L’Accademia
dei Lincei riminesi
(1745)
Breve storia
con in Appendice una biografia
del suo «restitutore»
(Iano Planco,
1693-1775)
1. L'anello di
Galileo
E' di Iano Planco la
prima storia a stampa dei Lincei
Nel 1603 avvenne la fondazione dell'Accademia dei
Lincei. Essa risorse a Rimini nel 1745 per opera del medico e scienziato
Giovanni Bianchi (Iano Planco, 1693-1775) che della celebre istituzione romana
aveva scritto in precedenza una breve storia, intitolata «Lynceorum
Notitia», la prima apparsa a stampa.
Questa storia esce nel 1744 come premessa al Fitobasano di Fabio Colonna, pubblicato a cura dello stesso
Bianchi a Firenze: l'opera studia le piante più rare note agli antichi,
cercandone il corrispondente nome moderno. Colonna aveva 24 anni quando, a sue
spese, la licenziò nel 1594 a Napoli, dove era nato (e morì nel
1640). Osserva la storica e bibliotecaria Paola Delbianco che «la
pubblicazione dell'opera lo portò al dissesto finanziario, anche
perché, per la prima volta in un'opera di botanica, volle sostituire le
comuni immagini silografiche con incisioni in rame da lui stesso preparate con
grande maestria» (cfr. Le
Belle Forme della Natura. La pittura di Bartolomeo Bimbi (1648-1730) tra
scienza e ‘maraviglia’, pp. 146-147).
Anche Bianchi paga di tasca propria la ristampa
fiorentina del 1744: le spese assommarono a «cinquecento e più
ducati», come leggiamo in una sua lettera. Planco non riuscì a
recuperare nulla di questa cifra, stando a quanto gli scrive proprio da Firenze
Giovanni Lami, direttore delle «Novelle Letterarie», il 26 dicembre
1744: «neppure uno è venuto a ricercare il suo Fitobasano, che
è un'opera degnissima, e di più da Lei illustrata, e adorna a
meraviglia». Era stato lo stesso Lami ad anticipare nel suo periodico il
4 ottobre 1743 che Bianchi stava allora lavorando in Firenze alla ristampa del
libro di Colonna, «in tempo di vacanze» dell'Università: in
quel periodo Planco insegnava a Siena Anatomia umana.
Sulle
«Novelle» si presenta la fatica di Bianchi il 14 agosto 1744,
scrivendo: «Il celebre Sig. Giovanni Bianchi Ariminese, il quale tre anni
sono fu chiamato dalla Munificenza dell'Altezza Reale del presente Gran Duca
nostro Gloriosissimo Sovrano a professare l'Anatomia nella illustre
Università di Siena, dà frequente occasione co' suoi dotti
scritti d'adornare queste Novelle, facendo egli onore a se stesso, e all'Italia
nostra insieme».
Nella seconda parte dell'articolo (21 agosto
1744), in riferimento ai Lincei, leggiamo che «dopo la morte del Cesio
[1630], e dopo l'accidente occorso l'anno dopo in Roma al Galileo, [...] cominciò
l'Accademia a mancare». Bianchi vuole però dimostrare, come
vedremo, che anche successivamente al 1630 i Lincei continuano a svolgere la
loro attività scientifica.
Nel cap. XX della «Lynceorum Notitia»,
premessa al Fitobasano,
Bianchi, in base a «carte fogheliane» (opera cioè di Martino
Fogel di Hannover), elenca tre lincei riminesi del XVII sec., Francesco Gualdi,
Francesco Diotallevi, Francesco Battaglini. Carlo Tonini, nella sua
«Coltura» (pp. 87-88, 133, 192), riporta la smentita di monsignor
Gaetano Marini a tali tre nomine lincee.
Bianchi si era procurato la copia delle 162
«carte fogheliane» tramite il nobile di Livonia Diedrick
Zimmermann, con cui fu in corrispondenza. Un altro testo di cui Planco si
servì, è il manoscritto intitolato «Brevis historia
Academiae Lynceorum» (1740) di Giovanni Targioni Tozzetti (cfr. G. Gabrieli, Contributi alla storia
dell'Accademia dei Lincei, Roma 1989, pp. 247-248). Targioni fu direttore dell'Orto Botanico e
prefetto della Biblioteca Magliabecchiana di Firenze.
Bianchi usa questo testo senza però
citarlo. Molti anni dopo, nel 1752, Targioni invia una garbata protesta a
Planco, ipotizzando che il suo manoscritto fosse stato inviato a Bianchi
«verisimilmente senza il mio nome» da un antico maestro riminese di
Planco, monsignor Antonio Leprotti, a cui egli l'aveva in precedenza inoltrato.
Invece Leprotti il 18 novembre 1739 aveva espressamente dichiarato a Bianchi
che l'«Istoria dell'Accademia dei Lincei» trasmessagli era
«del Sig. Targioni di Firenze».
Targioni osserva: «Mi trovo spesso a vedere
alcuni far uso di mie fatiche e scoperte, senza che io glie le abbia
gentilmente comunicate, e neppure si degnano nominarmi: io non me ne offendo
punto, anzi, confesso il mio peccato, internamente mi sento qualche accesso di superbia».
Planco aveva iniziato a preparare la ristampa del Fitobasano nel 1739, cioè due anni prima di andare ad
insegnare a Siena, dove rimane fino al novembre 1744. Bianchi il 21 ottobre
1739 inoltra a Roma la richiesta «per avere e ritenere per sei mesi le
Opere di Fabio Colonna che sono in Biblioteca Gambalunga, per farle
ristampare»: ne parlano le lettere scambiate con Leprotti il quale gli
ottiene il permesso. Il 26 novembre 1739 Bianchi chiede a Leprotti di
procurargli un'autorizzazione più generale per potersi «servire in
casa de' Libri della Biblioteca Gambalunga»: «sarà una cosa
molto comoda a miei studi perciocché nell'ora che si tien aperta quella
Libreria io il più non ci posso andare». Il 10 dicembre lo
sollecita per un permesso «che non sia ristretto ad alcun libro
particolare, e che si distenda per ogni tempo, ristringendosi solo che io debba
lasciar la ricevuta di ciascun libro che prenderò in mano».
La lettera del 26 novembre a Leprotti, dove
Bianchi riferisce della difficoltà di trovare notizie sui Lincei e su
Federico Cesi, merita di essere citata ulteriormente. Intorno ai Lincei, per
comporne la breve storia da premettere al Fitobasano, scrive: «Credo che basterà quello
che s'era trovato finora. Al più si potrebbe vedere se si potesse ritrovare
uno di quegli Anelli col Lince che loro serviva di divisa, il quale si potrebbe
far incidere». Bianchi suggerisce di svolgere la ricerca a Firenze,
«appresso gli eredi del Galileo»: il quale, aggiunge, era
«stato condannato in Roma» nel 1631, l'anno dopo la morte del
«Principe Cesi autore dell'Accademia». In realtà la condanna
di Galileo è del 1633, per il Dialogo sopra i due massimi sistemi del
mondo uscito nel febbraio '32.
Dopo i due eventi «questa Accademia patisce
una grande eclisse, contuttocciò» il suo nome si andava
mantenendo, poiché «verso l'anno 1650» apparve un testo con
scritti di alcuni accademici lincei (apertamente dichiarati come tali) e dello
stesso Colonna: si tratta di un trattato su piante, animali e minerali
messicani di Francisco Hernandez (1517-1587), curato dal medico napoletano
Marco Antonio Recchi (XVI sec.), e pubblicato a Roma nel 1651, in cui appare
pure un elogio di Galileo (datato 1625). Questo volume, ideato da Federico
Cesi, uscì postumo a causa di «intoppi, contrarietà e
lentezze» che s'aggiungono alla sua scomparsa, per opera di Francesco
Stelluti «l'unico superstite dell'avventura del 1603» (cfr. E. Raimondi, Scienziati e viaggiatori, «Storia della Letteratura Italiana
Garzanti», V, p. 238).
La lettera di Bianchi prosegue:
«Bisognerebbe trovare qualche cosa di più intorno di Fabio
[Colonna] che è la cosa principale che si cerca, cioè quanto
vivesse, dove sia morto, e sepolto. Scrittor alcuno non ne parla, almeno
costì in Roma, o in Napoli si dovrebbe ritrovar persona che per indizio
de' loro maggiori n'avessero udito a parlare. Io mi ricordo che una mia Avola
paterna che morì 30 anni sono d'ottantacinque mi raccontava di monsignor
Angiolo Cesi nostro Vescovo il quale doveva esser Fratello dell'Autore dell'Accademia
de' Lincei, che era uomo di santa vita, come egli di sé predicava, e
altre cose». Angelo Cesi è realmente fratello di Federico, e fu
vescovo della nostra città dal 1627 al 1646.
Circa la «Lynceorum Notitia», in
lettera senza né data né destinatario, Bianchi osserva come essa
esamini «le principali gesta di que' valorosi uomini, e il principio, e
il progresso della Filosofia moderna che i Lincei suscitarono sulla scorta del
Galileo, del Cesio, del Colonna, e di tant'altri valorosi uomini di quel consesso».
Nel «Lynceorum Catalogus», a p. XXVII
della premessa al Fitobasano,
Bianchi scrive su Federico Cesi: «Telescopium, Microscopiumque vel
invenit, vel inter primos eorum usum propagavit, eaque his nominibus
donavit». Di qui l'accusa a Planco (da parte di D. Vandelli) di aver
errato, sottraendo a Galileo il merito dell'invenzione del cannocchiale.
Vandelli, docente «delle Matematiche» nell'Università di
Modena, inoltre incolpa Bianchi di aver omesso il nome di Alessandro Tassoni
nel «Lynceorum Catalogus». Vandelli porta come fonte autorevole L.
A. Muratori, anche se riconosce che quel nome manca nell'elenco ufficiale del
1625.
L'edizione fiorentina del Fitobasano, secondo quanto scoperto da Paola Delbianco (op.
cit.), è accompagnata da un'altra uguale (esistente in Gambalunghiana),
che reca il nome dello stesso tipografo, Pietro Gaetano Viviani, però
sotto la "falsa data" di Milano.
2. Rimini-Siena, e ritorno
Perché Giovanni Bianchi, ritornato a Rimini nel novembre del
1744, decide di ripristinare nella propria città l’Accademia di
Cesi? Bisogna fare un passo indietro nel tempo, ritornando al 1741, quando
Planco va ad insegnare a Siena. L’amico padre teatino Paolo Paciaudi, al
momento della sua decisione di accettare la Cattedra di Anatomia umana in
quell’Università, lo aveva sconsigliato: «Se fusse o Firenze
o Pisa direi: andate pure… Ma Siena, Siena che decoro può recarvi?
[...] bisognerà che vi apprestiate a sostenere le maledicenze dell’invida
genìa de’ paesani di Siena professori della vostra scienza.
Già si sa che dove il Forestiero è solo a primeggiare ha da
essere inquietato da’ Nazionali».
E’ interessante la risposta di
Bianchi: «Io come Filosofo non mi sono mai affezionato a niuna cosa in
particolare; ma essendomi dilettato di varj studi, colà io attenderei a
quelli che io potessi, dove qui io non posso per così dire attendere ad
alcuno, tutto il giorno essendo occupato in cure tediose di malati senza alcun
profitto. Questa è una città che dà ai Medici il medesimo
incomodo che Roma, e ogni altra gran città, ma il premio è senza
alcun paragone infinitamente minore».
La partenza di Bianchi da Rimini verso la
città toscana, è come una fuga da un ambiente che egli sentiva
oppressivo, e che non lo appagava (e non soltanto pagava, come lui stesso
osserva). Nel ’41, Planco gode già di una discreta fama. La
chiamata a Siena, scriverà più tardi, è avvenuta senza
alcun suo «maneggio». Tutto merito, quindi, della sua cultura e dei
suoi studi. Due anni prima, nel ’39, a Venezia ha pubblicato il «De
conchis minus notis liber», dove parla dei Foraminiferi («protozoi
marini provvisti di un guscio calcareo di forma varia», spiega il
dizionario), rendendo famoso il nostro Covignano per i
Corni d’Ammone, molluschi cefalopodi fossili che egli vi ha ritrovati.
Il
«De conchis» ebbe importanza europea come possiamo ricavare dalle
«Novelle letterarie» fiorentine del 12 aprile 1743, dove leggiamo
che Bianchi, per le sue scoperte in questo campo, venne definito
«Linceo» da Gian Filippo Breynio, professore di Storia Naturale in
Danzica. Il giudizio di Breynio può esser considerato una specie di
suggerimento a Bianchi: il quale, vedendosi così grandemente elogiato,
non può non aver pensato ad un’impresa che eguagliasse in fama
quella dell’Accademia di Cesi.
La chiamata alla Cattedra senese significò per Bianchi non
soltanto soddisfare la sua ambizione, ma anche affrontare un’esperienza
resa difficile dalle polemiche che egli suscitò nell’ambiente
accademico sia con le accuse di ignoranza indirizzate ai colleghi universitari,
sia con le vanterie contenute nell’autobiografia latina anonima,
pubblicatagli da Giovanni Lami nel ’42 a Firenze. L’ostilità
e la diffidenza che nacquero attorno alla sua persona, lo convinsero a
ritornare nella natìa Rimini alla fine del novembre 1744.
Bianchi motiva il suo rientro in patria con l’accettazione di
una duplice offerta fattagli dalla comunità di Rimini: la concessione
della «cittadinanza nobile, e lo stipendio di scudi 200 annui per la sola
permanenza». In realtà, allo stipendio doveva corrispondere un
preciso impegno di lavoro con l’incarico di «medico primario
condotto». (L’incarico, inizialmente confermato di sei anni in sei
anni, diventa a vita il 28 agosto 1769.)
Il Consiglio civico ha espresso 42 voti favorevoli
e 3 contrari. La stessa offerta della cittadinanza nobile e dello stipendio,
gli era già stata fatta in precedenza, il 7 ottobre 1741: in un
documento di Bianchi, leggiamo che egli la rifiutò perché
«volle andare, e leggere la notomia pubblicamente in Siena per tre anni,
insegnando insieme colà diverse altre cose privatamente». Giuseppe
Garampi il 16 marzo 1743 ha scritto a Bianchi: «Ho udito alcuni
(già suoi parziali) ora essere alquanto mutati da quel buon animo che
prima per essolei nutrivano contuttociò gran fidanza io averei che
venendo ella in Rimini potesse e colla sua presenza e col suo discorso
facilmente rivoltarli in suo favore. Oltredicché forse alcuni
ch’ella avea già contrarii spererei che ora non le potessero fare
ostacolo alcuno».
Per quanto ben remunerata ed illustrata con le
lusinghe di un titolo nobiliare (oltremodo gradito alla sua vanità), la
carica assunta da Planco era di nessun valore rispetto al prestigio
derivantegli da una Cattedra universitaria: la situazione dovette turbarlo
parecchio, e spingerlo a ricercare una rivalsa psicologica ed intellettuale,
con lo scopo di poter continuare a primeggiare e di non farsi dimenticare da
colleghi ed avversari, due categorie destinate spesso a coincidere ed a
fondersi in una sola, e non sempre per colpa sua.
Lo strumento con cui realizzare questo scopo,
Bianchi lo individua nel rimettere «in piedi l’antica accademia
filosofica, ed erudita de’ Lincei, avedoci rifatte le leggi, ed avendoci
aggregate non solamente le persone più dotte della città di
Rimino, ma di altri paesi ancora», come scrive in un testo autobiografico
anonimo del 1751, i «Recapiti» (la parola
«recapito» ha il significato di considerazione reputazione,
stima.).
Delle beghe senesi, c’è testimonianza
in una lettera che Bianchi aveva inviato all’Università: è una sua domanda per ottenere che «il settore
Anatomico» fosse «a lui onninamente sottoposto nelle cose di
Anatomia», il che fa pensare a contrasti ed a rivalità tra
colleghi. In effetti la partenza di Planco da Siena è la nuova fuga da
una realtà che, come aveva previsto padre Paciaudi, ben presto gli si
rivelò ostile. (Planco non rinuncerà però, negli anni
successivi, all’idea di tornare ad occupare una Cattedra di Anatomia,
come si ricava da una lettera di un suo amico, del 1750.)
La rifondazione dell’Accademia di Cesi, dai
documenti esistenti, risulta come momento iniziale di un progetto di più
ampio respiro che avrebbe dovuto articolarsi anche nell’impianto di una
stamperia con iniziative editoriali sotto l’insegna della Lince. In una lettera al libraio e stampatore veneziano Giovanni Battista
Pasquali, a cui Bianchi chiese un piano di organizzazione della stamperia,
Planco scrive: «Bisognerebbe nel tempo che si fa il torchio, e gettare i
caratteri, far fare un’insegna di legno da mettere nel frontespizio, ed
io penso di metterci una Lince, o sia un Lupo Cerviero con attorno le lettere
che dicano Lynceis Restitutis. [...] Io le mando la figura della Lince, che
posi nel Fitobasano, perché serva di norma come ha da essere
l’animale nel legno, che bisogna vedere che abbia gli occhi vivaci, e che
sia fiero, e che non paia un Gatto».
Alla base di questo progetto, probabilmente
c’è anche il desiderio di imitare, se non superare, i risultati di
altre imprese culturali, quali le fiorentine «Novelle letterarie»
di Giovanni Lami. Pure il concittadino Giuseppe Malatesta Garuffi poteva
rappresentare per Bianchi un modello da emulare. Garuffi fu sacerdote e
direttore della Biblioteca Gambalunghiana dal 1678 al 1694; tra l’altro,
compilò una storia delle accademie italiane, «L’Italia
Accademica», il cui primo ed unico volume a stampa (1688), non piacque a
Ludovico Antonio Muratori, ed a Forlì nel 1705 animò il
«Genio de’ letterati».
Garuffi aveva
avviato un ampio programma, sotto il titolo di «Bibbioteca Manuale degli
Eruditi», con Accademia e stamperia, a cui sembra rimandare quello
analogo di Bianchi. (Questo titolo di «Bibbioteca» viene quasi
sempre riprodotto come «Biblioteca», ma sia nell’unico volume
a stampa così chiamato, sia nei rimandi che troviamo all’interno
del «Genio de’ letterati», la dicitura corretta è
quella che ho riportato.) La «Bibbioteca» è divisa in 130
titoli, «i quali contengono moltissime Erudizioni, Istoriche, Poetiche,
Morali, varie, e di sagra Scrittura». Secondo quanto Garuffi scrive nel
«Genio de’ letterati», la «Bibbioteca»
costituisce l’opera iniziale di un ampio piano editoriale.
Bianchi, per il
fallimento del suo tentativo, avrebbe potuto accusare, come già aveva
fatto a proposito della gestione della Civica Biblioteca di Rimini,
l’insensibilità dei pubblici amministratori che «non curano
libri e librerie perché sono tutti ignoranti e vigliacchi». Ma la
Municipalità allora era troppo occupata a gestire una complessa
situazione economica, causata da continue emergenze militari, carestie e
necessità collettive, per poter pensare al finanziamento di iniziative
editoriali private, per quanto importanti esse fossero.
3. Iano Planco, la missione
del dotto
I Lincei
riminesi di Giovanni Bianchi nascono da una costola della gratuita scuola
privata che egli aveva aperto nel 1720, dopo aver conseguito il 7 luglio
dell’anno precedente la laurea presso la Facoltà di Medicina e
Filosofia a Bologna. Le lezioni si tenevano nella sua casa, posta
all’inizio dell’attuale via Al Tempio Malatestiano, lato monte.
Vi
s’insegnavano «Filosofia, Geometria, Medicina, Notomia, Botanica,
Chirurgia, e Lingua Greca in vantaggio, e profitto della studiosa
gioventù paesana, e forastiera», come scrisse un suo ex allievo,
Giovanni Cristofano Amaduzzi. Una «pubblica Università», la
definisce un altro antico discepolo, il sacerdote Giovanni Paolo Giovenardi. La
Medicina era materia comune per tutti gli allievi. Bianchi aveva allestito pure
un piccolo museo utile agli studi di Antiquaria a cui egli addestrava i
discepoli.
Sia nella
scuola sia nei Lincei, Bianchi svolge la sua missione di dotto, a cui si
sentiva naturalmente vocato: «finché io avrò vita non
cesserò giammai di animare la Gioventù, che mi frequenterà
ai buoni studi», sostiene in un intervento accademico del 1761.
Bianchi
aveva ricevuto la prima impronta scientifica frequentando dal 1715 al novembre
1717 (quando va a studiare a Bologna), l’Accademia «di scienze, e
d’erudizione» voluta dal vescovo di Rimini, il bolognese Giovanni
Antonio Davìa che era stato allievo di Marcello Malpighi, uno dei
maestri della nuova Scienza sperimentale.
In
quell’Accademia, Planco aveva recitato quattro dissertazioni sulle Odi di
Pindaro, oltre a riassumere quelle altrui in qualità di segretario del
consesso. Con monsignor Davìa, Bianchi s’era trovato meglio che
con i Gesuiti, presso il cui collegio era stato mandato fanciullo, e dal quale
era fuggito a soli undici anni, per non perder tempo nel seguire il normale
corso degli studi nella Lingua latina, che a lui appariva troppo lento. Si era
così messo a studiar Greco, scrisse G. P. Giovenardi, «senz'altra
guida che quella di se stesso».
Monsignor
Davìa aveva un fratello, Francesco, il quale aveva sposato Laura
Bentivoglio che figura tra i primi allievi di Planco a Rimini. Laura, assieme
al figlio Giuseppe, nato nel 1710, fu qui «relegata dal marito, noto per
la sua vita sregolata e stravagante» (G. P. Brizzi). Donna «di
profonda dottrina, e di grande erudizione», la definisce G. P.
Giovenardi. Anche suo figlio Giuseppe fu alunno di Bianchi. Il 29 settembre
1722 Laura Bentivoglio scrive a Planco: «Il mal Animo de Riminesi contro
di me ò per meglio dire contro al loro prossimo in generale, che per
verità è tale; non mi giunge nuovo avendolo riconosciuto dal
primo giorno, che la mala sorte qui mi portò».
Quando
Bianchi va ad insegnare Anatomia a Siena (1741), trasferisce la sua scuola
nella città toscana, dove lo segue Francesco Maria Pasini che
diventerà vescovo di Todi e sarà noto quale educatore del giovane
Aurelio De’ Giorgi Bertòla (1753-1798). Olivetano e poeta,
Bertòla fu più propenso alla licenza morale che alla pietà
religiosa, vittima di una situazione famigliare per cui, contro il suo volere
ed il suo temperamento, fu avviato alla vita monastica.
Al ritorno
da Siena nel 1744, Planco riprende l’attività privata di docente.
E nel 1751 pubblica un anonimo «catalogo» dei suoi alunni
«che più si sono distinti, e che sono usciti dalla scuola fatta
dal Bianchi in Rimino, tralasciandosi di mentovare quegli scolari,
ch’ebbe in Siena, e che si distinguono». Sono quarantaquattro nomi
che non corrispondono a tutti quelli dei giovani che passarono nella casa di
Bianchi.
C’è
il celebre naturalista Giovanni Antonio Battarra (1714-1789) che sarà
pure suo collaboratore. C’è il futuro cardinale Giuseppe Garampi
(1725-1792), a cui la Chiesa e la cultura italiana debbono tanto per
capacità politica, sagacia diplomatica e solida dottrina. Manca
però Lorenzo Ganganelli, il futuro papa Clemente XIV, eletto nel 1769 e
morto nel 1774. Ganganelli, nato nel 1705, si trattenne a Rimini sino al
diciottesimo anno, cioè sino al 1723 circa.
Il 30
settembre 1759 (dopo la sua nomina a cardinale), Ganganelli scriveva a Bianchi:
«Ora conosco, che voi avevate ragione a sgridarmi, quando io non voleva
studiare; adesso vi ringrazierei di quanto allora faceste per me». Un
anno prima, il 7 giugno 1758, Ganganelli aveva ricordato a Planco con
«affetto» la città di Rimini («sono uno de’ suoi
abitanti»), mentre il 15 settembre 1763 gli scrive: «non passa
forestiere a Rimini, che non chiegga di vedere il Dottor Bianchi, e che non
abbia il vostro nome registrato nel suo taccuino». Quando Bianchi gli
invia le proprie felicitazioni per l’elezione papale, Ganganelli gli
risponde con una lettera su cui il medico riminese annota nei propri
«diari»: Clemente XIV «mi stimola a seguitare a promuovere li
buoni studi di Filosofia, e di Lingua Greca nella Gioventù».
Per
questioni anagrafiche, nel «catalogo» non sono presenti neppure i
nomi del grande erudito santarcangiolese Gaetano Marini (1742-1815); del
riminese Francesco Bonsi (1722-1803), studioso di Veterinaria; e del filosofo
Giovanni Cristofano Amaduzzi (1740-1792), avviato da Bianchi a Roma verso una
carriera che si svolse sotto la protezione prima di papa Ganganelli e poi del
cesenate Pio VI. (Amaduzzi conservò gli svolgimenti di sette compiti,
assegnati da Planco: in uno si chiedeva di spiegare che il sistema tolemaico
non poteva essere difeso «nulla ratione»: ad oltre due secoli
dall’opera di Copernico, significava discutere di argomenti polverosi,
mentre la Nuova Scienza percorreva le strade d’Europa.)
Manca pure
il nome di Antonio Maria Brunori, ricordato invece da G. P. Giovenardi, come
«soggetto di merito, ed elegante Poeta» che «fu per molti
anni valente Maestro di Belle Lettere in questo Seminario».
Nel 1751
Planco conta più di venticinque scolari fra cui ci sono «alcuni
cospicui di ordine religioso, ed altri forestieri delle circonvicine
città, che sono venuti a studiare sotto di lui». (Anche nel 1734
ha segnalato di avere venticinque allievi, «tra quali molti sono
forastieri che si trattengono in Rimino per udirlo».)
Degli
studenti planchiani, possediamo pure un elenco manoscritto, senza data,
compilato da Bianchi in altro documento: sedici frequentavano le lezioni di
Logica, tre di Greco e sei di Medicina. Tredici erano di Rimini (tra cui un
«maestro di studi agostiniano di Napoli»), uno di Iesi, due di Santarcangelo
di Romagna, tre di Montescudo, due di Coriano, uno di San Giovanni in
Marignano, due di Pesaro ed uno di Cesena.
Nel 1751
Bianchi è proposto ma non nominato «Lettore pubblico di
Logica». Dall’anonimo (ma forse autobiografico) Comentario della
vita dell’Ab. Giovanni Antonio Battarra, apprendiamo che tale
nomina non fu fatta perché Planco non rispondeva ai requisiti richiesti
dalle disposizioni testamentarie che finanziavano quella Cattedra, cioè
«non era prete».
I
candidati erano due, Bianchi e Stefano Galli, altro suo ex allievo: entrambi
furono fatti ritirare, anche se Galli aveva titolo a concorrere. Poi la scelta
cadde su Battarra. Galli, che Bianchi definisce «uomo erudito
specialmente nelle lingue de’ dotti, Greca e Latina», era «probibliothecarius
publicus» dopo esser stato nel 1748 per breve tempo «custode
principale» provvisorio della Gambalunghiana. Il futuro cardinal Garampi
si adoprò, spontaneamente, affinché Bianchi rinunciasse a favore
di Galli, alla cui «povera famiglia» tornava utile «questo piccolo
sussidio» della Cattedra. (Galli era stato in Biblioteca a fianco di
Garampi che, nato nel 1725, a sedici anni ne era divenuto già
«vicecustode».)
In un
memoriale presentato alla Municipalità, Battarra dichiarava di avere
tutti i requisiti richiesti per «avere studiata la Logica, con tutta la
Filosofia, ed altre Scienze intorno dieci anni sotto del celebre Sig. Dott.
Giovanni Bianchi, e di più avendo insegnata pubblicamente la Logica, e
tutta la Filosofia nella Terra di Savignano per quattro anni continovi».
Pure l’altro concorrente don Filippo Baldini citava Bianchi, al tempo suo
docente di Lingua greca.
Il nucleo
originario dei Lincei comprende dieci componenti, tutti provenienti dalla sua
scuola. Oltre a Planco, «Restitutor perpetuus», ci sono: Stefano
Galli, «Scriba perpetuus» (segretario); Francesco Maria Pasini,
«Censor»; Giovanni Paolo Giovenardi, anch’egli
«Censor»; Mattia Giovenardi, Giovanni Antonio Battarra, il conte
Giuseppe Garampi, Gregorio Barbette, Lorenzo Antonio Santini e Giovanni Maria
Cella.
Abbiamo
già fatto conoscenza di Galli, Pasini (dottore di Legge e canonico della
Cattedrale riminese), G. P. Giovenardi (dottore di Filosofia, materia della
quale è pubblico professore a Santarcangelo), Battarra, e Garampi.
Qualcosa va detto degli altri quattro. Mattia Giovenardi è professore di
Lettere umane al Seminario di Bertinoro. Barbette e Santini, medici, esercitano
la professione a Rimini. Barbette come Chirurgo Primario (passerà nel
1761 a Macerata); Santini (originario di Savignano) quale Medico dei Poveri.
Cella è un matematico.
G. P.
Giovenardi si adopererà, alla morte di Planco, per continuarne
l’attività didattica, assieme al di lui nipote, dottor Girolamo
Bianchi, e a don Filippo Zambelli: rivolgendosi «a’ Studiosi
Giovani Riminesi, ed amanti della soda letteratura», annunciava
l’apertura di una «pubblica Scuola di Medicina, e lingua
Greca» dotata dell’«ereditata sceltissima, e copiosissima
Libreria in ogni genere di Scibile», e con «il comodo di potere
fare le sezioni Anatomiche in quest’Ospedale», di cui Girolamo
Bianchi era medico.
4. Al caffè di
Santarcangelo
La Scienza medica dei
Lincei va tra la gente
L’Accademia dei Lincei riminesi, inaugurata
il 19 novembre 1745, funziona più o meno regolarmente per dieci anni.
Non esiste un elenco completo ed ufficiale delle dissertazioni tenutevi. Le
notizie che ho raccolte, derivano da carte gambalunghiane lasciateci dal suo
fondatore, Iano Planco.
La prima dissertazione, «sopra
l’utilità della lingua greca», è svolta
dall’abate Stefano Galli il 3 dicembre 1745. Come scrive Giuseppe Garampi
a Bianchi (19 dicembre 1750), la lingua greca è considerata
«necessaria specialmente» agli ecclesiastici che debbono studiare,
e vogliono farlo «fondatamente», le Sacre Scritture, le Opere dei
Padri e la Storia ecclesiastica, che sono alla base «della buona
teologia». Il 27 maggio 1746 lo stesso Garampi tratta ai Lincei
«Delle Armi gentilizie delle famiglie».
Nel giugno successivo Planco parla contro l’abuso dei vescicanti che (scrive lo storico della Medicina
dottor Stefano De Carolis), sono «preparazioni farmaceutiche ad uso
topico dotate di un’intensa azione irritante, il cui principio attivo
veniva estratto da un particolare genere d’insetti coleotteri, le
cantaridi». Essi venivano utilizzati «per le forme patologiche
più disparate», anche se inizialmente erano stati applicati per la
sola peste bubbonica.
Giovanni Paolo Giovenardi, appena un riassunto di
questa dissertazione appare sulle «Novelle letterarie», legge
l’articolo del giornale fiorentino a Santarcangelo, nella propria scuola
di Filosofia e nel caffè «dove concorre ogni sorte di
Persone». Giovenardi vuole «diffondere que’ Lumi» che
vi sono contenuti, «a comune vantaggio di tutta la Società»
contro lo «strano, e crudele rimedio de’ Vescicatorj» del
quale fanno abuso «certi Medici, o siano Fanfaroni» marchigiani, e
per convincere «i Malati o gli Assistenti a rifiutarli».
Pure Bianchi criticherà i medici marchigiani, accusandoli di
agire in base a «ciancie» e «fanfaluche», e di usare
unicamente «purganti eccedenti» e «vescicatorj»,
«per li quali, si può dire, che essi piuttosto scortichino, che
medichino i loro clienti». Ma le cose non dovevano andare diversamente
anche altrove, se Amaduzzi nel 1777 da Roma osserva con una sua corrispondente:
«I Medici e i Chirurgi hanno sin ad ora storpiato ed ucciso il genere
umano impunemente».
La dissertazione «De’
Vescicatori» esce a stampa a Venezia nello stesso ’46.
Il ravennate Giuseppe Zinanni, autore di un volume intitolato
«Delle uova e dei nidi degli uccelli» (1737), fra il ’46
(quando è ammesso tra gli accademici) ed il ’47 invia a Bianchi
due dissertazioni: ce n’è rimasta soltanto una, la
«diligente osservazione sopra le uova, e sopra la generazione delle Lumache
terrestri, ed altre chiocciole fluviali, o d’acqua dolce». Questo
lavoro, letto da Planco ai Lincei, non è mai stato ricordato,
così come il nome di Giuseppe Zinanni (o Ginanni, 1692-1753) non
è mai apparso tra gli accademici riminesi aggiuntisi ai dieci originari.
Ricordiamo questi altri nuovi accademici. Nel 1750
sono ammessi: Lucantonio Cenni (ex alunno di Bianchi, «maestro di
rettorica nel seminario di Bertinoro»; e nel ’64 fondatore a San
Marino, dove faceva il maestro di scuola, dell’Accademia dei Titani, il
cui motto fu «Decus et Libertas»); Lodovico Coltellini (medico
cortonese); Giovanni Lami (bibliotecario, teologo e professore di Storia
ecclesiastica oltre che fondatore e direttore dal 1740 sino alla morte,
avvenuta nel 1770, delle «Novelle» fiorentine); e Daniele Colonna
(ex alunno, medico friulano).
L’anno successivo, Giacomo Fornari (ex
alunno, sacerdote); Giuliano Genghini (ex alunno, giurista, e poeta dal
«carattere faceto e irriverente», come lo ha definito Enzo
Pruccoli); Francesco Fabbri (ex alunno, sacerdote); e Gaspare Deodato Zamponi
(medico marchigiano). Nel 1765, Luigi Masi (medico, studioso di Anatomia,
esercitò a Roncofreddo e Longiano). Non conosciamo la data
d’ingresso ai Lincei del conte Francesco Roncalli Parolino, noto per la
sua posizione contraria all’innesto del vaiolo. Complessivamente, gli
accademici che ho censiti sono così ventuno.
Dopo il ’46-47, nelle cronache sui Lincei
c’è un vuoto che arriva al 28 febbraio
1749, quando Bianchi recita l’epistola «De monstris», poi
pubblicata nello stesso anno a Venezia in due edizioni. La seconda edizione,
come leggiamo nelle «Novelle» fiorentine, contiene due
«Appendici». Nella prima, si «descrive un uovo
coll’immagine del Sole impressa nel ventre di esso, il qual uovo nacque
in Rimini». La seconda riguarda invece un tema anatomico, ripreso due
anni dopo da Bianchi in altra seduta accademica: una lesione del cervelletto
provoca la paralisi nel corpo dalla stessa parte del lobo offeso, non in quella
opposta come avviene per il cervello. Morgagni fu l’unico ad accogliere
bene la teoria di Bianchi, subito pubblicata in un periodico veneziano,
aggiungendo però: il riminese aveva riosservato «attentamente
ciò che tanti altri Notomisti osservando, non avevano con pari esattezza
descritto».
Gli argomenti delle due «Appendici» sembrano oggi
totalmente contrastanti: per Bianchi invece affrontano fenomeni naturali
equivalenti, da indagare con pari attenzione scientifica. Taluni casi di
«mostri» da lui studiati, appartengono alle deformità,
anticamente considerate manifestazioni di prodigio (il «monstrum»
dei latini).
Giambattista Della Porta (1535-1615) ne aveva riferito in un ampio
trattato sulla «Magia naturale» (distinta da quella
«diabolica»), capace di aiutare il compimento dei fenomeni fisici,
partendo dal principio che conoscerli significa dominarli. Sospettato
d’eresia, Della Porta abiurò senza fatica.
Planco è influenzato dallo spirito classificatorio di Ulisse
Aldrovandi (1522-1605) e Fortunio Liceti (1577-1657), entrambi filosofi, medici
e docenti rispettivamente negli Studi di Bologna e Padova. Essi elencano tre
possibili cause per i mostri: una soprannaturale; una dovuta
all’intervento di un dèmone (o d’un maleficio);
l’ultima riconducibile a fatti fisici.
La «Monstrorum historia» di Aldrovandi è pubblicata postuma nel 1642 dal suo concittadino
Bartolomeo Ambrosini (1588-1657, medico, naturalista e prefetto dell’Orto
botanico universitario felsineo). Il trattato di Liceti, «De monstrorum
natura caussis», è anteriore (1616). Bianchi, che aveva a
disposizione in Gambalunghiana entrambi i testi (oltre a quello di Della
Porta), sostiene che i mostri si possono dividere in tre specie. Ci sono quelli
che diventano tali nella gestazione. Altri (quelli che hanno un dito, un
braccio, un piede o qualche altro membro o viscere in eccesso), derivano dalla
conformazione naturale, da una qualche forza «plastica» o da
«natura ipsa ludente»: alcuni, come riassumono le
«Novelle» fiorentine, sono «prodotti nell’uovo
‘ab initio’ da Domineddio». Infine ci sono quelli che nascono
«ex morbo».
Planco rifiuta l’ipotesi del dèmone e del maleficio,
presente in Liceti ed Aldrovandi. Quando presuppone che alcuni di quei casi
siano provocati da «natura ipsa ludente», richiama concezioni che
appartengono alla cultura del suo tempo. La teoria medievale degli
«scherzi di natura», è presente pure in molti studi
naturalistici del primo Settecento sull’origine dei fossili. Planco
ritiene che la perfezione dell’ordine naturale, sia smentita dai fenomeni
mostruosi. Alla regola si accompagna sempre l’eccezione. Questo scritto
fa convogliare sul medico riminese le prime avversioni romane.
La storiografia medica più recente, spiega
De Carolis, ritiene «degni di nota», tra tutte le opere
d’argomento medico pubblicate da Bianchi, «solo i suoi studi
teratologici» (inerenti cioè alle malformazioni corporee), tra i
quali «l’opera più importante» è appunto il
«De monstris». Essa è indirizzata a monsignor Giuseppe
Pozzi, di Bologna, archiatro pontificio straordinario e presidente
dell’Accademia dell’Istituto delle Scienze di quella città. Pozzi, classe 1697, era più giovane di due anni rispetto a
Bianchi. Egli aveva diritto al titolo di monsignore (come capiterà pure
a Planco), per la carica di archiatro che non obbligava al celibato: di lui, si
ricordano due matrimoni.
Invece Bianchi non si sposò mai. Conosciamo una sua vicenda
che sembra sentimentale, e che finì tragicamente. Nella propria
autobiografia latina del 1742, egli racconta del viaggio compiuto due anni
prima a Venezia, progettato da tempo e ripetutamente rinviato per la malattia
di un’amica che definisce donna superiore per bellezza, ingegno e
costumi. A causa della sua scomparsa, scrive, provò così grande
tristezza che da quel momento gli amici e la città presero ad essergli
insopportabili. Si trasferì dunque a Venezia, spiega, non tanto per
divertirsi, come aveva deciso prima, quanto per liberarsi dal dolore che lo
aveva colpito. Sembra, fatte ovviamente le debite proporzioni, di riascoltare
il lamento di Francesco Petrarca che fugge «ogni segnato calle» per
far acquetare «l’alma sbigottita» (Canzoniere, CXXIX, Di pensier in pensier, di monte in
monte).
5. Lincei, con l’Indice puntato
Iano Planco
«proibito» per una difesa dei comici
Nei Lincei riminesi fra 1745
e 1755 furono presentate 31 dissertazioni. Fra le quattro di Scienza e le nove
di Medicina, ben sette sono di Planco. Le rimanenti 18 (di cui quattro di
Bianchi) riguardano temi eruditi: la Storia religiosa (come le due sulla beata
Chiara che Garampi invia da Roma), l’Antiquaria, la Musica e la Poesia.
Nelle carte di Planco ci sono tracce di altre dissertazioni che non figurano
ufficialmente, e di un’attività che arriva come minimo al 1761.
Fra i temi eruditi troviamo il «Rubicone
degli antichi». Dopo che nel 1749 don Giovanni Paolo Giovenardi, parroco
di San Vito ed ex allievo di Bianchi, ha fatto porre sulla sponda orientale del
fiume Uso una lapide con parole ricavate da Plinio («Heic Italiae Finis
Quondam Rubicon»), ne parlano lo stesso Giovenardi e Planco nel marzo 1750.
Intanto a Roma i cesenati promuovono una lite giudiziaria (protrattasi sino al
4 maggio 1756) in difesa del loro Pisciatello contro Santarcangelo e don
Giovenardi. In quei tribunali, scrive Giuseppe Garampi a Bianchi, girano dei
«mozzorecchi» (avvocati disonesti) che ottengono di più che
i «paraguanti» (la corruzione in denaro), ed aggiunge: «ma
per questa strada non le consiglio giammai di camminare». La sentenza
dà torto ai cesenati: un giudice civile non può pronunciarsi
sopra «erudite disquisizioni».
Tra gli argomenti scientifici dei Lincei, quelli
anatomici sono i più importanti. Bianchi sostiene che l’Anatomia
«insieme con altri buoni studj, non è in quel grado avuta, che una
tanta cosa si dovrebbe avere». Molti infatti la considerano «per
una cosa schifosa, e semplicemente curiosa, e di niun’utile». Altri
«strane opinioni d’essa hanno, che» offrono «un
grandissimo argomento della Barbarie di quei, che le portano».
In genere nelle «altre Città
minori», osserva Bianchi, questa disciplina è trascurata. Non
così a Rimini, grazie al vescovo Davìa il quale all’inizio
del secolo aveva chiamato in città il medico monsignor Leprotti,
«celebre Notomista» che «moltissime sezioni di cadaveri Umani
qui fece». Come abbiamo già visto, Leprotti fu maestro del giovane
Planco. Dopo la contemporanea partenza di Davìa
e Leprotti, nel 1726, Bianchi è ostacolato nelle sue ricerche
anatomiche. Lo accusano di violare la Religione e gli ingiungono di chiedere
licenza alla Curia romana per le sue dissezioni. Ad aiutare Planco nell’ottenere
i necessari permessi, è Laura Bentivoglio, sua ex allieva.
Lo studio dell’Anatomia rovescia la metodica delle conoscenze: non si parte più dalle
indicazioni teoriche consacrate dalla tradizione, ma con l’osservazione
diretta si inizia un procedimento che descrive il rapporto di causa ed effetto,
sulla scia dell’insegnamento di Marcello Malpighi (1628-94): «vi
vogliono grandissime cognizioni per dirigere il metodo, copiosissima serie
d’osservazioni per vedere la catena e il filo che unisce il tutto, una
mente disappassionata con finezza di giudizio».
L’interesse che Bianchi nutre verso
gli studi anatomici, lo porta in alcune sedute dei suoi Lincei a delinearne le
caratteristiche secondo un sistema complesso e contradditorio, sostanzialmente
inutile dopo l’insegnamento di Giambattista Morgagni (1682-1771) che
Planco aveva fatto suo. Poche volte Bianchi usa il termine
«Scienze», preferendogli quello di «Filosofia»,
accompagnato dagli attributi di «sperimentale» e
«naturale». Con queste distinzioni, finisce per confondere le idee
ai suoi ascoltatori: lo osservò il suo allievo Amaduzzi, sinceramente
consapevole dei pregi e dei difetti del maestro, scrivendo che Bianchi
nell’attività intellettuale «mancò d’un certo
criterio». Non meno tenero l’altro scolaro Battarra il quale, come
riferisce De Carolis, sentenzia che talora nelle questioni scientifiche
«bonus dormitavit [Plancus]», secondo l’espressione oraziana
dedicata ad Omero.
Nel pensiero planchiano, la Filosofia è qualcosa di diverso
da ciò che dovrebbe essere (un’indagine che trovi in sé
stessa gli strumenti con cui operare, e gli orizzonti entro cui muoversi). E
finisce per essere «ancilla» delle Scienze mediche e naturali.
Ai Lincei, Planco spiega una volta che
l’Anatomia va considerata «come il fondamento della Filosofia
naturale, siccome lo è per certo della Medicina e della Cirurgia».
In un altro testo egli pone a «fondamento della vera Medicina
Prattica» la «Filosofia sperimentale». Questo pensiero di Bianchi
deriva dal «galileismo malpighiano», secondo cui la
«filosofia è il fondamento della medicina, senza la quale questa
vacilla» (E. Raimondi).
La «Filosofia naturale» è la
descrizione dei fatti, e quella «sperimentale» l’indagine
sulle cause: esse si presentano in Bianchi come due realtà differenti,
mentre il loro significato è lo stesso, avendo entrambe i caratteri
della Scienza moderna che è allo stesso tempo osservazione della Natura
ed esperimento. Ciò che Galileo ha unito, Bianchi divide. Con una formula approssimativa, si può dire che Planco
è un «galileiano a metà». Inoltre, se fu un assiduo
lettore di testi filosofici, egli mai approfondì i problemi teorici con
un’analisi completa. Amaduzzi, polemizzando con l’antico maestro,
insinuò che non aveva compreso le teorie di Newton.
Sul medico riminese, nella sua maturità, agiscono ancora i
ricordi delle esperienze giovanili, documentabili attraverso pagine
autobiografiche (inedite), in cui egli parla dell’attività svolta
presso l’Accademia del vescovo Davìa, e dove usa come intercambiabili
i termini di erudizione e di Filosofia. Bianchi non avverte che la
«Filosofia sperimentale» vede nascere le grandi discipline della
seconda rivoluzione scientifica.
Padre Giuseppe Merati nel 1759 scrive a Bianchi:
«Non so se ne’ tempi trasandati o ne’ presenti vi sia stato,
o viva anatomico, che abbia separati ed anatomizzati tanti cadaveri quanti ne
ha incisi, e minutamente osservata ogni minutissima cosa Vostra Signoria
Illustrissima. Credo che tutte le volte si sia posto all’opera abbia
alzata la mente a Dio e ammirata la sua onnipotenza, come avvenne a me una
volta nel leggere solamente un libro che trattava delle vene del nostro
corpo».
La dissertazione più clamorosa presentata
da Planco nella sua Accademia, è quella dell’11 febbraio 1752,
«ultimo venerdì di carnovale». Dopo aver fatto esibire la
bella cantante ed attrice romana Antonia Cavallucci, recita una dissertazione
in difesa dell’Arte comica (che sarà elogiata da Voltaire), in cui si chiede: se la Chiesa
permette la lettura delle commedie di Plauto e Terenzio, perché non
permette anche la loro rappresentazione? Perché debbono essere
considerati «infami» quei comici che «le rappresentano
venalmente», mentre «diventano onesti quei che le rappresentano gratis»?
Il domenicano padre Daniele Concina ferma i torchi che lavorano ad
un suo volume sul teatro, dove le attrici sono definite con termini poco
cortesi, per aggiungervi un paragrafo dedicato all’Arte comica, in cui accusa Bianchi di scrivere da pazzo. Il teatino padre Paolo
Paciaudi definisce la Cavallucci un’«infame sgualdrina» e
«cortigiana svergognata». Cantanti ed attrici godevano di cattiva
fama, indipendentemente dalla moralità personale, per appartenere ad una
categoria considerata infima.
In città nasce un pubblico scandalo. La
Cavallucci è costretta da Planco ad andarsene in tutta fretta da Rimini.
Verso Roma, come scrive a Bianchi un suo
corrispondente, contro Bianchi partono «illustrissime, e reverendissime
insolenze» le quali provocano presso il Sant’Uffizio
l’apertura d’un processo, conclusosi il 4 luglio 1752 con la rapida
ed «improvvisa» (la definizione è di Giuseppe Garampi)
condanna all’Indice dell’Arte
comica.
Anche Amaduzzi credette ad una cotta di Bianchi
per la Cavallucci. Ma si sbagliava. Planco ricorda il modo in cui fece
conoscenza della giovane: un marchese forestiero aveva affidato la giovane alla
protezione d’un cavaliere riminese il quale però mancò alla
parola data. Abbandonata dal cavaliere, e senza poter più ricorrere al
marchese morto nel frattempo, Antonia è confortata da Bianchi. La
ragazza gli chiede poi «una difesa sopra» il suo matrimonio da
«imparare a memoria» e recitare davanti ad un giudice, per ottenere
una pronuncia contro le violenze del marito. Infine, bussa ad aiuti economici,
ridotta in miseria e con la madre a carico, invocando la bontà di
Bianchi chiamato nelle sue lettere «caro papà» e «mio
Padre», con un affetto d’altro tipo rispetto a quello immaginato da
molti.
Il vecchio amico papa Lambertini accetta la
supplica di Bianchi a veder stampato nell’Index Librorum Prohibitorum soltanto il titolo del Discorso in lode dell’Arte Comica senza il nome dell’autore. Come sempre, una
buona protezione sistema tutto. Planco, scienziato sospetto per le sue idee e
scrittore condannato, sarà sepolto con tutti gli onori nella chiesa di
Sant’Agostino.
Gli allievi di Iano Planco
Legenda
Linceo,
accademico dei Lincei planchiani.
[D]
Cfr. A. MONTANARI, Iano Planco, la missione del dotto, «Il
Ponte», 1.9.2002.
[F]
Cfr. fasc. 310, Fondo Gambetti, Miscellanea Manoscritta Riminese, «G.
Bianchi» [FGMB], Biblioteca Gambalunghiana di Rimini [BGR]. Vedi in
sèguito: «Parte III. Elenco degli studenti ricavato dal fasc.
310».
[R] Recapiti
del dottore Giovanni Bianchi di Rimino, Pesaro 1751, pp. VI-VII. Vedi in
sèguito: «Parte II. Elenco degli studenti ricavato dai Recapiti».
[T]
Cfr. C. TONINI, La coltura letteraria e scientifica, II. La frequenza di
Giuliano Genghini alla scuola di Bianchi è attestata a p. 347.
[1183]
Cfr. Lynceorum Restitutorum Codex, SC-MS. 1183, BGR.
(*)
Così sono segnalati i dieci medici presenti nell’elenco.
Parte I. Elenco
generale
1. Aldini Gioseffanton (Cesena, studente di
Logica), [f. 310]
2. Almeri Michele (Rimini, studente di
Logica), [f. 310]
3. Amaduzzi Giovanni Cristofano,
(1740-1792), [D]
4. Baldini (dottore in teologia, abate,
Rimini, studente di Lingua greca), [f. 310]
5. Baldini Giuseppe [R] (*)
6. Barbari Innocenzo [R]
7. Barbette Gregorio [R] (*), Linceo
8. Bartoli Giuseppe [R]
9. Bartolucci Antonio («cirusico del
Pubblico», Rimini, studente di Medicina), [f. 310]
10. Battaglini Andrea [R]
11. Battarra Giannantonio [R], Linceo
12. Bedinelli Francesco Paolo (Pesaro,
studente di Medicina), [f. 310]
13. Bentivegni Girolamo [R]
14. Bentivoglio Davìa Laura [R]
15. Bonelli Innocenzo [R]
16. Bonioli Antonio [R]
17. Bonsi Francesco (1722-1803), [D]
18. Brunelli Cesare (Rimini, studente di
Logica), [f. 310]
19. Brunelli dottor Giambattista ([Rimini,
studente di Medicina): cfr. Brunelli Giambattista [R] (*)
20. Brunori Antonio Maria [D]
21. Bufferli Pier Crisologo [R] (*)
22. Buonamici Niccola [R]
23. Cella Giovan Maria [R], Linceo
24. Cenni Lucantonio [R], Linceo
25. Colonna Daniello [R] (*), Linceo
26. Draghi Paolo Andrea [R] (*)
27. Fabbri Francesco [R], Linceo
28. Fabbri Giovanni [R]
29. Fabbri Luigi (abate, Rimini, studente
di Lingua greca), [f. 310]
30. Ferri (abate, Montescudo, studente di
Logica), [f. 310]
31. Fornari, Giacomo (cfr. c. 14v, ms.
1183), Linceo
32. Fosselli Mauro [R], [f. 310]
33. Franciolini Curio (Iesi, studente di
Logica), [f. 310]
34. Galli Celestino [R]
35. Galli Stefano [R], Linceo
36. Ganganelli Lorenzo (Clemente XIV,
1705-74) [D]
37. Garampi Giuseppe [R], Linceo
38. Gaspari (abate, Montescudo, studente di
Logica), [f. 310]
39. Genghini Giuseppe (Rimini, studente di
Logica), [f. 310]
40. Genghini Giuliano [T], Linceo
41. Gervasi (padre, «maestro di studi
agostiniano di Napoli», studente di Lingua greca), [f. 310]
42. Ghigi Pietro [R]
43. Giovenardi Gianpaolo [R], Linceo
44. Giovenardi Mattia [R], Linceo
45. Godenti Pietro [R]
46. Gori (abate, Santarcangelo, studente di
Logica), [f. 310]
47. Graziosi (abate, Montescudo, studente
di Logica), [f. 310]: cfr. Graziosi Ubaldo [R]
48. Lapi Pier Paolo [R]
49. Legni Francesco [R] (*)
50. Maltagliati Gaetano (Rimini, studente
di Medicina), [f. 310]
51. Marcaccini Francesco [R]
52. Marini Gaetano (1742-1815) [D]
53. Massa Niccolò [R]
54. Mastini Severino [R]
55. Melli Paolo (abate, Rimini, studente di
Medicina), [f. 310]
56. Menghi (abate, Santarcangelo, studente
di Logica), [f. 310]
57. Morelli (abate, Rimini, studente di
Logica), [f. 310]
58. Mussoni Pietro [R]
59. Pasini Francesco Maria [R], Linceo
60. Pecci Carlo [R]
61. Piceni Giuliano [R]
62. Pizzi Gian Carlo [R] (*)
63. Preti (abate, S. Giovanni in Marignano,
studente di Logica), [f. 310]
64. Righini Cassiano [R] (*)
65. Santini Lorenzo Anton [R] (*), Linceo
66. Serpieri Giulio Cesare [R]
67. Tassini Andrea (abate, Pesaro, studente
di Logica), [f. 310]
68. Tononi (abate, Coriano, studente di
Logica), [f. 310]
69. Torri Cesare [R]
70. Vasconi Girolamo (abate, Coriano,
studente di Medicina), [f. 310]
71. Vitali Giuseppe [R]
72. Zampanelli Marino [R]
73. Zangari Giovanni (Rimini, studente di
Logica), [f. 310]
74. Zavagli Antonio (Rimini, studente di
Logica), [f. 310]
Parte II.
Elenco degli
studenti ricavato dai Recapiti
Nei citt. Recapiti, pp. VI-VII, si legge:
«Qui si
dà un catalogo degli scolari, che più si sono distinti, e che
sono usciti dalla scuola fatta dal Bianchi in Rimino, tralasciandosi di
mentovare quegli scolari, ch’ebbe in Siena, e che si distinguono».
Ovviamente
questo elenco è anteriore al 1751. Rispetto a quello del cit. fasc. 310
stilato durante il 1751 (vedi «Parte III, Elenco degli studenti ricavato
dal fasc. 310»), soltanto due nomi di esso sono qui presenti: Brunelli
Giambattista e Graziosi Ubaldo.
Dal
«catalogo» dei Recapiti, riporto solamente i singoli nominativi,
mettendoli in ordine alfabetico e numerandoli. Tralascio ogni altra notizia in esso
inserita da Planco, e segnalo, come già indicato, con (*) i dieci medici
presenti nell’elenco.
1. Baldini Giuseppe (*)
2. Barbari Innocenzo
3. Barbette Gregorio (*)
4. Bartoli Giuseppe
5. Battaglini Andrea
6. Battarra Giannantonio
7. Bentivegni Girolamo
8. Bentivoglio Davìa
Laura
9. Bonelli Innocenzo
10. Bonioli Antonio
11. Brunelli Giambattista (*)
12. Bufferli Pier Crisologo
(*)
13. Buonamici Niccola
14. Cella Giovan Maria
15. Cenni Lucantonio
16. Colonna Daniello (*)
17. Draghi Paolo Andrea (*)
18. Fabbri Francesco
19. Fabbri Giovanni
20. Fosselli Mauro
21. Galli Celestino
22. Galli Stefano
23. Garampi Giuseppe
24. Ghigi Pietro
25. Giovenardi Gianpaolo
26. Giovenardi Mattia
27. Godenti Pietro
28. Graziosi Ubaldo
29. Lapi Pier Paolo
30. Legni Francesco (*)
31. Marcaccini Francesco
32. Massa Niccolò
33. Mastini Severino
34. Mussoni Pietro
35. Pasini Francesco Maria
36. Pecci Carlo
37. Piceni Giuliano
38. Pizzi Gian Carlo (*)
39. Righini Cassiano (*)
40. Santini Lorenzo Anton (*)
41. Serpieri Giulio Cesare
42. Torri Cesare
43. Vitali Giuseppe
44. Zampanelli Marino.
Parte III.
Elenco degli
studenti ricavato dal fasc. 310
Degli studenti planchiani, possediamo pure
un elenco manoscritto compilato da Bianchi in altro documento del cit. fasc.
310, FGMB. Questo documento reca in IV ed ultima facciata: «1751.
Prehensationes Inutiles Pro Cathedra Logicae».
Nei citt.
Recapiti, p. IV, Planco scrive di contare (nello stesso 1751) più di
venticinque scolari, fra cui «alcuni cospicui di ordine religioso, ed
altri forestieri delle circonvicine città, che sono venuti a studiare
sotto di lui». L’elenco che segue corrisponde a
quest’enunciazione.
Sedici allievi frequentano le lezioni di
Logica, tre di Greco e sei di Medicina. Ecco i loro nomi (ordinati in ordine
alfabetico).
1. Aldini Gioseffanton (Cesena,
Logica)
2. Almeri Michele (Rimini,
Logica)
3. Baldini, dottore in
teologia (abate, Rimini, Greco)
4. Bartolucci Antonio
(«cirusico del Pubblico», Rimini, Medicina)
5. Bedinelli Francesco Paolo
(Pesaro, Medicina)
6. Brunelli Cesare (Rimini,
Logica)
7. Brunelli dottor
Giambattista (Rimini, Medicina, già cit. in Recapiti)
8. Fabbri Luigi (abate,
Rimini, Greco)
9. Ferri (abate, Montescudo,
Logica)
10. Franciolini Curio (Iesi,
Logica)
11. Gaspari (abate,
Montescudo, Logica)
12. Genghini Giuseppe (Rimini,
Logica)
13. Gervasi (padre,
«maestro di studi agostiniano di Napoli», Greco)
14. Gori (abate,
Santarcangelo, Logica)
15. Graziosi ([Ubaldo,
già cit. in Recapiti], abate, Montescudo, Logica)
16. Maltagliati Gaetano
(Rimini, Medicina)
17. Melli Paolo (abate,
Rimini, Medicina)
18. Menghi (abate,
Santarcangelo, Logica)
19. Morelli (abate, Rimini,
Logica)
20. Preti (abate, S. Giovanni
in Marignano, Logica)
21. Tassini Andrea (abate,
Pesaro, Logica)
22. Tononi (abate, Coriano,
Logica)
23. Vasconi Girolamo (abate,
Coriano, Medicina)
24. Zangari Giovanni (Rimini,
Logica)
25. Zavagli Antonio (Rimini,
Logica)
Parte IV.
Elenco degli
studenti ricavato dal fasc. 310, ordinato per materie.
LOGICA
1. Aldini Gioseffanton (Cesena)
2. Almeri Michele (Rimini)
3. Brunelli Cesare (Rimini)
4. Ferri (abate, Montescudo)
5. Franciolini Curio (Iesi)
6. Gaspari (abate, Montescudo)
7. Genghini Giuseppe (Rimini)
8. Gori (abate, Santarcangelo)
9. Graziosi (abate, Montescudo)
10. Menghi (abate, Santarcangelo)
11. Morelli (abate, Rimini)
12. Preti (abate, S. Giovanni in Marignano)
13. Tassini Andrea (abate, Pesaro)
14. Tononi (abate, Coriano)
15. Zangari Giovanni (Rimini)
16. Zavagli Antonio (Rimini)
MEDICINA
1. Bartolucci Antonio («cirusico del
Pubblico», Rimini)
2. Bedinelli Francesco Paolo (Pesaro)
3. Brunelli dottor Giambattista (Rimini)
4. Maltagliati Gaetano (Rimini)
5. Melli Paolo (abate, Rimini)
6. Vasconi Girolamo (abate, Coriano)
LINGUA GRECA
1. Baldini (dottore in teologia, abate,
Rimini)
2. Fabbri Luigi (abate, Rimini)
3. Gervasi (padre, «maestro di studi
agostiniano di Napoli», Greco)
Parte V.
Tavola statistica
Fonti
Numero allievi
_______________________________
Fasc.
310
25
Recapiti
44
_________
totale
69
di cui
doppi
- 2 (Brunelli Giambattista e Graziosi U.)
_________
totale
67
[D]
5 (Amaduzzi, Bonsi, Brunori, Ganganelli, Marini)
Tonini
1 (Genghini Giuliano)
SC-MS.
1183
1 (Fornari
_________
Totale
finale
74
(di cui «Lincei»
14)
All’inizio del cap. 3, ho scritto che Giovanni Bianchi aprì la
sua scuola privata nel 1720.
Questa è la data esatta che si ricava dai Recapiti planchiani, p. II.
Angelo Turchini (nel volume curato con M. De Carolis, Giovanni Bianchi,
etc., 1999, p. 17), la posticipa invece al 1726.
Nella stessa pagina, Turchini parla del 1740 come anno in cui Bianchi conta
i suoi scolari in numero di venticinque. La data va anticipata al 1734. Il
documento planchiano (fasc. 310) dice: «Da quattordici anni...»:
1720+14=1734. (Non si fanno nomi di studenti, in questo documento.)
Alla nota 8 della stessa p. 17, relativa al conteggio del 1734, Turchini
cita un «Catalogo degli scolari» (sempre in fasc. 310) che, come si
è visto, è però del 1751, con venticinque nomi, gli stessi
di cui Bianchi parla nei Recapiti, p. IV. (Vedi qui sopra, Parte III.
Elenco degli studenti ricavato dal fasc. 310.) Il «Catalogo degli
scolari» è il documento che reca in IV ed ultima facciata:
«1751. Prehensationes Inutiles Pro Cathedra Logicae».
Appendice
Antonio Montanari
Breve biografia di Iano Planco
(Conferenza tenuta
presso il Planetario di Ravenna
il 3 maggio 2001)
1.
Iano Planco è lo pseudonimo assunto (ufficialmente per questioni
di omonimia), dal medico riminese Giovanni Paolo Simone Bianchi, vissuto dal
1693 al 1775. Le usanze letterarie del suo tempo prevedevano un nom de plume, che
talora è anche una specie di maschera. Bianchi non vi si sottrae, anzi
sembra abusarne, se per intervenire «pro Iano Planco» si firma poi Simone
Cosmopolita.
L’incarico più alto da lui assunto, è quello
di cattedratico di Anatomia umana all’Università di Siena dal 1741
al ’44, a cui fu chiamato dal Granduca di Toscana grazie a meriti, e non a
suoi «maneggi», come lo stesso Bianchi sottolinea con orgoglio.
Bianchi godeva allora di notorietà scientifica anche per un trattato
apparso a Venezia nel ’39, il De Conchis minus notis liber, sui
foraminiferi.
E’ figlio di un farmacista, Gerolamo, che gestiva a Rimini
la Spetiaria del Sole, e che scompare nel 1701 quando Planco
ha otto anni. I suoi primi studi li compie presso il Collegio dei Gesuiti.
All’Università arriva nel novembre 1717. Si laurea in Medicina e
Filosofia meno di due anni dopo, il 7 luglio 1719.
In un’autobiografia latina pubblicata a Firenze nel 1742,
Bianchi si racconta come un ragazzo prodigio, tutto rivolto agli studi, e
dotato di eccezionali capacità. In casa, invece, come emerge da lettere
dei suoi famigliari, che ho pubblicato nel 1993, lo giudicano un perdigiorno
che frequenta cattive compagnie. Anche l’immagine che, della famiglia
Bianchi, risulta da questo epistolario, è diversa rispetto a quella che
Giovanni ci offre nei suoi scritti.
Il padre gli lascia in eredità soltanto debiti. Ha tre
fratelli: di sei, due ed un anno. Sua madre ne ha 29. A prendere le redini
della Spetiaria del Sole, è Francesco Bontadini da
Ravenna, che si firma «aromatarius» (profumiere) ed «agente
del Sig. Bianchi». La madre, Candida Cattarina Maggioli, scompare prima
che Giovanni si trasferisca a Bologna. Francesco Bontadini, da commesso diventa
una specie di secondo padre per Planco. Le lettere che gli invia a Bologna,
contengono precetti pedagogici che avrebbero dovuto calmare le sue giovanili
inquietudini, e che si ispirano al binomio «lamore al studio et anco il
timor di Dio».
L’autobiografia latina del 1742 è anonima. Essa
è impostata da Bianchi come una vera e propria opera letteraria,
seguendo precisi modelli che appartengono sia al genere biografico sia a quello
autobiografico. Da questa specifica e composita impostazione tecnica, deriva lo
scarto tra le notizie rintracciate nell’epistolario famigliare, e quelle
che lui stesso ci offre nell’opera. Il fondamentale (e segreto) significato
di quel testo, non è mai stato ovviamente colto dai suoi numerosi,
saccenti (e non disinteressati) avversari. Costoro seppero soltanto accusare
Bianchi (in modo fin troppo facile), di millanterie da doctor gloriosus, da
medico vantone, per quanto egli narra nell’autobiografia.
Sottolineerei un altro aspetto, che obiettivamente pare di
grande importanza. Se in quelle pagine la verità cede il passo
all’invenzione, ciò accade non soltanto per motivi di imitazione
letteraria, ma pure per una questione che chiamerei esistenziale, cioè
per un bisogno di rimozione psicologica di momenti vissuti e ripensati con
umiliazione e dolore. Sono i momenti dell’infanzia povera,
dell’adolescenza disordinata, del bisogno di trovare una strada per la
propria vita: e questo avviene soltanto quando Bianchi va a Bologna, a 24 anni,
su consiglio di un insegnate del Seminario riminese, mons. Antonio Leprotti,
che era anche medico (e fu poi archiatro pontificio).
Credo che per interpretare pure certe sue successive (ed
eccessive) ambizioni, sia necessario affrontare il personaggio alla luce di
questi documenti, e non limitarsi alle vecchie biografie dell’ultimo
Ottocento, moralistiche, pedanti, e persino reticenti per timore di scalfire il
monumento che Planco si era eretto con l’autobiografia.
2.
Bianchi è uno scienziato enciclopedico. Vuole occuparsi
di tutto: dalla botanica alla zoologia, dall’idraulica
all’antiquaria. Pratica la Medicina pure come medico pubblico di Rimini,
con un successo che lo fa richiedere per consulti nelle città vicine
della Romagna. Dal 1720, sia a Rimini sia a Siena, gestisce un Liceo privato.
Gli allievi studiano come materia obbligatoria e comune Medicina, e poi Logica,
Geometria, e Lingua greca. «La nostra setta», chiama questa scuola
uno di loro. Un altro parla di «Bianchisti», con l’orgoglio
di appartenere ad una comunità eletta, sul modello degli antichi circoli
filosofici. Da fuori, però si accusa questa «Scuola di
Rimino» di segnare le proprie pagine con «velenoso
inchiostro», «quando per essa vuolsi a qualchuno stringer adosso il
giubbone, o quando si pretende avilirlo» [lettera del forlivese dottor
Vincenzo Galbani a Bianchi].
L’Anatomia è la materia principe del suo operare
scientifico. Bianchi considera l’Anatomia «il fondamento della
Filosofia naturale, siccome lo è per certo della Medicina e della
Cirurgia». Ma nello stesso tempo, come Malpighi (maestro di Anatomia
comparata e di Embriologia), definisce la Filosofia sperimentale uno
dei fondamenti «della vera Medicina Prattica». La Filosofia finisce
per essere qualcosa di diverso da ciò che dovrebbe, un’indagine
che trovi in se stessa gli strumenti con cui operare, e gli orizzonti entro cui
muoversi. Per Planco, la Filosofia, anziché ancilla della
Teologia, lo è delle Scienze mediche e naturali.
Tra le affermazioni di Planco si crea non un
circuito logico, ma una concatenazione retorica in cui si perdono di vista i
collegamenti razionali tra le discipline, e li si sostituisce con un erudito gioco
linguistico, che, mutando gli aggettivi, crede di poter determinare diversi
campi gnoseologici e differenti criteri epistemologici. E’ il
procedimento opposto rispetto a quello degli Enciclopedisti francesi, per i
quali in principio c’è la Ragione, da cui derivano
«Filosofia o Scienza».
Filosofia naturale e sperimentale, agli
occhi di Bianchi, sono realtà molto differenti (come voleva anche la
parte meno aggiornata della cultura del suo tempo), mentre, in senso moderno,
il loro significato teorico è lo stesso. La distinzione tra Filosofia naturale e sperimentale non
regge davanti agli esiti della Scienza Nuova che è, allo stesso tempo,
Natura ed esperimento. Ciò che Galileo ha unito, Bianchi divide.
In uno scritto autobiografico anteriore a quello latino del
1742, Bianchi ricorda la sua giovanile esperienza quale segretario
dell’Accademia vescovile del cardinal Davìa. In tale scritto, egli
usa come intercambiabili i termini di Erudizione e Filosofia, all’interno
dello stesso contesto e della medesima definizione. Per i «dotti»
del suo tempo, ai quali tanto rassomiglia, Filosofia e Scienza sono sinonimi.
Dunque, per elementare sillogismo, con Planco si finisce col porre sullo stesso
piano anche Erudizione e Scienza. Il che è, per noi posteri, un bel
guazzabuglio dell’intelletto umano, considerato soprattutto il fatto che
Bianchi usa poche volte la parola Scienza, preferendole di gran lunga il
termine Filosofia, in quell’accezione ambigua (appena considerata), per
cui essa finisce per imparentarsi od incarnarsi addirittura con la Erudizione
stessa.
L’Erudizione di cui parla Planco, è quella che Ezio
Raimondi definisce «oratoria o all’antica», secondo un
concetto umanistico; e del tutto diversa dal principio muratoriano di
un’Erudizione «di gusto moderno, sul tipo scientifico», che
si traduce in metodologia innovativa, «legata allo spirito critico e
nutrita di ragione moderna».
3.
Ai tempi di Bianchi, lo studio dell’Anatomia comporta, in
campo medico-filosofico, qualcosa di paragonabile alla rivoluzione copernicana.
Gli ambienti ecclesiastici inevitabilmente ne osteggiano insegnamento e
pratica, perché essa mette in crisi l’impianto
aristotelico-tomista delle loro scuole. Ciò contribuisce a creare
attorno a Bianchi un clima di ostilità, a cui concorre pure il fatto che
il suo Liceo privato è in concorrenza con le attività
pedagogico-istruttive del clero. L’attrito alla fine provoca una
scintilla, e la scintilla suscita l’incendio.
Nel 1745, dopo il ritorno da Siena, Bianchi rifonda a Rimini la
celebre accademia dei Lincei, creata da Federico Cesi nel 1603, e silente dal
1630. Essa sarà attiva almeno fino al 1765, con ventuno accademici e
trentuno dissertazioni documentate da mie recenti ricerche.
Tra gli accademici ne ho scoperto uno sinora mai citato, il ravennate
Giuseppe Zinanni, autore di una sconosciuta dissertazione del 1747, La
generazione delle lumache terrestri, conservata nella
Biblioteca Gambalunghiana di Rimini [fasc. 221, Fondo Gambetti, Miscellanea
Manoscritta Riminese, ad vocem Bianchi Giovanni].
L’attività dei Lincei riminesi procede
apparentemente tranquilla sino al 1752, quando (per l’ultimo
venerdì di Carnovale), Bianchi organizza una radunanza speciale. Prima
fa esibire una giovane e bella cantante romana, Antonia Cavallucci, poi recita
un suo discorso intorno all’Arte comica. Il vescovo di
Rimini presenta a Roma quelle che un corrispondente di Bianchi chiama
«illustrissime e reverendissime insolenze» per il concerto di
Antonia Cavallucci. Pure il terribile teologo domenicano padre Daniele Concina
si scaglia contro la giovane, gratificandola del grazioso titolo di
«puttanella», per il semplice fatto di lavorare come attrice. Il
qual mestiere, per padre Concina, equivaleva all’esser parte di una
schiera di creature diaboliche, responsabili del traviamento di tanta nobile
gioventù che perdeva così anima e patrimonio.
In fretta e furia, a Roma, presso la Sacra Congregazione
dell’Indice, s’istruisce un processo contro Bianchi, che si
conclude con la condanna del discorso sull’Arte comica.
Bianchi ottiene da papa Lambertini, Benedetto XIV (con il quale poteva vantare
un’antica amicizia), che la condanna rechi soltanto il titolo
dell’opera, e non anche il nome dell’autore.
Tra le carte di Bianchi nella Biblioteca Gambalunghiana, ho
rinvenuto un inedito sonetto anonimo, di sua mano (scritto o ricopiato da lui,
non so): è una satira contro lo stesso Benedetto XIV. Per capirne lo
spirito, basta citare la prima quartina:
Ma cazzo! Santo Padre ogni ordinario
ci vengono nuovi guai, nuovi pericoli,
e voi posate quieto il tafanario
grattandovi i santissimi testicoli.
Bianchi, per la condanna all’Indice, era
stato accusato di aver fatto l’apologia della religione protestante,
più libera in materia di teatro rispetto al controriformismo cattolico. In
sostanza Planco, da buon erudito, aveva soltanto difeso la tradizione classica,
ponendosi due domande semplici, ma fondamentali: se la Chiesa permette la
lettura delle commedie di Plauto e di Terenzio, perché nega il permesso
della loro rappresentazione? Perché debbono essere considerati
«infami» qui comici che «le rappresentano venalmente»,
mentre «diventano onesti quei che le rappresentano gratis?».
Ciò che, di Planco, dava in realtà fastidio agli ecclesiastici,
erano i suoi studi scientifici come quell’epistola del 1749 (edizione a
stampa di una dissertazione lincea), dedicata ai «mostri». In essa,
si mette in dubbio il concetto di perfezione naturale del sistema
aristotelico-tomista.
L’opera sui «mostri» è oggi considerata
il più importante scritto scientifico di Bianchi [De Carolis].
L’insegnamento svolto da Planco e l’attività
dei suoi Lincei, potevano facilmente essere accusati di allontanarsi
dall’ortodossia (teologica e filosofica) della Chiesa: questo fatto
inquieta il clero cittadino che approfitta della «scandalosa»
apparizione di Antonia Cavallucci nel Carnovale del ’52, per vendicarsi,
creare un scandalo, imbastire un processo, preparare e far pronunciare una
condanna formale. Una condanna che, però, Roma dimentica quando sul
trono di Pietro sale Giovanni Vincenzo Ganganelli, papa Clemente XIV, che
Bianchi aveva educato tra le proprie mura domestiche, e dal quale egli è
addirittura nominato archiatro segreto onorario, in segno di stima per la sua
attività di studioso e di educatore, con l’ordine di raddoppiargli
lo stipendio che Rimini gli passava quale medico primario della città.
(Altro famoso ecclesiastico allievo di Bianchi, è il
cardinal Giuseppe Garampi, nunzio apostolico e grande studioso di Storia).
Per la dissertazione sull’Arte comica,
Planco riceverà nel 1761 gli elogi addirittura da Voltaire: «Vous
avez prononcé, Monsieur, l’eloge de l’art dramatique, et je
suis tenté de prononcer le votre», comincia una lunga lettera del
filosofo francese, in cui è esposta una difesa del teatro e della sua
funzione nella società. Il messaggio di Voltaire forse infastidì
ancor di più gli ecclesiastici riminesi che, alla morte di Bianchi,
cercarono di ostacolare la pubblicazione della Orazion funerale composta
in suo ricordo da un ex allievo, il sacerdote Giovanni Paolo Giovenardi,
passato alla storia per aver difeso, assieme allo stesso Planco, il fiume Uso
quale «vero Rubicone degli Antichi». Giovenardi racconta che, per
il nipote di Bianchi, Gerolamo, medico all’ospedale della città,
si temeva una «vendetta trasversale» del vescovo di Rimini, nel
caso avesse contribuito a diffondere l’opuscolo in ricordo
dell’illustre zio.
4.
Un altro lavoro, Bianchi poteva considerare a suo vanto: la Storia
medica d’una postema nel lato destro del cerebello, dove dimostra
che una lesione del cervelletto provoca segni neurologici nel corpo dalla
stessa parte del lobo offeso, e non in quella opposta come accade per il
cervello. (Oggi sappiamo che il ruolo principale del cervelletto è il
coordinamento e l’apprendimento motorio.) Per effettuare l’autopsia
dell’involontario protagonista di quel caso medico (il contino
Giambattista Pilastri di Cesena, di soli nove anni), Planco deve scontrarsi con
due chirurghi cesenati, che egli definisce semplici «barbieri».
La Storia medica è un testo del 1751 che
trae origine da una dissertazione accademica lincea dello stesso anno,
anticipata però in appendice alla seconda edizione del trattato sui
mostri. Secondo il celebre Morgagni, già il proprio maestro Antonio Maria
Valsalva aveva sostenuto la diversità tra cervello e cervelletto, circa
le conseguenze delle offese subìte, dandone «la vera dimostrazione
anatomica e clinica». E Morgagni scrive a Bianchi: «A me parve
degna di lode la Diligenza di Lei in riosservare attentamente ciò che
tanti altri Notomisti osservando, non avevano con pari esattezza
descritto». Morgagni, in sintonia con il proprio carattere ilare, sembra
quasi sottintendere un ironico accenno ad una ‘scoperta dell’acqua
calda’ fatta da Bianchi.
5.
In tutte le biografie di Planco si ricorda che egli
avversò l’inoculazione del vaiolo. Di recente ho pubblicato una
lettera di un suo allievo, dalla quale appare che Bianchi nel 1766 ritratta
«la sua contrarietà» all’argomento, cedendo
«all’evidenza» dei fatti.
Questo allievo è Giovanni Cristofano Amaduzzi (1740-92),
considerato l’ispiratore della «bolla» con cui papa
Ganganelli nel 1773 decreta la soppressione della Compagnia di Gesù.
Amaduzzi fu anche autore di tre importanti discorsi
filosofici, uno dei quali almeno merita di essere citato, quello sulla Filosofia
alleata della Religione (1778). Per esso Amaduzzi finisce in
sospetto di eresia, avendo sottolineato l’importanza del nuovo pensiero
di Locke, autore già all’Indice dal 1734.
Amaduzzi collabora intensamente con i cosiddetti giansenisti italiani, per
usare una definizione ambigua, al posto della quale sarebbe meglio di parlare,
come faceva Rodolico, di cattolici che si opponevano a condanne e persecuzioni.
Il Giansenismo era stato condannato nel 1713 con la «bolla» Unigenitus di
Clemente XI.
A salvare Amaduzzi è la protezione di un altro pontefice
romagnolo, Pio VI, successore di Ganganelli. (Clemente XIV aveva nominato
Amaduzzi docente di Greco alla Sapienza, e Sovrintendente alla Stamperia di Propaganda
Fide, dietro raccomandazione di Planco).
Amaduzzi non fu soltanto un erudito raffinato, come aveva
appreso alla scuola di Bianchi, ma sempre dimostrò un acceso spirito
critico in campo filosofico, che non risparmia neppure il suo maestro. (Dopo la
sua morte, Amaduzzi celebra Planco con un Elogio sull'Antologia
Romana, in cui si legge: «Mancò di un certo criterio, per
il che fu soggetto talvolta a qualche paralogismo», cioè a
sillogismi falsi con apparenza di verità.) Con i propri discorsi
filosofici, Amaduzzi rovescia le posizioni emergenti dalle leggi accademiche
dei Lincei planchiani. In queste leggi, la lettura delle opinioni dei
«dottissimi filosofi» ed «uomini eruditissimi» si
antepone all’«investigazione della stessa natura».
Con questi princìpi Bianchi accantona il metodo della
«sensata esperienza». Ne deriva una totale divergenza tra la sua
pratica scientifica in campo anatomico, ed il suo modus operandi di
accademico linceo. In tal modo, Planco in ambito teorico nega i presupposti di
quella stessa pratica scientifica. Per questo motivo egli si colloca tra
vecchia erudizione e Nuova Scienza, in una posizione che ha parecchie ombre
oltre a molte luci, e che rispecchia fedelmente il complessivo andamento di un
processo più generale che caratterizza la storia del pensiero
settecentesco. Sopravvive talora in lui una particolare concezione della
cultura, intesa come riservato dominio dell’uomo dotto, il
quale ha il privilegio di sentenziare grazie al suo ruolo di maestro, e non per
il valore dei risultati a cui perviene.
Il superamento dei limiti teorici e dottrinali delle leggi
lincee, avviene (in ambito locale) grazie ad un altro scienziato che fu allievo
di Bianchi, e che oggi è purtroppo non molto ricordato, anche se nel
’700 ebbe fama europea. Si tratta di Giovanni Antonio Battarra. Egli
scopre che la generazione dei funghi procede «per semenza e non
spontaneamente dalla putredine». Battarra applica correttamente il metodo
di indagine sperimentale nei confronti di quella Natura che, con i suoi misteri,
tanto appassiona Planco.
Al proposito, Bianchi scrive: «la Natura pare che ami di
far palesi a poco a poco i suoi segreti». E’ una sentenza che, con
una formula di apparente perfezione, sembra sigillare tutto il discorso
scientifico in una solennità che dovrebbe spingerci a considerare la
Natura quale depositaria della Sapienza da essa somministrataci.
L’opinione di Planco rimanda al pensiero di Epicuro, secondo cui le cose
si rivelano a noi attraverso il «flusso» che esse emettono;
pensiero che Bianchi aveva conosciuto certamente attraverso Diogene Laerzio:
«è per la penetrazione in noi di qualcosa dall’esterno che
vediamo le figure delle cose e le facciamo oggetto del nostro pensiero».
Quanto l’immagine della ricerca scientifica offertaci da
Bianchi, sia distante dalle pagine che in quegli anni apparivano nell’Encyclopédie, lo
dice il confronto di essa con una semplice citazione da Diderot: «Noi
disponiamo di tre mezzi principali: l’osservazione della natura, la
riflessione e l’esperimento. L’osservazione raccoglie i fatti; la
riflessione li combina; l’esperimento verifica il risultato di questa
combinazione. Occorre che l’osservazione della natura sia assidua, che la
riflessione sia profonda e che l’esperienza sia esatta. Di rado si
trovano uniti questi mezzi; ed anche i geni creatori non sono comuni.»