Antonio Montanari Nozzoli
ARCHIVIO GIOVANNI PASCOLI

  
Pascoli studente di seconda liceo, Rimini 1871
  Pascoli a Rimini, studente "piuttosto satirico"
  Imelde lasciò Zvanì: trovata la lettera dell'addio
  Pascoli riminese [1995]
  Pellegrino Bagli, ribelle ed amico di Pascoli
  Delitto Ruggero Pascoli, tutti sapevano tranne lo Stato
  Pascoli, nasce a Rimini il poeta moderno


Pascoli studente di seconda liceo, Rimini 1871
Carte inedite sugli amici di scuola, tra cui c'è Pellegrino Bagli

["il Ponte", Rimini, n. 17, 06.05.2012]

Giovanni Pascoli ha 16 anni quando giunge a Rimini nel novembre 1871, quattro dopo l'uccisione del padre Ruggero, e tre dalla morte della sorella Margherita e della madre Caterina Vincenzi. Il fratello Luigi, 17 anni, se n'è appena andato il 19 ottobre per meningite. Con Giovanni, ci sono gli altri cinque: Giacomo (19 anni), Raffaele (14), Giuseppe (detto Alessandro, 12), Ida (8), e Mariù (6) futura biografa ufficiale del poeta.
"L'appartamento, già scelto da Giacomo ed arredato con lettini di ferro e di legno, e con mobili di casa nostra, era in uno stabile interno di via San Simone, e si componeva del pianterreno e del primo piano", narra Mariù: "La vita che si conduceva a Rimini... era di una economia che appena consentiva il puro necessario". In questa miseria maturano le scelte culturali e politiche di Pascoli. Favorite anche dal clima che trova nel Liceo Gambalunga, dove è iscritto alla seconda classe. Pochi mesi prima vi è accaduto un episodio che agita la città ed illustra le inquietudini del mondo giovanile riminese del tempo. Lo ricostruiamo con carte inedite dell'Archivio Storico Comunale.
Sabato 3 giugno due studenti entrano nelle grotte del palazzo, dopo averne forzata la porta. Li vede un "giovane di bottega" del bidello Clemente Vernocchi che chiama immediatamente le Guardie municipali le quali ispezionano le grotte ed i locali superiori, però "senza rinvenire alcuno".
Nel pomeriggio Vernocchi informa il direttore della scuola "come persone si fossero introdotte dalla parte ultima superiore del Palazzo Gambalunga in una delle latrine, che sporge in uno dei cortili, e che ivi facevano pressa e rumore alla porta per uscire". Il direttore si reca subito al Palazzo Gambalunga, dove ordina a Vernocchi di "portarsi ad aprire". Dalle scale scendono i due alunni del primo corso liceale Luigi Garzolini e Pellegrino Bagli.
Il direttore il giorno 5 invia un "rapporto" al sindaco di Rimini: "Feci loro il dovuto rimprovero, aggiungendo, che ne avrei data parte alla S. V. Illustrissima". Il "rapporto" segnala che "mette veramente raccapriccio il vedere l'immenso pericolo a cui si sono esposti" i due giovani per la loro sconsideratezza. Essi infatti sono "discesi dai soffitti del Gambalunga mercé una vecchia assicella appoggiata fra muro e muro sopra una leggerissima sporgenza di mattoni nella Latrina, che pende su di una profonda altezza".
Il sindaco decide la sospensione dei due allievi "fino a nuovo ordine" ed incarica la "Commissione degli Studj" d'esaminare il caso, "per le ulteriori misure che si crederà d'assumere". Il bidello Vernocchi accusa: "I suddetti due scolari sono soliti nell'uscire a far del chiasso". Il professor Carlo Tonini (che sarà anche insegnante di Pascoli per le Lettere greche e latine), dichiara che i due sono "poco studiosi, poco docili, poco educati", e che "se codesti due scolari se ne andassero, la scuola rimarrebbe più quieta". Il professor Luigi Tonini, docente di Storia e padre di Carlo, sottolinea: "Le ammonizioni fanno con loro poco frutto". Ribadisce che sono "poco educati" e che "quando non vi sono essi, la Scuola va meglio". Concorda pure il prof. di Matematica, Luigi Giacomini: i due "mancano spesso da scuola, e studiano poco".
Gli imputati confessano. Trovarono la cantina aperta, e vi furono rinchiusi dal bidello Vernocchi. Il 15 novembre Pellegrino Bagli invia una domanda di perdono al sindaco: "Che mai, io chiedo, che mai ho io fatto? Perché tanta severità per libero ed onesto cittadino; mentre vediamo il vile sicario girare per le pubbliche vie, e far parte dei pubblici e privati divertimenti. Ella dirà ch'io vado fuori d'argomento, ma con questo ho voluto mostrare che quegli il quale o per educazione o per tema non fa atti violenti, viene trattato da vile schiavo. Abbastanza ho detto". S'intravede già il Pellegrino Bagli (1854-1893) che sarà amico di Andrea Costa e socialista, svolgendo un'intensa attività politica.

La casa in via San Simone ed una lapide bugiarda
I documenti presentati qui, saranno illustrati il 12 maggio alle 15,30, al Museo della Città dall’autore del pezzo, Antonio Montanari, nel corso di una giornata di studi organizzata da Oriana Maroni per la Biblioteca Civica Gambalunga, con altri interventi di Marco Veglia, Elisabetta Graziosi, Umberto Carpi e Dino Mengozzi. Ingresso libero pure per il concerto delle 18, con canti anarchici tra Ottocento e primo Novecento.
La via San Simone ricordata da Mariù Pascoli, oggi si chiama Alessandro Serpieri, maestro di Giovanni ad Urbino. La casa abitata dai Pascoli corrisponde all’odierno civico 17. Lì vicino sorge il palazzo Martinelli dove nel 1798 morì Aurelio Bertola.
Dal 1962 nella piazzetta “delle poveracce” una lapide bugiarda ricorda, sul muro dell’antica locanda “dell’Unione”, che lì “abitò studente” Giovanni Pascoli “negli anni 1871 e 1872”. In una di quelle stanze, la numero sei, il poeta invece passò una notte ed un giorno nel settembre 1877. Era in bolletta dura tanto che, non potendo saldare il conto (lire 41,50), lasciò in pegno all’albergatore Matteo Barbiani un po’ di “biancaria”: tre camicie, un paio di mutande ed un fazzoletto.
Per veder onorato il debito, Barbiani (1878) si rivolse inutilmente ad un fraterno e ricco amico di Pascoli, Domenico Francolini, mazziniano e poi anarchico. La “biancaria” del poeta fu regalata ad un povero attore di passaggio per Rimini.
Pascoli conosce Francolini proprio nel 1871-72, quando ha come compagno di classe Caio Renzetti, ex garzone di barbiere. Non avendo “modo alcuno di provvedersi di libri, e, quel che è peggio, dell'alimento necessario a chi tutto il giorno dee applicarsi allo studio”, Renzetti chiede al Comune un sussidio mensile. Francolini e Renzetti sono accomunati da un impegno sociale che dura per tutta la vita.
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Pascoli a Rimini, studente «piuttosto satirico»
Nelle «Prose disperse» aspetti inediti della sua personalità

Le «Prose disperse» di Giovanni Pascoli pubblicate dall'editore Carabba (Lanciano 2004, pp. 536, euro 21) sono state presentate a Villa Torlonia di San Mauro sabato 20 marzo dall'autore, Giovanni Capecchi, e da Marino Biondi che ha tenuto una lezione appassionata e profonda sulla figura di Zvanì, in relazione a questo volume ed all'esperienza umana che vi si riflette.
Capecchi, nell'introduzione al libro, spiega l'importanza della raccolta che permette di scoprire gli echi delle vicende pascoliane anche nella produzione in prosa. Ad esempio, cita il dramma del matrimonio di Ida, «che ha seguìto il crollo del progetto matrimoniale di Pascoli con la cugina Imelde naufragato per l'intervento della tempestosa Mariù». Pure le pagine di critica letteraria, aggiunge Capecchi, contengono «espliciti riferimenti» alle esperienze personali.
Una curiosa confessione autobiografica si trova ad esempio in una recensione del 1898 a proposito dell'«Agricoltore» di Menandro, storia che termina con la celebrazione di un matrimonio: «dopo aver sottolineato la gioia che avrebbe cullato gli sposi», scrive Capecchi, il poeta non riesce a trattenersi e mette in relazione la felicità degli sposi (e di Ida che ha avuto le sue nozze) con la sua sorte di scapolo senza amore, aggiungendo una conclusione che a lui dovette costare un sospiro di autocommiserazione e che fa sorridere diversamente i lettori: «Basta: se ne stettero, se ne godettero, e a me nulla mi dettero». Giovannino scende dallo scranno solenne dello studioso severo, e pare che s'ingaglioffi fra le panche d'un'osteria a narrare pettegole storie nascoste, o forse palesi a tutti più che a lui stesso, allo scopo di sfogare «questa malignità di questa mia sorta», per usare le stesse parole di Machiavelli nella celebre lettera a Francesco Vettori.
La prima delle «prose disperse» è del 1872, quando Giovannino era a Rimini a studiare al liceo Gambalunga, e s'intitola «Scartabelli di Nebulone scrittor di Romanzi». Si tratta di una pagina scolastica, contenuta in un quaderno intitolato «Esercizi di poesia italiana», mai pubblicata sinora anche se conosciuta e citata da vari studiosi. Mariù stessa ne dette notizia, definendola un componimento «piuttosto satirico». Quando sabato 20 marzo ho salutato alla fine della presentazione il prof. Capecchi, egli mi ha suggerito di provare a cercare chi fosse quello «scrittor di Romanzi» di cui Pascoli metteva in caricatura la vita e le opere nel compitino riminese. Le parole di Capecchi mi autorizzano a presentare pubblicamente l'esito della ricerca.
Pascoli parla di Giuseppe Rovani (1818-1874), noto per la sua attività di romanziere e giornalista. Lo definisce «Nebulone», usando un vocabolo latino che significa ciarlatano. Rovani è passato alla storia della patrie lettere per avere scritto il romanzo «Cento anni», apparso a puntate sulla «Gazzetta di Milano» (1857-1858). Pascoli di lui dice: «quando mette fuori un Romanzo», se lo vede «squartato e posto a fette ne' giornali».
Altro indizio su Nebulone. Si narra, spiega Zvanì, che egli abbia «consumato assai più vino per trastullarsi che olio per istudiare». Dalle biografie di Rovani sappiamo che «l'abitudine ad una vita sregolata e l'inclinazione al bere» lo portarono alla morte per alcolismo (così R. Facciolo nel «Dizionario bio-bibliografico», II, Einaudi, 1991, p. 1542). Rovani cominciò povero e finì ricco: come il Nebulone pascoliano: «l'inopia poscia l'avea distolto dai bagordi, e datolo alle muse».
Nebulone, proseguiva Pascoli, «generalmente si professa comunista e internazionalista e afferma gli averi dovere essere uguali di tutti, e non esservi titoli né distinzioni di sorte». Rovani si adoperò come mazziniano nelle insurrezioni di Venezia e Roma nel 1848, e fu poi esule nel Canton Ticino con Mazzini, Pisacane e Cattaneo. Nomi che riassumono una linea politica gradita al Pascoli studente in Rimini.
Le coincidenze fra il ritratto di Nebulone e la vera biografia di Rovani non dovrebbero ammettere dubbi. Resta da dire qualcosa sul tono «piuttosto satirico» di questa pagina. Osserva Capecchi: nei giorni del soggiorno riminese di Pascoli «si faceva un gran parlare, in Romagna, di anarchia, di internazionalismo, di comunismo, e il giovane Pascoli, nella compilazione dell'esercizio scolastico non restava immune da questi dibattiti che giungevano alle sue attente orecchie». Nebulone rappresenta lo «scrittore attaccato al denaro più che alla letteratura, adulatore dei potenti ma anche del popolo che gli garantisce il successo, abile a scrivere e a parlare anche senza riflettere», romanziere prolisso, oscillante nei suoi atteggiamenti politici. Pascoli descrive il suo Nebulone come uno «strabocchevolmente arricchito» che però «in tempo di carestia serra i granai», mentre briga «per un titolo di nobiltà».
Sono argomentazioni che rendono molto graffiante la pagina pascoliana, il cui contenuto manifesta un'aspirazione politica covata tenacemente nel calore delle amicizie riminesi. Il ritratto di Nebulone si condensa in fulminanti battute che restituiscono un aspetto nascosto del giovinetto studente liceale. Le opere di quello scrittore beneficano l'umanità recandole il dono prezioso del sonno, che le evita di ricorrere «a grave prezzo» all'oppio ed al papavero. E rivelano che ci si trova davanti ad un vero riformatore della letteratura, alla vivente dimostrazione che si può (e si deve) «parlare e scrivere senza pensare».

NOTA del 21.01.2009. Pascoli giovane
Un volume e varie dimenticanze

Al "Giovane Pascoli" è stato dedicato da Rosita Boschetti un volume che è il catalogo della mostra tenutasi a San Mauro sul finire del 2006.
Nel capitolo iniziale, molte notizie riguardano il soggiorno di Zvanì a Rimini (1871-72) per motivi di studio.
A quel periodo risale una sua pagina, "Scartabelli di Nebulone scrittor di Romanzi".
Rosita Boschetti precisa: in essa "Pascoli parla in tono piuttosto satirico di uno scrittore e giornalista dell'epoca, Giuseppe Rovani" (p. 7).
Dopo queste parole mi sarei aspettato di leggere una nota con una citazione che mi riguarda.
Infatti nel 2004 scrivevo sul settimanale riminese "il Ponte": "Si tratta di una pagina scolastica, contenuta in un quaderno intitolato 'Esercizi di poesia italiana', mai pubblicata sinora anche se conosciuta e citata da vari studiosi. Mariù stessa ne dette notizia, definendola un componimento 'piuttosto satirico'. Quando sabato 20 marzo (2004) ho salutato [...] il prof. Capecchi, egli mi ha suggerito di provare a cercare chi fosse quello 'scrittor di Romanzi' di cui Pascoli metteva in caricatura la vita e le opere nel compitino riminese. Le parole di Capecchi mi autorizzano a presentare pubblicamente l'esito della ricerca".
Riproduco in calce l'intero articolo del 2004.
Circa il soggiorno riminese di Pascoli va aggiunto che quella casa "posta in uno stabile interno di via S. Simone" (p. 6, si tratta di parole di Mariù Pascoli non citata in nota), potrebbe "corrispondere all'attuale civico 17", come scrissi in "
Pascoli riminese" (Quaderni di Storia n. 3, Edizione il Ponte, Rimini 1995).
Infine, nel testo di Rosita Boschetti è ampiamente citato Guido Nozzoli, i cui scritti sul tema (che occupano la prima metà della pag. 70) sono stati resi noti da me nel 2003 nel saggio «Zôca e manèra». Giovanni Pascoli studente a Rimini (1871-1872) contenuto nel volume "pascoli socialista". Anche in questo caso, nessuna citazione della fonte secondaria, il mio testo.
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Imelde lasciò Zvanì: trovata la lettera dell’addio
Gli amori di Giovanni Pascoli

All’inizio del 1896 Giovanni Pascoli pensa di prender moglie: è maturo anagraficamente (ha da poco compiuto 40 anni, essendo nato il 31 dicembre 1855) ma psicologicamente fragile, non per colpa dell’esser poeta ma piuttosto dell’assedio a cui è sottoposto da parte della terribile sorella Mariù.
Pascoli scrive al segretario comunale di San Mauro, Pietro Guidi: «Caro Pirozz, ti rinfresco la memoria. Cava in gran segreto le mie fedi e rintraccia quelle di mio padre e di mia madre e manda il tutto a Girolamo Perilli, via Garibaldi, 33, Rimini. In gran segreto… segreto di stato!…».
Momo Perilli (18531930) è il cognato della trentenne Imelde Morri, la donna di cui Giovannino si è innamorato e che altrove definisce «pallida e tacita». Imelde è sua cugina, figlia di Alessandro Morri e di Luigia Vincenzi sorella della madre del poeta, Caterina.
Da poco (30 settembre 1895) Ida si è sposata con Salvatore Berti di Santa Giustina, lasciando Mariù più depressa che mai. Riferendosi a quei giorni, Mariù descrive Giovannino in preda ad una «tremenda crisi di nervi e di cuore». Mariù ai primi di maggio del 1896 va a trovare a Sogliano la zia Rita dalla quale apprende che Zvanì si era ufficialmente fidanzato con l’Imelde (che aveva pochi mesi di età in meno di lei).
La biografa di Mariù Pascoli, Maria Santini nel suo recente «Candida Soror» scrive che l’Imelde era «una bella donna, alta, bruna, ben fatta» (p. 144). Ed aggiunge: «in questo modo sgradevole» Mariù ebbe notizia dell’evento. Ma la stessa Santini riporta un antefatto: Mariù aveva scritto per conto di Zvanì all’Imelde dopo la morte della di lei madre, per sapere se la defunta zia avesse mai ritenuto possibile un loro matrimonio (p. 132). Nel caso di risposta positiva, Zvanì l’avrebbe sposata volentieri.
Mariù dunque conosceva il retroscena. La notizia appresa a Sogliano può essere considerata la conferma della difficoltà che Zvanì incontrava nel trattare con Mariù di certi argomenti. Non deve meravigliare che Giovannino abbia agito di nascosto per il fidanzamento come se si trattasse di azione illecita o vergognosa. La sorella gli faceva paura. Prima egli s’accorda con l’Imelde, poi si riserva di riferire in casa propria.
Tornata da Sogliano, Mariù non si dà pace. Trama contro le nozze di Zvanì e vorrebbe anche frugare nel portafoglio del fratello, gonfio non di soldi (come precisa lei stessa), alla ricerca di qualche lettera d'amore.
Giovannino, messo sotto interrogatorio da Mariù, confessa la colpa del suo amore per Imelde, ma le promette di sposarsi soltanto dopo averle trovato uno straccio di marito (Santini, p. 146).
Mariù aveva appreso a Sogliano che una delle due sorelle Morri aveva dichiarato che non avrebbe mai sposato un uomo con il difetto fisico di cui lo stesso poeta si lamentava compiangendosi: il mignolo «guasto» d’un piede.
Maria riporta la notizia a Giovannino, con quanta perfidia possiamo facilmente immaginare. Ed arriva così dove voleva giungere, Zvanì rinuncia (maggio 1896) alle nozze con l’Imelde. La quale fa sapere che a parlare del dito «guasto» non era stata lei ma sua sorella Annetta.
Dell’epistolario che i due innamorati si scambiarono non restano che poche ma importanti righe, ritrovate di recente e pubblicate sul «Corriere della Sera» del 21 dicembre 2005: «Non sono poi tanto cattiva come credi. Ma hai voluto dar retta più agli altri che a me e ti sei procurato il male da solo». La data è il 20 giugno 1896.
Ha scritto Stefano Bucci sul quotidiano milanese che la lettera è riaffiorata dalle pagine degli «Ab urbe condita libri» di Tito Livio in una vecchia edizione conservata nella biblioteca della casa di Castelvecchio e da poco scoperta dall' attuale Conservatore di Casa Pascoli, Gian Luigi Ruggio.
Maria Santini nella biografia di Mariù difende la sorella di Zvanì. Se è apparsa cattiva, la colpa è di un «pregiudizio maschilista». Al quale noi (che però non contiamo nulla) non crediamo.
Le poche righe dell’Imelde raccontano di riflesso il dramma del poeta di San Mauro: «hai voluto dar retta più agli altri che a me», scrive la cugina non sedotta ma abbandonata. Il che è storicamente la verità di un duplice dramma psicologico il quale emerge dalle stesse pagine di Maria Santini: «Se Imelde fosse diventata la signora Pascoli, Maria avrebbe perso tutto». Poteva Zvanì tradire la sorella portando in casa una moglie? Non di certo. Il nido, quel nido miticamente invocato dal poeta e da Mariù, era una specie di carcere. Vero e non simbolico.
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Pascoli riminese
Soggiorni, incontri ed amori del poeta di San Mauro
Quaderni di Storia n. 3

Edizione il Ponte Rimini 1995
Revisione 2012 [*]
Una sera di fine settembre 1897, in piazza Cavour a Rimini, verso le 19 arriva Giovanni Pascoli, guidando un barroccino trainato dall'«irrequieta Violetta». Ha un appuntamento con Rico Tognacci ed altri amici sammauresi al Caffè Commercio, in una saletta riservata, dove li attende un cameriere che, per festeggiare l'incontro, stapperà una bottiglia di «Champagne La Tour», cioè vino della fattoria La Torre. (1)
Dopo il brindisi la compagnia esce e s'incammina verso il teatro Vittorio Emanuele II. Giunto davanti alla pescheria, Zvanì si ferma un attimo e, commosso, comincia a parlare dei suoi ricordi legati alla nostra città. Rimini per Pascoli significa tante cose. Qui si è trasferito nel 1871, a quattro anni dalla misteriosa uccisione del padre Ruggero (in quel 10 agosto 1867, reso celebre da una sua lirica); e a tre dalla scomparsa della sorella Margherita (13.11.1868) e della madre Caterina Vincenzi (18.12.1868).
In quel doloroso trasloco, i sei fratelli Pascoli sono guidati da Giacomo (19 anni): Giovanni ne ha 16, Raffaele 14, Giuseppe (cioè Alessandro) 12, Ida 8, Mariù 6. (Luigi è scomparso il 19 ottobre dello stesso 1871, per meningite, a 17 anni.) Giacomo deve far pratica da perito agrimensore nello studio dell'ing. Giovanni Fiorani. Per quella tribù di ragazzi e bambini «cominciò a regnare la povertà», come scriverà Maria, la più piccola che diventerà, per volere dello stesso Zvanì, la biografa ufficiale del poeta. (2)
«L'appartamento, già scelto da Giacomo ed arredato con lettini di ferro e di legno, e con mobili di casa nostra, era in uno stabile interno di via San Simone, e si componeva del pianterreno e del primo piano», continua Mariù: «La vita che si conduceva a Rimini… era di una economia che appena consentiva il puro necessario». (3)
Giovannino frequenta la seconda liceo: «povero, solitario e un pò scontroso egli viveva allora tutto assorto in un suo mondo astratto tanto che qualche volta fu perfino canzonato dai compagni della sua classe». (4)
Ricorda Mariù che Zvanì doveva spesso assentarsi dalle lezioni a causa di un piede malato fin dalla nascita: per quel difetto nell'ultima falange del mignolo destro, la madre, vista la creatura appena partorita, si era messa a piangere. Quel difetto farà soffrire il poeta per tutta la vita, costringendolo ad «un'andatura ineguale e incerta come se camminasse sugli spini». (5)
Giovanni si segnala subito per la sua cultura. Un suo insegnante, Carlo Tonini (storico della città, figlio di Luigi), «comprese quel ragazzo ramingo e disperso», come racconterà Alfredo Panzini, e gli profetizzò un avvenire sicuro: «Vedrete, vedrete, questo figliuolo farà onore alla patria». (6) La pagella finale reca (il primo voto è relativo agli scritti): italiano 109, latino 109, greco 108, matematica 1010, filosofia 9, storia e geografia 7.
Nell'ottobre 1872, presso il tipografo riminese Malvolti, per le nozze principesche di Maria Torlonia e Giulio Borghese, esce un'ode di Pascoli che ha venature rivoluzionarie: «…Per fredda ambizione / si succia ognor al povero le vene / sotto l'onesto vel del comun bene…».
Nel ’75, quando muore lo zio riminese Alessandro Morri, Zvanì gli dedica una lirica. Morri era stato suo padrino al battesimo ed aveva sposato Luigia Vincenzi, sorella di Caterina, la «dolce madre» del poeta. (9)
Le sorelle Vincenzi erano tre: Rita, Caterina e Luigia. Erano nate da Paolo Vincenzi e da Olimpia Alloccatelli, ricca figlia unica di un nobile di Sogliano. Rita sposa un possidente di Sogliano. Luigia, il Morri che fu segretario comunale prima a Sogliano e poi a Rimini.
Nei versi per lo zio, Giovanni inserisce dubbi teologici («Ditemi, i morti infradician sotterra / o qualche cosa n'evapora al ciel?… / ovver, mio forte amico, ora è destino / che putre fango e cenere sii tu?»), che mettono in sospetto la zia Luigia, «religiosissima e forse bigotta» (8) la quale, timorosa di un oltraggio alla fede, fa esaminare il testo «da una vecchietta, forse una specie di fattucchiera, tenuta dai riminesi di allora in concetto di santità». «Brusèla, brusèla! la è contra Crest!», è la sentenza, sùbito eseguita. L'altra zia, la «Rita di Sogliano», ne salva una copia. (9)
Nel ’76, alla morte di Giacomo per un'emorragia intestinale conseguente a tifo, Giovannino resta il capofamiglia: «andato in isfacelo il piccolo patrimonio famigliare, perduta la borsa di studio per partecipazioni a disordini politici, […] dovette interrompere gli studi e fino al 1880 visse miseramente aderendo al movimento rivoluzionario socialista, amico specialmente di Andrea Costa». (10)
Nel settembre ’77, per una notte ed un giorno, Pascoli soggiorna a Rimini, come racconta Antonio Baldini (11), «in bolletta dura», nella cameretta n. 6 della locanda di Matteo Barbiani, posta sopra il caffè dell'Unione, nella "piazzetta delle poveracce" (allora via Pescheria n. 111, ed oggi piazzetta Gregorio da Rimini). A Barbiani, Pascoli lascia in pegno del debito non saldato, alcuni capi di biancheria: tre camicie, un paio di mutande ed un fazzoletto, come dichiara lo stesso oste bussando cassa (lire 41,50) al signor Domenico Francolini (18501926), politicamente affine a Zvanì di cui era amico, e poeta rivoluzionario lui stesso.
Giovanni era venuto a Rimini per chiedere un sussidio all'amministratore degli eredi Pascoli, Ercole Ruffi, nella cui villa al Covignano, il 2 agosto 1874, erano stati arrestati 28 dirigenti repubblicani riunitisi con l'intenzione di discutere un'insurrezione nazionale. (12) Se ne andò con pochi soldi e molta rabbia per una frase del Ruffi, riportata da Mariù: «Turnè a Bulogna, mittiv a duzzena da una veccia recca e fasiv mantné». (13)
Pascoli povero in canna, nel ’78 scrive una poesia, «La morte del ricco», che Francolini pubblica a sua insaputa nel periodico riminese che dirige, «Il Nettuno», nella speranza che essa possa «concorrere alla nostra propaganda rivoluzionaria».
Tra gli amici riminesi di Pascoli c'è anche Raffaello Marcovigi, che Zvanì chiama il Biondino ed anche l' «avvocatino tirchino». A lui, Pascoli scrive il 14 novembre 1883 i propri progetti: «…Poi prenderò moglie. Fammi il piacere di trovarmela, tu che hai molto tempo e molte conoscenze…». (14)
Nel ’91, il 22 luglio, Marcovigi si sposa con la signorina Gelmi: Giovannino regala all'antico amico un libretto di 22 poesie, sotto il titolo di Myricæ. Nel 1896, Pascoli pensa di prender moglie pure lui: e scrive al segretario comunale di San Mauro, Pietro Guidi: «Caro Pirozz, ti rinfresco la memoria. Cava in gran segreto le mie fedi e rintraccia quelle di mio padre e di mia madre e manda il tutto a Girolamo Perilli, via Garibaldi, 33, Rimini. In gran segreto… segreto di stato!…». (15)
Momo Perilli (18531930), ha sposato una figlia di Alessandro Morri, Anna. Zvanì (41 anni) è innamorato di Imelde (30), sorella di Anna (35). Pascoli spera che, accasatasi Ida nel ’95 con Salvatore Berti di Santa Giustina, anche Mariù trovi una sistemazione. Mariù, gelosa della sorella, desidera di morire. (16) E descrive Giovanni in preda ad una «tremenda crisi di nervi e di cuore». Pascoli scrive lettere piene di lacrime, mentre pensa segretamente al proprio progetto matrimoniale: di nascosto di Maria, aveva già regalato ad Imelde un anello. (17)
Maria non sopporta Imelde ed Anna, nei cui confronti si sente mortificata: «Erano buone e care ragazze […] ma assai diverse da noi per fortuna, perché esse erano ricche e vestivano con molto lusso, e noi eravamo povere e vestivamo molto dimessamente». (18)
Maria trama contro quelle nozze di Zvanì, e vorrebbe anche frugare nel portafoglio del fratello, gonfio non di soldi (precisa lei stessa), alla ricerca di qualche lettera d'amore. (19)
Contro Zvanì pare mettersi anche la zia Rita di Sogliano, che spettegola su quel piede malato del nipote, che non sarebbe piaciuto all'Imelde. La quale scrivendo alla medesima zia Rita smentisce, dichiarando che, a dire quelle parole, era stata la propria sorella Anna, moglie del Perilli a cui Pascoli aveva scritto per i certificati di matrimonio.
Mariù assolve la zia Rita, infatti dice che, se le nozze sono andate a monte, è per merito proprio: «Fui dunque io, non lei, a produrre quell'effetto»: la zia Rita aveva riferito a Mariù la frase udita «in casa delle cugine», non pensando che la sorella del poeta andasse «a soffiare» all'interessato «quelle parole». (20)
Zvanì offeso tronca ogni rapporto con l'Imelde, le restituisce le lettere ricevute. All’inizio del ’97 Imelde si sposa con il riminese conte Giuseppe Baldini. «Una novità», commenta Giovanni Pascoli, ammettendo di aver fatto «un pianzutin» per la miseria e la solitudine di «Mariuccina». Ad Imelde, egli dedicherà poi dei versi, senza farne il nome: «E dunque tornai… tu non c'eri. / Per casa era un'eco dell'ieri, / d'un lungo promettere. E meco / di te portai sola quell'eco: / PER SEMPRE!». (21)
Sono passati pochi mesi da quella delusione, quando alla fine di settembre dello stesso ’97, Zvanì torna in Romagna a trovare le sorelle, per il battesimo di Myriam appena nata ad Ida. Il sorriso della famiglia sembra rincuorarlo in giorni molto tristi, testimonianti in una lettera ad Ugo Brilli: «Io sono solo solo […] sarà neurastenia, sarà autosuggestione, sarà effetto della vita forzatamente casta e orribilmente mesta, ma io passo certe ore, meglio certi giorni in cui mi pare di dover morire […]». (22) Anche la carriera scolastica gli dà pensiero. Pirandello qualifica le Myricæ, a dire dello stesso Pascoli, come «opera di stitico, di uomo che si tormenta e tormenta». (23)
Quella scappatina a Rimini, è un momento di serenità o di triste pensiero rivolto ai tanti dolori di una vita infelice? Giulio Tognacci, presente a quell'incontro tra amici sammauresi assieme al padre Rico, ha scritto: «Lessi negli occhi accesi che qualcosa cercava».
«Uomini, se in voi guardo, il mio spavento / cresce nel cuore…». (24)
Quando pubblica Myricæ, nel 1891, Pascoli ha 36 anni: da nove si è laureato ed è insegnante. Dopo Matera e Massa, è finito in cattedra a Livorno. La nostra terra gli sembra lontana, ma il ricordo pulsa doloroso nel cuore, e detta pensieri alla penna.
Una delle più antiche liriche della raccolta, Romagna («è dell'80 o giù di lì», scrive lo stesso Pascoli), rappresenta questo legame con i luoghi d'origine. Sono i celebri versi dedicati all'amico poeta Ferrari: «Sempre un villaggio, sempre una campagna / mi ride al cuore (o piange), o Severino: / il paese ove, andando, ci accompagna / l'azzurra visïon di San Marino…».
Nel ’94, presentando la terza edizione di Myricæ, Pascoli definisce i suoi versi come «frulli d'uccelli, stormire di cipressi, lontano cantare di campane: non disdicono a un camposanto». Dove riposa suo padre "Ruggiero" che era stato ucciso il 10 agosto 1867, e che per il figlio poeta resta il simbolo del male universale: «La vita […] è bella, tutta bella; cioè sarebbe; se noi non la guastassimo a noi e a gli altri. […] Ma gli uomini amarono più le tenebre che la luce, e più il male altrui che il proprio bene. E del male volontario dànno, a torto, biasimo alla natura, madre dolcissima […]».
In una recensione, apparsa nel marzo ’92 sulla «Nuova Antologia», si parla di Myricæ come di «poesie fresche, pure, originali», dove si indovina una nota «di dolore rassegnato e calmo, di dolore umano, che acquista le nostre simpatie, e nel poeta ci fa amare anche l'uomo […]». Si sottolinea la novità della raccolta: «Son dei quadretti semplici e freschi […]».
La semplicità era già espressa nel sottotitolo di Myricæ, che la dichiarava attraverso una citazione (…rovesciata) di Virgilio. Il poeta latino aveva scritto (nell'Ecloga IV): «Non omnis arbusta iuvant humilesque myricæ», non a tutti piacciono gli arbusti e le umili tamerici.
Scrive invece Pascoli nel frontespizio del suo libro: «Arbusta iuvant humilesque myricæ». La scomparsa della negazione sottolinea un intendimento, quello di esprimere attraverso la poesia il canto della quotidianità. Pascoli traccia come un confine rispetto agli altri autori contemporanei che dominavano la scena letteraria. E' anche il superamento di un modo tradizionale di far poesia che durava da circa un secolo.
Quella di Pascoli, scrive L. Anceschi nel suo fondamentale testo critico sulle Poetiche del Novecento in Italia, è una «posizione distinta sia da quella del Carducci sia da quella del D'Annunzio». Che volesse differenziarsi dagli indirizzi dominanti, lo aveva confidato lo stesso Pascoli in una lettera dell’83 a Severino Ferrari: «Studio Orazio. Vorrei distinguermi da codesti poeti cromolitografici incipriati alla D'Annunzio».
Lentamente, edizione dopo edizione (la sesta ed ultima è del 1903), Myricæ diventano un libro noto che rappresenta una concezione poetica nuova, quella degli «oggetti»: ogni elemento diventa un simbolo, come «l'aratro in mezzo alla maggese» di Lavandare, che raffigura la solitudine umana.
È questa «la poesia delle piccole cose», secondo la formula classica di Renato Serra. Essa apre una linea che, attraverso i Crepuscolari, come ha insegnato Anceschi, giunge fino ad Eugenio Montale.
Scheda 1. «Giovanni Pascoli è un Romagnolo: e non si può capir nulla della sua vita e della sua arte se non si sente in lui la "pasta" di questa tipica razza italiana, d'una vitalità concentrata e esuberante, piena di contraddizioni e di lotte intime e aperte […]», scriveva nel 1937 Ettore Cozzani, in un'ampia analisi critica della vita e delle opere del poeta di San Mauro.
«E non si può capir nulla» di questa citazione, se non andiamo a leggere qualche riga dopo: «la razza che in pochi decenni ha potuto dare tempre […] di precursori e anticipatori come Alfredo Oriani, di sintetizzatori e realizzatori come Mussolini, di poetiveggenti come il Pascoli stesso».
Povero Pascoli, in quale triste compagnia lo poneva la retorica di Cozzani che addirittura trasformava gli abitanti d'una terra in una «razza» a sé.
Scheda 2. Il 10 agosto 1991 a San Mauro, nella Chiesa della Madonna dell'Acqua, mons. Luigi Pascoli ha celebrato l'anniversario della morte del nonno Ruggero Pascoli (avvenuta nel 1867), ed il 60° della propria Prima Messa.
Mons. Luigi Pascoli è figlio di Giuseppe, nato nel 1859 e morto nel 1917, ultimo dei maschi di Ruggero.
I rapporti tra Peppino e gli altri fratelli non furono sempre felici. Fanciullo «discolo», lo descrivono gli storici, perché scacciato per una qualche mancanza da tutte le scuole del Regno, nel 1873. Crebbe con un carattere «piuttosto cupo» e taciturno, racconta Mariù nella biografia del poeta.
Fallito un concorso nelle ferrovie, Peppino bussava spesso a soldi in casa di Zvanì che, nell’83, non ha notizie precise del fratello, ma scrive a Severino Ferrari: «Pare che debba essere impiegato da Torlonia».
Peppino sposa poi la vedova di un barbiere che aveva due figli grandicelli. Commenta la terribile Mariù: «Egli aveva disgustato tutti…». Nel ’94, «in miserevole stato», Giuseppe porta a Giovannino la notizia della morte della moglie. Ma è «tutta una commedia per far compassione».
Peppino si stabilisce a Bologna, impiegato in una fabbrica di biciclette. «Quasi due anni dopo il falso annunzio […] la moglie gli morì davvero», precisa Mariù. Successivamente, egli va in Veneto e si sposa di nuovo, con una maestra.
Don Luigi Pascoli, il 10 agosto 1931, celebra la Prima Messa nella Chiesa della Madonna dell'Acqua, annessa alla vecchia casa Pascoli.
Al ’39, a Santa Giustina di Rimini, risale il suo primo incontro con la zia Ida che lo accolse con simpatia, perché finalmente poteva conoscere uno dei sei figli di Peppino. Ida viveva in povertà, dimenticata da Mariù: morirà a Bologna, nel ’57, assistita con i Sacramenti proprio dal nipote don Luigi. Mariù era scomparsa nel 1953.

NOTE
(1) Cfr. Giulio Tognacci, Ricordi pascoliani, Garattoni, Rimini, 1939, p. 39.
(2) Cfr. Maria Pascoli, Lungo la vita di G. P., Mondadori, Verona, 1961, p. 34.
(3) Ibidem. La via San Simone corrisponde all'attuale via A. Serpieri.
(4) Cfr. Luigi Ferri, G. P. e la città di Rimini, in Monografia n. 2 (1959) della collana edita dall'I.T.C.S. "R. Valturio", Rimini, a cura del preside Remigio Pian, p. 17.
(5) Cfr. M. Pascoli, cit., p. 10.
(6) Cfr. L. Ferri, ibidem. Sul soggiorno riminese, cfr. pure Giulio Cesare Mengozzi, Noterelle su P. studente a Rimini, "Studi Romagnoli", VII (1956), pp. 171-174; Alessandro Tonini, G. P. e Carlo Tonini, "La Piê", nn. 3-4, 1955; e A. Montanari, Il genio di Zvanì sbocciò a Rimini, "Il Ponte", 21. 12. 1986.
(7) Cfr. M. Pascoli, cit., p. 7.
(8) Cfr. L. Ferri, Il P.e la città di Rimini (II), in Monografia n. 5 (1962) cit., p. 101.
(9) Cfr. L. Ferri, ibidem.
(10) Cfr. L. Ferri, G. P. e la città di Rimini, p. 18.
(11) Cfr. Antonio Baldini, G. P. in bolletta dura, "Corriere della sera", 12.10.1928. Sull'edificio di piazzetta Gregorio da Rimini, nel 1962, l'amministrazione comunale fece apporre una lapide in cui, erroneamente, si dice che "negli anni 1871 e 1872 G. P. abitò studente questa casa…". Cfr. il cit. articolo de "Il Ponte", 21. 12. 1986.
(12) Cfr. A. Montanari, L'"Orologio guasto" di Carlo Marx, "Il Ponte", 27.1.1991.
(13) Cfr. M. Pascoli, cit., p. 67.
(14) Cfr. L. Ferri, G. P. e la città di Rimini, p. 19.
(15) Cfr. L. Ferri, ibidem, p. 20.
(16) Cfr. M. Pascoli, cit., p. 430.
(17) Cfr. L. Ferri, Il P. e la città di Rimini (II), cit., p. 109.
(18) Cfr. M. Pascoli, cit., p. 188.
(19) Cfr. ibidem, p. 482.
(20) Cfr. ibidem, p. 526.
(21) Cfr. ibidem, p. 525. La poesia s'intitola "Per sempre".
(22) Cfr. ibidem, p. 573.
(23) Cfr. ibidem, p. 572, nota 2.
(24) Cfr. G. P., La vertigine, dai "Nuovi poemetti".
[*] La revisione del 2012 riguarda la parte iniziale sull'elenco dei fratelli Pascoli.
All'indice.
Il prossimo 10 agosto 1991 a San Mauro, nella Chiesa della Madonna dell'Acqua, mons. Luigi Pascoli celebrerà l'anniversario della morte del nonno Ruggero Pascoli (avvenuta nel 1867), ed il 60° della propria Prima Messa.
Mons. Luigi Pascoli è figlio di Giuseppe, nato nel 1859 e morto nel 1917, ultimo dei maschi di Ruggero.
I rapporti tra Peppino e gli altri fratelli non furono sempre felici. Fanciullo "discolo", lo descrivono gli storici, perché scacciato per una qualche mancanza da tutte le scuole del Regno, nel 1873. Crebbe con un carattere "piuttosto cupo" e taciturno, racconta Mariù nella biografia del poeta.
Fallito un concorso nelle ferrovie, Peppino bussava spesso a soldi in casa di Zvanì che, nel 1883, non ha notizie precise del fratello, ma scrive a Severino Ferrari: "Pare che debba essere impiegato da Torlonia".
Peppino sposa poi la vedova di un barbiere che aveva due figli grandicelli. Commenta la terribile Mariù: "Egli aveva disgustato tutti…". Nel '94, "in miserevole stato", Giuseppe porta a Giovannino la notizia della morte della moglie. Ma è "tutta una commedia per far compassione".
Peppino si stabilisce a Bologna, impiegato in una fabbrica di biciclette.
"Quasi due anni dopo il falso annunzio… la moglie gli morì davvero", precisa Mariù.
Successivamente, egli va in Veneto e si sposa di nuovo, con una maestra.
Don Luigi Pascoli, il 10 agosto 1931, celebra la Prima Messa nella Chiesa della Madonna dell'Acqua, annessa alla vecchia casa Pascoli.
Al 1939, a Santa Giustina di Rimini, risale il suo primo incontro con la zia Ida che lo accolse con simpatia, perché finalmente poteva conoscere uno dei sei figli di Peppino. Ida viveva in povertà, dimenticata da Mariù: morirà a Bologna, nel '57, assistita con i Sacramenti proprio dal nipote don Luigi. Mariù era scomparsa nel 1953.
"Giovanni Pascoli è un Romagnolo: e non si può capir nulla della sua vita e della sua arte se non si sente in lui la "pasta" di questa tipica razza italiana, d'una vitalità concentrata e esuberante, piena di contraddizioni e di lotte intime e aperte…", scriveva nel 1937 Ettore Cozzani, in un'ampia analisi critica della vita e delle opere del poeta di San Mauro.
"E non si può capir nulla" di questa citazione, se non andiamo a leggere qualche riga dopo: "la razza che in pochi decenni ha potuto dare tempre… di precursori e anticipatori come Alfredo Oriani, di sintetizzatori e realizzatori come Mussolini, di poeti-veggenti come il Pascoli stesso".
Povero Pascoli, in quale triste compagnia lo poneva la retorica di Cozzani che addirittura trasformava gli abitanti d'una terra in una "razza" a sé.
Pellegrino Bagli, «ribelle» riminese
Fu amico di Giovanni Pascoli
Documenti inediti del 1871

Giovanni Pascoli giunge a Rimini nel novembre 1871. Pochi mesi prima, al Ginnasio Gambalunga (posto nell'omonimo palazzo seicentesco sede tuttora della civica biblioteca), è accaduto questo episodio. Sabato 3 giugno due studenti entrano nelle grotte del palazzo, dopo averne forzata la porta. Li vede un «giovane di bottega» del bidello Clemente Vernocchi che chiama immediatamente le guardie municipali le quali ispezionano le grotte ed i locali superiori, però «senza rinvenire alcuno». Nel pomeriggio (a scuola chiusa) Vernocchi informa il direttore del Ginnasio «come persone si fossero introdotte dalla parte ultima superiore del Palazzo Gambalunga in una delle latrine, che sporge in uno dei cortili, e che ivi facevano pressa e rumore alla porta per uscire».
Il direttore si reca subito al palazzo Gambalunga, dove ordina al Vernocchi di «portarsi ad aprire». Dalle scale scendono i due alunni del primo corso liceale Luigi Garzolini e Pellegrino Bagli. Il giorno 5 il direttore invia un «rapporto» al sindaco di Rimini, raccontando: «Feci loro il dovuto rimprovero, aggiungendo, che ne avrei data parte alla S. V. Ill.ma». Il direttore spiega che dall'ispezione a tutto il palazzo «non fu trovata veruna cosa, che possa dar luogo a sospettare in niun modo sinistri intendimenti nei giovani suddetti».
Il «rapporto» segnala soltanto che «mette veramente raccapriccio il vedere l'immenso pericolo a cui si sono esposti» per la loro sconsideratezza i due giovani. Essi infatti sono «discesi dai soffitti del Gambalunga mercé una vecchia assicella appoggiata fra muro e muro sopra una leggerissima sporgenza di mattoni nella Latrina, che pende su di una profonda altezza».
Il sindaco decide la sospensione dei due allievi «fino a nuovo ordine» ed incarica la «Commissione degli Studj» d'esaminare il caso, «per le ulteriori misure che si crederà d'assumere». La Commissione verbalizza le deposizioni del bidello Vernocchi il quale precisa che, vista la rottura della serratura nella porta della cantina, l'aveva «un quarto d'ora dopo» accomodata. Nel pomeriggio, aggiunge il bidello Vernocchi, notati i giovani «uscire dalla latrina al secondo piano», poté constatare che era stata «sforzata pure la serratura di quella porta». Sul comportamento dei due allievi, Vernocchi dichiara: «I suddetti due scolari sono soliti nell'uscire a far del chiasso».
Il professor Carlo Tonini (che sarà anche insegnante di Pascoli per le Lettere greche e latine), dichiara che i due sono «poco studiosi, poco docili, poco educati», e che «se codesti due scolari se ne andassero, la sua scuola rimarrebbe più quieta». Il professor Luigi Tonini, docente di Storia e padre di Carlo, sottolinea: «Le ammonizioni fanno con loro poco frutto». Ribadisce che sono «poco educati» e che «quando non vi sono essi, la Scuola va meglio». Concorda anche il docente di Matematica Luigi Giacomini: i due «mancano spesso da scuola, e studiano poco». Il garzone Daniele Nardini, qualificato come «falegname operajo del bidello», precisa che i due ragazzi «hanno corso gravissimo pericolo della vita nel passare dalla scala a chiocciola alla latrina», e che essi hanno rotto con qualche «valido sussidio» la serratura della latrina che era robusta. Infine il Censore Luigi Fabbri accusa i due giovani di essere «poco educati» e di schiamazzare all'ingresso ed all'uscita di scuola.
Gli imputati confessano. Entrarono nella cantina, ma senza forzare la serratura, perché la porta era aperta. Salirono poi per la scala a chiocciola «per osservare il pluviometro». Tornati indietro e, trovata chiusa la porta da cui erano entrati nella cantina, tentano l'«uscita passando dalla scala a chiocciola nella latrina». A quel punto il bidello Vernocchi li rinchiude nella stessa latrina. I due studenti «per impazienza», si legge nel verbale, rompono la serratura della latrina con una chiave. Loro stettero nella latrina, ma non videro persona alcuna avvicinarsi. Vernocchi è messo a confronto con i due ragazzi. Impossibile che non si siano accorti che li stavano cercando. E poi, spiega Vernocchi, dopo averli trovati lui stesso, li ha rinchiusi nella latrina «per riferirne al Direttore».
Il verbale conclude che il contegno dei due fu tale durante l'interrogatorio «da persuadere essere i medesimi compresi della loro sconveniente condotta». La Commissione propone al sindaco di togliere i due giovani dai ruoli scolastici, preso atto che essi sono «recidivi».
Alla Giunta municipale, Pellegrino Bagli rivolge il 6 novembre 1871 un'istanza per poter essere riammesso: «Se fui per lo addietro non molto diligente e studioso d'ora innanzi farò il possibile per esserlo». Il 15 novembre Pellegrino Bagli invia un'altra domanda di perdono al sindaco: «Che mai, io chiedo, che mai ho io fatto? Perché tanta severità per libero ed onesto cittadino; mentre vediamo il vile sicario girare per le pubbliche vie, e far parte dei pubblici e privati divertimenti. Ella dirà ch'io vado fuori d'argomento, ma con questo ho voluto mostrare che quegli il quale o per educazione o per tema non fa atti violenti, viene trattato da vile schiavo. Abbastanza ho detto. Sono Pellegrino Bagli».
E Pellegrino Bagli, nato nel 1854, sarà amico di Andrea Costa e sarà socialista. Muore nel 1893, dopo un'intensa attività politica. (Pellegrino Bagli è ricordato da Elisabetta Graziosi nel saggio «Pascoli studente e socialista: una carriera difficile», in «Pascoli socialista», a cura di Gianfranco Miro Gori, Pàtron editore, Bologna 2003, p. 79.)
Luigi e Carlo Tonini sono stati autori di una storia di Rimini dalle origini ai loro giorni. I verbali citati appartengono all'Archivio del Comune di Rimini.
All'indice.
Delitto Ruggero Pascoli, tutti sapevano tranne lo Stato.
Non fu un omicidio politico, quello del padre di Zvanì, ma tale apparve.

["il Ponte", Rimini, n. 25, 01.07.2012]
Era un sabato, quel 10 agosto 1867 in cui Ruggero Pascoli fu ucciso sulla strada che lo riportava a casa da Cesena: "Sulla via Emilia, tra la villa Gualdo e la chiesa di S. Giovanni in Compito, all'altezza della località detta della Madonna del Pietrone, a circa due chilometri dal paese di Savignano", è assassinato "da un solo colpo di fucile alla testa fatto esplodere da due sicari appostati dietro una siepe di biancospino lungo la strada". Uno dei pochi testimoni del delitto è l'onorevole savignanese Gino Vendemini, combattente garibaldino e fervente repubblicano. La sua memoria scritta sul fatto ha un'annotazione particolare: l'assassino rimane "ignoto, almeno alle autorità". Ovvero, la gente conosceva il mandante del delitto.
La ricostruzione dei fatti sin qui sintetizzata, è in un pregevole volume del 2009, "Giovanni Pascoli. Una biografia critica", composto da Alice Cencetti che dedica la prima parte dell'opera al delitto del quale Ruggero Pascoli fu vittima, con una ricca documentazione in cui si presenta, come dice il titolo del capitolo, il volto oscuro della "Romagna solatìa". La vera causale del delitto, osserva l'autrice, è quella già individuata dai congiunti: "il desiderio di subentrare" nell'amministrazione della tenuta Torlonia, retta allora appunto dal babbo di Zvanì.
Le altre ipotesi investigative esposte, sono l'occasione per raccontare i risvolti segreti di una terra in cui le tensioni politiche furono molto forti prima e dopo l'Unità d'Italia. Come ben riassume questo punto: "La causa reale dell'omicidio di Ruggero Pascoli non fu politica. Tuttavia è innegabile che il piano dell'agguato nacque e maturò in ambienti politici o parapolitici, quali quello repubblicano, in Romagna in quegli anni una delle forze preponderanti, che accoglieva nelle sue file e si appoggiava per le sue azioni anche a piccoli delinquenti", senz'arte né parte ma pronti a compiere privati regolamenti di conti.
Avemmo occasione di narrare, per i 150 anni dell'Unità d'Italia, la serie dei dodici delitti politici avvenuti a Rimini tra 1847 e 1864, con altrettante vittime, citando poi gli "antefatti criminali" di chi nel 1831 violò i cadaveri degli avversari politici, strappando persino gli occhi alle vittime.
La conferma della pista politica è in un documento scovato dal prof. Angelo Varni nell'Archivio di Stato di Forlì e pubblicato il 14 ottobre 1997 da Marco Marozzi su "Repubblica". È un rapporto "riservato" con cui il Prefetto il 16 agosto 1867 mandava a Roma le sue considerazioni. Varni disse: quel rapporto è "la fotografia di una Romagna dove ci si uccideva a tutto spiano, la tensione sociale era fortissima contro il nuovo ordine sabaudo e l'autorità regia sapeva reagire solo con la repressione. Così il prefetto di Forlì attribuì l'assassinio di Ruggero Pascoli a terroristi definiti mazziniani, ne fece arrestare un paio, usò il delitto per scatenare la caccia agli agitatori. Ma in realtà non mosse nessuna indagine. Tutto poi finì in niente, gli arrestati furono più tardi liberati senza clamori. Ma a tutti il meccanismo fece comodo. Alle società segrete perchè comunque dimostrarono la loro forza, al potere per colpire i dissidenti e compattare la gente impaurita".
Gli arrestati erano Raffaele Dellamotta e Michele Sacchini, entrambi di San Mauro ed agenti di casa Torlonia. Il Prefetto scrisse pure del "timore che hanno tutti i proprietari di grano di essere trucidati come lo sventurato Pascoli".
Cencetti sottolinea che le “sette” romagnole dell'800 richiamano le vicende dei briganti del Sud, con un particolare inquietante: gli “accoltellatori” avevano una solidarietà sincera e sentita della popolazione. Soltanto l'arrivo del solito delatore permise alla giustizia di smantellarli. Per il delitto Pascoli, conclude Cencetti, incompetenza o premeditata indolenza impedirono di fare luce.

ARCHIVIO
Rimini 150. In poche parole.
Delitti politici (8)

L'uccisione di Nicola Nagli nel 1864 suscita vasta eco. Gli amici lo ricordano come operaio instancabile, padre di famiglia accurato, patriota animoso, indefesso, integro che per 40 anni ha sfidato ogni tempesta della tirannia a riscatto della comune madre Italia. Il sottoprefetto Viani scrive: "Il vile assassino sente in oggi che non sono più i tempi che il Governo reggevasi coll'immoralità, e la Giustizia poggiava sulla corruzione e la debolezza".
Alla Società di Mutuo Soccorso, di cui è stato promotore, il presidente Alessandro Baldini ne ricorda le virtù di padre di famiglia, instancabile ed umile artigiano, benefattore che non guardava alle idee di chi bussava alla sua porta ed accoglieva pure chi gli aveva recato offese gravissime. Nagli ha ereditato il sentimento politico del padre Lorenzo, a cui le aspirazioni al nazionale risorgimento costarono prigionie e sciagure. Aborriva tutti i segretumi e l'ipocrisia di chi aveva mire ambiziose celate sotto lo scopo di patrio riscatto. Da uomo del partito liberale (il Comitato riminese è del 1853) vide dissensi e divisioni come sorgenti di lotta e di debolezza.
Prima di Nagli, fra 1847 e 1859 a Rimini altre undici persone sono vittime di delitti politici: Massimiliano Pedrizzi mercante di cereali (1847); il figlio del notaio Giacomo Borghesi, un cappellaio, l'avv. Mario Fabbri, ed il falegname Tamagnini colpito per sbaglio al posto di Michele Barbieri fervente sostenitore del papa (1848); il presunto autore dell'uccisione del cappellaio, e don Giuseppe Morri molto caldo contro i liberali (1849); il caldo papalino dottor Raffaele Dionigi Borghesi (1850); il vicesegretario del Comune Antonio Clini che si occupava molto di politica (1854); il francese Vittorio Tisserand sposo della contessina e commerciante Mariuccia Ricciardelli (1856); il cappellaio Terenzo (1859).
Tisserand, cancelliere del vice consolato di Francia a Rimini, ha aderito alla Giovine Italia e predicato idee rivoluzionarie pure ai lavoratori delle sue imprese: fornaci, distillerie e vigneti. Fu vicepresidente del Circolo Popolare capeggiato da Enrico Serpieri, che ha propagandato l'opposizione al governo pontificio. Nel 1849, sotto la Repubblica romana, è stato eletto consigliere comunale con 288 voti su 372 elettori. Nicola Nagli ne ha avuti 239. In tutta la nostra regione ai tripudi attorno agli alberi della libertà, ha scritto U. Marcelli, allora si alternano attentati fratricidi fra rivoluzionari e reazionari. (8. Continua)

Rimini 150. In poche parole
12. Il 17 marzo 1861

Una cometa nell'estate del 1860, racconta Carlo Tonini, fa presagire fatti funesti. Garibaldi il 5 maggio è partito da Quarto con i Mille. Il 17 marzo 1861 è proclamato il regno d'Italia. L'annuncio arriva verso la sera del 18. Suonano il campanone e molte bande militari. Addobbi ai balconi, bandiere, spari, luminarie, fuochi artificiali. L'11 e 12 marzo 1860 si è votato per l'annessione alla monarchia costituzionale di Vittorio Emanuele II o per il regno separato. Da una settimana i borghesi avevano messo al cappello un nastro tricolore. La vittoria dell'annessione (con 4.800 sì) era prevista. Delle poche schede stampate per il regno separato, soltanto due ne finiscono nelle urne. Hanno votato anche tutti i braccianti che lavorano alle fortificazioni. Gli hanno passato la giornata di 24 bajocchi.
Il 25 marzo 1860 alle prime elezioni politiche partecipano soltanto 258 dei 575 iscritti, appartenenti al vasto collegio che comprende Rimini ed altri dieci Comuni, da Verucchio a Morciano e Cattolica. I volontari dello stesso territorio alla guerra del 1859 sono circa il doppio degli aventi diritto al voto. L'astensionismo si ripete nel novembre 1870, due mesi dopo Porta Pia, alle elezioni per la Camera: il repubblicano Aurelio Saffi è sconfitto dal liberale conte Domenico Spina che al ballottaggio ottiene 211 voti contro 184. La seconda votazione si è resa necessaria per il basso numero dei partecipanti alla prima (341 su 911 iscritti).
Nel marzo 1860 Ruggero Baldini è divenuto assessore nella prima Giunta comunale riminese dopo l'annessione al regno di Sardegna. Alla politica era giunto attraverso la guerra: nel 1848 aveva guidato 478 volontari riminesi. Cinque di loro erano morti a Cornuda e Vicenza. Tutti appartenevano alle classi più umili. Anche per la Repubblica romana nel 1849 ci sono state cinque vittime. Tra gennaio e marzo 1859 sono partiti per il Piemonte 2.448 volontari romagnoli.
Il 19 marzo 1864 per la festa di san Giuseppe, scrive Luigi Tonini, i Democratici fanno la solita dimostrazione in onore di Giuseppe Mazzini e di Giuseppe Garibaldi. La giornata si conclude con l'uccisione di un noto liberale, il sarto Nicola Nagli. Ex carbonaro ed agente segreto antipontificio, eletto in Consiglio comunale nel 1849 al tempo della Repubblica romana, nel 1859 finito il governo papale il 21 giugno notte, diventa Commissario di Polizia, attento a mantenere l'ordine pubblico. Forse gli costa la vita l'aver difeso un sacerdote aggredito da alcuni militari.

Rimini 150. In poche parole.
Antefatti criminali (9)

Gli undici delitti politici commessi tra 1847 e 1859 hanno una premessa in fatti avvenuti dopo la fallita "rivoluzione del 1831" e la battaglia delle Celle in cui "pochi ma valorosi italiani" soccombono agli Austriaci, come scrive Girolamo Bottoni in pagine dimenticate (1914). I volontari erano male armati, con poche munizioni, mal vestiti se non addirittura scalzi, "con scarsa o nulla disciplina ed istruzione militare", costretti a misurarsi con "soldati regolari bene armati, bene istruiti e imbaldanziti dai recenti successi" (U. Marcelli).
Per Bottoni le cause della sconfitta del moto "quasi pacifico" sono "l'impotenza direttiva dei capi; l'attaccamento di buona parte dei romagnoli al regime pontificio; la mancanza d'entusiasmo e di fede nella vittoria definitiva". Oltre alla "partecipazione alla ribellione di elementi fedeli al papa, ai liberali, fedelissimi a qualunque governo", come ricava da una lettera inviata al vescovo di Rimini dal can. Macrelli, vicario a Santarcangelo.
I più tenaci nemici dei rivoluzionari sono i contadini, osserva Bottoni. Questi "difensori della religione, nemici dei liberali, ma soprattutto bramosi di denaro", aggrediscono il colonnello Ruffo, ex comandante della guardia nazionale di Rimini. Ruffo si salva pagando loro 50 scudi e ricoverandosi in casa di don Trebbi, arciprete di Spadarolo, "che l'accoglieva amorosamente". Don Trebbi difende Ruffo quando i contadini reclamano "la preda giacobina", con la falsa scusa di una taglia posta sul suo capo. In analoga vicenda un contadino di Ciola dichiara di disporre di 100-200 colleghi "pronti a venire in città per arrestare tutti i giacobini", ovvero i liberali.
Il papista Filippo Giangi (leggiamo in Bottoni) racconta: "L'iniquità di questa classe di gente è divenuta eccessiva e pericolosa sia per il suo istinto di derubare, sia per le false massime che vari loro preti per fini particolari li vanno infondendo sotto l'aspetto religioso, contro ogni principio cristiano e di umanità".
La "barbarie" dei contadini non si limita a depredare dei vestiti "i reduci della resa di Ancona", ma giunge a violare i cadaveri. Sulla spiaggia ad uno dei "fuggiaschi nazionali" uccisi, sono "stati strappati gli occhi", annota Giangi. Scrive Bottoni: "Eppure i piccoli preti erano stati testimoni oculari delle grandi miserie e dei grandi disordini nello stato papale...". Ignora del tutto i fatti chi oggi accredita l'immagine ufficiale di una "pacifica e docile popolazione". (9. Continua)
All'indice.
Pascoli, nasce a Rimini il poeta moderno
["il Ponte", Rimini, n. 22, 10.06.2012]
Già a Rimini nel 1872 il giovane Pascoli è un poeta moderno. Nella prima adolescenza e giovinezza compaiono "alcuni suoi temi tipici". Nel modo di scrivere i versi per le nozze dei principi Anna Maria Torlonia e Giulio Borghese, ci sono i segni di "un corretto discepolato petrarchesco-leopardiano". Ma soprattutto appaiono i primi bagliori della sua teoria sociale, "benché espressa in termini assai timidi e cauti". L'ispirazione civile è nella quarta strofa dove una donna ed il suo fanciulletto attendono il ritorno impossibile del capofamiglia che sta morendo nelle sabbie mobili della palude. Ma, ci permettiamo di aggiungere, c'è pure quel passo che ha venature rivoluzionarie: "si succia ognor al povero le vene / sotto l'onesto vel di comun bene".
Queste importanti annotazioni si leggono nel volume di Renato Barilli che, fedele alla pratica della critica letteraria che gli deriva dalla scuola di Luciano Anceschi, ha intitolato in modo originale il suo lavoro, soprattutto nella seconda parte: "Pascoli simbolista. Il poeta dell'avanguardia debole". Il debito della cultura italiana verso Anceschi per la sua interpretazione di Pascoli, è dichiarato in fondo al volume, in una nota che passa in rassegna tutto quanto è stato pubblicato sul poeta di San Mauro. Anceschi nel 1958 raccoglie precedenti studi che vogliono porre Giovanni Pascoli nelle file del Novecento, anzi nella fase di passaggio "verso" il Novecento, per dichiarare quello che non c'è più del secolo precedente e segnalare quello che Pascoli annuncia per il secolo in cui conclude la sua vita.
Sarebbe stato interessante per Rimini invitare Barilli a parlare del giovane ribelle che vi ha studiato da poeta. Nel recente pomeriggio del 14 aprile dedicato allo Zvanì riminese, su tre ore abbondanti di interventi soltanto venti minuti (da parte del sottoscritto) sono stati dedicati al soggiorno di Pascoli nella nostra città tra 1871 e 1872, limitati soprattutto alla vita scolastica per non ripetere cose già scritte in precedenza. Molte questioni restano da affrontare, ed il libro di Barilli ne è conferma. Non interessa a nessuno creare un pubblico evento locale, essendo il precedente di aprile partito da un progetto bolognese.
Tra gli altri esempi del Pascoli giovane poeta, o poeta giovane, c'è "La povera piccina" che Barilli esamina pure in chiave sociologica: "Siamo ancora a dovere ricordare l'alto grado di mortalità infantile in quegli anni, dato oggettivo, statisticamente accertabile, che assegna una concretezza documentaria alle molte bare di bambini e di adolescenti", che troviamo nei suoi versi.
Torniamo a quel sottotitolo sull'avanguardia debole, che è lo stesso Simbolismo, contrapposto alle avanguardie forti come il Futurismo che esaltava la "guerra, sola igiene del mondo". Il Simbolismo è contrastato da "audaci quanto sfortunate" pattuglie le quali avevano una mentalità tutta a favore del sistema di Natura, contrapposto a quello della imperante Tecnocrazia. La loro riabilitazione critica risale agli anni Sessanta del secolo scorso, quando quei "parenti poveri", quegli "avi di cui sino a qualche tempo prima ci si vergognava", furono tolti dalle soffitte in cui erano stati relegati. Dopo la metà degli stessi anni Sessanta, "con un epicentro attorno ai fenomeni ancora di incerta interpretazione del '68 e dintorni", al nostro Pascoli è affiancato il fratello D'Annunzio, se ho ben compreso il testo di Barilli, per una ragion politica che li considera poeti-vati da svalutare, dileggiare e liquidare.
Ma non è tutta colpa dei posteri se il nostro Zvanì nel 1911 applaude alla guerra di Libia, partendo (come scrive Barilli), da un'impostazione di sinistra ed approdando ad esaltare un'impresa colonialista.
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© Antonio Montanari. [Rev. 05.12.2017].