il Rimino Riministoria 2007
Perlasca di Romagna

I trentanove ebrei che Ezio Giorgetti ospitò nel suo albergo a Bellaria dopo l'armistizio dell'8 settembre 1943, riuscirono a salvarsi grazie a carte d'identità fornite loro da Virgilio Sacchini (1899-1994).
La vicenda ci è rivelata per la prima volta dalla dottoressa Patrizia Sacchini D'Augusta, nipote di Virgilio. Suo nonno in quei giorni era Commissario Prefettizio del Comune di Savignano sul Rubicone: «Era fascista, ma era anche un uomo buono ed estremamente generoso (con la sua Industria di Legnami e Imballaggi, prima che gli eventi bellici la distruggessero, aveva dato lavoro a tanti Savignanesi ed era un padrone che rispettava profondamente gli operai) ed è per questo che né lui né gli altri membri della sua famiglia furono oggetto di ritorsioni da parte dei partigiani del luogo».
Virgilio Sacchini mise al corrente del suo intervento a favore degli ebrei 'bellariesi' soltanto il proprio figlio Marino.
Ascoltiamo ancora la dottoressa Patrizia Sacchini: «La storia mi è stata raccontata diversi anni fa da mio padre, Marino Sacchini, prendendo spunto da un articolo comparso sul Corriere di Rimini (29/09/1994). Alla fine della guerra mio nonno, Virgilio Sacchini, nato a Savignano sul Rubicone il 26 dicembre 1899, Cavaliere della Corona D’Italia, confidò a mio padre di avere aiutato quel gruppo di ebrei, nel 1943, a fuggire e a raggiungere il Meridione. Si diceva felice che tutto avesse avuto termine, poiché aveva messo a repentaglio, con il suo gesto, la sicurezza della sua famiglia».
Prosegue la dottoressa Sacchini: «Ezio Giorgetti (che, attraverso un amico comune, il Sig.Bertozzi, conosceva mio nonno) ottenne da mio nonno le famose carte d’identità in bianco che nel recente articolo pubblicato dal Corriere di Rimini in data 22/01/2007 risulterebbero essere state fornite dal Segretario Comunale di San Mauro Pascoli, Sig. Alfredo Giovanetti. Le carte d’identità appartenevano al Comune di Savignano sul Rubicone e mio nonno, pur correndo un serio pericolo, per il ruolo che ricopriva, non esitò a metterle a disposizione del gruppo di ebrei. Non so se questo fatto fosse noto al Maresciallo Carugno, al Sig.Giovannetti e a Don Emilio Pasolini, immagino che mio nonno avesse chiesto e ottenuto la garanzia del riserbo assoluto attorno al suo gesto. Mi fa immenso piacere offrire questo piccolo contributo alla vostra ricerca. Ricordo mio nonno sempre con tanto affetto e, da convinta antifascista, lo ringrazio di aver contribuito alla salvezza di quel piccolo gruppo di ebrei».
A parlare di carte d'identità fornite ad Ezio Giogetti da Alfredo Giovanetti fu la moglie dello stesso Giorgetti, Lidia Maioli nel volume curato da Bruno Ghigi nel 1980, «La guerra a Rimini», pag. 321.


ARCHIVIO

Nazisti, fascisti ed Ebrei
a Rimini nella seconda guerra mondiale

«Solo oggi possiamo ricostruire l'ultima parte del suo viaggio...». In poche pagine, tese nella narrazione lucida e commossa ad un tempo, Rodolfo Francesconi ripercorre una di quelle storie a cui ci ha abituato da qualche anno, con pagine che hanno il respiro sicuro del racconto breve, e l'intensità del dramma collettivo, di un'intera generazione, al tempo dell'ultima guerra mondiale.
Dopo «Quello che butta il mare» (ed il recente «Grilli per la testa»), Francesconi si ripropone con un episodio da cui prende spunto la sua pagina, tutta intrisa dell'impegno civile del ritessere il passato, cercando i fili perduti per colpa del tempo che trascorre, ricostruendo dal pozzo della memoria gli scenari monchi, i paesaggi feriti e soprattutto i terribili dolori della storia, degli orrori che ogni conflitto armato semina, tra le vicende individuali e collettive.
Siamo nella Val Marecchia del 1944, con gli scontri tra partigiani e tedeschi. Sullo sfondo, una popolazione che si rintana dolente e terrorizzata. «Era primavera...». Un ragazzo di 12 anni, con i suoi pantaloncini corti e quella carta d'identità («che tutti, allora dovevano portare sempre con sé, anche se giovani») nascosta in tasca, è curioso. Vuole vedere, e s'avvicina nella piazza del paese a quegli autocarri nazisti «carichi di morti e di feriti».
Nessuno sembra accorgersi di lui, tranne un soldato che sporge dal telone posteriore di un camion, con una mano dalla quale tende «una borraccia seguita da una voce lamentosa che chiedeva "Wasser!"», acqua. Caritatevolmente, il ragazzo afferra la borraccia, corre alla fontana, mentre il veicolo si avvia: «Un altro braccio improvvisamente si sporge dal camion, agguanta per i polsi il fanciullo con borraccia e tutto e lo issa di peso dentro l'automezzo...», sotto gli occhi del padre e della madre.
Invano il ragazzo tenta di liberarsi. Il suo destino è ormai segnato da quella borraccia. Non ritornerà più a casa, «scambiato probabilmente per una staffetta partigiana o comunque uno scampato a una strage e perciò nemico e da trattenere...».
«Solo oggi», conclude l'autore, il suo destino è stato ricostruito perché «il nome, puntigliosamente, figura ancora in due elenchi: quello di un carico arrivato ad Auschwitz e, quello più terribile, di un gruppo di prigionieri avviati alla camera a gas».
Di qui, il titolo «Conservazione di una storia», ricostruita ora grazie a quegli elenchi, ma riproposta anche (ecco il doppio significato dell'espressione), per non dimenticare. (Il volumetto è stato edito a Riccione nella collana «La sfera celeste», diretta da Orio Rossetti).
Ci è capitato di leggere queste pagine a metà febbraio, quando sui giornali nazionali e locali si è parlato di una vicenda forlivese del 1944: «Un hotel sulla via di Auschwitz», ha intitolato «La Stampa». In breve: all'allora albergo Commercio in corso Diaz, fu allestito un «campo di concentramento degli ebrei» della nostra provincia. Non si sa quante persone vi siano state segregate. Si sa però, grazie alle ricerche storiche di Paola Saiani (edite dall'Istituto storico provinciale della Resistenza nel «Bollettino 1990»), che a Forlì furono compiuti due eccidi finora restati sconosciuti: il 5 settembre (30 vittime, 26 identificate, di cui 10 ebree), ed il 17 settembre (7 donne ebree uccise: erano le madri, mogli e sorelle delle vittime precedenti). Spararono le Ss tedesche, i repubblichini vigilavano attorno. Gli uccisi erano italiani e stranieri, tutti arrestati nella provincia e tutti trasferiti a Forlì, in quel tragico «hotel sulla via di Auschwitz».
Una testimone di quegli orrori, fu suor Pierina Silvetti che nel '44 era assistente al reclusorio femminile del capoluogo, e che ricordò i fatti in un diario pubblicato l'anno scorso dal periodico forlivese «Una città». Suor Pierina (oggi ultraottantenne) annotò: «Credevamo davvero che le donne sarebbero state risparmiate, perché un ufficiale delle Ss ci aveva assicurato che le avrebbero rimpatriate. (...) Poche ore dopo sapemmo la terribile verità, erano state fucilate» alle Casermette, in aperta campagna.
Nella primavera del '45, suor Pierina fu portata dal Comando alleato a riconoscere qui corpi che «giacevano decomposti l'uno accanto all'altro, tutti portavano i fori dei proiettili alle gambe e alla testa».
Sulla vicenda, giovedì 13 febbraio, con la partecipazione di numerosi studiosi, si è tenuta a Forlì, una «Giornata di ricordo, di riparazione, di riflessione». Appunto, per "conservare la storia", come ha ben detto Rodolfo Francesconi nel titolo del suo racconto.
(Sui precedenti lavori di Francesconi, vedi «Il Ponte» del 23. 9. 90 e del 22. 12. 91).
Quest'articolo è stato pubblicato su «Il Ponte» XVII, 11, 15.03.1992.

Da «Rimini ieri. Dalla caduta del fascismo alla Repubblica, 1943-1946» di Antonio Montanari, ed. Il Ponte, Rimini 1989, pp. 94-95 riproduco questo brano:

La storia che segue ha per protagonisti 39 ebrei, arrivati a Bellaria nell'albergo di Ezio Giorgetti dopo l'armistizio. Sono donne, uomini e bambini, originari della Germania, dell'Austria, dell'Jugoslavia e della Polonia, fuggiti l'11 settembre da un campo d'internamento veneto. Li ha mandati da Giorgetti una sua vecchia cliente, una contessa che da Asolo, dove abitava, aveva organizzato il viaggio di quel gruppo in camion fino alla Romagna.
«Arrivarono con una lettera di presentazione che li qualificava come 'profughi stranieri'. Li accolsi», testimoniò Giorgetti in un'intervista: «Solo dopo qualche giorno, visti vani tutti i loro tentativi di noleggiare una barca da pesca e di allontanarsi via mare, ci dichiararono di essere ebrei e di rimettersi nelle mie mani».
Chiedono un'ospitalità che per i padroni di casa significa rischio della vita. Solo una decina hanno i soldi per pagarsi la retta-sfollati. Giorgetti e la moglie, Lidia Maioli, li accolgono, li aiutano, ricorrendo per consiglio ed appoggio anche al maresciallo dei Carabinieri di Bellaria, Osman Carugno; al segretario comunale di San Mauro, Alfredo Giovannetti; al vescovo di Rimini, monsignor Vincenzo Scozzoli e don Emilio Pasolini.
Uno degli scampati, Leopold Studeny, definì Carugno «il nostro protettore in tutti i momenti». Giovanetti fornisce carte d'identità in bianco che sono intestate a nomi falsi. Come falsi sono i timbri apposti sui documenti: riproducono lo stemma del Comune di Barletta, che era stato occupato dagli alleati. Quei timbri li ha lavorati un incisore di Rimini, Pietro Angelini. Don Pasolini procura materassi, coperte, biancheria e pane biscottato preparato dalle suore Maestre Pie.
Dopo due mesi, all'albergo di Giorgetti arrivano i nazisti. Gli ebrei sono trasferiti di notte ad Igea Marina, alla pensione Esperia. Pure lì giungono i tedeschi. Altro spostamento alla tenuta Torlonia di Cagnona di Bellaria. E di qui, nel dicembre 1943, per un'altra requisizione nazista, i profughi scappano alla pensione Italia di Gino Petrucci, dove sono presentati come «italiani all'estero» sfollati all'ultimo momento.
Gli alleati s'avvicinano, ma i sospetti di fascisti e nazisti aumentano. Gli ebrei, su consiglio di Carugno, decidono di inoltrarsi verso l'interno, a Madonna di Pugliano (Pesaro).
Nel settembre 1944, ad un anno dall'inizio della loro odissea, sono liberati dagli alleati, e trasferiti a Roma, dove rimangono sino al 2 giugno 1945, quando sono portati all'Ufficio trasporti di Riccione.
Carugno e Giorgetti saranno definiti in Israele «Giusti fra le genti».
«Polizia e carabinieri, nella nostra zona (da Viserba a Torre Pedrera) non si sono mai affannati per collaborare con gli occupanti», dice Guido Nozzoli, ricostruendo i momenti della clandestinità: «Per esempio, la squadra politica del Commissariato, come potemmo accertare dopo la Liberazione, aveva localizzato» un recapito dei Gap nei pressi di Torre Pedrera, «ma non venne mai a bussare a quella porta e non trasmise l'informazione né alla gendarmeria tedesca né alla sede del fascio. Neppure i Carabinieri, a cui era affidato il compito di reperire disertori e renitenti alla leva... se la son presa troppo calda».
Antonio Montanari

Ezio Giorgetti, lo Schindler di Bellaria
Fu aiutato dal vescovo Scozzoli e dal maresciallo Osman Carugno

Il 9 aprile 2002 Ezio Giorgetti di Bellaria fu ricordato a Washington assieme ad Oskar Schindler in una cerimonia organizzata dall'United States Holocaust Memorial Museum, in onore di quanti si adoprarono nel salvataggio di Ebrei dalle persecuzioni antisemite durante il secondo conflitto mondiale. Lo scorso 27 gennaio, «Giornata della Memoria» (in tale data nel 1945 furono aperti dall’Armata rossa i cancelli di Auschwitz), la figura di Giorgetti è stata commemorata a Bellaria nel parco del Gelso con la posa a dimora di un olivo e l'inaugurazione una lapide a lui dedicata.
La vicenda di Ezio Giorgetti (come già scrissi in «Rimini ieri, 1943-1946», Il Ponte 1989, pp. 94-95), ha per protagonisti 39 Ebrei, arrivati a Bellaria dopo l'armistizio nell'albergo Savoia gestito da suo padre, Giovanni. Sono donne, uomini e bambini, originari della Germania, dell'Austria, dell'Jugoslavia e della Polonia, fuggiti l'11 settembre da un campo d'internamento veneto. Li ha mandati da Giovanni Giorgetti una sua vecchia cliente, la contessa Clara Fieda che da Asolo, dove abitava, aveva organizzato il viaggio di quel gruppo in camion fino alla Romagna.

«Profughi
stranieri»
«Arrivarono con una lettera di presentazione che li qualificava come 'profughi stranieri'. Li accolsi», testimoniò Ezio Giorgetti: «Solo dopo qualche giorno, visti vani tutti i loro tentativi di noleggiare una barca da pesca e di allontanarsi via mare, ci dichiararono di essere Ebrei e di rimettersi nelle mie mani». Chiedono un'ospitalità che per i padroni di casa significa rischio della vita. Solo una decina hanno i soldi per pagarsi la retta-sfollati. Giorgetti e la moglie, Lidia Maioli, li accolgono, li aiutano, ricorrendo per consiglio ed appoggio anche al maresciallo dei Carabinieri di Bellaria, Osman Carugno; al segretario comunale di San Mauro, Alfredo Giovannetti; al vescovo di Rimini, monsignor Vincenzo Scozzoli e a don Emilio Pasolini.
Uno degli scampati, Leopold Studeny, definì Carugno «il nostro protettore in tutti i momenti». Giovanetti fornisce carte d'identità in bianco che sono intestate a nomi falsi. Come falsi sono i timbri apposti sui documenti: riproducono lo stemma del Comune di Barletta, che era stato occupato dagli Alleati. Quei timbri li ha lavorati un incisore di Rimini, Pietro Angelini. Don Pasolini procura materassi, coperte, biancheria e pane biscottato preparato dalle suore Maestre Pie.

L’arrivo
dei nazisti
Dopo due mesi, all'albergo di Giorgetti arrivano i nazisti. Gli Ebrei sono trasferiti di notte ad Igea Marina, alla pensione Esperia. Pure lì giungono i tedeschi. Altro spostamento alla tenuta Torlonia di Cagnona di Bellaria. E di qui, nel dicembre 1943, per un'altra requisizione nazista, i profughi scappano alla pensione Italia di Gino Petrucci, dove sono presentati come «italiani all'estero» sfollati all'ultimo momento. Gli Alleati s'avvicinano, ma i sospetti di fascisti e nazisti aumentano. Gli Ebrei, su consiglio di Carugno, decidono di inoltrarsi verso l'interno, a Madonna di Pugliano (Pesaro). Nel settembre 1944, ad un anno dall'inizio della loro odissea, sono liberati dagli Alleati, e trasferiti a Roma, dove rimangono sino al 2 giugno 1945, quando sono portati all'Ufficio trasporti di Riccione.

La nomina
a «Giusto»
Giorgetti nel 1964 e Carugno nel 1985 sono definiti in Israele «Giusti fra le genti». Questo riconoscimento, istituito nel 1963, è andato a 295 italiani sulle 17.433 persone di tutto il mondo che lo hanno ricevuto. I loro nomi compaiono sul Muro dell'Onore, nel Giardino dei Giusti della fondazione Yad Vashem, a Gerusalemme (<www.Deportazione.too.it>). Yad Vashem, letteralmente «nome perpetuo» (cfr. Isaia 56, 5), è nata nel 1953 per il riconoscimento e la commemorazione di martiri ed eroi dell'Olocausto.
Dopo la nomina a «Giusto», a Giorgetti fu attribuita la cittadinanza onoraria di Givhat-Samuel , con una motivazione in cui tra l’altro si diceva: «I sentimenti di debito, ammirazione e ringraziamento, provenienti dai cuori di quelli che sono sopravvissuti e costruirono il loro paese, mercé il suo intervento, sono testimoni al suo aiuto».

La storia
di una lettera
Mario Foschi ha scritto (in «Tin bota. I giorni della guerra», 1996, pp. 104-105) che a Bellaria la gente sapeva della presenza di quegli Ebrei. Il farmacista Giuseppe Olivi «nell'esercizio della professione instaura un rapporto di reciproca stima» con gli ospiti, ed in particolare «con l'avvocato Ziga Neumann, capo spirituale del gruppo, diverse volte ospitato in famiglia». Ad Olivi, Ziga Neumann lascia una lettera ritrovata in cassaforte dalla figlia del farmacista, Laura, alla morte del padre nel 1983. (Ziga Neumann aveva fatto visita a Bellaria nel 1966.) Dieci anni dopo Laura Olivi vola in Israele con un gruppo di turisti affidati ad un accompagnatore che aveva combattuto in Italia con gli inglesi. A lui, Laura Olivi legge la lettera. L'israeliano scopre che è stata scritta da un parente di sua moglie.
Come ha riferito Elisabetta Santandrea («La Città», Bellaria maggio 2002, <www.comune.bellaria-igea-marina.rn.it/lacitta/articoli/a6.htm>), Ziga Neumann era stato catturato dai tedeschi nel 1941 a Zagabria, ed internato in un vicino campo di concentramento da cui fuggì con la moglie, la figlia Maia e il genero Josef Konforti. Insieme ripararono a Spalato, sulla costa dalmata e da lì, il primo agosto 1941, furono inviati con altri rifugiati ad Asolo. Ziga Neumann nel 1963 dichiarò davanti a notaio che Ezio Giorgetti «diede prova d'essere persona di carattere nobile, altruista e d'orientamento sociale e politico di stampo liberale. Divenimmo veri amici. Ezio si preoccupò di tutto: viveri e sicurezza».
Tra quanti fecero «tacitamente barriera di protezione», annota Foschi, in prima linea ci fu il maresciallo Osman Carugno che successivamente operò a Rimini. A proposito del comportamento della forza pubblica in quei giorni, Guido Nozzoli disse a Bruno Ghigi: «Polizia e carabinieri, nella nostra zona (da Viserba a Torre Pedrera) non si sono mai affannati per collaborare con gli occupanti. Per esempio, la squadra politica del Commissariato, come potemmo accertare dopo la Liberazione, aveva localizzato» un recapito dei Gap nei pressi di Torre Pedrera, «ma non venne mai a bussare a quella porta e non trasmise l'informazione né alla gendarmeria tedesca né alla sede del fascio. Neppure i Carabinieri, a cui era affidato il compito di reperire disertori e renitenti alla leva... se la son presa troppo calda».

Un questore
a Fiume
Sul tema si può raccontare una vicenda geograficamente lontana: è quella di un poliziotto che ha salvato dalle persecuzioni naziste migliaia di famiglie di religione ebraica, Giovanni Palatucci, l'ultimo questore di Fiume, morto a soli 36 anni per mantenere fede ai suoi ideali. Come si legge nel sito della Polizia di Stato (www.poliziadistato.it/pds/primapagina/palatucci), questo funzionario aveva «ottenuto l'incarico di dirigere l'Ufficio stranieri della Questura di Fiume e il suo ruolo gli permise di organizzare una rete di prima assistenza per salvare i perseguitati dalla politica di discriminazione razziale messa in atto dal regime fascista. In realtà come dirigente di quell'ufficio avrebbe dovuto contrastare la fuga degli Ebrei ma riuscì, grazie ad alcuni collaboratori e ad alcuni stratagemmi, a raggirare le leggi razziali e ad aiutarli, pur sapendo di correre un grande rischio». Arrestato dai nazisti, morì nel febbraio del 1945 nel campo di concentramento di Dachau. Palatucci è stato proclamato nel 1990 «Giusto tra le genti». A lui è stato dedicato un libro (Robuffo ed., Roma 2002), i cui diritti d'autore sono stati devoluti al Fondo assistenza del personale della Polizia di Stato. Nel volume sono riportate molte lettere scritte e ricevute dello zio vescovo Monsignore Giuseppe Maria Palatucci, che contribuì all'opera di salvataggio degli Ebrei nella sua diocesi di Campagna, nel Salernitano.
Nella presentazione del card. Camillo Ruini, leggiamo che il 9 aprile 2000 è stato promulgato l'editto per la causa di beatificazione di Giovanni Palatucci. Il quale, come testimoniò la vedova di un brigadiere suo collaboratore, non pensò mai a sé ma sempre agli altri. «Si muoveva freddamente, con coscienza di camminare incontro al proprio sacrificio», ha detto Amos Luzzato, presidente dell'Unione delle Comunità Ebraiche Italiane. «Neanche di fronte alla certezza della propria fine, volle mai abbandonare il suo posto: nonostante le migliaia di vite già salvate, pensava di poterne salvare sempre almeno un'altra», dichiarò Pina Castagnaro, allora residente a Fiume.
Può esistere un legame fra la città di Fiume al tempo di Palatucci e le nostre zone: infatti molti degli Ebrei da lui aiutati a fuggire, dovettero passare lungo le nostre strade, quando erano avviati verso il Sud. Altri invece presero la via del mare.

Tra Gabicce
e Forlì
A Gabicce Mare alcuni Ebrei tra cui Cesare Finzi ed il noto avvocato milanese Cesare Rimini (come questi ricordò nel libro «Una carta in più», 1997), poterono salvarsi grazie a documenti falsi forniti dal segretario di quel Comune, Loris Sgarbi, controfirmati dal podestà Romeo Zoppi, e realizzati con l’apposizione di un timbro del Comando germanico falsificato grazie a Diva Della Santina, una diciottenne che vi lavorava come interprete. Nottetempo, e con l’aiuto del fidanzato (Angelo Schilacci, un tenente siciliano del servizio costiero d’artiglieria), la giovane Diva s’impossessò del timbro e ne fece una copia di piombo nella propria casa, prima di riportare l’originale al Comando nazista. L’episodio ci è ricostruito da Umberto Palmetti, classe 1923, che ne ha scritto anche su fogli locali (www.chiamamicitta.com/Welcome/ser/n260/ebrei.htm, 8.6.1998), e nel libro «Usi costumi memorie» (Rimini 2000, pag. 48).
Il Consiglio comunale di Gabicce Mare nell'aprile 2002, conferì la cittadinanza onoraria a Finzi ed all’avv. Rimini, «per le preziose testimonianze e rievocazioni sulle persecuzioni degli Ebrei dopo le leggi razziali del 1938 e per il legame con la nostra città, in quanto salvati dalla deportazione e dallo sterminio da alcuni cittadini gabiccesi». I quali sono appunto Romeo Zoppi e Loris Sgarbi (defunti), e Diva Della Santina. A loro, nella stessa occasione, fu deliberato un riconoscimento «per l'opera umanitaria svolta».
Il documento falso dell'avvocato Rimini (datato 11-11-1943), riportava il cognome «Ruini». Gli Ebrei, ha scritto Palmetti, furono nascosti nella Villa Antinori, oggi dependance dell'Hotel Venus. Di qui la famiglia Rimini andò a Mondaino.
Di opposto segno è quanto accaduto a Forlì, dove nel 1944 furono compiuti due eccidi: il 5 settembre (30 vittime, 26 identificate, di cui 10 ebree), ed il 17 settembre (7 donne ebree uccise: erano le madri, mogli e sorelle delle vittime precedenti). Spararono le SS tedesche, i repubblichini vigilavano attorno. Gli uccisi erano italiani e stranieri, tutti arrestati nella provincia e tutti trasferiti a Forlì. Una testimone fu suor Pierina Silvetti, assistente al reclusorio femminile, che ricordò i fatti in un diario pubblicato nel 1991 dal periodico forlivese «Una città»: «Credevamo davvero che le donne sarebbero state risparmiate, perché un ufficiale delle SS ci aveva assicurato che le avrebbero rimpatriate» («Il Ponte» 15.3.1992).

Antonio Montanari


ARCHIVIO:

1. Speciale Memoria Ebrei [Diario italiano, Il Rimino 206, anno XV. Febbraio 2013].
2. Storia degli Ebrei a Rimini, 1015-1799.
3. Rimini e gli Ebrei, archivio de "il Ponte".


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© Antonio Montanari. [2566, 04.02.2018]. Mail