il Rimino n. 81, anno IV, luglio 2002
a cura di Antonio Montanari Nozzoli


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  SOMMARIO DI QUESTO NUMERO
Una lapide per Roncofritto.
Solita minestra nell'umorismo di Paolo Cevoli
 
"Don Montali e la Cassa Rurale di Riccione"
 
Ettore Masina, Lettera di giugno 2002
 
1. L'anello di Galileo. La prima storia a stampa dei Lincei romani
2. Rimini-Siena e ritorno. Alle origini dei Lincei di Iano Planco (1745)
 
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Don Montali e la Cassa Rurale di Riccione

E' uscito il volume XIX di «Ravennatensia» (Centro Studi e Ricerche Antica Provincia Ecclesiastica Ravennate), con gli Atti del Convegno di San Marino del 1997.
Esso ospita anche un saggio di Antonio Montanari, dedicato alla figura di don Giovanni Montali ed alla sua iniziativa di creare la Cassa rurale di Riccione nel 1914 (pp. 13-22).

Per il saggio "Don Montali e la Cassa Rurale di Riccione".

Per le pagine su don Montali.


Al sommario di questo numero


Giovanni Cristofano Amaduzzi



Alcuni siti (ricerca Google del 16 luglio 2002) che presentano le pagine su

>>Giovanni Cristofano Amaduzzi - Sito dedicato a Giovanni Cristofano Amaduzzi filosofo del XVIII secolo, a cura di Antonio Montanari.
>>Giovanni Cristofano Amaduzzi - Riministoria - Sito dedicato alla vita ed al pensiero del filosofo Giovanni Cristofano Amaduzzi. A cura di Antonio Montanari.

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    Al sommario di questo numero


  • Un bandito noto agli studiosi

    A proposito del capobandito Ramberto Malatesti (vedi «Ponte» del 16 giugno, pagina del Rubicone), va precisato che i documenti dell'Archivio Segreto Vaticano sulla sua cattura e morte, furono pubblicati nel 1969 in «Rimini Storia e Arte» n. 1 (pp. 16-40) dal prof. Romolo Comandini (che lasciò biblioteca ed archivio personali all'Accademia dei Filopatridi di Savignano sul Rubicone).

    Il «verbale dell'esecuzione», per fare soltanto un esempio, è alle pp. 32-33, datato «Di Torre di Nona, li XIII d'agosto 1587, in Roma».

    Tanto si deve alla memoria di Comandini, grande ed onesto studioso, oggi purtroppo dimenticato.

    [Pietro Corsi da Il Ponte]

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    Un genio autocertificato
    Su Rete 9 il filosofo che dà i numeri del lotto

    Anche per i geni esiste l'autocertificazione, stando almeno agli annunci televisivi di una rete padovana che irradia le sue trasmissioni pure nella nostra zona. Su Rete 9 infatti appare quotidianamente uno spot in cui l'editore reclamizza se stesso come filosofo, fondatore di una nuova corrente di pensiero, ed appunto come un «genio del XXI secolo». Questo signore si presenta come Romi Osti, ma due anni fa quando scese in Romagna per presentare la sua Rete, si faceva chiamare Robi Osti (già allora qualificandosi pomposamente come filosofo). Noi scoprimmo che ufficialmente esisteva un Roberto Osti al quale, altri due anni prima, corrispondeva la titolarità dell'emittente ATR di Rovigo: il 10 dicembre 2000, il «Ponte» scrisse che se egli risiedeva ancora a Rovigo, dall'elenco telefonico risultava essere un amministratore condominiale. «Potrebbe trattarsi di un'omonimia», aggiungevamo, «ma a Padova non appare in elenco nessun Roberto Osti». Non è mai stato smentito il nostro testo.

    Adesso alcuni lettori ci chiedono di ritornare sull'argomento, anche perché quella Rete ha potenziato le sue strutture romagnole (con tanto di sede a Rimini), offrendo nuovi servizi agli spettatori, indirizzati verso precisi traguardi culturali: il gioco del lotto, la previsione non del tempo ma del futuro, e certe attività facilmente immaginabili, con ragazze che illustrano l'attività di una linea telefonica particolare, anche in prima serata (per non parlare di quello che mostrano fin troppo 'naturalmente' in orario notturno, fino alle sei del mattino).
    Nel nostro articolo del 10 dicembre 2000, segnalavamo che tutti i sabati alle ore 20 appariva su Rete 9 l'avvocato Mario Bacchiega che sparlava della storia della Chiesa con una frenesia da curva sud durante un derby. Aggiungevamo che Bacchiega pubblica libri in una collana intitolata Biblioteca massonica.

    Anche quest'anno, fino a sabato 29 giugno, Rete 9 ha divulgato i discorsi di questo avvocato, in una rubrica ora sospesa per le vacanze estive, intitolata «Antropologia religiosa». Nell'ultima puntata, parlando di Religioni femminili o maschili, l'avvocato Bacchiega ha ironizzato pure sul bacio della terra (anzi dell'asfalto, ha voluto puntualizzare) da parte del pontefice nei suoi viaggi all'estero.

    Ma torniamo alle cosiddette idee del guru di Rete 9. Quali esse siano, ci aiuta a capirle Internet, dove il libro di Romi Osti ha un sito con il nome della corrente filosofica che dichiara (nientepopodimeno) di aver fondato, l'essenzialismo.

    (Lunedì primo luglio sera, il signor Osti si è concesso ai telespettatori di Rete 9, per spiegare il suo volume incorniciato da locandine in cui si leggeva: «Dio esiste, sono io».) Detto in breve senza virgolette, e riassumendo con rispetto parlando, essere essenzialisti significa anzitutto non considerare l'ozio il padre dei vizi, bensì un fantastico mediatore che porta la mente alla luce. Poi, vuol dire respingere dogmi e false morali, perseguire un piacere armoniosamente collegato alla vita, sopprimere lo Stato riducendolo ad una comunità (tipo villaggio), all'insegna del motto Federalismo, Radicalismo e Liberalismo.

    Andando sul difficile, il filosofo dell'essenzialismo nega il libero arbitrio (ma questa non è una novità per chi bazzica i libri), affermando che tra uomo e bestia non c'è differenza, se non per il quoziente d'intelligenza. Un'impronta esoterico-massonica sbuca fuori quando Osti sostiene che la vera Religione è quella che scopre e rispetta le leggi dell'Universo. Il tutto è infine condito dal sogno (anche questo non originale) di una Civiltà superiore. In cui ognuno, per essere felice, dovrebbe raggiungere qualcosa di più di quello che ha (oppure non ha).

    Che basti poco per essere felici, la sapienza popolare lo ha sempre sostenuto, senza pretendere di attribuirsi qualifiche di geni o filosofi. Il problema è, a questo punto, di spiegare queste semplici cose alle popolazioni affamate del Terzo e Quarto mondo, dove oltretutto non arrivano le trasmissioni del buon pensatore veneto. Ma quando le cose sono troppo semplici, rischiano di cadere in quell'ovvio che è proprio l'oppio dei popoli (televisivi).

    [r. s. da Il Ponte]

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    Una lapide per Roncofritto
    Solita minestra nell'umorismo di Paolo Cevoli

    C'è una specie di destino letterario in quasi tutti i personaggi romagnoli che talora emergono nelle trasmissioni televisive o in qualche prodotto editoriale. E' il marchio del dialetto non come semplice inflessione della parlata, ma proprio come articolazione del pensiero.

    L'ultimo esempio è quel Paolo Cevoli riccionese che, con le storie del suo immaginario (ma non troppo) paese di Roncofritto, sta avendo un successo «da bestia», come direbbe con la lingua dei suoi personaggi, i quali richiamano un po' troppo certa figura di Maurizio Ferrini, uno di quelli delle notti arboriane, l'uomo di fede comunista tutto d'un pezzo, quello che non capiva ma si adeguava. («Mutatis mutandis», c'è un suo fratellino minore, capace di presentarsi come esponente berlusconiano o leghista, e ripetere fideisticamente le sue considerazioni sulla vita e sulla politica?).

    Roncofritto, sulla carta geografica della Romagna, è dovunque. E questo fatto, oltre a rappresentarci come caricature esilaranti, è una specie di marchio di fabbrica e d'infamia nello stesso tempo: perché, se ci caratterizza, poi alla fine ci condanna come personaggi e come cultura che non sanno esprimere altro che questo filone ruspante di gente tutta casa e lavoro, niente pensiero astratto, capace soltanto di contare, moltiplicare o sottrarre «bajocc», ruvidi quanto basta nel ridurre la vita a semplici banalità che diventano simbolo di espressioni alte a forza di ripeterle, perché una bojata detta una volta, nella mentalità riminese e romagnola del «pataca», resta una bojata, ma se la ripetete dieci, cento, mille volte, diventa la leggenda del bar, della strada, del borgo, del comune, di quel Roncofritto che è dovunque si lotti contro il tedio come se il tedio fosse il mulino a vento di don Chisciotte e non la proiezione di noi stessi incapaci di conquistarci una dignità mentale (il che sarebbe poi anche una dignità morale). E quella bojata poi ve la ritroverete in qualche libro cosiddetto di storia, in un territorio in cui autori «ad hoc» abbondano anche, anzi soprattutto, se non sono sempre «doc».

    L'eroismo plebeo, antintellettuale di questi vari roncofrittesi, il ballo «lissio», la «piadeina, cibo degli dei» (assurta a mitologica citazione di Aldo, Giovanni e Giacomo, con una consacrazione teatrale che fa fremere d'orgoglio gli etnocrati locali, cioè quei burocrati che ci campano allegramente da una vita sulle patacate della povera gente), e poi le varie sagre, dalla porchetta allo gnocco di patata (sempre sponsorizzate da una illustre banca): che cosa non sono, tutte queste cose, se non l'esemplicazione di una «cultura» veloce (da fastfud, scriverebbe il Cevoli), fatta di macchiette che poi non sono tali, perché anche il più «scemo del villaggio» di questa letteratura spicciola, può diventare una carogna, perché credere obbedire e combattere non è mica di una sola parte, quella del duce, e perché quelli come il Ferrini della notte arboriana mica sono solamente una caricatura innocua.

    Ad esempio, le teste dure che trent'anni fa «facevano i cinesi», nel senso che pensavano alla dottrina di Mao come verbo da realizzare con ogni mezzo (leggi: rivoluzione con bombe, e non con i bomboloni), anche nella terra dei capitalisti emiliani (rosso sangue, per via di lambrusco, Ferrari, bandiera del Partito e globuli), sono parte del nostro paesaggio umano, anche se poi, cambiando gabbana e cercando prebende, hanno sperato di farsi dimenticare. E spesso ci sono riuscite, quelle teste dure, per merito di altre ancora più dure di loro: ovviamente, nel superiore interesse della Patria pacificata.

    Quando nel Municipio di Roncofritto affiggeranno un po' di lapidi, ci sarà da divertirsi. Ne propongo una soltanto: «Alla memoria degli smemorati, un ricordo che sia luminoso esempio di persone in apparenza svanite nel nulla, un pensiero benemerito perché senza pensarci due volte, pensarono in sostanza unicamente a loro stessi. La Città riconoscente non li riconobbe più, tanto erano cambiati. A dimostrazione della perenne verità che sia Franza o sia Spagna, basta che se magna. Non credevano in Dio, ma democraticamente lo consideravano loro pari. Il popolo pose, ed i politici depositarono in banca».

    (Chi fa eccezione tra i personaggi romagnoli di cui s'è detto all'inizio, è quel Daniele Luttazzi santarcangiolese, che però scivola troppo nell'umorismo grasso, perdendo la sua intelligenza in trivialità non troppo intelligenti.)

    Pietro Corsi

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    Locandine...

    "Lucciole e viados infestano il lungomare".
    "Pesanti accuse al prete pedofilo".
    "Guardone in agguato nel parco".
    "Cocaina ai bambini".

    Titoli di giornale? No, i titoli conservano, malgrado tutto, maggior discrezione. Si tratta degli annunci di richiamo stampati a caratteri cubitali sulle cosiddette locandine, i fogli messi in evidenza davanti alle edicole che reclamizzano i contenuti più "attraenti" del quotidiano: un uso di qualche regione italiana (Toscana in primo luogo); un uso che pare spesso sconfinare nell'abuso.

    Vi siete mai trovati, infatti, ad accompagnare alle scuole elementari vostro figlio o vostra figlia, e ad imbattervi in titoloni del genere passando vicino all'edicola nei pressi della scuola? A chi scrive è capitato personalmente più volte di non saper bene come spiegare a sua figlia certi titoloni (e certe parole). E dire che poi il contenuto degli articoli in genere si mantiene su apprezzabili livelli di correttezza e discrezione. Faccio solo l'esempio più recente: "Cocaina ai bambini", strilla la locandina: ebbene, leggendo l'articolo in cronaca si scopre che si tratta solo del commento a dati sull'abbassamento dell'età media in cui si può cader vittime della droga (dati comunicati a un convegno di esperti svoltosi sotto l'egida di una prefettura).

    Perché tanto scandalismo a buon mercato? Per allargare il medesimo, visto che sempre i dati ci mettono agli ultimi posti in Europa tra i lettori abituali di quotidiani? I dati, però, non possono tener conto di quanti diano più che un'occhiata ai quotidiani al bar o dal barbiere. E poi, bisogna proprio far leva sui cosiddetti "istinti più bassi" del potenziale pubblico consumatore?

    La domanda conclusiva è questa: non si potrebbe estendere la discrezione generalmente mostrata da titoli e articoli anche alle locandine? Non si tratta di una faccenda di pruderie: ritengo che ciascuno abbia il diritto di decidere quando e come parlare ai propri figli di certi argomenti, senza sentire la propria privacy letteralmente invasa dall'esterno, trovandosi costretto ad imbarazzanti giri di parole frettolosi. Si tratta quindi di difesa della privacy dei consumatori, ma anche di una questione più generale di sensibilità culturale e di buon gusto. Non potrebbe, allora, cominciare dalle locandine, e dal rispetto dei bambini, quell'abbassamento dei toni" che si sente così spesso invocare a proposito della polemica politica?

    Newsletter N° 31
    Periodico di informazione di www.buonconsumo.com

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    Non basta la parola
    Vecchie veline

    A dimostrazione di come, cambiando l'ordine temporale delle parole, muti anche il loro significato, portiamo il caso delle Veline che spadroneggiano l'estate televisiva ed hanno fatto anche una puntata rivierasca, a Riccione battuta dal vento. Chiedete a giovini sbarbatelli ed a ragazzine sognanti una simile carriera, e tutto vi diranno sui loro miti catodici: nulla serve d'arte per accedere al palcoscenico, tranne qualche convenzionale mossa ginnica contrabbandata per ballo. Non sanno cantare, a recitare impareranno in precoce età di pensionamento, poi saranno sempre aiutate dal gobbo che non è l'uomo che porta fortuna, ma un cartone scritto a grosse lettere od uno strumento elettronico dove è precisata ogni battuta che le (in)felici Veline debbono tentare con movimenti labiali non sempre coordinati.

    Se poi, culturalmente parlando il vostro confidente è ben agguerrito, allora vi dirà che cugina di Velina fa Letterina, ovvero valletta di Passaparola, la cui carriera è ancor più illuminata da un esempio di recente ascesa sentimentale: è appunto una Letterina quella che ha ammaliato l'erede al trono di tale signore che è re delle tivù nazionali nonché capo del governo ed aspirante capo dello Stato (ovvero come passare in futuro, se amor non cessa, dalla calvizie di Gerry Scotti alla piazza del Quirinale).

    Un tempo invece la semplice velina, senza l'ambiziosa maiuscola, era un foglio leggero che s'usava scrivendo a macchina per fare una o più copie d'un testo mediante carta carbone. Ora, con fotocopiatrici e stampanti dei computer, la vecchia velina non la ricorda più nessuno, se non un'agenzia giornalistica (con l'aggiunta dell'aggettivo «rossa»: un nome, un destino), che imperterrita ci ricorda come in anni lontani dicevansi «velinari» quei cronisti politici i quali, nel loro quotidiano «pastone» romano, si limitavano a ricopiare le notizie inviate loro dalla segreterie dei partiti.

    Una cronista d'eleganze mondane, Maria Corbi, ha impietosamente esteso la categoria femminile ai «giudici-velina», battezzando tali certi «magistrati da passerella», e dimenticando la maiuscola: per forza la Giustizia è in crisi.

    Pietro Corsi

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