Viva la squola. (4)
Per le antiche scale delle nostre scuole
Valturio, obbligo di cravatta, divieto di mangiar panini

La sede delle Magistrali di piazzetta Teatini era la più indegna di tutte le scuole cittadine. Eravamo stati abituati ad un vivere spartano fin dalle Elementari nel Borgo San Giovanni. In prima classe mancava addirittura la ringhiera alla scala. In quarta misero la serratura alla porta perché era stata acquistata una radio mediante la raccolta dei fondi tra noi studenti. In quinta andammo alla De Amicis che sembrava una scuola di lusso. Maestoso l'edificio, controllato da una direttrice che fulminava al solo guardarti. In prima Media frequentammo il bel palazzo di via Brighenti, ma la nostra aula era nel cortile in fondo al corridoio, una specie di dependance ridotta all'osso. Per la seconda e la terza fummo ospitati nel palazzo Buonadrata che allora aveva il cortile (dove adesso si trova una banca). Per entrare nelle aule dovevamo transitare lungo un ballatoio che s'affacciava sullo stesso cortile.
La sede di piazzetta Teatini fu dichiarata inagibile dopo la visita di controllo da parte di un tecnico comunale che si mise a saltare sui pavimenti, facendoli ondeggiare in maniera non so se comica o spaventosa. Gli altri tre anni li trascorremmo in via Tempio Malatestiano, a palazzo Visconti divenuto successivamente sede del Museo comunale e quindi passato alla Biblioteca nei piani superiori dove noi avevamo le nostre aule, finalmente pulite ed ariose.

Al Valturio
con la cravatta
Nel palazzo Gambalunga aveva sede l'istituto Roberto Valturio per ragionieri e geometri presieduto dal prof. Remigio Pian, un personaggio nella vita cittadina al pari di Arduino Olivieri, con la differenza che non è mai finito in un film di Fellini ma ha ricevuto gloria soltanto negli amarcord personali degli studenti ed in quello collettivo della città.
La decisione più memorabile da lui presa, a detta di tutti gli studenti che lo hanno avuto come preside, è diventata un dato ormai classico nella storia pubblica riminese: e riguarda l'obbligo imposto agli allievi d'indossare la cravatta per essere accettati a scuola. Il controllo era suo personale. Il suo ufficio s'affacciava sullo scalone di palazzo Gambalunga. Il preside s'affacciava sull'ufficio e poteva dominare la situazione con la calma fermezza che contraddistingueva ogni sua azione.
Gentiluomo d'antico stampo, di formazione mitteleuropea, portamento naturalmente austero, si esprimeva con abiti solamente scuri quasi da cerimonia. Amante della perfezione e della disciplina, era l'antitesi dell'irruenza giovanile dei suoi studenti. Molti dei quali avrebbero poi rimproverato a quella regola della cravatta obbligatoria, un contenuto classista che essa non aveva per volontà del preside. Ma che finiva inconsapevolmente per essere considerata espressione di una insensibilità verso le condizioni delle famiglie degli alunni, le quali facevano fatica a mettere assieme i soldi per comprare i libri di testo. Figurarsi se riuscivano a pensare anche alle spese ritenute superflue come per quell'ornamento da giorno di festa.

Borghesi
e proletari
In questo contesto la cravatta imposta nel Valturio dal suo preside è stata in molte rivisitazioni del passato un capo d'accusa verso una società borghese che voleva perpetuare i propri riti, continuando ad escludere dalla propria cerchia ben protetta i figli dei proletari. Credo onestamente che Remigio Pian non avesse queste intenzioni, ma che esse potessero essergli attribuite con assoluta tranquillità in maniera retrospettiva appunto nei successivi momenti particolarmente accesi della «contestazione» politica. Quando gli alunni erano già cresciuti e Pian era in pensione, e si guardava al passato con un giudizio inevitabilmente severo e necessariamente provocatorio.
La «disciplina» era una specie di «summa theologica» che ogni preside aveva l'obbligo di imporre per legge, interpretare a suo piacimento e condensare materialmente in disposizioni che ne fossero la realizzazione più adatta secondo il suo modo di vedere. Qualche anno dopo avremmo sentito parlare di presidi che si facevano dare del tu dagli studenti, come nei nostri giorni i superiori usavano con noi che rispondevamo con il lei d'ordinanza, molto meglio del cameratesco voi d'anteguerra.
Il rispetto della «disciplina» imposta si traduceva per gli studenti nel timore d'un basso voto di condotta che poteva anche costare la bocciatura in tutte le materie. Per le autorità scolastiche la «disciplina» era una specie di mito da perpetuare, un misto di preparazione alla vita militare e di regolamento che abituasse pure a quella civile. Fu così che molte persone correttamente fedeli alla loro immagine di Stato o di Società finirono per essere testimonianze di un'archeologia sociale che potremmo definire anche politica.

Un completo
di jeans
Quando frequentavo nella primavera del 1960 la quarta magistrale, comperai nel mitico negozio dei fratelli Sarti che ne furono i primi importatori, un completo di tela di jeans, giacca e calzoni, che feci debuttare in un tranquillo pomeriggio a scuola. Il preside mi vide all'ingresso, mi tenne d'occhio, e durante la ricreazione venne ad accertarsi della mia tenuta nel corridoio vicino alla nostra aula. Impassibile, mi fece un giro attorno guardando con attenzione (soltanto curiosità e nessuno scandalo, immagino) alla stoffa che indossavo. Racconto l'episodio per spiegare che bastava poco per essere messi sotto osservazione e passare per «gioventù bruciata» come si diceva allora ripetendo il titolo di un celebre film del 1955 con James Dean.
Il rispetto della «disciplina» poteva produrre anche decisioni che poi avrebbero arricchito il repertorio degli aneddoti più citati nello stesso Valturio, dove ho insegnato successivamente per tanti anni. Una volta fu imposto il divieto di fumare per un raggio di 400 metri dal corridoio centrale dell'istituto di palazzo Gambalunga. In tal modo finiva sotto la giurisdizione scolastica del Valturio non soltanto la vicina piazza Ferrari ma persino lo stesso Ospedale civile che si trovava nella sede dell'attuale Museo della Città (ex-convento dei Padri Gesuiti). Ovviamente non c'erano preoccupazioni di tipo sanitario sull'uso ed abuso del tabacco, ma esisteva soltanto la necessità di evitare che qualche sconsiderato scavezzacollo potesse gettare la cenere della sigaretta sul pavimento della scuola che doveva restare immacolato e brillare in ogni attimo della giornata. Ed a tal fine fu preso anche un secondo provvedimento che proibiva agli studenti di mangiare panini nei corridoi. Secondo racconti postumi più o meno fantasiosi, si sarebbe affermato in una circolare fatta girare per le classi, che l'operazione dell'addentare e del masticare una qualsiasi merenda avrebbe provocato la caduta di briciole che avrebbero finito con lo sporcare il «sacro suolo della Scuola».

Il bidello
lavativo
Non posso garantire che l'aggettivo «sacro» apparisse veramente nel testo della circolare. Ma posso immaginare che essa nascesse dalle lamentele dei bidelli, uno dei quali era ancora in servizio «ai miei tempi», quando si dimostrava il personaggio più lavativo di questo mondo, avendo a fastidio anche le cose più semplici, come la richiesta di carta igienica per i gabinetti. Garantisco di persona della veridicità dell'episodio (avvenuto nella succursale di via Gallina alla Colonnella nei primi anni Settanta). Uno studente in evidente stato di bisogno corporale, chiede al bidello con una certa premura quanto necessario ad adempiere alle sue necessità fisiologiche. Il bidello anziché soddisfare la richiesta, risponde con una domanda che cercava di appurare che cosa il giovane dovesse fare con la carta igienica. Essa arrivò molto probabilmente in ritardo grazie all'arguzia inquisitoriale del bidello.
Il quale riandando ai suoi tempi, che erano appunto quelli della circolare anti-briciole, mi raccontava che stava tutta la mattina con uno straccio in mano ed appena il preside s'affacciava nella quotidiana ispezione ai piani, lui si metteva a fingere di pulire i muri del corridoio. In apparenza dunque risultava una lucidatura quotidiana di tutte le superfici verticali. In sostanza in un intero anno scolastico, la polvere veniva rimossa dai muri soltanto d'estate con un rito del tutto particolare con strumenti eccezionali: un secchio d'acqua e numerosi stracci bagnati ripetutamente in esso e manovrati con idonei manici di legno conservati nell'apposito magazzino sorvegliato dai funzionari della Provincia.
Quando ci ho insegnato io, molte cose erano cambiate. Ad esempio, nei muri dei gabinetti degli alunni c'erano murales pieni di oscenità. Non si sfottevano più i compagni come accadeva quando eravamo stati studenti noi. Gli oggetti della satira più spietata erano gli stessi insegnanti con frasi spesso irripetibili ma che talora colpivano magnificamente nel segno, come constatavo durante amichevoli sopralluoghi estivi guidato dagli stessi bidelli che si divertivano da matti ad invitarmi a leggerle. Non so se mai a nessuno sia venuto in mente di raccogliere quelle scritte in un'antologia segreta. Mi pento sinceramente di non averlo fatto. Racconterebbero la rivoluzione culturale della scuola italiana con l'evidenza stessa degli slogan pubblicitari che ascoltiamo ogni giorno. Di una collega che s'adoprava continuamente in tutti i modi per favorire e proteggere i suoi allievi, sperando così di realizzare il suo estremismo politico da «lotta-continua», si leggeva che esercitava a favore dei poveri la cosiddetta più antica professione del mondo. Altro che briciole da non gettare per terra nei corridoi.

(4 - continua)

Indice della serie

Alla puntata n. 1
Alla puntata n. 2
Alla puntata n. 3

Antonio Montanari



1191.scuola.04/Riministoria-il Rimino/antonio montanari nozzoli/Date created: 03.06.2006/Rev. grafica, 25.06.2015