Rimini si racconta

Giornalismo riminese anni Sessanta.

Appunti sparsi.

"il Carlino"
[2007. Dal blog dei lettori della "Stampa", poi soppresso dal nuovo direttore del quotidiano torninese.]

Mi hanno detto che il «Carlino» ha festeggiato i 50 anni della sua pagina riminese. Auguri.
Sono affezionato alla redazione del 1960-62, quando da studentello vi feci un apprendistato fondamentale sotto la guida del capo-pagina prof. Amedeo Montemaggi, un giornalista di vaglia e soprattutto un maestro di cronaca dalla rara efficacia e intelligenza delle cose.
L'idea di riempire le giornate con un diversivo allo studio universitario, mi venne appena conclusa la sessione d'esami dell'abilitazione magistrale (la nostra non era allora chiamata maturità).
Dissi a mio padre se mi poteva presentare a Montemaggi che lo conosceva bene.
Una mattina di fine luglio andammo mio padre ed io in piazza Cavour, ed incontrammo Montemaggi proprio sulla porta del palazzo dove ha tuttora la sede il «Carlino» riminese.
Dopo i convenevoli di rito, Montemaggi mi disse una cosa che ho sempre conservato in memoria come prima regola del lavoro di cronista: «Bisogna imparare a lavorare di corsa. Ieri sera ho fatto in tre quarti d'ora un pezzo di due cartelle e mezzo per l'edizione nazionale».
In quella regola c'è tutto quanto è utile ai cronisti (e anche ai blogger) in certi momenti. Ovvero concentrarsi sull'argomento, saper tirare fuori tutto quello che serve, scrivere, rileggere e spedire...
Allora non c'erano né telescriventi né computer, si andava col «fuori sacco» in stazione o al massimo per le cose urgentissime si ricorreva telefono. Che andava però usato con parsimonia per non essere sgridati dall'amministratore bolognese, tal Barbieri, celebre, temuto e tiratissimo.
Il vice di Montemaggi (che cominciava allora le sue ricerche sulla Linea gotica) era Gianni Bezzi, studente in legge, bravo, intelligente e soprattutto amico, nell'impostarmi sul lavoro di ricerca della notizia e nella stesura dei breve testi di cronaca. Bezzi ha poi lavorato a Roma al «Corriere dello Sport».
Corrispondente da Riccione era Duilio Cavalli, maestro elementare, e conoscitore dei segreti dello sport, materia affidata per il calcio al celebre Marino Ferri. Mentre «Isi», Isidoro Lanari, curava le recensione cinematografiche.
E poi c'erano i padri nobili del giornalismo riminese che frequentavano la nostra redazione. O che collaboravano allo stesso «Carlino». Giulio Cesare Mengozzi, antico amico della mia famiglia, sostituiva Montemaggi durante le sue ferie. Luigi Pasquini, una celebrità che non si fece mai monumento di se stesso, ed ebbe sempre parole di incoraggiamento con noi giovani. Ai quali Flavio Lombardini offrì di collaborare alle sue iniziative editoriali.
C'era poi la simpatica e discreta presenza di Davide Minghini, il fotoreporter, l'unico che aveva un'auto con cui andare sul luogo di fatti e fattacci.
Arrivò ad un certo punto Marian Urbani, il cui marito gestiva l'agenzia di pubblicità del «Carlino». Si mise a fare la simpatica imitazione di Elsa Maxvell, la cronista delle dive americane. Dove c'era mondanità c'era Marian che le ragazze in carne corteggiavano per avere appoggi in qualche concorso di bellezza....
C'era poi un collega giovane come me, che era figlio di un poliziotto, e che andava in commissariato a rubare le foto degli arrestati dalle scrivanie dei colleghi di suo padre. E noi le dovevamo restituire...
C'era una bellissima ragazza, Nicoletta, che da allora non ho più rivisto a Rimini. Ricordo una simpatica serata che Gianni ed io trascorremmo con lei ed una sua amica inglese al concorso ippico di Marina centro. Cercavamo di insegnare alla giovane d'Oltremanica tutte le espressioni più strane del parlare corrente italiano, al limite di quello che il perbenismo di allora poteva considerare turpiloquio. Ma la frase più ardita era semplicemente: «Ma va a magnà er sapone».
Leggo sul Carlino-on line le parole di Piero Meldini per i 50 anni dell'edizione riminese: «Chiunque sapesse tenere in mano una penna (tenerla bene) è passato dal Carlino».
Posso di dire di aver fatto con Montemaggi, Bezzi e Cavalli una gavetta che mi è servita sempre. Forse appartengo ad una generazione che è consapevole dei debiti verso i maestri che ha avuto.
Forse ho la fortuna di essere consapevole dei miei molti limiti per poter riconoscere l'aiuto ricevuto nel miglioramento dalle persone con cui sono venuto a contatto allora e poi. Fatto sta che quei due anni nel «Carlino» per me sono stati fondamentali.
Studio e passione per argomenti diversi hanno la radice in quella curiosità che mi insegnarono essere la prima dote di un cronista.

Gianni Bezzi scomparve giovedì 17 febbraio 2000, a 60 anni. Lo ricordai sul web con queste righe.
Aveva debuttato al "Carlino" riminese, come vice-capopagina. Ma uno scherzetto fattogli mentre doveva essere assunto a Bologna nella redazione centrale, lo ha buttato sulla strada.
Ha diretto poi a Rimini il periodico "Il Corso". Nel 1969 è stato assunto a Roma al "Corriere dello Sport", dove è rimasto fino alla pensione. Ha scritto anche un volume su Renzo Pasolini ed ha curato, lo scorso anno, un libro sullo sport riminese nel XX secolo.
Persona buona ed onesta, professionista serio, amico di una lontana giovinezza nel mio debutto giornalistico, lo ricordo e ne piango la scomparsa con animo rattristato. E queste parole possano farlo conoscere anche fuori della Rimini astiosa dove venne tradito e ferito dal disonesto comportamento di chi volle ostacolargli una carriera meritata per la correttezza umana e professionale.

Sul settimanale Il Ponte pubblicai questo articolo a lui dedicato (Tam Tama 749, febbraio 2000).
Ciao, Gianni
Quando qualcuno si metterà a scrivere con completezza ed onestamente una storia del giornalismo riminese di questi ultimi cinquant'anni, dovrà dedicare un capitolo a Gianni Bezzi, appena scomparso a Roma, dove aveva lavorato per tre decenni al "Corriere dello Sport" come cronista ed inviato speciale.
Lo ricordo con infinito dolore. Ho perso un amico onesto, buono, corretto.
Ci eravamo conosciuti nel 1960 alla redazione riminese del "Carlino", dove guidava con serenità e buon gusto il lavoro di un gruppo di giovani, molti dei quali poi hanno cambiato strada, chi ora è architetto, chi docente universitario.
C'era uno di noi, figlio di un questurino, che a volte voleva fare degli scoop e prelevava in Commissariato le foto degli arrestati, poi arrivava una telefonata e noi le dovevamo restituire.
Gianni amava lo sport che aveva in Marino Ferri la penna-principe del "Carlino". Fece il corrispondente locale del "Corriere dello Sport". Aveva un linguaggio asciutto, il senso della notizia, era insomma bravo.
Un bel giorno, mentre frequentava già di sera la redazione bolognese del "Carlino", dopo aver lavorato al mattino in quella di Rimini, e mentre gli si prospettava un trasferimento sotto le due torri, successe questo, come si ascoltò a Palazzo di Giustizia: risultò che lui in ufficio c'era andato così, per sport.
Diresse poi un nuovo giornale "Il Corso", che usciva ogni dieci giorni. Mi chiamò, affidandomi una pagina letteraria (che battezzai "Libri uomini idee", rubando il titolo ad una rubrica del "Politecnico" di Vittorini), ed anche una rubrica di costume ("Controcorrente") che firmavo come Luca Ramin.
Fu un sodalizio di lavoro intenso ed appassionato. Mi nominò persino redattore-capo, e credo che sia stato l'unico errore della sua vita.
Per Marian Urbani inventai una sezione definita "Bel mondo", nel tamburino redazionale. La cosa fece andare su tutte le furie il giornale del Pci che ci dava dei "fascisti" ogni settimana, avvantaggiandosi su di noi che, come ho detto, andavamo in edicola solo tre volte al mese. E non sempre.
Nel gennaio del 1967 il nevone ci fece saltare un numero. Due anni dopo, Gianni fu assunto a Roma.
Queste mie misere parole possano, in questa città di smemorati, ricordare un giornalista che proprio a Rimini ha dedicato la sua ultima fatica, un libro sullo sport del '900. Ciao, Gianni.
Nel 2006 era scomparso Silvano Cardellini, anche lui celebre firma del «Carlino». Oggi lo celebrano, ma non fu sempre trattato bene da quel giornale. Allora osservai in ricordo del caro amico:
«Ti hanno costretto a fare il cronista sino ad ieri, non so per colpa di chi, forse per il fatto che (come hai scritto tu) «normali non siamo» o non sono pure quelli di fuori (leggi: Bologna). Se avessi diretto un giornale cittadino, avresti avuto il gusto di alimentare le polemiche, che sono il sale del pettegolezzo, anche se esse stanno ben lontane dall'informazione della quale a Rimini non frega nulla a nessuno».
Qui termina la citazione del 24 dicembre 2007.

Nel 2011 nella rubrica speciale sui 150 anni dell'Unità d'Italia, scrissi queste righe (puntata 7).
Valfredo Montanari raccontò a Gianni Bezzi («il Resto del Carlino», 13.2.1962): «Il vero successo si ottenne l'anno successivo. Il 5 agosto 1937, cinquemila persone affollarono il parco del Kursaal» che non era soltanto «il più raffinato edificio della città» ma anche uno dei 'personaggi' che «diedero la loro impronta, la loro voce, il loro spirito alla storia di una marina che accolse gente di ogni Paese».
Come ogni bella idea riminese, non va avanti. Per il festival, nel dopoguerra ad imitarci ci pensa Sanremo. Dove (1951) si sente un "Grazie dei fior". Rivolto a Rimini?

"Mengozzi, la passione per la Storia di Rimini", era il titolo del pezzo apparso su "il Ponte", n. 7, 1988. Eccolo.
Giulio Cesare Mengozzi è scomparso mercoledì 4 febbraio all'età di 88 anni. È doveroso ricordarlo non soltanto per la sua lunga militanza giornalistica sulle colonne dei giornali cittadini, ed in particolare di quelli cattolici, ma soprattutto per la meritoria passione con cui sin dalla giovinezza ha saputo coltivare gli studi storici, raggiungendo in essi una rara competenza.
Egli sapeva metterla a frutto, oltre che per sé e per le pagine che componeva con una diligenza che mai soffocava il guizzo narrativo ed il gusto della notizia, anche per quanti, e sono sempre stati molti, gli chiedevano un suggerimento, un'informazione con cui aprire una pista di ricerca oppure compilare una lista di testi da esaminare.
Aveva lavorato per molti anni nella nostra grande Gambalunghiana, e come pochi altri ne aveva esplorato gli angoli più nascosti. Cito un saggio sulle biblioteche appartenute agli Ordini monastici soppressi in età napoleonica, apparso nella locale Rivista Diocesana, che in poche pagine offriva un nuovo strumento d'indagine a proposito di quel grande mare inesplorato e pieno di sorprese che sono appunto le collezioni di testi.
Anche laicamente bisogna forse credere alle «vocazioni». Mengozzi l'aveva per tutto quanto costituiva la vita della città, il suo presente ed il suo passato. Come pochi altri, egli ha sempre avuto forte e pulsante lo spirito della memoria che, per avere significato e forza, deve tradursi non in un gesto di gratuita erudizione, ma in una testimonianza dell'ieri nell'oggi, per non dimenticare chi aveva dato il meglio di sé nei vari settori della nostra realtà sociale, politica o culturale, senza pregiudizi di sorta nella scelta delle figure e degli eventi.
Dove si parlava di stampa e di storia cittadina, Mengozzi non poteva mancare, con il suo entusiasmo, la sua capacità di organizzare, di costruire assieme ad altre persone (ricorderemo ad esempio la sua fraterna amicizia con Flavio Lombardini, un altro innamorato della carta scritta e della vita 'civile', non dico soltanto politica, di Rimini). Le pagine dei giornali e dei suoi lavori dell'anteguerra raccontano direttamente il lavoro di Mengozzi. Per esperienza personale posso riferire della sua dedizione, nei primi anni Sessanta, ad un'iniziativa che le nuove leve non hanno saputo rinnovare, l'Associazione della Stampa riminese, che pubblicava dignitosi «Quaderni», curava interessanti manifestazioni giocate su due toni, la celebrazione di qualche gloria locale, ed il lancio di nuove firme, individuate in quel mondo della scuola che cominciava a dare i suoi primi segni di insofferenza verso la vita placida della Rimini di allora, che scendeva nei letarghi invernali dopo gli splendori delle 'stagioni' balneari.
Mengozzi, Lombardini, Luigi Pasquini e Davide Minghini amavano la cultura riminese e si adoperavano per migliorarla. C'è un valore altamente morale nel loro operato, nella loro volontà di agire senza alcun interesse pratico, senza alcuna finalità volta alla ricerca di un qualche prestigio, desiderando unicamente di essere paghi di aver fatto qualcosa di utile per tutti.
In quei primi anni Sessanta ricordo Mengozzi che al Carlino riminese sostituiva come capo-pagina Amedeo Montemaggi quando questi andava in vacanza. Arrivava nella metà del pomeriggio, chiedeva a Gianni Bezzi, vice di Montemaggi, qualche notizia sul secondo "fuori-sacco" per il treno per Bologna delle 19, non interferiva sul lavoro della redazione, che seguiva con attenzione ma senza pedanteria. Insomma, non ci metteva mai a disagio. E la serata si chiudeva sempre con qualche arguzia, che Mengozzi si divertiva ad esporre come noi ad ascoltare.
Lungo decenni di letture e raccolte di notizie, egli aveva formato un archivio di fonti poi utilizzato per lavori pubblicati in sede locale (come le storie del nostro turismo ed alcune piccole e preziose guide a qualche chiesa), od apparsi su pubblicazioni di prestigio come i volumi della Società di Studi Romagnoli, quelli di «Ravennatensia» (l'antica Provincia religiosa ravennate), e quelli della Storia di Rimini moderna, edita da Bruno Ghigi proprio vent'anni fa.
Per Ghigi, Mengozzi firmò assieme a Luigi Lotti, Angelo Varni e Piergiorgio Grassi La storia politica, occupandosi precisamente in un lungo saggio di «Figure e vicende del Risorgimento». Il Risorgimento fu una costante delle pagine di Mengozzi, perché in esso trovava importanti motivazioni ideali.
Nel 1988, in occasione dell'Anno Mariano, il nostro giornale aveva ospitato sette suoi supplementi speciali dedicati ai santuari mariani della Diocesi.
Mengozzi aveva l'abitudine di scrivere di Storia senza contorcimenti accademici, ma con una chiarezza cronistica che sapeva esporre fatti, soltanto fatti, davanti ai quali il lettore raccoglieva il risultato di una documentazione ineccepibile.
Mengozzi è anche stato sempre assiduo redattore della «Piê», la rivista fondata da Spallicci e che compendia ancora con successo umori, stranezze e virtù della nostra terra di Romagna. Sia nell'impegno per i saggi di valore, sia in queste attività minori, Mengozzi (che spesso usava lo pseudonimo Ariminello), ha sempre lasciato il segno del suo lavoro di storico e di giornalista. A lui, che spese tante energie nel ricordo delle generazioni passate (nel quale ricordo faceva consistere l'intrinseca eticità di quello stesso lavoro), speriamo sia ricambiata la memoria per quanto realizzato durante la sua lunga vita. Per questo, nello stringerci affettuosamente ai figli ed ai famigliari tutti, vogliamo auspicare che di Giulio Cesare Mengozzi le nostre istituzioni culturali possano occuparsi con un omaggio alla sua figura che sia pure l'occasione per far rivivere una civiltà intellettuale che, con l'aria che tira nei giornali e nella vita cittadina, corre il rischio di svanire in una pigra, malinconica nebbia.

Amarcord.
Una volta in una conferenza in ricordo di un mio caro maestro di giornalismo ed amico prematuramente scomparso (Gianni Bezzi), dissi che nella piazza centrale di Rimini il muro di Berlino passava in mezzo: da una parte il Municipio e dall'altra la sede del "Resto del Carlino". Erano (ripeto) gli anni Sessanta. Nessuna nostalgia.

Un Tama del 1993.
Trecento anni fa, il 3 gennaio 1693 nasceva a Rimini un personaggio che avrebbe caratterizzato la vita culturale della città e dell'Italia. Si chiamava Giovanni Bianchi. Per diventare famoso si fece ribattezzare Ianus Plancus. Grazie all'esaltazione che ne fece lo storico Carlo Tonini, tutti ancor oggi ne parlano ricordandone soltanto i pregi. È vero che lo stesso Tonini ammise a mezza voce che Planco ebbe un'«indole sarcastica e battagliera», ma questo giudizio non rispecchia in pieno il cattivo carattere che costò al dottor Bianchi la permanenza all'università di Siena.
Il medico riminese fu sempre un bastian contrario per vocazione, un attaccabrighe per diletto, ed un censore petulante delle altrui opinioni. Appena qualcuno scriveva qualcosa, lui pubblicava un opuscolo (mai firmando con il proprio nome), per censurare, criticare, deridere. Se fosse vissuto nella nostra città degli anni Trenta, sarebbe finito immancabilmente nel repertorio felliniano di quella mitologia ossessiva e retorica che si sintetizza con la parola «riminesità».
La quale esiste purtroppo ancora. L'ultimo opuscolo dell'Apt («Conoscere Rimini»), è una conferma di quella mentalità che soltanto pochi non vogliono abbandonare, quando parla ai turisti di persone che hanno una loro "fama" limitata ad un borgo o ad un gruppo di amici.
Sergio Zavoli, che con un romanzo ha costruito il suo monumento alla memoria degli anni Trenta, oggi rimedita su quei giorni, e rovescia addosso a Rimini affettuose critiche. In una trasmissione di Telesanmarino ha detto: «Rimini non onora il cittadino che si fa onore. È dissacrante, disincantata, ironica. Non concede più di tanto, è scettica. La sua diversità risale al tempo dell'inverno vissuto nei caffè, che è il suo tempo, non l'estate: e noi d'inverno discutevamo se si dovesse dire "tela gommata" o "gomma telata". Rimini gode nell'immaginare, nell'esagerare». Non è un ritratto consolotario, ma un'analisi del negativo che invade la città, con il suo voler essere contro tutto e tutti, semplicemente per quel gusto (planchiano) di finta furbizia che porta lo «zio pataca» di «Amarcord» a prevedere che la neve quell'inverno non si sarebbe "attaccata". Era il '29, l'anno del nevone.
Oggi questa «riminesità» dei bastian contrari per professione, non si esprime più soltanto nei caffè d'inverno, ma sale alle ribalte televisive nazionali. Così, certe stramberie che baristi (abituati a sentirle), perdonavano un tempo con una battuta, adesso offrono all'Italia un ritratto che non è il nostro. E nel teleschermo a colori, predomina il rossore della nostra vergogna. (Tama 467)
Rimini si racconta, indice
Antonio Montanari

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