"La guerra non cambia niente".
Dolori nella Storia e desiderio della Verità nel '900 letterario italiano


[Conferenza tenuta all'UCIIM di Rimini il 14 novembre 2001]


1. Renato Serra
Quando, la sera dell’11 settembre scorso, nelle nostre case sono entrati, dopo le immagini del terrore, i primi soffocati commenti che ipotizzavano l’inavvertito precipitare verso una nuova guerra, d’istinto ho ripensato alle pagine di uno scrittore nostro conterraneo, all’«Esame di coscienza di un letterato» che Renato Serra pubblicò su «La Voce» del 30 aprile 1915.
La mente riandava subito a quelle parole quasi iniziali: «E’ una così vecchia lezione! La guerra è un fatto, come tanti altri in questo mondo; è enorme, ma è quello solo; accanto agli altri, che sono stati, e che saranno: non vi aggiunge; non vi toglie nulla. Non cambia nulla, assolutamente, nel mondo. Neanche la letteratura».
E poco più avanti: «Sempre lo stesso ritornello: la guerra non cambia niente. Non migliora, non redime, non cancella; per sé sola. Non fa miracoli. Non paga i debiti, non lava i peccati. In questo mondo, che non conosce più la grazia».
Serra, con quella scrittura discreta che Ezio Raimondi, il suo massimo studioso, ha definito un «impegno assoluto di verità», Serra c’introduce direttamente al tema che voglio affrontare: il rapporto tra letteratura, dolore nella Storia, e ricerca della Verità.
Di una Verità che non è ovviamente quella autobiografica appena ricordata nella definizione di Raimondi. Una Verità che quindi non è legata al trascorrere del tempo, ma è eterna per la sua stessa sostanza trascendente che si cala nel divenire.
(Per esaminare il tema di questa conversazione, proporrò soltanto alcuni esempi, evitando ogni discorso generale che corre il rischio, per la sua complessità, di essere alla fine anche generico, e quindi poco utile ad una trattazione sintetica dell’argomento.)
L’inciso di Serra (la guerra «non cambia nulla», «neanche la letteratura»), acquista nelle argomentazioni dell’«Esame di coscienza» un ruolo centrale che interessa per quanto esso significa storicamente: siamo alla vigilia delle «radiose giornate di maggio», dell’intervento italiano, e della nostra «grande guerra».
Siamo nel momento in cui le tensioni ideologiche e le prospettive politiche infiammano anche i letterati.
Un maître-à-penser di allora è Gabriele D’Annunzio. Serra ricorda D’Annunzio come «una espressione simbolica dell’Italia esiliata col cuore sui campi dove si difende un’altra volta la civiltà latina».
Ma sùbito dopo, nell’«Esame», Serra va direttamente al centro del suo problema di critico: il rapporto tra vita e letteratura.
E compila un giudizio sommessamente terribile su D’Annunzio: «In realtà, con tutto il favore delle circostanze e della fortuna, non è poi cresciuto di nulla: non ha fatto niente che sia degno di quell’apparente ingrandimento morale: per una lettera, da Parigi assediata, ricca e rotta magnificamente di colore, quante odi su la resurrezione latina, e frasi e parole odiosamente vecchie e false; come se niente potesse esser cambiato per lui!».
Ancora più severo è il giudizio che, nell’«Esame», leggiamo su Benedetto Croce.
A Serra, Croce «pare impicciolito, allontanato, sequestrato in una acredine di pedagogo fra untuoso e astioso, che si degna di consolare le nostre angosce dall’alto della sua filosofia, sicura che tutto alla fine non è e non può essere, anche in questa guerra, altro che bene e vantaggio e progresso».
Questo «letterato» che s’interroga misurandosi con i miti del suo tempo, costruisce lentamente due distinte ma complementari realtà.
La prima è quella intessuta dei riferimenti, diciamo così, metafisici: quando parla di peccati che non possono essere cancellati in un mondo «che non conosce più la grazia».
E’ la denuncia di un vuoto, della mancanza di qualcosa che non ritroviamo più, ma che ipotizziamo esistere ancora, forse altrove, e che sappiamo però con certezza essere esistito.
C’è qualcosa di sublime in questo passaggio: il mondo «non conosce più la grazia», per cui non possiamo più lavare i nostri peccati.
Sembra che Serra si chieda: perché il messaggio della Croce resta inascoltato, perché è stato oscurato da altre parole che non possono però prenderne il posto; perché l’immanenza ha vinto sulla trascendenza?
Dicevo di una seconda realtà costruita da Serra: è quella che denuda, scarnifica la figura del «letterato»; che lo intravede nella semplicità (e non nell’esaltazione) della sua funzione di scrittore; e che cerca di attribuirgli un compito non di vate o di capopolo, ma di «esaminatore» della coscienza, come Serra stesso si presenta con assoluta originalità in queste pagine.
Un «esaminatore» che utilizza la Filosofia non tanto per costruire illusori sistemi idealistici alla Benedetto Croce, quanto per dibattere i problemi che la realtà propone, appunto con i dolori della Storia, i quali sono le sofferenze comuni ad ogni uomo, dimenticate dalla Storia scritta.
La conclusione a cui Serra approda, unendo la realtà metafisica del mondo che «non conosce più la grazia», e la realtà empirica delle sofferenze dimenticate, è una specie di grido biblico: «Sangue e dolore e travaglio di uomini presi in questo gorgo vasto della guerra. Gorgo che si consuma in sé stesso».
Serra, nel suo ruolo di «esaminatore», non si esclude dal mondo in una torre di solitario pensatore, esaltato dal suo ruolo di «letterato», e noncurante delle miserie comuni. No. Scende nelle strade, lui che poi scenderà in trincea dove la morte misteriosamente lo coglierà il 20 luglio di quello stesso 1915, come fosse un sigillo ad una grandezza già raggiunta, per evitare dispersioni o rimpianti.
Scende nelle strade del mondo, Serra, a scoprire la relatività della politica, le contraddizioni della Storia.
E per fare questo, ricorre ad immagini e parole che hanno una connotazione ed un’origine religiosa: «Crediamo pure, per un momento, che gli oppressi saranno vendicati e gli oppressori saranno abbassati; l’esito finale sarà tutta la giustizia e tutto il maggior bene possibile su questa terra. Ma non c’è bene che paghi le lagrime piante invano, il lamento del ferito che è rimasto solo, il dolore del tormentato di cui nessuno ha avuta notizia, il sangue e lo strazio che ha servito a niente. Il bene degli altri, di quelli che restano, non compensa il male, abbandonato senza rimedio nell’eternità».
Non c’è come un desiderio di purificarsi da questo male del mondo, un male «abbandonato senza rimedio nell’eternità»?
Non c’è come il bisogno di recuperare quello stesso «rimedio», quella «grazia» di cui Serra ha parlato prima?
Il discorso serriano si focalizza sull’«eternità», che non è una categoria letteraria. Essa è bensì un’idea che la Filosofia si palleggia come un oggetto che attira e spaventa, nello stesso tempo.
Dalla trama così ben tessuta della pagina di Serra, vediamo così emergere (quasi in controluce) un disegno segreto ed incompleto, espressione di un’ansia di Verità, irraggiungibile dalle colpe degli uomini senza l’intervento di quella «grazia» che gli uomini stessi sembrano aver cancellato.
La «grazia»: nel momento stesso in cui la si nomina, essa afferma la sua esistenza, e sembra prendere corpo nella conclusione dell’«Esame di coscienza» di Serra, laddove egli scrive: «Tutte le parole sono buone, quando il senso di tutte è uno solo: siamo insieme, aspettando oggi, come saremo nell’andare, domani. Fratelli? Sì, certo».
Davanti a questa dichiarazione (con l’aggiunta: «Mi contento di quello che abbiamo di comune, più forte di tutte le divisioni»), davanti a questo senso di fratellanza che Serra proietta sui propri connazionali, sulle loro divisioni politiche, si potrebbe ipotizzare che Serra avverta la necessità di superare, una volta conclusa la contingenza della guerra, le altre divisioni tra gli uomini dei singoli Stati. Per considerarsi «fratelli» non politicamente, ma secondo il dettato evangelico.

2. Giuseppe Ungaretti
«Fratelli» è anche il titolo di una lirica di Giuseppe Ungaretti, composta nel luglio 1916, e pubblicata nello stesso anno nella raccolta «Il porto sepolto» (ma con titolo diverso: «Soldato»).
«Il porto sepolto» nel 1919 confluisce nell’«Allegria di naufràgi», opera che riassume un’intera stagione non soltanto letteraria ma soprattutto umana, proprio per il legame, vincolante, irrinunciabile, che unisce l’esperienza vissuta e la testimonianza poetica di una generazione la quale si sente umiliata, se non annientata, dalla Storia.
Questo legame tra vita e poesia, ci porta ad accennare ad una radicata convenzione critica che colloca l’opera del giovane Ungaretti nell’atmosfera della «poesia pura».
«Poesia pura» corre il rischio di restare un’etichetta generica e senza senso, se la accettiamo come sinonimo di astrazione o allontanamento della concretezza della realtà.
«Poesia pura» significa, invece, ricerca di una lingua nuova di una «parola nuda», per usare la formula che lo stesso Ungaretti ci offre nella premessa all’«Allegria»: «Ci ripugnava fino alle radici del sangue il Decadentismo», confida Ungaretti in una specie di abiura solenne delle «pompose vuotaggini», dei «vagheggiamenti decorativi e estetizzanti» che avevano caratterizzato i seguaci di quel movimento.
Quanto ai Futuristi, aggiunge Ungaretti, essi «avevano fatte proprie le più assurde illusioni derivate dal Decadentismo, immaginando che dalla guerra e dalla distruzione potesse scaturire qualche forza e qualche dignità».
Filippo Tommaso Marinetti, nel «Manifesto del Futurismo» del 1909, aveva teorizzato la bellezza della lotta, la glorificazione della guerra «sola igiene del mondo», il gesto distruttore dei libertari, unendovi «il disprezzo della donna».
Quindi, per Ungaretti, una poesia nuova deve nascere con una lingua opposta a quella usata da Decadentismo e Futurismo, facendo ricorso appunto alla «parola nuda». L’uso dello strumento linguistico condiziona il contenuto letterario.
La «parola nuda» ha davanti a sé due prospettive concordanti. Quella, per usare frasi dello stesso Ungaretti, degli «scopi non puramente soggettivi e universali». E quella di testimoniare la «spontanea e inquieta immedesimazione nell’essenza cosmica delle cose».
Ungaretti spiega che l’«immedesimazione nell’essenza cosmica delle cose» gli si è rivelata durante la guerra, quando «caos» e «morte» gli hanno fatto riscoprire «solitudine» e «fragilità della sorte umana».
Tocca alla «parola nuda» di rappresentare questa «solitudine» e questa «fragilità della sorte umana», senza vuotaggini e senza pose oratorie.
Tocca alla «parola nuda» compiere quella che Ungaretti chiama una «rivoluzione», frutto di un diverso modo che l’uomo ha nel percepire se stesso, non più come eroe dannunziano o niciano, non più come portavoce e propugnatore della marinettiana «violenza travolgente», ma come «uomo che si sentiva uomo, religiosamente uomo».
L’uomo «presente alla sua fragilità», precisa Ungaretti in «Fratelli».
L’uomo che soffre il «supplizio» ricordato ne «I fiumi», quando non si crede «in armonia». L’uomo che, bagnandosi nell’Isonzo, dopo essersi spogliato dei «panni sudici di guerra», si riconosce «una docile fibra dell’universo».
Come ha scritto Giulio Ferroni, Ungaretti, dopo «lo spaesamento moderno», ritrova «il senso dell’umano e della trascendenza facendolo emergere dal silenzio e dal vuoto»: «la poesia riscopre così la propria sacralità».
Un altro critico, Carlo Ossola, definisce l’«Allegria di naufràgi» come «primo esercizio di “spiegazione” simbolica della vita».
E’ Ungaretti medesimo a dirci, sulla rivista «La Ronda» nel 1922: «Il mistero c’è, è in noi […] e un mistero è il soffio che circola in noi e ci anima».
E proprio la lirica che dà il titolo a «Il porto sepolto», dichiara programmaticamente che della poesia «resta quel nulla d’inesauribile segreto».
I due termini che abbiamo appena incontrato, «mistero» e «segreto», nel linguaggio «puro», «nudo» cioè, di Ungaretti, rimandano ad una ricerca interiore che sembrerebbe chiudersi in se stessa nel momento in cui viene enunciata, in un isolamento sdegnato: ma non è così, perché Ungaretti parla di una «missione» che lui stesso si attribuisce.
«Missione» che egli scopre tra i dolori della guerra, quando «un essere sconvolto» provava «per i suoi simili uno sgomento e un’ansia smisurati e una solidarietà paterna».
In «Vita d’un uomo», la sua “opera omnia” (1969), Ungaretti conclude: «Soltanto la poesia - l’ho imparato terribilmente, lo so - la poesia sola può recuperare l’uomo».
In un articolo del 1930, aveva già sintetizzato il suo cammino: «Oggi il poeta sa e risolutamente afferma che la poesia è testimonianza d’Iddio, anche quando è bestemmia».
«La poesia sola può recuperare l’uomo», dunque proclama Ungaretti.

3. Salvatore Quasimodo
Ma non sempre la poesia riesce ad essere espressa, a causa della situazione storica. Non sempre il canto può superare il rumore delle tragedie collettive, vincere il silenzio dei cuori, rompere le barriere dell’odio.
E’ la lezione di Salvatore Quasimodo, nel bilancio drammatico che fa la sua coscienza, e (con la sua) pure la coscienza di un’altra generazione rispetto a quella di Ungaretti: «Alle fronde dei salici, per voto, / anche le nostre cetre erano appese, oscillavano lievi al triste vento».
Le «fronde dei salici» rimandano ad un passo biblico (salmo 136, 2 e 4): «Ai salici appendemmo le nostre cetre […] E come cantare il canto del Signore in una terra straniera.»
Quasimodo inizia la lirica dei «salici» riprendendo quest’immagine: «E come potevamo noi cantare / con il piede straniero sopra il cuore…».
Non si tratta di una semplice citazione letteraria ‘nascosta’. Quasimodo si era già misurato con la traduzione dei «Lirici greci». Si sentiva discendente di quegli autori, essendo lui nato in Magna Grecia, in provincia di Ragusa, a Modica. Ma egli evita l’operazione erudita. Vuole cogliere l’elemento simbolico di una condizione contingente, ma nello stesso tempo eterna. Ed a niente altro può fare ricorso se non al Libro, al dramma reale e simbolico degli Ebrei esuli in Babilonia.
Il tempo degli eroi non si ripete più, osserva Quasimodo in «Giorno dopo giorno», in cui scrive: «Alzeremo tombe in riva al mare, sui campi dilaniati, / ma non uno dei sarcofaghi che segnano gli eroi».
E’ la tragedia collettiva, la stessa degli Ebrei in terra babilonese, spostata solo in avanti in un tempo in cui «è caduta la pietà, / e la croce gentile ci ha lasciati».
La «croce gentile» non ha abbandonato gli uomini. Gli uomini si sono dimenticati della Croce.
Questo tema ritorna nell’ultima lirica della raccolta del 1947 che ha lo stesso titolo dei versi che ho citato, «Giorno dopo giorno». Si tratta di «Uomo del mio tempo», che le immagini americane dell’11 settembre possono riproporre alla nostra coscienza con la consapevolezza che, nel dolore della Storia, nulla è mai cambiato: «Sei ancora quello della pietra e della fionda, / uomo del mio tempo…».
Uomo che ha la «scienza esatta persuasa allo sterminio», ma è «senza amore, senza Cristo».
Aveva già insegnato Manzoni che, nei momenti della tragedia, Cristo scende dalla Croce, dal «disonor del Golgota», a consolare l’uomo, qualsiasi uomo.
Trasferendoci in tempi più vicini a noi, non possiamo dimenticare la visita di Pio XII a quella Roma bombardata del 1943, che sembrava la proiezione di un nuovo Calvario.
«Giorno dopo giorno» pare offrirsi anche al lettore odierno come il bilancio drammatico della poesia nei confronti della Storia.
Questa lirica illustra il momento culminante della disumanità che noi occidentali, orgogliosi e convinti della superiorità culturale della nostra civiltà, abbiamo realizzato con la «scienza esatta» applicata, ad esempio, ai nostri «fratelli maggiori», agli Ebrei, colpevoli soltanto di non appartenere a quella che, odiosamente e terribilmente, si definì la razza ariana.

4. Eugenio Montale
Permettetemi di ritornare indietro, a prima di questo bilancio conclusivo che leggiamo in Quasimodo. E di soffermarmi, infine, brevemente sopra un’altra composizione di un altro autore.
Tra 1926 e 1939, in due tempi e in due parti distinte, Eugenio Montale compone «Dora Markus» che s’apre con il «mare alto» di Porto Corsini, e si completa con il paesaggio della Carinzia, in una casa dove uno «specchio annerito» racconta «una storia di errori imperturbati».
«Errori» è parola piena di significati nascosti. Che rimanda ad esempio al Petrarca («Canzoniere», I), al suo «giovanile errore» che è un gioco metafisico dell’«errare» verso la Verità. Che denuncia un’ansia di Verità, per uscire dalla condizione in cui si alternano le «vane speranze e ‘l van dolore».
La stessa ansia è quella che Montale proietta in «Dora Markus», dove leggiamo: «distilla / veleno una fede feroce». La fede nazista, come precisò Montale stesso.
Nel contesto del nostro discorso, è utile ricordare che la Dora Markus della seconda parte in realtà è un’altra donna, Gerti, un’ebrea conosciuta da Montale in Toscana, poi ritornata nella Carinzia, regione austriaca confinante con l’Jugoslavia; e che la composizione di Montale è, come ho già detto, completata nel ’39, dopo l’Anschluss, l’annessione dell’Austria compiuta da Hitler nell’anno precedente.
C’è quindi una precisa contestualità storica di incertezze ed inquietudini, a cui fa da contrapposizione la ricerca di un punto fermo, di una certezza che possa sopravvivere ad ogni distruzione fisica: questo sembra indicare la chiusa della lirica, quel «Non si cede / voce, leggenda o destino…», sublime canto illuminato di un’ansia religiosa, che s’oppone alla «fede feroce» di uomini divenuti carnefici perché sprovvisti di quella sete di Verità trascendente che ci salva nei dolori della Storia.

Antonio Montanari

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