre come maestro di libertà. E tale è rimasto nel tempo non grazie alla propria sorte che nulla ha di straordinario, bensì in virtù della grandezza del suo genio.
Nella Commedia trovano ampio spazio le vicende della Romagna, i cui «tiranni» (Inf. 27, 38) sono frutto della stessa crisi vissuta dal poeta a Firenze [103]. In essi Dante vede negata la sua concezione politica, sperimentata sino al fallimento. Non li osserva con gli occhi di un nemico, ma li racconta e quasi li esalta nella loro negatività quali protagonisti di un'epoca. E, come osserva Augusto Vasina, lo stesso Dante nel Purgatorio (6, 124-125) ci ricorda che «le città d'Italia tutte piene / son di tiranni» [104].
Guido da Montefeltro, posto nella bolgia di Ulisse e figura dominante del ventisettesimo canto dell'Inferno, «è al centro di una società di violenti ai quali o si cede o si appone altra violenza. L'unico scampo è quello offerto dalla vita religiosa e Guido si fa frate francescano. Ma anche la religione è ormai coinvolta nella corsa al potere» [105]. L'astuzia di Guido «si ritrova amplificata e potenziata nella curia romana» di Bonifacio VIII, «lo principe d'i novi Farisei» (Inf. 27, 85), «che utilizza la religione anche nelle sue forme più delicate con estrema spregiudicatezza ed astuzia: tutto il mondo allora è Romagna», perché l'intera cristianità «è governata dalla frode, dalla politica fattasi strumento di potenza territoriale e di nepotismo» [106].
Se «i testi pongono anzitutto delle domande» [107] e se nella Commedia dobbiamo non cercare episodi consacrati dalla tradizione [108] ma considerare le immagini letterarie quali «momento della realtà» [109], allora i «tiranni» romagnoli rappresentano qualcosa di più dei loro misfatti, diventando (ha scritto Benedetto Croce) la politica che «si fa poesia» [110]. Per un gioco fra simboli e personaggi, negli stemmi dei signori di Romagna «si cala ed esemplifica la violenza che è nei loro cuori e che fa di loro degli uomini degradati a bestie»: l'aquila dei Polentani cova, il leone degli Ordelaffi abbranca, il mastino dei Malatesti azzanna, sottolineava il glottologo Benvenuto Terracini [111]. Le sorti della terra posta «tra 'l Po e 'l monte e la marina e 'l Reno» (Pg. 14, 92) stavano a cuore a Dante «poco meno che quelle della stessa Toscana».
Alla celebrazione della sua storia antica (Pg. 14, 88-98), s'accompagna il rammarico per la degenerazione contemporanea [112], testimoniato dall'invettiva: «Oh Romagnuoli tornati in bastardi!» (Pg. 14, 99113). Dante rimpiange la società cortese che per la nostra terra richiama citando «le donne e ' cavalier, li affanni e li agi» che invogliavano «amore e cortesia / là dove i cuor son fatti sì malvagi» (Pg. 14, 109-111).
Ma «il valore di pagine come questa dedicata alla Romagna è più poetico che storico» [114]. Pagine che sono il frutto di «un visionario fallito»: così Dante è stato definito da Guglielmo Gorni «dopo anni di studio del poema e delle altre opere» e non volendo accreditare «su di lui pie leggende» [115].
La vicenda politica romagnola è paradigma di quella italiana: «la sorte di Firenze era in fondo la stessa di Ravenna e di qualsiasi altra città di ogni regione» [116]; è una di quelle microstorie che fanno la Grande Storia. A cui si torna nella seconda cantica della Commedia dove Dante spiega le cause politico-religiose della crisi generale dell'Italia nel dialogo con Marco Lombardo. Se il mondo è «diserto d'ogni virtute [...] e di malizia gravido e coverto», la colpa non è dei cieli, ma degli uomini. Dotati di libero arbitrio, essi non rispettano le leggi a causa del papa che non distingue più il potere spirituale da quello temporale (Pg. 16, 58-99).

102 ALIGHIERI, La divina commedia, Inferno, note a c. di DI SALVO, Bologna 1985, p. 11.
103 L'esperienza di esule «bastava di certo a farlo avvertito che non solo nelle contrade di Romagna esistevano torbidi e lotte intestine, ma anche e prima, forse, che altrove nella sua Firenze, e pure in quasi tutti i centri della nostra penisola»: cfr. VASINA, Dante e la Romagna cit., p. 307. Su come la condizione politica romagnola descritta nella Commedia colpisca l'«immaginario fiorentino», cfr. C. VAROTTI, La Romagna vista da Firenze: da Dante a Machiavelli, in Machiavelli e le Romagne, Cesena 1998, pp. 71-80.
104 Sugli aspetti peculiari delle «tirannidi» nella seconda metà del XIII sec., cfr. G. TABACCO, La storia politica e sociale, in Storia d'Italia, 2, 1, Torino 1974, pp. 239-243.
105 ALIGHIERI, La divina commedia, Inferno, note a c. di DI SALVO cit., p. 451.
106 Ibidem, p. 452.
107 E. RAIMONDI, Un'etica del lettore, Bologna 2007, p. 15.
108 Oggi «la critica più avvertita diffida della sovrapposizione tra l'opera e la vita dell'autore», BATTISTINI, L'estremo approdo cit., p. 165.
109 RAIMONDI, I sentieri del lettore, I, Bologna 1994, p. 29. «Quanti in passato - e non sono pochi - hanno ritenuto di poter misurare la validità dei versi danteschi sulla loro maggiore o minore aderenza alla realtà storica hanno perlomeno frainteso il nostro poeta» (cfr. VASINA, Dante e la Romagna cit., p. 310).
110 ALIGHIERI, La divina commedia, Inferno, note a c. di DI SALVO cit., p. 453.
111 Ibidem.
112 La tirannide (cfr. VASINA, Dante e la Romagna cit., p. 306), è contemplata nella Commedia «nei suoi effetti umani, nelle sue implicazioni morali; come un segno semmai del tralignare degli uomini, del loro deviare dall'ordine provvidenziale fino a inselvatichirsi nella sfera della bassa bestialità».
113 BOSCO, Introduzione al c. XXVII cit., I, p. 394.
114 ALIGHIERI, La divina commedia. Purgatorio, note a c. di DI SALVO cit., p. 247.
115 GORNI, Dante cit., pp. IX, XXI, 302.
116 VASINA, Dante e la Romagna cit., p. 305.

V. IL PARADOSSO DI FRANCESCA

Dalla terra di «tiranni» e «bastardi» nella quale Dante trascorre gli ultimi anni della propria vita, proviene la più celebre delle eroine di tutta la letteratura mondiale. Francesca non ha nome nel poema né si precisa il suo casato nel testamento del suocero, Malatesta da Verucchio [117]. Soltanto gli antichi commentatori le danno una precisa identità. Dante non cita i nomi né del marito di Francesca né dell'assassino di entrambi.
Al pari dell'Inferno e del Purgatorio che sono «un'invenzione del poeta», anche l'episodio di Paolo e Francesca («ignorato dalle cronache contemporanee»), è «inventato dal nostro autore» che «aveva dovuto conoscere Paolo» nel 1282 a Firenze [118]. Le cronache malatestiane che ne trattano [119], sono di età successiva e mediano la 'verità' dai primi commentatori: i due figli di Dante, Jacopo e Pietro, Jacopo della Lana, l'Ottimo ed «altri ancora che precedettero Boccaccio». Al quale si deve la leggenda romanzesca [120] «dell'inganno per cui Francesca crederà di essere destinata a Paolo, per scoprire solo più tardi che il vero marito sarà il fratello» Giovanni detto Gianciotto perché «sozo della persona e sciancato» [121]. Ma «sarà vera anche la storia dell'uxoricidio?»: se lo chiede Lorenzo Renzi, suggerendo di cercare una fonte per la vicenda di Francesca «non nella vita (nella storia), ma nella letteratura» [122]. Qui sta il paradosso di Francesca: la sua tragedia diventa reale attraverso la creazione poetica.
L'uccisione di Paolo e Francesca si colloca tra il febbraio 1283 (ritorno di Paolo da Firenze a Rimini) ed il 1284 [123]. Nel 1286 c'è il nuovo matrimonio di Giovanni con Zambrasina che gli darà almeno altri cinque figli. Zambrasina è figlia di Tebaldello di Garatone Zambrasi, ghibellino faentino, morto nel «sanguinoso mucchio» di Forlì [124] assieme al primo marito di lei, Ugolino dei Fantolini. Tebaldello è posto da Dante all'Inferno fra i traditori (32,122-123) per aver aperto le porte della sua città ai Geremei, guelfi bolognesi, «quando si dormìa» [125].
Zambrasina ha avuto da Ugolino una figlia, Caterina Fantolini, che sposa Alessandro Guidi da Romena, zio di Oberto marito di Margherita [126] figlia di Paolo Malatesti.
Delitto d'onore, delitto d'amore, racconta Dante. Ma se invece fosse stato un omicidio politico? La vicenda sentimentale rispondeva all'economia della Commedia meglio di qualsiasi evento legato a rivalità di famiglia, tipiche dei tiranni deprecati come rovina generale dell'Italia [127]. La figura di Pia de' Tolomei, simmetrica a Francesca per collocazione (nel quinto canto del Purgatorio), può illuminare l'episodio grazie alle corrispondenze interne dell'opera [128].
Anche Pia muore per una violenza coniugale. Suo marito Nello de' Pannocchieschi la fa rinchiudere nel proprio castello e poi uccidere: «Siena mi fé, disfecemi Maremma» (Pg., 5, 134). Questo è l'unico dato di cronaca che conta. Non c'entrano altre e ben note ragioni della teologia e della poesia. Si tratta di un uxoricidio che attesta il senso di arroganza del tiranno e dell'amoralità della sua visione del mondo, tutta incentrata sulla violenza come strumento e mistica del potere, esercitata pure nella vita matrimoniale. Ovviamente al lettore della Commedia non interessano le cause della tragica fine di Pia, ma l'immagine ideale che Dante ne offre. Se esportiamo da questa vicenda maremmana la ricerca del suo senso nascosto per estenderla all'analogo fatto romagnolo, ci accorgiamo che Dante neppure per Francesca dice molto, aldilà della scena letteraria. Sulla quale giustamente sono stati versati, e si versano, fiumi di nobile inchiostro esegetico, sino alla fulminante definizione di Gianfranco Contini, di Francesca «intellettuale di provincia» [129]. Poco interessano di solito le basse ragioni della cronaca nera che stanno alla base del discorso storico.
Anche per Pia, come osservava Umberto Bosco, i documenti «tacciono»: e se «non è possibile fabbricare sulla rena di testi extrapoetici» si deve soltanto constatare che Dante non spiega le ragioni per cui Pia fu uccisa, «forse anche perché non le sapeva, semplicemente le sospettava» [130]. Pure per Francesca è possibile sospettare che Dante non conoscesse «la ragione» per cui fece una fine così letterariamente seducente. In lei Teodolinda Barolini ha visto come la "figura" di Dante al punto che il poeta le appare quale doppio della sposa malatestiana: «the male pilgrim faints [...] because he is like», «il pellegrino uomo sviene [...] perché è come Francesca». E Lorenzo Renzi aggiunge che Dante avrebbe potuto gridare alla Flaubert: «Francesca c'est moi!» [131].
Secondo Franco Ferrucci quella di Francesca è «una vicenda nella quale Dante proietta tanto di sé e della sua storia intellettuale oltre che sentimentale» [132]. Se il poeta non conosceva «la ragione» del duplice omicidio, poi Boccaccio l'ha costruita, con «una personale, molto boccacciana, versione cortese dei fatti» [133], chiudendo perfettamente il cerchio dell'invenzione poetica. La quale si alimenta delle sue stesse creature, fingendo di sottrarle pietosamente all'orrore autoptico del giudizio della storia, ma in realtà per tutelare soltanto se stessa. Come l'antico dio greco Crono che mangiava i figli appena nati nel timore d'essere da loro evirato.
Lo Sciancato aveva i suoi buoni motivi per odiare il Bello. Il primogenito Giovanni per invidia avrebbe potuto progettare l'eliminazione fisica del fratello minore Paolo, stimato protagonista della scena nazionale come attesta l'incarico fiorentino affidatogli dal papa. In questo caso, la tresca amorosa sarebbe stata soltanto una messinscena diabolica, un alibi che avrebbe travolto pure l'innocenza di sua moglie. Quanto accade fra Giovanni e Paolo si ripeterà con i loro eredi. Il figlio di Giovanni, Ramberto, il 21 gennaio 1323 uccide a Ciola il cugino Uberto jr. figlio di Paolo e di Orabile Beatrice. Uberto jr. era stato ghibellino, poi guelfo ed ancora ghibellino. A sua volta Ramberto è ucciso a Poggio Berni il 28 gennaio 1330 dai parenti di Rimini, come punizione di un suo tentativo di conquistare la città.
La mancanza di testimonianze sul delitto è più compatibile con un fatto politico piuttosto che passionale. Dal 1295 i Malatesti hanno il potere a Rimini. Chi comanda controlla i documenti meglio delle situazioni concrete. Il silenzio calato sulla vicenda avrebbe oscurato un episodio compromettente per la buona fama dei signori della città, ed allontanato un marchio d'infamia rispetto all'autorità religiosa e temporale della Chiesa. Quando compone il canto quinto dell'Inferno Dante è lontano dalla Romagna [134]. Ma vi è già stato, come si è visto, nel 1302 [135]. A Ravenna giunge (forse [136]) soltanto nel 1318 restandovi sino alla morte (1321). Potrebbe aver appreso della vicenda, od approfondito la sua conoscenza, secondo la «suggestiva» ipotesi avanzata da Ignazio Baldelli, nei primi anni dell'esilio in Casentino nell'ambiente in cui vivevano due donne che abbiamo già incontrate: Margherita (figlia di Paolo Malatesti e moglie di Oberto Guidi da Romena) e Caterina Fantolini figlia della seconda moglie di Gianciotto nonché sposa di Alessandro Guidi da Romena, zio di Oberto [137].
Se non se ne fosse occupato il poeta della Commedia, oggi nessuno si ricorderebbe della vicenda di Paolo e Francesca, «avvertita da Dante come un fatto non di cronaca privata» ma di una «vicissitudine pubblica» [138]. La memoria universale non significa una conseguente verità della narrazione tramandata sotto la specie della poesia. Nulla permette di far luce circa i misteri sulla morte dei due cognati. Ma le ragioni della poesia (già difese un secolo fa, proprio per Dante, da Renato Serra [139]) procedono separatamente dalle istanze della Storia. La sfera perfetta della poesia può alimentarsi degli orrori e degli errori della cronaca. Tutta la Commedia ne è dimostrazione continua. La verità della poesia sta soltanto in essa stessa. Come sostengono gli studi più recenti che ritengono «letterari» i moventi di questa storia d'adulterio, facendo giocare a Francesca il ruolo di «peccatrice perché letterata». Con lei Dante rappresenterebbe il proprio «abbandono degli errori giovanili, del mondo dell'amore terreno e della sua poesia (lo Stil novo)» [140].

117 PARI, La signoria di Malatesta da Verucchio cit., p. 9.
118 GORNI, Dante cit., pp. 246-247. La prima notizia in tal senso è in F. TORRACA, Il canto V dell'Inferno, in «Nuova Antologia», 1 e 16.VII.1902, p. 433.
119 Cfr. Marco Battagli (1343): «Paulus autem fuit mortuus per fratrem suum Johannem Zottum causa luxuriam», in PARI, Francesca da Rimini nei commentatori danteschi del Trecento, ne Le donne di Casa Malatesti (Storia delle Signorie dei Malatesti, XIX, 1), Rimini 2005, p. 100.
120 La leggenda romanzesca del Boccaccio è il titolo di uno scritto di G. BILLANOVICH apparso in «Studi Danteschi», 28 (1949), pp. 45-144. Boccaccio è «un ingenuo appassionato, ma non un falsario» (COGLIEVINA, La leggenda sui passi dell'esule cit., p. 67). Secondo I. BALDELLI, Dante e Francesca, Firenze 1999, pp. 31-33, il racconto fatto da Boccaccio «dell'amore e della morte di Francesca e Paolo» è «vero», perché offre «particolari che Dante non conobbe, o non utilizzò, perché ritenuti non essenziali». Boccaccio fu presso Ostasio da Polenta tra il 1345 e il 1346, alla corte di Francesco Ordelaffi da Forlì nel 1347-1348 ed «ancora ambasciatore in Romagna» nel 1350.
121 L. RENZI, Le conseguenze di un bacio, Bologna 2007, pp. 269-270.
122 Ibidem, p. 279.
123 BALDELLI, Dante e Francesca cit., p. 36, parla del 1285.
124 Cfr. supra nota 15.
125 BALDELLI, Dante e Francesca cit., pp. 26-27; BONOLI, Storia di Forlì cit., p. 262.
126 Cfr. infra nota 137.
127 Cfr. il cit. Pg., 6, 124-125.
128 Esiste un perfetto sistema di simmetrie all'interno della Commedia, sul quale diamo brevi cenni esemplificativi. Sommando il numero dei canti (67) di Inferno e Purgatorio, e dividendolo per due, il mezzo si trova in Inf. 34, 69: «è da partir, ché tutto avem veduto», dove si conclude il percorso infernale per ritornare «a riveder le stelle» (Inf 34, 139). «Partire» allegoricamente significa «dividere»: il v. 69 separa tra loro i primi due regni, collocati in un orizzonte 'terrestre'. Da Inf. 1, 1 ad Inf. 34, 69, c'è simmetria tra il secondo verso dell'inizio, con la «selva oscura» (Inf. 1, 2), ed il penultimo della fine, con «la notte» che «risurge» (Inf. 34, 68). A metà di tutta la prima cantica, c'è il c. 18 che dà inizio alla seconda parte (le dieci Malebolge). In Purgatorio la metà è a 17, 70, dove inizia la spiegazione virgiliana dell'ordinamento morale del "luogo" (vv. 70-72).
129 P. BOITANI, Letteratura europea e Medioevo volgare, Bologna 2007, p. 55.
130 BOSCO, Introduzione al c. V, p. 79 in ALIGHIERI, La D. C., con pagine critiche. Purgatorio, II, Firenze 1988.
131 RENZI, Le conseguenze di un bacio cit., p. 174. Sulle consonanze fra l'episodio di Francesca e la storia di Emma Bovary, con la sua educazione 'libresca', il suo cadere «in preda alla letteratura», al punto di diventare «una Francesca del XIX secolo», cfr. BOITANI, Letteratura europea e Medioevo volgare cit., pp. 74-75.
132 F. FERRUCCI, Dante. Lo stupore e l'ordine, Napoli 2007, p. 251.
133 RENZI, Le conseguenze di un bacio cit., p. 110. «Una storia simile a quella della novellina di Boccaccio si trova nelle chiose del cosiddetto Falso Boccaccio, scritte nel 1375» (ibidem, p. 115).
134 «Soprattutto per carità di patria [...] Giovanni Pascoli opinava che tutta quanta la Commedia fosse stata composta in Romagna...» (GORNI, Dante cit., pp. 297-298). Sugli studi "romagnoli" della Commedia, cfr. la bibliografia in VASINA, Dante e la Romagna cit., pp. 315-316, e gli aggiornamenti in GORNI, Dante cit., passim (qui a p. 298 si legge che su certe vaste indagini «il tacere è bello»).
135 Secondo Flavio Biondo, Dante è in Romagna nel 1303 e nel 1310 (BATTISTINI, L'estremo approdo cit., pp. 164-165). BARBI, Sulla dimora di Dante a Forlì, in «Bullettino della Società Dantesca», I, 8, 1892, pp. 7 segg., ripropone il 1303 (cfr. VALLONE, Gli studi danteschi cit., p. 88). Si veda pure BARBI, Studi danteschi, Firenze 1934, passim.
136 «Molti i dubbi e le questioni irrisolte [...]. Non si può dire neppure quando cominciò, per Dante, il periodo ravennate del suo esilio» (GORNI, Dante cit., p. 296). «Una cosa è certa: tutto concorre a far credere che l'esule a Ravenna si trovasse bene, circondato dalla stima di giovani ingegni raccolti attorno a lui» (ibidem, p. 298).
137 BALDELLI, Dante e Francesca cit., pp. 26-28.
138 PETROCCHI, Vita di Dante cit., p. 132.
139 R. SERRA, Su la pena dei dissipatori in Scritti a c. di G. De ROBERTIS e A. GRILLI, Firenze 1958, p. 7.
140 RENZI, Le conseguenze di un bacio cit., pp. 7-8.

VI. RAVENNA TRA ORIENTE ED OCCIDENTE

In ogni cantica della Commedia Dante fa la «singularis mentio» (come scrive Benvenuto da Imola) «de terra alumna et benefactrice sua», quella Ravenna «nobilis civitas» che è pure «madida sanguine martyrum» e luogo dove Cesare «moram traxit, dum pararet invadere romanum imperium» [141]. Agli occhi del poeta, Ravenna sintetizza la storia dell'Italia, dell'impero e della Chiesa. Il mare su cui si affaccia la pineta di Classe (Pg. 28, 20) è lo stesso percorso dal «sacrosanto segno» dell'aquila di Giustiniano (Pd. 6, 32), che unisce Oriente ed Occidente. Giustiniano è protagonista del sesto canto del Paradiso, in cui il potere politico è esaltato quale strumento non della violenza di parte ma del primato della legge. Nel 554 d. C. con la Prammatica sanzione, il Corpus Iuris Civilis di Giustiniano era stato esteso all'Italia. Al Corpus si riferisce lo stesso imperatore quando spiega: per volere dello Spirito Santo «d'entro le leggi trassi il troppo e il vano» (Pd. 6, 11-12). Il dramma di Dante esule si rispecchia in questa pagina che completa l'itinerario simmetrico dei sesti canti della Commedia. Giustiniano parlando dell'impero rievoca le lotte tra guelfi e ghibellini (Pd. 6, 103-108). Da esse Dante è partito nell'Inferno con la figura tutta fiorentina di Ciacco («Dopo lunga tencione / [...] la parte selvaggia / caccerà l'altra con molta offensione», 6, 64-66). E ad esse è tornato nel Purgatorio con Sordello e la sua invettiva: «Ahi serva Italia, di dolore ostello...» (6, 76).
Ravenna, l'immagine di Giustiniano a San Vitale (che Dante poté ammirare), la storia della città nel passato bizantino quando divenne «la più importante» d'Italia [142], e nel presente di una crisi che oggi diremmo globale, permettono al poeta di allargare il senso particolare delle sue vicende ai significati generali della Commedia. La pineta di Classe rimanda per contrasto alla «selva oscura» iniziale (Inf. 1, 2). Ed il lido ravennate offre la suggestione per un'analogia con l'«alto mare aperto» su cui naviga Ulisse, «controfigura di Dante» [143].
Nella sua «orazion picciola» Ulisse offre all'umanità una lezione nuova: «fatti non foste a viver come bruti...». Insegna che la nostra dignità sta nel «seguir virtute e canoscenza», anche se ciò può costarci il naufragio (Inf. 26, 90-142). Ma è in quel naufragio che si salva l'uomo. L'uomo di ogni tempo, e non soltanto quello del tempo e delle pagine di Dante.
La conoscenza di cui parla Ulisse, è «esclusivamente umana: senza, ma non contro, un Dio che in ogni caso egli non conosce» [144]. Il «manifesto pre-umanistico» [145] della sua «orazion picciola» (Inf. 26, 122) sembra trovare espressione nel «rematore» della cappella dei pianeti del tempio malatestiano di Rimini[146]. I due isolotti rimandano alle colonne d'Ercole. I venti ricordano il «turbo» che affonda la «compagna picciola [147]» (Inf. 26, 101-102).
Alla corte di Rimini nel 1441 prima della edificazione del tempio, era giunto Ciriaco de Pizzecolli d'Ancona (1390-1455). Ben conosciuto come un «lettore di Dante», Ciriaco per testimoniare la sua ansia di sapere amava «presentarsi nei panni d'Ulisse» [148]

141 BATTISTINI, L'estremo approdo cit., p. 155: Ravenna è «protagonista assoluta di un climax» che parte da Inf. 27, 40-42, passa a Pg. 14, 98, 107, ed abbraccia infine «l'istituto universalistico dell'impero» in Pd. 6, 61.
142 A. CARILE, Dal V all'VIII secolo, in Storia della Emilia Romagna, I, Bologna 1975, pp. 342-343.
143 BOITANI, Letteratura europea e Medioevo volgare cit., p. 239: Ulisse è pure «segno di una cultura medievale in crisi».
144 Ibidem, pp. 298-299.
145 FERRUCCI, Dante. Lo stupore e l'ordine cit., p. 205. Una diversa lettura della figura di Ulisse è in BOITANI, L'ombra di Ulisse, Bologna 1992, p. 52: «col suo naufragio, la magnanimità, la curiosità, la sapienza antica e pagana, tutte cadono nell'abisso». Ma si veda pure in G. LEDDA, Dante Alighieri in Dalle origini al Cinquecento. La letteratura italiana diretta da Ezio Raimondi, Milano 2007, pp. 86-87. Ibidem, pp. 87-92, segnaliamo il paragrafo dedicato a «Politica e poesia».
146 MONTANARI, Sigismondo, filosofo umanista cit., pp. 324-329.
147 Il doppio uso di questo aggettivo risponde ad un preciso intento retorico, contrapponendosi a ciò che appare privo di limite, rispettivamente l'«alto mare aperto» (v. 100) per la «compagna» ed il «folle volo» (v. 125) per l'«orazion». Anche nel caso di Ulisse, la parola è «rivelazione» di una «persona», divenendo una «significazione» iscritta nella morale: cfr. RAIMONDI, Il volto delle parole, Bologna 1988, pp. 10-11. La stessa contrapposizione fra piccolo ed infinito, troviamo espressa nell'immagine del «rematore» malatestiano. Il che potrebbe considerarsi un indizio a favore della nostra ipotesi che in quel «rematore» sia raffigurato Ulisse.
148 Cfr. E. GARIN, La letteratura degli umanisti, in Storia della Letteratura Italiana. III. Il Quattrocento e l'Ariosto, Milano 1966, p. 98.

Antonio Montanari


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