Home
Poesie
Poesie in inglese
Racconto
Racconti in rosa
I racconti di ABI
Racconti per bambini
Commedia
Piaget
Tesi
Disegni

Precedente

 


e-mail

Racconti in rosa 3

FORSE NON LEI

Forse non lei doveva diventare magistrato. Imbottire la sua corazza ogni mattina di ottimismo per mantenere la lucidità di giudizio dinanzi a donne, altre come lei, trattate come catrame da appoggiare su un asfalto per corrervi sopra incontro all’orgasmo da velocità futurista per sentirsi uomini fuori, speriamo in Dio mai dentro. Non lei doveva trovarsi occhi negli occhi le vittime del meccanismo arrugginito, inceppato, claudicante contro il quale aveva combattuto per essere magistrato donna, non falso uomo, e vivere le sue scelte come femmina, solo come era. Non lei doveva trovarsi faccia a faccia con le prostitute, i loro occhi nei suoi occhi, a dire che sì, su due fronti, erano donne, entrambe le parti uguali in modo diverso. Non doveva sostare, sospesa, sui gradini di un tribunale, senza sentire né vedere, ombre e fantasmi, secoli di diritto ed una manciata d’anni di emancipazione. Forse ... se il mondo per una volta avesse preso a girare alla rovescia, avrebbe visto più bambini felici che picchiati e lei sarebbe stata in una nicchia di luce, seduta a ricamare delicate iniziali sul tombolo. Non lasciarsi coinvolgere quando gli strilli dei giornali puntano il dito sulle coscienze e la mente legale della laureata in giurisprudenza si trova a tu per tu con le sue paure, la sua rabbia, i suoi limiti.

Forse non lei era nata per sanare il mondo, portare all'umanità una ventata di nuovo; ma trovarsi lì, così, impotente dinanzi al diritto, incapace di trovare una ragione negli altri e per gli altri, incapace di fissità d’equilibrio tra se stessa e la sua professione, era l’inizio di una nuova nevrosi. La mente che si rifiuta di fermarsi sulle grida di divorziandi che reclamano i figli, quando un istinto materno vorrebbe sollevarsi dallo scranno e allungare un paio di ceffoni sulle facce truccate o sbarbate di caricature dell’egoismo. Ma anche mentre tutto l’essere non resiste più dinanzi alla scempiaggine della vita e vorrebbe cancellare teoremi e filosofie per riscrivere solo, immenso, il cammino della libertà. Proprio lei non ne aveva più di libertà. Votata alla filantropica scelta di contribuire a rendere più libera e giusta la sua fetta di vita, cos’era? Era un appiccicoso impiastro che non riusciva più ad uscire dagli ingranaggi dei codici e ... gli occhi sbigottiti di tutti gli astanti, adesso, rendevano il tribunale un goffo gobbo beffardo, ripiegato su di lei per giudicarla.

"Bene!"

Cos’era la sua voce? Una randella sfuggita ad un dado, che saltellava sull’impiastro scollandolo dal noioso stato appiccicaticcio?

Bene, aveva detto. Bene.

Gli occhi solo erano rimasti di tutto il dispiegamento di cartelle di cuoio e valigette griffate. Bene.

Che cosa andava bene neanche il gobbo lo sapeva. E imponeva la sua ombra minacciosa e stupita sull’altra lei che era rientrata nell’Io.

Cosa faccio io qui? Io non so più che cosa debba fare un magistrato e perché dev’essere costretto all’imparzialità quando il codice causa un’ingiustizia. Io ... ci ho pensato tutto ieri al ritmo dello jogging, lontana dai campi da golf dove si trovano a discutere i colleghi.

Che ci faccio di me stessa qui, quando la giustizia non è più con me ma con quell’altra me che non sa più chi è, dov’è, perché? La giustizia la insegnano i vecchi sdentati e raggrinziti che vivono al silenzio del mondo, al bordo della società rumorosa che incombe spaventosamente sulla mia coscienza, adesso. Cosa faccio? Seguire l’insegnamento del buon senso, dell’esperienza, dell’istinto? L’istinto della madre ... Io non so, non so essere madre neanche di me stessa, non so accudire se non con l’apparenza i miei desideri e ambizioni, come posso essere madre di un litigio, qui, in cartelle dattiloscritte troppo nere e troppo bianche per essere comprensibili?

Ecco, il gobbo beffardo si sta piegando ancora di più per ascoltare il bisbiglio del mio cuore e la matita tamburella nervosa tutti i comma che si ricorda, lente litanie d’esame. Non so più giudicare perché l’altra me ha abdicato e mi ha lasciata sola, solo donna, a decidere. Non pensavo, non dovevo giungere a questo. Non volevo. Dare me stessa nel mio lavoro, espormi in prima linea per fare davvero del bene, perché la giustizia sia me ed io non finga, dietro la lugubre toga, di vivere.

Bene, incomincio ora a vederci chiaro e a vivere, signori, di me stessa. Dovevo dire così, poco fa! Invece quel: "Bene" tutto solo ha spaventato i coccodrilli della magliette degli avvocati senz’accorgersi di quanto sono rimasta sola, dopo che mi era uscito fuori. Senz’accorgersi che il mio intercalare era la netta descrizione di come mi sento, adesso.

Non sto giudicando un estraneo affare di famiglia, ma sto decidendo del mio avvenire, di non sdoppiare più lei da me e me dal mio lavoro, ma di essere io senza congetture né paramenti.

"Bene ..." ripeto. Mi trovo bene con l’altra me fattasi giustizia giusta, io donna-persona non infangata dall’appiccicaticcio della cronaca o dei codici.

Andrò avanti con la causa.

 

A PERDIFIATO

Il mio bambino ha paura della vita. Lo so. Lo sento. Lo vedo. Da due giorni a questa parte ha paura di tutto ciò che lo circonda ed io provo un’angoscia che non ho mai provato. Sono appena diventata grande, ho appena finito di trascinare a terra la mia personale coperta, il mio nascosto fardello di timori, consci ed inconsci, ed i grandi suoi dolci occhi sono pieni di terrore. Per la luce, il letto, le zanzare, il cibo. Ecco, ancora nel mondo vivono più i terrori della gente e ... e non lo sopporto. Per me non lo sopportavo più. Sono uscita con un urlo dalle normali, abitudinarie nevrosi trovando in mio figlio la risposta al lento divenire che mi assaliva dentro, attanagliandomi lo stomaco. E ora non posso urlare stringendo tra le braccia lui che cerca in me il tramite con il mondo. Sono stata su sentieri bui, mano nella mano della mia bambola più cara, affannata da un uomo enorme che mi scaraventava addosso massi. Sono stata allucinata da sogni di morte, ho trascorso ore a perdifiato a cercare la mia fune per uscire dal precipizio. E ora sono solo una mano dolce che accarezza un nodo in gola che non si scioglie, un visino spaurito di cucciolo che non mi chiede cosa gli sta accadendo perché non sa che accade. Ascolto tenendolo tra le braccia i tonfi del suo piccolo cuore che non chiede altro se non quando finirà questa brutta cosa.

Il mio bambino ha paura. Ed è una paura senza passato presente e futuro, senza perché. Ha paura solo di sé, del suo tremito; ha solo me come soluzione. Ed io tremo per lui. So che sta crescendo e che dovrà sempre più risolvere da solo le sue crisi, i suoi problemi. E il pensiero mi strugge di compassione e di pena. Anche lui dovrà dibattersi nelle nevrosi di tutti i giorni mentre io sarò lontana dal suo tempo e dalle sue scelte; chi, chi se non me sarà là a coccolarlo, accarezzando le sue spalle ed il suo visino morbido come solo una madre può fare? Ci sarà qualcuno ad accompagnarlo, a sostenerlo sempre, sempre, come me fingendo sicurezza e amore mentre il cuore annega di terrore? Riuscirà a portare sempre con sé l’immagine perduta nell’affetto, nell’amore per lui?

Mio figlio ha paura ed io tremo, temendo di regredire con lui nelle angosce della mia infanzia anziché aiutarlo a vivere la sua vita. Ho generato un altro essere in grado di sentire i problemi, un’altra sensibilità, un altro enigma per se stesso e gli altri. Mio figlio ha paura e non ho tempo per piangere, devo sfoderare la mia più o meno vera sicurezza per non offrirgli la mia paura in cambio delle sue paure.

Mio figlio ha paura ed io sono ancora più madre.

CONFUSIONE DI FAMIGLIA

"Perché ho trovato un’automobilina nella lavatrice?".

"Ce l’ha messa papà!".

"Papà?".

"Sì, sono sicuro, l’ho visto, l’ho visto! E’ entrato nel bagno e l’ha buttata dentro!".

"Perché?".

"Per farti arrabbiare, sono sicura!".

"Anche tu l’hai visto?".

"Sì, ero nel bagno a fare la pipì, e papà ha buttato in lavatrice la macchinina per farti arrabbiare, così tu sculacciavi noi! Lo so, lo so!".

"E perché papà avrebbe fatto una cosa del genere?".

"Così tu ti arrabbi".

"E perché dovrebbe farmi arrabbiare?".

"Perché così litigate e tu cucini quello che gli piace".

"Io non cucino mai!".

"Ma così diventi come quella della pubblicità e viene l’uomo della lavatrice che ti dà il conto salato perché la lavatrice è rotta e usi il detersivo".

"Avete messo voi due la macchinina nella lavatrice!".

"No, papà, papà, e tu non dirgli che non ha la cravatta!".

"Quale cravatta?".

"Quella esaurita sul catalogo che non è arrivata in tempo per il regalo che così, se non glielo dici e non gli dici niente delle mutande che sono diventate rosa perché sono finite in lavatrice e della sua maglietta che si è rimpicciolita, lui non si arrabbia".

"Chi ha messo la macchinina nella lavatrice?".

"Papà, papà!".

"Dov’è finita la carta igienica?".

"Nel lavandino".

"Perché?".

"La bambola si è lanciata con il paracadute ed è finita nel laghetto".

"E la spina del telefono?".

"Ci serviva la cassetta del pronto soccorso".

"Con le ciabatte che facevano l’aereo che planava sull’acqua".

"E la macchinina?".

"Papà ti fa gli scherzi".

"E’ stato lui a nascondere le miei chiavi di casa sotto il materasso?".

"Sì".

"E ad usare i miei spiccioli per giocare alle pulci?".

"Sì".

"L’hai visto?".

"Sì, così tu ridi".

"Non mi fate ridere quando raccontate le bugie!".

"Ma lui giocava alle pulci con noi!".

"E ha finito il gelato del freezer?".

"No, quello l’ho mangiato io".

"Ah!".

"Sì, però papà ha finito la Coca Cola e ho visto che si mangiava le unghie mentre tu non guardavi".

"E tu fai la spia!".

"Ha ragione la mamma, fai la spia, fai la spia, l’ho detto quando il paracadute è andato nel lavandino che eri una spia!".

"Come mai?".

"Perché ha detto che avevo sbagliato manovra e che se lo spazzolino è finito nel tubo era colpa mia".

"Anche lo spazzolino!".

"Certo che è colpa tua! Anche quando hai bloccato la cassetta nel video è stata colpa tua: ti avevo detto che non dovevi smontare il telecomando per mettere la pila nel frigorifero!".

"Quale frigorifero?".

"Quello della mia bambola. Poi lo abbiamo messo nel frigorifero vero e le arance le abbiamo infilate nel forno".

"Perché?".

"Perché il mio frigorifero non raffredda davvero e la bambola aveva fatto il gelato".

"Adesso le arance le posso mettere a posto?".

"Non ci sono più perché lui ha acceso il forno per metterci la torta e così ha preso fuoco il sacchetto di carta e abbiamo buttato le arance".

Cadde seduta con un tonfo.

"Papà fa tardi, oggi?".

"Eh?".

"Così usiamo la televisione in camera per giocare con il videogioco finché non troviamo la pila per aggiustare l’altro telecomando, tanto voi due parlate così noi possiamo giocare in pace".

"Potete stare con noi ...".

"Ma voi due poi discutete e a noi non interessa sentirvi discutere dei conti del dentista perché q uello è uno antipatico che dice una cosa e poi ne fa un’altra ...".

"Sì, sì, è vero, mi aveva detto che voleva darmi la sedia da portare a casa eppoi se l’è tenuta lui, non è giusto, allora perché me l’ha detto per farmi tenere la bocca aperta? Io la tenevo aperta lo stesso se lui me lo diceva, non mi deve trattare come un bambino!".

"Hanno ragione quelli del Telefono Azzurro!".

"Poi voi litigate per la politica perché a te piace il governo e a lui no e così ti arrabbi perché dici che lui va d’accordo solo con la sua segretaria e noi dobbiamo giocare in silenzio sennò non passiamo il livello".

"Se torna tardi ci fai la pizza surgelata?".

"La volete?".

"Hai cambiato marca?".

"Non lo so".

"Se è la pizza dell’altra volta faceva più schifo di quando cucini tu e allora è meglio che non fai niente e che mangiamo un panino con la marmellata".

"Potrei cucinare la pastasciutta".

"No, non ti disturbare, è lo stesso!".

"Non è un disturbo, oggi ho tempo".

"Cosa compri a papà al posto della cravatta?".

"Non lo so, ci devo pensare".

"Per me devi fargli qualcosa di originale così la smette di usare le nostre macchinine per rovinare la lavatrice".

"Questa cosa qui non l’ho ancora capita".

"Io sì, ha comprato un libro di Pirandello e ieri ci raccontava di quello che faceva la carriola con il cane e così lui fa con le macchinine che ci gioca quando noi non lo vediamo".

"Mamma, perché i grandi non si vogliono fare vedere bambini dai bambini perché sono più bambini di noi ma non lo dicono?".

"Io lo so, io lo so: hanno paura, hanno paura!".

"Perché che succede se lo dicono? Non devono più andare dallo psicanalista a spiegare che non trovano le scarpe perché i bambini le avevano usate per fare giocare il cane del vicino che invece di fare la carriola aveva rotto il vetro della cantina per inseguire il gatto spaventato dello scoppio del petardo di mio fratello che si era dimenticato di finire i compiti?".

"E’ vero che regali le scarpe nuove a papà così non si arrabbia con il cane? E’ vero mamma, è vero?".

Non restava che cadere per terra.

 

STRANE ADOZIONI

Tutto era cominciato il giorno in cui il ginecologo le aveva detto che non poteva avere figli. Er a caduta in un pericoloso stato depressivo che stava altrettanto pericolosamente dilagando verso il marito e che tendeva ad aggredire per osmosi fraterno-terapeutica il giro degli amici del bridge, del golf, dello squash, dell’uncinetto, di Super-Mario, delle telenovelas, dello zapping e fors’anche del telefono, visto che la notizia nefasta era stata trasmessa a mo' di telescrivente lacrimante per tutti i cavi della società vincitrice delle spot dell’anno.

Il giorno in cui si era svegliata con la netta sensazione di avere terminato le persone alle quali raccontare la sua sciagura, si era altrettanto resa conto che non poteva perdere il suo tempo a piangersi addosso e che doveva fare qualcosa.

Passò due mesi raccogliendo ogni sorta d’informazioni su tutte le pratiche d’affido, d’adozione, d’inseminazione, di qualunque cosa potesse riuscire a renderla madre. E per due mesi tutte le sere si riuniva in summit con il marito ed il telecomando a discutere e riflettere, poi appoggiavano il telecomando e si riunivano con lo spazzolino da denti, poi con la tazza di latte prima di andare in camera da letto, poi con il copriletto che piegavano insieme per non stropicciarlo, parlando parlando, sempre parlando di ciò che avrebbero potuto fare e non fare o aspettare o pensare o domandare o chiedere consiglio per decidere se decidere o forse decidere o quando decidere, chi lo sa, di avere un figlio. E continuavano a parlare a letto, abbracciati alla coperta, fissando il soffitto, per decidere se poi non stavano bene anche così, con un’automobile nuova da comperare e una crociera da fare ché tanto, comunque, non era un problema psicologico o posizionale ma congenito, insormontabile.

Parlavano parlavano, discutevano discutevano, riflettevano riflettevano, e la società degli spot aveva ancora da loro più soldi per pagare altri spot, e le telenovelas non si sapeva più come andavano a finire perché le parole degli attori erano coperte dalle voci di tutti quelli, o quelle, che venivano informati degli sviluppi della vicenda che si tinteggiava a tratti di nero, a tratti di rosa, a tratti di rosso. Di rosso quando l'amico sornione concludeva le riunioni del bridge dicendo: "Basterebbe una scappatella ...".

Finché un giorno, esattamente due mesi dopo la data della decisione di darsi all’investigazione della soluzione, non arrivò la folgorazione.

Passava di lì per caso, davanti ai negozi dello shopping di fine stagione, la risposta certa a tutte le loro domande: anzi, non passava proprio, era ferma sopra un tavolino osservato a vista da due ragazzi normali, un lui ed una lei, lui con il codino, lei con i capelli corti; lui con le scarpe da tennis, lei con gli anfibi.

Era il tavolino di un’associazione che non aveva mai sentito nominare, ma che comunque era di quelle non governative che si occupano degli altri a livello internazionale. E sul tavolino c’era un volantino: adozione a distanza.

Ecco: lei aveva sempre desiderato trascorrere le vacanze in America Latina e quel desiderio era la soluzione.

Agguantò un volantino prima che gli anfibi avessero il tempo di darle due spiegazioni in più e corse a casa con tutti i suoi passi più celeri, una borsa di carta zeppa di saldi di qui, una borsa di carta zeppa di saldi di là, assolutamente dimentica dell’automobile parcheggiata nel parcheggio sotterraneo. E assolutamente dimentica che per arrivare a casa ci volevano otto chilometri e mezzo. Conscia che gli acquisti pesavano tremendamente, non smise tuttavia di correre a gambe levate per tutta la strada, allucinata dalle palme che la facevano sorridere da squilibrata, accecata dal sole tropicale che le offuscò lo sguardo allibito di un nero vù cumprà che l’aveva scambiata per una concorrente di mercato, addolcita dalla sensazione di stringere tra le braccia un piccolo indio che la chiamava mamma.

Fiondò in casa ansimando e agguantò il telefono per riferirgli in sibili incomprensibili la sua straordinaria scoperta, sicura di avere composto il numero di telefono dell’ufficio del marito. Invece, la fretta l’aveva tradita ed aveva terrorizzato una vecchietta che, tremante, aveva poi chiamato il 113 per dire piagnucolando di essere stata oggetto di suoni telefonici sconci proferiti da un maniaco caraibico, tutto ciò che aveva capito. Potenza di uno spot.

Impaziente perché il marito non rincasava all’istante come gli aveva chiesto al telefono, stropicciò tutto il depliant senza riuscire a leggerlo che con la forza della fantasia e dell’immaginazione. Una giostra di buone intenzioni la portò ad essere un po’ una buona bianca vestita da Madre Teresa, un po’ una sciocca sognatrice dal sorriso ebete dinanzi a bambini che l’osservavano con aria interrogativa, superiore, per diagnosticarle qualche recondito handicap mentale irreversibile.

"E quel cretino che non arriva, ma dove si sarà cacciato?".

Il depliant non aveva più parole stampate, ma solo deboli tratti d’inchiostro senza forza, senza nemmeno più l’indirizzo al quale chiedere informazioni, quando si decise a chiamarlo di nuovo.

La fretta fece incespicare lo spot che singhiozzò scuse smozzicate in una sequela di TutTutTut senza tregua e una barlume di ragione tornò ad impossessarsi di lei. Ricompose il numero con calma, o sservando in controluce, nel frattempo, un saldo d’acquisto che non ricordava bene di avere comprato di quel colore, di quella taglia, cosa ci faceva nel suo sacchetto l’intruso, si era impossessata di una parte del negozio che non voleva, era un’altra donna quando aveva deciso di acquistare quelle cose, ma a cosa servono le cose quando i bambini sono senza mamma, senza famiglia, dieci ne avrebbe adottati ...

"Ciao, sono ancora io, ti decidi a tornare a casa o no?".

"Beh, sono solo le dodici e cinquanta, prima delle cinque non stacco mai ...".

"Ma se è quasi un’ora che ti aspetto! Non avevi detto che saresti tornato subito, prima, quando ti ho chiamato?".

"Quando mi hai chiamato?".

"Poco fa!".

"Hai lasciato detto?".

"No, ho parlato con te, ho parlato con te, mi hai detto che saresti tornato subito quando ti ho detto che avevamo un bambino, che avevo trovato il bambino che faceva per noi. Su, dai, non fare il tonto, sbrigati e torna a casa che ti spiego!".

Che cosa doveva spiegare, poi, non lo sapeva. Non aveva ancora trovato una spiegazione soddisfacente all’acquisto in saldo che la squadrava dalla sedia sicuramente pensando che non ci sarebbe mai stato addosso a quella che lo ripudiava dopo che lo aveva trascinato per chilometri attraverso la città.

Sapeva che avrebbe adottato il suo bambino e che lo avrebbe reso felice. Ne parlarono a lungo a quattr’occhi, senza il telecomando e la tazza di latte, il dentifricio che non usciva dal tubetto, senza nemmeno tentare di piegare il copriletto. Stavano seduti in cucina, uno di qua e l’altra di là del tavolo, senza curarsi del qui e del là, del qua e del lì e proprio questo gli fece pensare che fosse una faccenda seria.

Desideravano un figlio e cosa c’era di meglio al mondo che rendere felice un bambino che altrimenti non lo sarebbe stato mai?

I chilometri con i saldi a destra e a sinistra, l’acquisto ripudiato che occhieggiava commosso, lo zapping zitto zitto, le porcellane acquistate all’asta perché senza il figlio potevano permettersele, si arresero al silenzio di tomba dinanzi a questa riflessione tanto profonda: perché generare un altro essere con tutti quelli infelici che già c’erano?

Fu anche più semplice del previsto. Un contatto telefonico, un bonifico bancario ed erano padre e madre, almeno nel profondo del cuore.

I discorsi di salotto, attorno al bridge specialmente, si facevano sempre più fitti: tutti dovevano, e volevano, sapere un po’ di più del pupo, com’era, perché era, quando sarebbero andati a trovarlo. L’agenzia viaggi avrebbe ricevuto disposizioni: tutto organizzato per raggiungerlo e stargli vicino.

E, come d’incanto, il golf prese un altro sapore, lo squash un altro sapore, le telenovelas le creavano loro, attori di se stessi, l’uncinetto era tutto in belle tinte pastello, specialmente l’azzurro perché LUI era un maschio. Sì, erano riusciti ad avere un figlio e tutta la realtà si era improvvisamente colorata di rosa ... o di azzurro ... beh, non aveva molta importanza.

In una ulteriore stagione di saldi, il passo era più serio e compassato, giusto da madre almeno per come si conviene. Una piccola punta di nostalgia la portò per gli stessi passi della sua galoppata zavorrosa, così, per vedere se i due ragazzi erano ancora in compagnia del tavolino, per far loro sapere che erano serviti a qualcosa, che era bello, molto molto bello quello che avevano fatto e che stavano facendo per dare una ragione superiore di vita a gente, coppie, come loro.

Si avvicinò senza troppo slancio ad un banchettino di forma un po’ diversa, a ragazzi un po’ diversi da quelli dell’altra volta. Forse era il maschio ad indossare gli anfibi stavolta, o forse lei non aveva ancora la zavorra dei saldi che le annebbiava il ricordo, ma le palme sì, oh, quelle sì le ricordava bene! E non se le sarebbe mai dimenticate. Aveva visto palme dappertutto, quella mattina, e non aveva pensato che fosse un buffo effetto del suo sangue che schiattava senza ossigeno per avere dimenticato l’automobile nel parcheggio. Le era costata qualche zero perché se l’era ricordata qualche giorno dopo; il parcheggiatore non era molto interessato alla sua adozione a distanza ché tanto lui aveva sei figli e non propriamente voluti, che se poi ne voleva uno le avrebbe dato il piccolino che era una vera peste. Ma anche il parcheggiatore era finito nell’album dei ricordi più belli senza tropo sforzo.

Quei ragazzi, allora, erano diversi e forse non avrebbero capito la sua felicità, la sua vicenda.

Mentre i due ragazzi erano impegnati a spiegare alcuni dati ad altre persone (forse come lei senza figli, forse) c’era ancora un volantino da leggere e un altro da firmare. Oh, forse era quell’idea stupenda che aveva prelevato anche lei quel giorno. Lo prendo, lo prendo e lo tengo nell’album del mio b ambino così quando verrà a trovarci saprà, capirà, quanto sono importanti nel paese dei suoi genitori a distanza i saldi di fine stagione e d’inizio della prossima e i parcheggi sotterranei e i volontari che stanno ai lati della via e gli spot, gli spot televisivi ... Che bello! Il volantino di quel giorno! Beh, l’hanno un po’ cambiato. Potrei anche leggerlo.

Caratteri caratteri caratteri scorrono scorrono sotto cristallino e sclera e nervo e fasci di muscoli che strizzano strizzano l'incredulità incapace di piangere.

Sciagura!

Un tonfo sordo lasciò assolutamente indifferenti il banchettino, i ragazzi, gli ignoranti a spasso d’informazioni, tutti i nuotatori delle vasche cittadine.

Nessuno notò il suo dramma. Le palme si erano accasciate di colpo e non c’era più mare né più sole sul suo depliant di vacanza. Tutta la mente era rimasta in bianco e nero, ma a settori, senza neanche un angolino di pois, di piè di poule, niente. Bianco e nero, bianco e nero senza grigio, niente.

Folgorata da una sciagura.

"Può sedersi sulla sedia se è stanca, signora!".

E non aveva gli anfibi la voce che le parlava sorridente, senza nemmeno prenderla in giro e senza, tragedia, accorgersi di quello che le era successo.

Riprese lo sguardo da ebete osservato dai bambini nell’illusione precedente e osservò lo strano essere che aveva davanti.

"Chi è lei?".

"Sono una volontaria di un’associazione internazionale ...".

"Ma non è la stessa dei bambini!".

"No, però abbiamo dei casi di bambini".

"Ho letto".

"Sono stati assassinati dai militari del loro Paese perché bambini di strada".

"Io sono madre a distanza di uno di loro".

"Ah, che bello, almeno sarà un bambino felice!".

"Però ... siete sicuri di quel nome?".

"Sì, certo, siamo certi di tutte le certezze possibili".

"E’ lo stesso nome del mio bambino, non è possibile, non è giusto. L’hanno ucciso?"

La ragazza la guardò perplessa cercando rapidamente le parole per risponderle.

"Sarà sicuramente un caso di omonimia, signora, vedrà che il suo bambino sta bene, grazie a lei".

Ma non ne era certa. L’angoscia le attanagliò lo stomaco per lunghe ore, mentre si trascinò a casa a passo lento, di nuovo a piedi, con gli occhi della ragazza, del ragazzo e del banchetto che la seguivano, tristi. Non poteva essere vero. Il depliant dell’agenzia ero solo una fotografia di sole e di gioia, mentre il suo bambino era allevato in un istituto nelle migliori condizioni, e lei era madre, alla fine.

Non era giusto, non poteva essere vero.

Perché?

Ne parlò al marito nel silenzio della loro cucina che non spadellava, non mandava lente litanie di telenovelas, niente. Cosa fare?

Lo spot rimase muto, non c’era niente da dire a nessuno, nemmeno agli amici più cari.

L’indomani mattina restò a letto, a guardare il soffitto. Esso la osservava corrucciato, meditando che doveva fare qualcosa, lanciandole messaggi magnetici d’azione. Telefonò alla presidente locale dell’associazione delle adozioni che le ribadì che il suo bambino non poteva stare altro che bene. Ma il languore allo stomaco non aveva fine.

Provò a telefonare a quella ragazza del banchetto: il bambino no, non era il suo ma ...

"Posso fare qualcosa, nel caso in cui sia vero?".

E riprese a correre correre, nella frenesia di vendicare quell’omonimo adottato da quell’altra associazione, quel bambino che era stato condannato ad una morte atroce, quell’altro che aveva avuto una vita triste perché non c’era una madre a chilometri di distanza, di distanza dal cuore delle pulsioni più vere. Ecco, era di nuovo madre. Di un altro bambino morto. Adottato in chiave internazionale perché senza casa e senza famiglia nel Paese delle vacanze e della spensieratezza occidentale di moda.

Lo disse al marito: "Avevamo un altro bambino senza saperlo, ce l’hanno ucciso", e anche per lui non era troppo l’impegno, solo lettere, tante lettere, scritte e firmate per protestare la tragedia, per fermare un ennesimo eccidio.

Lo spot ebbe un nuovo input: "Avevo un figlio, un altro figlio, me l’hanno ucciso".

Lo disse a tutti. Le venne la smania di parlarne, in riunioni e in conferenze, perché lei aveva un figlio, un altro figlio, assassinato dalla polizia del suo Stato perché solo, diverso. E lei era madre, madr e davvero, con l’impegno morale di occuparsi di qualcuno diverso da un egoismo, quello di chiudere le porte a tutto fuorché al consumismo di soldi buttati sull’altare del finto benessere.

L’associazione internazionale l’aiutò molto. L’aiutò a capire come un figlio sia un impegno e non lo sia più di tanto, a seconda di come lo vedeva.

Ma che essere madri era molto di più che stringere tra le braccia un piccolo essere.

La sua testimonianza commosse decine di donne e divenne una storia, la storia di una donna con due figli, due parti dello stesso Paese: uno vivo e felice, l’altro assassinato.

Comprò un po’ di saldi ancora per partire per le sue palme e decise di lasciare l’automobile nel garage, mentre non l’interessavano più le telenovelas e restava spenta la televisione per ore e giorni. Gli amici non ridevano più durante le partite di bridge perché lei aveva perso un bambino in maniera tragica e con lei l’avevano perso un po’ anche loro. I parenti erano sempre compiti quando parlavano di Miguel, il figlio a distanza, perché non sapevano mai se era vivo o morto; gli facevano celebrare una messa ogni tanto, già avrebbe fatto bene sia all’uno che all’altro o a tutti e due per la tragica omonimia. Il parroco aveva preso ad andarli a trovare perché una cosa così non gli era capitata mai: una coppia che non poteva avere figli che ne aveva avuti due, uno vivo e l’altro morto. Li aveva citati ad esempio anche durante un’omelia. E quando era entrato nella loro bomboniera di casa per augurargli buon viaggio, anche lui, come tanti altri, aveva portato un regalo per Miguel vivo, sperando che fosse vivo.

Parlava parlava sottovoce con il marito su come l’avrebbero trovato, quando proprio chiudendo la porta la mattina prevista per il decollo, un portalettere allungò una busta arrivata per via aerea. Era stata spedita quattro mesi prima, soliti ritardi, e conteneva una fotografia di un bambino sorridente in un Paese sorridente, in una scuola sorridente, dove le palme frusciavano in lontananza e si poteva nuotare nell’acqua cristallina. Così continuarono a parlare e parlare sottovoce fino all’aereoporto, sperando che la promessa del governo locale di curare una tomba decente per l’omonimo assassinato fosse stata accolta e che pochi altri fossero stati assassinati dopo Miguel e che non ci fosse un altro Miguel come il loro perché fosse uno solo per loro, per sentirsi padre e madre. Perché loro avevano perso un figlio, assassinato dalla polizia del suo Paese, un figlio che era stato adottato da un’organizzazione internazionale perché loro erano senza figli.

Il saldo che indossava la mattina dell’arrivo non stonava affatto nel calore del posto, anche se era l’ultimo articolo di quella taglia rimasto. E appena messo piede nell’aereoporto fu colpita da un'altra folgorazione: doveva vederlo, vederlo subito, senza trovare prima l’albergo, perché suo figlio era lì e lei lo voleva vedere subito, finalmente stringerlo, conoscerlo.

Corse oltre il controllo passaporti verso il nastro dei bagagli con la zavorra del marito che, a differenza dei saldi non taceva, e continuava a ripetere che erano arrivati, arrivati, e lei voleva vedere suo figlio e non le importava se la tomba non la volevano fare perché lei era là, con uno zatterone che continuava a slacciare la stringa per farla inciampare mentre recuperava al volo le valigie di regali per il suo piccolino. Ed era così bello in fotografia che non credeva ai suoi occhi di avere un bambino così, bello bello e felice, come non lo era mai stato.

Una valigia rigida finì nelle gambe di un signore attempato che la guardava di sbieco e lei gomitò nello stomaco il marito per dirgli che uno la osservava storto e sarà un uomo del governo. Ma il marito era senza fiato per dirle che il signore era guercio e la guardava storta perché non poteva fare altrimenti e il governo non li seguiva e non li perseguitava anche se eliminava i bambini che davano fastidio. Lei era solo tutta presa perché era lì, nel paese di suo figlio, e presto l’avrebbe conosciuto e ...

"Stai calma?!".

Urgeva calmarsi. Urgeva davvero.

Quindici anni dopo Miguel andò a vivere da loro, per frequentare un’università italiana e al termine di una conferenza per l’associazione degli adottati scomparsi o assassinati, prendendolo a braccetto gli chiese:

"Mi accompagni a fare un paio di spese? Sono iniziati i saldi ...".

 

FINALMENTE LA FINE

Posso uscire senza rossetto e con i fili delle calze tirati. Posso sgusciare tra le persone che incontro per la via senza che nessuno mi noti, si volti a guardare le mie gambe dritte o storte, il mio sedere grosso o piccolo, la mia gonna corta o lunga, le mie rughe più o meno nascoste. Posso dimenticarmi di rincasare all’ora di pranzo perché non c’è più nessuno in casa che mi aspetta: mio marito è morto, i miei figli sono sistemati, i nipoti sono cresciuti. Finalmente posso essere tranquilla e respirare, portando le briciole del poco pane che mi compero ai piccioni del parco e sorridendo alle giornate di sole senza più timore del domani, ormai.

Sono felice. Sono realizzata. Sono nonna. E questo mi riempie d’orgoglio. Avere attorno a me tutta la mia grande famiglia che mi vuole bene, che vede in me la testata d’angolo attorno alla quale crescere, essere la ragione di un divenire mai sopito dal tempo delle mode: ecco, è tutto ciò che di bello c’è nell’essere madri. Ho pagato lo scotto dell’eterno sacrificio, è vero, e talvolta mi è pesato, talaltra non me lo sono perdonato. Ma adesso ...

Adesso ho imparato molto e molto imparerò, dovrò imparare, nei prossimi giorni, forse mesi e anni, se ne avrò.

In questo tempo vulcanico, in cui tutto è tumultuoso e vitale, così diverso dalla pacatezza dei miei anni giovani, ho imparato che le giovani hanno molto da dire, dare, insegnare. Ho imparato che loro sanno essere più se stesse di quanto non lo sia stata io. Loro mi hanno aperto gli occhi e mi hanno dato la gioia di vedere che quelle che possono essere mie nipoti hanno ereditato la libertà di essere come vogliono. Hanno fatto capire ad una vecchia come me che si può e si deve avere un ruolo femminile nella vita.

E da quando l’ho capito ho riflettuto. E da quando ho riflettuto ho capito un’altra cosa. Adesso la vera libera sono io.

Io sono vecchia, lontana dalle responsabilità (tutti cercano di togliermele per lasciarmi il tempo di riposare in pace, anche se io non avessi voglia di riposare e ben prima del riposo eterno), lontana dagli impegni (vivo della mia pensione), lontana dalle preoccupazioni (nemmeno i nipoti lo sono più di tanto perché sono cresciuti bene) e anche a miglia e miglia dagli status simbol che annichiliscono le giovani. Non devo più piacere, non devo più lottare per un uomo, non devo più essere in un ruolo. Grazie a tutti i discorsi che altre donne hanno portato avanti per anni io, oggi, sono viva, dentro, e so cosa voglio. La mia libertà di donna.

E’ la più grande conquista che io potessi ambire, il più grande sogno che potessi realizzare, l’ultimo pensiero che mi sarei mai posta. Libera.

Non devo più mettere il rossetto per uscire. Non serve che mi tinga i capelli. Talvolta non mi pettino neanche. Posso uscire in ciabatte o con un paio di décolleté senza curarmi di che cosa pensano gli altri. Mi siedo su una panchina, da sola, a leggere un giornale o a mangiare un panino e nessuno mi dice niente. Qualcuno la chiama indifferenza. Io la chiamo libertà.

Un tempo non l’avevo questa libertà. E, ciò che è peggio, non pensavo di poterla richiedere e ottenere: non sapevo che esistesse e tanto meno che ne avessi diritto. Oggi so.

So che è giusto che ogni persona sia un’individualità e che si difenda dal tentativo di appiattimento esterno, di omologazione esterno. So che non è più importante che cosa gli altri pensano di te, ma quello che sei dentro.

Una volta ci si lasciava più condizionare. Una ragazza doveva stare attenta a tutto ciò che diceva e faceva; doveva essere capace di attirare l’attenzione di un uomo, ma restando sempre al suo posto; doveva abdicare alle sue aspirazioni, anche ad andare a ballare perché era un peccato, e sottomettersi alle autorità riconosciute: il padre, il marito. Uscire da una giurisdizione ed entrare nell’altra senza avere il tempo di guardarsi in giro. E non fiatare, non opporsi, perché non era consentito.

Per me, avevano paura di ciò che potevamo diventare, avevano paura di non poterci controllare, era stata creata una cultura del non essere donna per il severo mantenimento dello status sociale e non andare incontro ai tempi vulcanici di ora nei quali il brutto lo vivono gli uomini, spaventati da un essere che si è sollevato dalle sue originarie ceneri e si è costituito padrone. Di se stesso.

Sono felice. Di avere avuto abbastanza vita per vedere tutto questo. Abbastanza vita per provare nella sua interezza il mio essere donna e per sentirmi libera dal giogo della cultura gretta nella quale ho vissuto gran parte della mia esistenza.

Ho ereditato dalle ragazzine che potrebbero essere mie nipoti, la facoltà di impormi a me stessa come essere con diritti, pensieri, opinioni da ascoltare e tenere nel debito conto non tanto e non solo nella famiglia, ma ovunque.

Finalmente sono giunta alla fine del mio essere nella completezza, nell’interezza di una donna tutta, quello che prima non ero. Posso uscire senza rossetto e con i fili delle calze tirati, se lo voglio, non più all’asta del "sta bene" o "non sta bene" fare ed essere; posso dimenticarmi di pettinarmi perché la moda me lo consente e perché posso stare dietro le quinte della vita; posso vestirmi in sottoveste o non metterla, decidere se portare il reggiseno o il reggicalze, decidere anche di non coprirmi. Oh, sì, le ragazze d’oggi o di ieri o di ieri l’altro non sanno che regalo mi hanno fatto, non sanno quanto sto bene adesso che posso essere solamente IO ...

torna su

Home ]

Hosted by www.Geocities.ws

1