il Rimino - Riministoria

GIOVANNI BIANCHI E I SUOI LINCEI RIMINESI
Conferenza del 27 ottobre 2003

Scrive Federico Cesi a Galilei, nel 1613, che nei Lincei occorreva avere «nella natural filosofia libero l’intelletto».
Tre anni dopo, Cesi compone il discorso sul «natural desiderio di sapere» come fondamento e scopo dei suoi Lincei.
In questo discorso Cesi accusa «gli studi filosofici» di essere soltanto propedeutici alla Medicina o di formare cattedrattici propensi a conformismo verso il potere, e a demagogia mercenaria verso gli allievi.
Aggiunge Cesi: dalla Filosofia e dalla Scienza (ovvero la Matematica), dipende la riforma dell’enciclopedia tradizionale
. [Federico Cesi era fratello di Angelo, vescovo di Rimini, 1627-1646.]
Che cosa resta di queste idee di Cesi nel medico Giovanni Bianchi (Iano Planco, 1693-1775), rifondatore dei Lincei nella nostra città nel 1745?
La risposta è nelle Leggi scritte da Bianchi per l’accademia riminese.
Se Cesi ha difeso la necessità di avere «libero l’intelletto» nella ricerca scientifica, Bianchi sostiene invece un metodo che antepone all’investigazione della Natura, il parere dei «dottissimi filosofi» e degli «uomini eruditissimi».
Bianchi in tal modo accantona il principio galileiano delle «sensate esperienze» di cui si legge nella lettera a Cristina di Lorena: «nelle dispute dei problemi naturali», aveva osservato Galileo, «non si dovrebbe cominciare dalle autorità di luoghi delle scritture, ma dalle sensate esperienze e dalle dimostrazioni necessarie».
Alle «autorità» delle sacre scritture, Bianchi sostituisce quelle dei filosofi e dei dotti del passato. Il sapere di cui egli parla nelle Leggi lincee, è quindi più condizionato dal rispetto di un ipse dixit del moderno aristotelismo, che aperto ai temi pre-illuministici.
Bianchi concepì i suoi Lincei come accademia «aristocratica».
Al contrario, i Lincei di Cesi sono stati i primi a propugnare un «sapere» scientifico pubblico, che deve essere trasmissibile e comunicabile (cfr. P. Rossi, Ogni uomo ha un occhio di lince, Il Sole-24 ore, 5.10.2003).
Bianchi dimostra di credere nella cultura quale riservato dominio dell’uomo dotto che può sentenziare indipendentemente dalla validità scientifica (intesa in senso galileiano), dei risultati a cui perviene.
Ecco perché il nostro Aurelio Bertòla poté scrivere in morte di Bianchi, che costui era stato «osservatore giudizioso della Natura, ma poco amico di quella massima legge: Niun esperimento dee farsi una sol volta».
Una conferma a questo giudizio, che apparve irriverente in modo provocatorio, ci viene dallo stesso Bianchi che suggeriva allo scienziato ravennate Giuseppe Zinanni (o Ginanni), di «non perdersi in esperienze» nelle sue ricerche sulla nascita di certi pulcini ma di arrivare celermente a pubblicare l’opera già promessa al pubblico.
A Bianchi sfugge il senso del concetto galileiano di esperienza, la quale (spiega lo storico della Filosofia Ernst Cassirer), «costituisce tanto l’inizio quanto la mèta della sua ricerca», passando dal vaglio metodico delle singole osservazioni acquisite, alla formulazione di un concetto critico relativo alla stessa esperienza.
In Bianchi manca una riflessione teorica sul nuovo pensiero moderno.
Affascinato dall’indagine naturalistica, oltre che dagli studi medici, coinvolto dal diffuso spirito del tempo di un’erudizione non critica ma classificatoria (l’enciclopedia tradizionale di cui parlava Cesi), Bianchi dichiara di aver insegnato una «filosofia eclettica» [Vita di A. Battaglini, p. 137].
Nella definizione si proietta il limite del suo pensiero, di cui abbiamo una testimonianza nella disputa sull’innesto del vaiolo, al quale era contrario, e che definì (con grave errore epistemologico) come una questione letteraria da discutere nel «miglior latino», con il quale mandare «al diavolo» i fautori di questa pratica profilattica.
A difesa di Bianchi va aggiunto che il suo errore epistemologico rispecchia l’esperienza culturale del primo Settecento. E che poi il nostro medico cedette all’«evidenza del buon esito» dell’innesto del vaiolo, come racconta il filosofo Giovanni Cristofano Amaduzzi.
Negli anni successivi alla rifondazione dei Lincei, il pensiero di Bianchi matura un cambiamento rilevante: nel 1749 egli legge in accademia un’epistola sui cosiddetti «mostri», dove mette in discussione la pretesa perfezione naturale delineata dalla teologia aristotelico-tomista che dettava la dottrina ufficiale della Chiesa.
Davanti allo scontro fra i dogmatici di stampo aristotelico e la ventata rivoluzionaria importata dalla rilettura di Epicuro attraverso Gassendi, Bianchi sposa la causa delle innovazioni introdotte dalla fisica di quest’ultimo, come dimostra appunto l’epistola sui «mostri».
Con questo scritto Bianchi si presenta quale pensatore e scienziato indipendente, ribelle ad ogni regola.
La Chiesa riminese lo farà mettere all’Indice tre anni dopo, non per i «mostri», ma per un altro lavoro, indubbiamente meno rilevante sul piano scientifico, ma considerato egualmente pericoloso: un discorso sull’Arte comica che era piaciuto a Voltaire.
Fu una condanna che Giuseppe Garampi definì rapida ed «improvvisa», ovvero quasi irregolare.
Dietro questa condanna c’è pure il ricordo della riproposta riminese dei Lincei, che rimandava al 1616 quando l’Accademia di Cesi, durante il processo al suo ascritto Galileo Galilei, si era schierata contro la Chiesa di Roma.
Anche Bianchi cerca di prospettare un suo sistema filosofico.
Se in un primo momento usa come intercambiabili i termini di «erudizione» e «Filosofia», successivamente spiega che l’Anatomia (materia della sua specializzazione) è «come il fondamento della Filosofia naturale, siccome lo è per certo della Medicina e della Cirurgia» [Fasc. 218, FG, MMR, BGR].
In altra pagina, la «Filosofia sperimentale» è invece considerata uno dei fondamenti «della vera Medicina Prattica».
Si noti la differenza che Bianchi fa tra «Filosofia naturale» e «sperimentale», che sono teoricamente la stessa cosa. La Scienza Nuova è Natura ed esperimento. Ciò che Galileo ha unito, Bianchi divide.
La Filosofia in Bianchi appare ancella non della Teologia, ma delle Scienze mediche e naturali.
S’avverte in questa sua posizione il condizionamento mentale dell’essere studioso (come dicevo prima) di Anatomia, materia che insegna a Siena dal 1741 al ’44, anno in cui pubblica a Firenze la prima storia a stampa dei Lincei di Cesi.
Circa l’attività dei Lincei riminesi, ho raccolto questi dati certi.
Le dissertazioni accademiche tenute sono 31. Di esse, 13 sono medico-scientifiche, e 18 erudite.
Il nucleo originario dei Lincei comprende 10 accademici. Se ne aggiunsero altri 11, uno dei quali, il ricordato Zinanni di Ravenna, non era mai stato preso in considerazione.
Dei 21 accademici, 11 appartengono al settore medico e scientifico; 8 a quello umanistico (Storia, Letteratura, Filosofia); 2 sono giuristi. (21 sono gli accademici di Rimini: i Lincei di Cesi nel 1625 ne hanno 32.)
Il ramo scientifico delle dissertazioni è del 42%, rispetto ad oltre il 52% di quello degli accademici.
Per converso, al 58% delle dissertazioni erudite, corrisponde il 38% degli accademici umanisti.
È documentabile un’attività lincea dal 1745 al ’65. Essa è la prosecuzione ideale della scuola privata che Bianchi gestì in casa propria a partire dal 1720.
Tra i suoi frequentatori, oltre al cardinal Giuseppe Garampi, anche papa Ganganelli, Clemente XIV, lo scienziato Giovanni Antonio Battarra ed il ricordato filosofo Giovanni Cristofano Amaduzzi.
Bianchi aveva anche progettato di affiancare all’attività lincea delle adunanze pubbliche quella editoriale, con l’impianto di una stamperia che però non fu mai avviata.
Bianchi fu ostacolato in vita dalla Chiesa riminese (soprattutto per le sue sezioni anatomiche), ed in morte: suo nipote Girolamo, medico nel nostro ospedale, fu minacciato dal vescovo di una «vendetta trasversale» per la pubblicazione dell’elogio funebre dell’illustre zio, composto da un sacerdote sue ex allievo, Giovanni Paolo Giovenardi.
Bianchi (che per essere stato archiatro segreto di Clemente XIV, ebbe diritto a fregiarsi del titolo di monsignore), fu sepolto nella chiesa di sant’Agostino.
Era nato nel 1693 da uno speziale con negozio all’insegna «del Sole», che scompare quando il figlio ha soltanto otto anni ed i suoi tre fratelli hanno sei, due ed un anno.
Alla «Spetiaria del Sole» prende le redini il commesso ravennate Francesco Bontadini che, quando Bianchi va a Bologna nel ’17 a studiar Medicina e Filosofia (così si chiamava allora il corso di laurea), si trasforma in tutore, economo ed educatore.
Bianchi si racconta per quegli anni bolognesi come un ragazzo prodigio, tutto rivolto agli studi e dotato di capacità eccezionali. In famiglia invece lo considerano un perdigiorno che frequenta cattive compagnie.
Gli anni bolognesi sono di gravi ristrettezze economiche, che lui ha poi cancellato dai suoi ricordi espressi in latino nel 1742 in un’autobiografia impostata seguendo ben precisi modelli letterari.
Come Giambattista Vico anche Bianchi tralascia di narrare di sé «debolezze ed errori».
Bianchi vuole proiettarsi su scenari antichi, in un giuoco d’incastro tra passato e presente, rivolto a nobilitare il presente grazie alla luce del passato.
L’invenzione letteraria in quest’autobiografia dimostra che è sorpassata la condanna pronunciata da saccenti e non disinteressati avversari suoi contemporanei, che l’accusarono di sfacciata vanagloria.
In quest’invenzione sta, nello stesso tempo, la chiave di lettura ed il limite invalicato dell’autobiografia di Bianchi, dove manca quell’esame intellettuale o spirituale presente nei modelli a cui si era ispirato: Vico, Petrarca, Agostino.
Per Bianchi potremmo ripetere un giudizio autobiografico di Antonio Genovesi: «Sapeva imitare quei ch’io stimava».
I suoi allievi furono consapevoli ed orgogliosi d’appartenere ad una scuola che chiamavano la «setta dei Bianchisti». E che gli avversari consideravano abituata ad intingere le proprie pagine con «velenoso inchiostro».
Bianchi era stato nominato giovanissimo segretario dell’Accademia ecclesiastica riminese all’epoca del vescovo cardinal Giovanni Antonio Davìa.
Davìa a Rimini nel 1722 avversa la diffusione del Saggio sull’intelletto umano di J. Locke, che sarà condannato a Roma nel 1734, da parte di quella Congregazione dell’Indice che Davìa stesso avrebbe poi presieduto.
L’esperienza culturale di Bianchi va inserita in questo contesto, locale e regionale, cioè dello Stato della Chiesa dove la «buona Filosofia» deve combattere contro quanti «vogliono tener il mondo nel giogo dell’ignoranza», secondo una frase di Francesco Garampi, studioso di Astronomia e di Diritto, scritta nel 1736.
Nel collegio riminese dei Gesuiti, lo studio della Filosofia era improntato all’Aristotelismo interpretato in chiave dogmatica.
Invece qualcosa di nuovo si era tentato nel convento cittadino dei padri Minimi dove però ben presto i superiori ordinarono di rientrare nell’«accampamento dei Peripatetici».
Nel 1781 Aurelio Bertòla nell’Elogio del riminese padre Giacinto Martinelli, un olivetano come lui, scomparso l’anno precedente, osserva che nelle Case religiose italiane continuava pure ai suoi tempi una tradizione filosofica che accreditava le «ciarlatanerie peripatetiche» ed i «sogni cartesiani», come molto prima (attorno al 1740) aveva sperimentato lo stesso Martinelli. Mentre stava appena «penetrando nei profondi ripostigli della buona Filosofia», Martinelli fu «indietro richiamato» per quel «gotico pregiudizio delle Scuole» che, secondo Bertòla, avrebbero dovuto essere distrutte per dar «luogo all’intero sviluppo degl’ingegni».
Il nostro Bianchi, ad undici anni, era scappato dal Collegio dei Gesuiti, ed aveva iniziato quella carriera di autodidatta di cui andava sommamente orgoglioso.
E da Vico, la cui Vita Bianchi possedeva nella propria biblioteca, poteva ricalcare così il modello del «fanciullo maestro di se medesimo».

Antonio Montanari


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851/28.10.2003