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Racconti in rosa 2

LA VITA ATTESA

Non so quando mi sono innamorata.

Forse in una mattina d’inverno, seduta su una seggiovia silenziosa, persa tra le coltri bianche e soffici che ammantavano i pini, nel mistero di mille orme di scoiattoli e lepri. O forse nel vento che mi investiva il viso accarezzandomi i capelli mentre la neve scricchiolava indispettita o felice sotto le lamine degli sci, ferita dalle racchette che ogni tanto le infilzavano il cuore come saette lanciate da un malevolo putto.

Non si sa mai con precisione quando comincia una storia: perché non si sa fermare il tempo e rimirarsi suoni e rumori, azioni e silenzi.

Tutto ciò che ora ho davanti è lui. E non mi può che sfuggire un sospiro nel flashback dei ricordi. Lui era felice. Quando lo guardavo alla luce del vivido sole marino, ero felice che fosse con me. Mi domandavo come avrei fatto senza di lui. Incontrato per caso, quando la mia scheda non entrava nella serratura della piccola camera con balcone che mi ero prenotata al secondo piano di un meraviglioso albergo nel cuore di Gran Canaria, non ricordo più cosa gli dissi. Ma rimane chiaro il suo sorriso nella mia memoria che a stento riesce a rimandare nei suoi meandri la scena di morte che mi aveva portata là.

Se ripenso a quel terribile mattino di marzo! Quella terribile voglia di scendere dal fornaio a comprarmi brioche per colazione poteva benissimo essere repressa. Maledette le brioche e la mia curiosità! Perché andare a cercare Gianni, il fornaio, nel retrobottega? Dio mio che scena orribile! Tutto quel sangue sulla piastra che Gianni teneva in mano, sulle piastre dove sarebbero stati infornati i pasticcini, sul suo viso così bonario! Dove mai ho trovato la forza per non dare di stomaco!

Non ricordo come l’ho detto a lui, ma so che mi ha guardata con un’aria mista di sgomento e di compassione. Di lui mi sono sempre fidata. E credo che non me ne dovrò mai pentire. Si è dimostrato premuroso e sincero, anche se non capisco come un giovane brillante e spensierato come lui si sia perso dietro un’improvvisata detective.

Perché ciò che è rimasto di Gianni è un biglietto che conservo ancora. Era nella mia cassetta per le lettere e così mi sono trovata catapultata in una squallida storia di omicidi per un paio di brioche calde, croccanti e senza ripieno che non riuscirò mai più a mangiare in vita mia! Cosa che mi ha creato non pochi problemi visto che caffellatte e brioche erano la mia colazione tipo dall’età di tre anni. Ho dovuto da allora optare per una fetta di crostata con poca marmellata, tra mille bizze del mio stomaco che rifiuta ancora di credere che il magico fornaio sia morto lasciandolo a corto del prodotto da forno più buono del mondo.

Il poliziotto che mi aveva interrogata una volta arrivato sulla scena del delitto (mi pare che si dica così), aveva pure avuto il cattivo gusto di leccare un cucchiaio sporco di crema pasticcera mentre tentava, goffamente, di prendere appunti. E anche la crema pasticcera, ora, non mi attira più.

Forse perché anche la busta lasciatami da Gianni odorava di vanillina e di farina. La calligrafia era aggraziata in uno svolazzo e in un ghirigoro che ricordavano le letterine scritte di nascosto da una svenevole damina al lume di candela. Mi chiesi perché doveva scrivere proprio a me. Ma fu un pensiero di pochi istanti. Il testo era ancora più strano del fatto. Vediamo: dovrebbe essere lì, nella cartella arancione. Magari a rileggerlo ora non mi sorgono più le stesse emozioni. Eccolo qua!

"Carissima signorina Sandra,

ho pensato di prendermi una vacanza alle Canarie e vorrei chiederLe se, gentilmente, potrebbe tenermi per una quindicina di giorni il gatto. So che a Lei è molto affezionato e che lo tratterebbe benissimo. Naturalmente Le pagherei adeguatamente il disturbo. Resto in attesa di una Sua cortese risposta. Arrivederci e grazie. Gianni".

Tutto questo dopo una terrificante mattinata passata a spiegare cosa ci facevo dal fornaio alle 7.45 e perché non ero stata io ad ucciderlo! Le mie vene presero a pulsare cariche di adrenalina. E adesso, ecco, ho ancora le orecchie che tamburano e le tempie infuocate. Il mio cervello si mise a lubrificare ingranaggi che non pensavo certo di avere.

Gianni non aveva un gatto! Lui odiava i gatti! Era allergico al pelo e anche alle foto dei gatti e sua moglie non ne poteva soffrire la presenza. Pagarmi il disturbo? Non era il caso: Gianni avanzava da me il pagamento già di due mesi di brioche, pasticcini, pane e pasta fresca che io sistematicamente dimenticavo di pagargli e se anche avesse avuto un gatto, mi avrebbe chiesto il favore a voce, non con un bianco biglietto addirittura chiuso.

"Qui c’è sotto un bel mistero!", ecco il frutto del lavorio dei miei ingranaggi cerebrali maledettamente sotto sforzo. Poi il panico. Dovevo dirlo alla polizia? Conoscevo l’assassino? Potevo essere barbaramente eliminata da un killer, acquattato nel forno del pane, che mi aveva spiata mentre scoprivo il cadavere del mio stomaco più legato ai ricordi bambini? Santo cielo! Se avevo degli ingranaggi nascosti nel cervello dovevano risalire per lo meno a qualche residuo di film dell’orrore senza sonoro!

Ricordo benissimo di avere bevuto d’un fiato un bicchiere d’acqua. Mia nonna diceva sempre che l’acqua calma gli spaventi, ma a me sarebbe servita una buona dose di sonnifero.

Gianni, accidenti a lui! Se la polizia trovava l’elenco delle cibarie che gli dovevo pagare, avevo solo la possibilità di telefonare ad un avvocato perché preparasse la mia difesa! Presi allora, tremolante come una principiante ad un saggio di danza, l’automobile che mi fungeva da telefono e chiamai Anna.

Dopo ricordo di averla evitata. Ero certa che se avesse saputo della mia storia con lui sarebbe decollata sulla sua scopa di fattucchiera degli accoppiamenti e mi avrebbe raggiunta ai bordi dell’oceano per ... portarmelo via! Non ricordo di avergli mai parlato di Anna ma, si sa, non è conveniente parlare agli ‘estranei’ delle amiche. Del resto cosa avrei dovuto dirgli? Che la mia migliore amica era una stravagante, adorabile ragazza che avevo conosciuto sull’autobus del centro in un giorno di pioggia? Era bagnata fino al midollo e si era tuffata nell’autobus per non annegare in una pozzanghera: io l’avevo afferrata al volo prima che il riflusso delle porte che si richiudevano inghiottisse solo la sua borsa e la lasciasse incollerita seduta sull’acqua stagnante come una ninfea sullo stagno dello zoo. Più tardi, una volta conosciutala meglio, compresi però che sarebbe stata felice anche solo di avere messo in salvo la borsa ed il suo porta trucco.

Non so bene che parole ho usato con Anna, ma sono certa di averle raccomandato di raggiungermi con calma, dopo essersi infilata le scarpe, possibilmente senza precipitarmi in casa sfondando la finestra che avevo appena fatto riparare. Arrivò, infatti, come un fulmine, paonazza, gli occhi che quasi le cadevano fuori dalle orbite alla ricerca di chissà quali e quanti morti nascosti in mezzo ai mobili scombinati del mio appartamento. Fu peggio del poliziotto leccone che mi aveva immortalata sul suo taccuino e mi venne un lancinante mal di testa. Un po’ come quello che avevo provato a Tunisi dopo essermi svegliata da una lunga dormita sotto il sole. Il medico dell’albergo mi aveva prescritto delle ottime compresse analgesiche: devo averle buttate assieme alla scatola scaduta del budino che tenevo in cucina tra la Novalgina e le pesche sciroppate. Maledetto il mio tormentato ordine che mi ha costretta a dichiarare di avere smarrito il passaporto solo perché, dopo averlo cercato tra la biancheria, gli asciugamani e i detersivi, mi venne il dubbio di averlo portato in lavanderia con le camicie di seta! Beh, del resto, a cosa serve essere ordinati?

Anna è disordinata e sempre allegra. Incasinata, forse, è il termine giusto. Ho fatto male a trascurarla negli ultimi tempi. Ma così vanno le amicizie. Ti servono e te le fai in un determinato momento della vita che non rimane stabile. Tremulo incontro di anime che abbisognano d’attenzione reciproca. Così puoi anche perderle o te ne puoi stancare: sono un po’ dei malumori che vanno e vengono, e dei momenti felici dei quali non puoi dimenticarti mai del tutto. Quante volte mi sono chiesta se sono stata una buona amica. Eppure ciò che mi è sempre più importato è il calore degli altri, quel senso di realizzazione che ti danno con la loro sincera vicinanza. Non è giusto poi stancarsene. Ma è inevitabile, talvolta.

Come è inevitabile cambiare. Questa è dopotutto la cosa più bella della vita: potere ripartire da zero e rifarsi un modo di essere per non vivere nel rimpianto delle occasioni mancate e della personalità fallita. Vivere e respirare l’azzurro del cielo senza confondersi con il mare che tra flussi e riflussi ti naviga dentro.

Certo, il mare e le bracciate lente: quanto hanno significato per me quei giorni alle Canarie. Una nuova dimensione di me stagliata tra la durezza del ruolo di investigatrice e la dolcezza di un nuovo amore.

Perché poi non ho consegnato quel biglietto alla polizia? Chissà come sarebbero andate le cose. La polizia mi avrebbe tartassata come se fossi stata un’assassina. Anna aveva un’espressione buffissima e io risi di gusto. Era tutto così tragico che non si poteva fare a meno di ridere. Un gatto. Poteva essere stato ucciso un fornaio per un gatto? Che poi magari non esisteva. Provammo tutti gli anagrammi possibili delle parole del biglietto, ripensai ad ogni frase e gesto di Gianni, a cosa potevo avere fatto o detto per farmi considerare una persona di fiducia, ma niente.

All’improvviso, però, qualcosa si agitò nel mio animo e venne fuori adagio adagio come un serpentello di stoffa estratto dal cilindro di un prestigiatore. Gianni alle Canarie. Con chi? La moglie? Gianni che non arrivava più in là della casetta in campagna, che guidava pochissimo e non conosceva le gite, era lo stesso Gianni disposto ad arrivare fino all’aereoporto e da lì in aereo alle Canarie? In aereo? Poteva essere una lettera falsa, scritta da qualcuno per incastrarmi. Ma non aveva senso, suggeriva il cervello di Anna, incastrarmi con un gatto. Era un vicolo cieco. Bisognava riposarsi un po’.

Quel giorno in centro ho trovato la borsa di cuoio e rivisto un vecchio amico e ricordo che per un paio d’ore riuscii a non pensare al morto. Non so bene cos’è stato ad accendermi il campanello in mente, a portarmi a porgere le mie più sentite condoglianze alla vedova, ad informarmi sul prezzo del biglietto per le Canarie, ma so che quella sera Anna mi aiutava a piegare camicie e gonne e a riempire gli angoli della Samsonite di costumi da bagno.

E subito dopo i ricordi mi portano a lui e al suo sorriso. Ogni volta che ci ripenso mi sento bene e, guarda caso, sorvolo sempre sulla portafinestra spalancata e sulla mia valigia rovesciata sul letto, il contenuto sparso per la camera e la cassaforte scassinata. Adesso so che, qualunque fosse il significato del biglietto, io alle isole non dovevo andare perché, una volta lì, ho rischiato ben più di una volta di essere uccisa.

Strano. Non mi emoziona l’idea. Mi meraviglio di come so restare calma e di come affronto il ricordo di quei fatti senza battere ciglio. Non mancava niente nella valigia e, ovviamente, non c’era traccia del tentato ladro. Chiamai il portiere e poco dopo arrivò l'addetto alla sicurezza. Controlli, domande. Io ero certa che non si trattasse di un semplice ladruncolo, ma che il tutto fosse in relazione con Gianni.

La sua vedova sarebbe arrivata alle isole l’indomani, dopo il funerale e il disbrigo di un po’ di pratiche. Naturalmente nel mio albergo ricco di piccole dependance. Dovevo tenerla d’occhio e cercare di scoprire se era lei la mandante o la mano dell’omicidio del marito.

Chi poteva sapere che ero lì? Mi rendo conto che non era importante. Io sapevo che ero là. Più di tutto per ritrovare me stessa. Reduce da una vita piatta, abitudinaria fino a sfiorare l’alienazione, avevo accolto quasi con sollievo quell’omicidio che mi permetteva di sollevarmi dalla polvere del mio Io e di cercare una persona viva, capace. E per fortuna non ci avevo pensato troppo: sembrava che per tutta la vita fossi stata in attesa di vivere in uno sceneggiato per dimostrare le mie doti di artista. Che avessi sognato, o bramato, una nuova dimensioni per librarmi nell’aria della libertà dai circoli del normale: il lavoro, i vicini, i mormorii; le spiegazioni da fornire per giustificare la qualità dei propri pensieri e dei propri respiri quasi che cercare di vivere una profonda vita propria fosse il peggiore peccato mortale. Finalmente Gianni era morto. Agghiacciante affermazione che però mi era sinceramente uscita dal rimosso mentre guardavo l’oceano appoggiata alla ringhiera del balcone della mia camera. E, oltre tutto, ero sola. Finita un’abitudinaria relazione, lontana da amiche e amici, sola con me stessa, ad ascoltarmi.

Quella prima notte trascorsa alle Canarie non ho dormito. Potevo ascoltarmi. E tacere, lontana dalla stereotipata civiltà che pure era lì, attorno a me, a costruire palazzi e alberghi nella smania febbrile di arginare il selvaggio, di imbrigliare le manifestazioni dell’Es e comprimerlo in blocchi di cemento, falsi e vuoti, carcerieri impietosi di esili barre di acciaio triste e scuro. Ecco, io ero così. Prigioniera di un mondo freddo, sepolta viva nella sabbia mobile che irrigidiva nel tempo, testimone statico di un’inespressività celebrata da alte torri di cristallo. Dovevo ritrovare emozioni forti e vere: la paura, lo sgomento, il terrore; elicitare terminazioni nervose assopite e sentire gonfiarsi le vene di droghe naturali che rendessero inutile il palliativo caffè, povero stimolo di una povera società. Accidenti! Avevo dentro tutto questo! E non lo sapevo! Non sapevo nemmeno che sarei riuscita ad innamorarmi, ma questo viene dopo. Dopo che ho deciso di essere, dopo che ... non lo so. Non volevo più tornare in camera e infilarmi la camicia da notte che era stata spiegazzata da chissà che delinquente. Non volevo nemmeno andare dalla nonna, quando ero bambina, dopo che ero stata sgridata. Certe volte la mente trova dei nessi incomprensibili, eppure ricordo che passai il resto della notte a pensare a mia nonna.

L’aereo di Irene, la moglie di Gianni, sarebbe arrivato poco dopo mezzogiorno. Avevo deciso di noleggiare un’automobile per girovagare un po’ per l’isola ed effettuare dei controlli: con chi sarebbe arrivata Irene, per esempio, o chi avrebbe visto. Poi avevo intenzione di recarmi all’archivio centrale per vedere se esistevano leggende locali di gatti; dovevo anche trovare il modo di sapere se Gianni aveva un’assicurazione sulla vita. Ma per questo bastava telefonare di buon’ora a Carlo, in Italia, e in ventiquattr’ore l’avrei saputo. Era un grande amico e ancor oggi è sempre pronto a tirarmi fuori dai guai, qualunque questi siano.

Il buffet delle colazioni preparato nel salone ristorante dell'albergo era incredibilmente invitante: ogni genere di crêpes, budini, cereali, frutta, dolci per soddisfare ogni esigenza. Non ricordo di avere pensato a Gianni mentre mi riempivo il piatto di crostata. Però la mia mente rincorreva frenetica l’idea dell'investigatrice che doveva scavare e trovare il bandolo della matassa sepolto in qualche piega della verità. Mi raggiunse al tavolo un agente di polizia che parlava perfettamente l’italiano. Era incaricato di svolgere una piccola indagine sul tentativo di furto avvenuto ai miei danni. L’amministrazione dell’albergo era desolata per l’accaduto e voleva evitare ripercussioni sull’immagine. Il ragazzo era simpatico e passammo metà del tempo a chiacchierare del più e del meno. Gli dissi che ero là per occuparmi di leggende locali per scrivere un libro sulla stregoneria e i gatti. Rise. C’era giusto una leggenda di gatto vivente in quell’albergo. Proprio ospite lì c’era, infatti, una vecchia signora inglese, si diceva prossima alla novantina, che aveva uno splendido gatto d’angora. Lo teneva sempre in braccio e passava il tempo ad accarezzarlo. Era un gatto stupendo, di più di dieci anni, con alle spalle un meraviglioso passato di campione di bellezza.

Non poteva essere così facile. Era lì la risposta al mio problema? Poteva essere stato ucciso un fornaio per un gatto? Però il nesso non era male. Dovevo conoscere la vecchia dama e cercare di saperne di più. Gentilmente il poliziotto pensò a compilarmi la domanda per il noleggio dell’auto e ci rimediai anche un invito a ballare. Era veramente simpatico, più che altro perché aveva un ché di familiare. Pote vo compararlo a Davide, il mio primo ragazzo. Com’era finita, poi? Eravamo troppo ragazzini per poter continuare la relazione seriamente; eravamo ballerini da discoteca con gli occhietti luccicanti, manifestanti chiassosi alle proteste studentesche o bighelloni per le vie del centro: non poteva durare. Ma era stato bello. Il primo amore? Credo di non avere mai definito Davide così anche se forse era vero. Ma poi perché bisogna dare un nome alle persone? Sono veramente necessarie le etichette? E’ orribile. Tramutare la vita in un ufficio con gli ordinati schedari: nomi, luoghi, emozioni, sentimenti, decisioni. Niente lasciato al caso. Pensare, pensare e pensare ancora, sbuffando come enormi mantici che non stanno dietro alla velocità dei pistoni.

Davide lo dovevo classificare. Proprio Anna fu la prima a chiedermi: "E’ il tuo ragazzo sì o no?". Ricordo di averla odiata per questo. O forse odiavo me stessa per essermi smascherata e aver reso palese un sentimento che volevo solo mio. Volevo molto bene a Davide, ma sapevo che non potevo fermarmi ad amare la sua simpatia. Il cagnolino di peluche che mi aveva regalato per il mio compleanno lo tengo ancora vicino al letto, però, e credo che non lo sposterò mai di là.

Forse il gatto della vecchia dama ce l’ha un po’ del peluche di Davide, o forse è solo uno smorfioso gatto da salotto con la massima ragione della vita balzata dal pianoforte alla finestra. Non ricordo cosa feci il resto del tempo, ma ho fame: sarà bene che mi prepari un tramezzino. Ecco, mangiai un tramezzino all’aereoporto mentre Irene stava arrivando. Irene era una bella donna: alta, bruna, con le dita delle mani lunghe e le unghie laccate. Gliele guardavo sempre, chiedendomi come facesse a non rompersele lavorando. Più di una volta sono stata sul punto di chiederle il nome della manicure, ma mi frenava sempre il suo fare distaccato, evidentemente scostante, quasi la sua mente viaggiasse tra orizzonti sconfinati e ristrette camere cittadine nella malavoglia di portare avanti un legame con i comuni mortali. Stava bene con Gianni: sembravano affiatati e innamorati, giusti, un po’ normali un po’ no, come tutte le coppie che si rispettino. Ecco: qual è lo standard? Esiste? Esiste una normalità nella morte di un fornaio, nella sua vedova che sta recuperando i bagagli all'aeroporto, avvolta in uno scuro vestito e velata da pudici occhiali neri? Cose le è restato se non la malinconia e il dolore nell’abisso del "adesso cosa faccio, sola?". Povera. Provavo pena per lei e quasi sollievo per me. Salì su un taxi e andò dritta in albergo. Nessuno l’attendeva all'aeroporto. Però, non appena la grossa Mercedes nera dell’autonoleggio si fermò sopra la passatoia di alta moquette rossa dell’albergo, un uomo uscì dalla hall e le andò incontro, baciandole la mano. Sembrava costernato nella sua tremenda bellezza, forse pallido sotto la perfetta abbronzatura da isolano che contrastava come uno stridio di note con il pallore mortale della vedova che non aveva niente dell’allegra aria di liberazione della mitica donna sollevata da un’unione di tormenti. Chi era? Un uomo assolutamente affascinante. Ne sono rimasta talmente incantata da dimenticare cosa dovevo fare.

Poi ho conosciuto lui e non so se era luogo e momento per trovare la cosiddetta anima gemella. Ma da allora mi sono chiesta come poteva non esistere nei miei meandri cerebrali un’idea così netta di coppia speculare di sé. E’ stata come un’altalena lanciata verso il cielo a toccare le nuvole, a lambire l’aria che spirava tra le dune dove passeggiavano i cammelli. La mia cammellata è stata piacevole anche se maledettamente accaldata. Ma non si poteva non avere caldo.

Sotto la mia porta, quella sera, trovai un biglietto scritto in stampatello: "Se ne vada!" e più di tutto mi turbò il punto esclamativo. Ogni volta che ce n’è stato uno nella mia vita era per sgridarmi e anche quella sera mi sentivo una bambina punita per una marachella. Che diritto avevo io di ficcare il naso in una dolorosa storia di morte? Non potevo del resto tirarmi indietro. La camera della vecchia signora era la 316, che poi scoprii essere una dependance, e volevo vederla a tutti i costi. Il mio vestitino fucsia con dei delicati fiorellini bianchi poteva certo andare bene, ma la mia sensazione più sgradevole era quel particolare della punteggiatura che faceva sentire a disagio anche il bottone del collo che non ne sapeva di restarsene chiuso. Ero nervosa. Potevano cercare di uccidermi e io non volevo morire: né per Gianni né per un gatto e tanto meno per quello scritto che mi aveva fatta rotolare per la china della mia sicurezza portandomi a realizzare che non ero contenta di me. Cosa potevo fare di più? Una vita di altre cose senza dubbio. Potevo imparare a giocare a golf o prendere lezioni di vela, prenotare una gita al mare del Nord o comprarmi una collana di diamanti, ma non lo avevo mai fatto. Non per la scusa solita della scarsità di soldi o del: "Non posso, devo lavorare, non posso mancare", ma per paura. Paura del nuovo e di scoprire una parte di me lasciando riaffiorare parti sepolte nell’inconscio per chissà quale motivo. O solo aspetti della personalità che affiorano per cause genetiche ad un certo punto della vita. Cosa avrei fatto di diverso se non avessi frequentato un normale istituto femminile per il commercio e non fossi diventata ragioniera? Sarei sposata come Lucrezia e avrei due splendidi bambini? Avrei fatto la cameriera stagionale o sarei stata una giocatrice di basket con problemi continui di stiramenti?

Mi pesa la ristrettezza. E l’ufficio è chiuso, sepolto dall’aria condizionata che non ti permette di a prire le finestre. Il mio vestitino stava sbiadendo nel crepuscolo dei ricordi, ma era adattissimo nella dependance della vecchia dama. Sembrava arredata apposta per lei, non aveva niente dell’albergo quella nicchia di luce nella quale era seduta, bianca di viso e di capelli nel rosa del suo spezzato adornato di collane d’oro spagnolo antico. Circondata di bianco e spazio, di fiori freschi e alle pareti in vasi dipinti o in rilassanti tappezzerie, con il suo gatto accoccolato su un cuscino di seta e le esili mani incrociate in grembo, era dolce, veniva voglia di abbracciarla. Mi accolse come una figlia ritrovata, incurante delle mie spiegazioni su ricerche e storie di gatti da pubblicare. Sembrava felice di vedere qualcuno. Come la vecchietta dell’ospizio o come la nonna quando le capitavano in casa tutti i nipoti, come mia mamma quando la fretta del tempo moderno si calma e c’è il tempo di parlarle e di infonderle l’entusiasmo della gioventù. L’energia che vive e si rinnova nel trovare nuove ragioni di sé e in sé, per essere.

Ecco: la mia lotta nel tempo è sempre e solo stata quella. Essere, al di là del vestito e del trucco, al di là del fare e dell’avere. Non è comune. Il vicino di casa che investe tutto se stesso per acquistare l’auto nuova, la conoscente che lavora giorno e notte nel negozio in centro al solo scopo di riuscire a comprarsi quattro pellicce, sono? Sono giusti loro o sono poi giusta io, che investo i soldi nei compact di Mozart e tempo nell’ascoltarli in silenzio?

La vecchia dama mi osservava, con i suoi occhi verde-azzurri che leggevano le pieghe delle mie ciglia, deboli paraventi dell’angoscia che avevo dentro. Avevo paura. Era lei che voleva uccidermi? O ero io che stavo lentamente morendo? L’idea mi sconvolse.

"Cosa vuole sapere del mio gatto?"

Ricordo ancora perfettamente il tono di quella voce, quella dolce ed energica domanda. Trasalii. Non sembrava più così dolce e fragile. Mi feci raccontare tutto della felina vita del quattro zampe così lontano dal nostro mondo. E più la signora parlava, più mi rendevo conto di quanto fosse più di me quella donna: aveva classe, bellezza, forza, compostezza.

"Prende il tè?"

Credo sia stato un errore accettare. Infatti, ecco che mi ritrovo qui con un dito in bocca e mi rosicchio l’unghia sbeccatami nel chiudere il cassetto. Da tempo non mi mangiavo più le unghie. E’ stato con il tè che è entrata nella stanza la vedova di Gianni, portando un’ombra nella luminosità che avevo d'attorno. La donna notò senz’altro il mio trasalimento perché io sono qui, ora, a divorarmi un’unghia innocente sapendo di essermi scoperta da sciocca. Ma non avevo scoperto l’improvvisata detective, bensì una parte di me, vulnerabile agli attacchi diretti e improvvisi, nell’idiozia di delegare al preconscio il desiderio di dire e di agire per ottenerne solo silenzio e inerzia.

La vedova di Gianni mi guardò come si guarda uno specchio maniacale che trattiene in sé un’immagine sfiorita. E adesso rotolo nel turbinio dei pensieri, nel vortice di sentimenti sconci e idilliaci nei quali quella pseudo vacanza alle Canarie mi aveva precipitata nel sorriso, nell’abbraccio del sogno della mia vita. Io che non volevo credere nei precipizi e nell’azzurrità dei mantelli stellati che gli innamorati vedono sempre se non altro vicino alla luna, mi sono trovata ad amare pur tra il velo che copriva gli occhi della vedova e dinanzi all’amore rubato dalla morte, tradito dalle paste che ne avevano bevuto come spugna il sangue. Adesso penso allo strazio di quella donna e lo vivo perché anch’io, persa dormiente nel bosco profumato dei ricordi, mi trovo a tremare all’idea di provare un dì il suo vuoto, la sua vacuità. E mi rendo conto che prima non avevo mai amato. Non l’uomo che mi fungeva da palliativo di compagno, non la solitudine che è intrisa delle immagini di lui, non il tempo e il lavoro. Me stessa. Calata nei panni miei, attrice dei miei atti, scrittrice della biografia più impossibile: la mia. Non temevo la morte fisica o la dama o il gatto quanto la mia morte interiore che mi aveva attanagliata per pagine e pagine di vita, di diario bianco e spettrale che temevo di rileggere e fare avverare.

"Le presento mia nuora" disse la vecchia dama con la sua vocina tanto forte e dolce. E io cadevo sempre più nel baratro dell’impossibile e mi sentivo ingenua e vecchia, spenti gli anni giovani in cui si può amare senza la spada di Damocle del ‘scegliere giusto’ sulla testa. Era sua nuora. Il gatto e la madre di Gianni. Tutto così sciocco e triste. Tragicamente banale.

"Ci conosciamo, mamma".

Rimasi sorpresa dalla sua voce calma.

"Conosceva anche Gianni".

"Mio figlio è stato assassinato in Italia. Non posso dire di essere sorpresa di sapere che lo conosceva".

Non avevo animo di chiederle perché. Ma nel mio cuore si aprì uno squarcio tra il mio nuovo quasi amore e la freddezza di una madre che non aveva mai visto come si infornano le brioche e non sapeva quant’erano buone quelle di suo figlio. L’oceano che lambisce l’isola madre delle Canarie mormorava tra un’onda e l’altra invocando un po’ di tregua, un po’ di pace. Poteva una madre essere condannata a non soffrire?

"Hanno assassinato suo figlio?!"

"Sì, lo so, mi chiede cosa faccio qui. Ma tra me e mio figlio c’erano un cumulo di questioni irrisolte e di tormentati momenti. L’ho perso ben più di tre giorni fa ... Potrebbe capirmi se avesse perso tante volte una persona cara".

Non lo avevo già provato? Non mi ero persa più e più volte nelle pieghe nascoste del mio cuore, della mia mente, della mia gonna? Forse no. Forse non avevo mai amato abbastanza per rendermi conto di cosa volesse dire soffrire. Non avevo nemmeno amato abbastanza me stessa da sentirmi in colpa per quando mi bistrattavo tra dolori inesistenti e stomachevole routine da impiegata modello alienata tra discoteca e incartamenti come un manoscritto antico che non trova requie nei polverosi archivi di un vetusto museo. Cercavo un po’ di pace in un gatto vezzeggiato e impalmato tra ninnoli e cuscini di chinz. La messa da requiem doveva essere per me più che per il morto. Ma risorgevo con tenerezza alla nobile vita passando dai gironi infernali del dubbio e della malinconia mentre il mio Io si chiedeva la ragione di tanto distacco.

"La signorina conosceva Gianni".

"Naturalmente. So sempre cosa accade nell’Isola. Sapevo che lei era qui. Lei è stata in serio pericolo, signorina Sandra, ed è per questo che le ho mandato quel falso poliziotto. Chi ha ucciso mio figlio vuole sapere se lei ha visto l’assassino. Credo abbia il diritto di sapere. Mio marito lasciò l’Italia molto tempo fa dopo avere dichiarato fallita un’azienda molto grossa di manifatture tessili. I suoi soci non glielo hanno mai perdonato. Qui si rifece una vita acquistando gran parte del terreno dell’isola. Mio figlio non tollerava la vita del ricco e se ne andò presto. Altro nome, altra vita. Lo hanno trovato e si sono vendicati. Tutto ciò che mio figlio aveva avuto in eredità dal padre era il gatto, che ora appartiene a mia nuora. Vale più di un milione di dollari. E’ un gatto molto speciale. Mio figlio non veniva più qui; mandava ogni tanto in vacanza la moglie. Metà degli alberghi dell’isola sono di mia proprietà; vivo qui perché questo albergo è stato costruito intorno alla mia casa, nell’oasi più bella di Gran Canaria. Non è una dependance. Le piace? E’ casa mia!"

Aveva perduto il figlio goccia a goccia e lo aveva ritrovato in un gatto. Un po’ come tante madri moderne il cui figlio non è niente più del peluche.

"E’ incantevole".

"Non è stata mia nuora ad uccidere il marito, né sono stata io a mandarle lo sconosciuto a rovistarle la valigia. E’ comunque stato trovato. Qui posso controllare ogni situazione, meglio che in Italia".

"E il messaggio?"

"Ero certa che non si sarebbe spaventata e che non se ne sarebbe andata. So che mio figlio le aveva scritto un biglietto ..."

La mia bocca restò un attimo aperta, ad O.

"Non si stupisca. Certo non pensava sarebbe morto l’indomani. Voleva incuriosirla e darle la scusa per parlargli in privato. Le avrebbe proposto di venire qui. Mi scrisse più volte di lei: doveva averlo affascinato. Si era quasi convinto di venire a vivere qui ..." una nota di dolore nella voce non diminuì la sua bellezza, il suo fascino. "Avrei bisogno di un’amministratrice generale. Io non sono più in grado di fare tutto da sola ...".

Mi sento male. Devo sedermi o sdraiarmi subito. Amministrare la bellezza di qualche centinaio di miliardi al posto di una vecchia e di un gatto! Gesù! Non dissi niente. Nemmeno per il resto della mia settimana lì; nemmeno al sorriso radioso di lui che mi invitava a visitare l’isola, a cenare con lui, a fare colazione con lui. Non parlai nemmeno a me stessa. Avevo un mese di tempo per pensarci. La nuora mi guardava senza espressione, la dama dei miei sogni divenne una culla con dentro una bambina. Gianni venne ridimensionato del tutto sull’aereo che mi portava a casa. E, al di sopra delle nuvole e della normale luce dell’uomo, mi resi conto che non m’importava nulla più del mio amore. Potevo permettermi di sognare come mai avevo fatto, di essere me stessa come mai ero stata, nel buffo del fatto che d’ora innanzi avrei potuto permettermi tutti quei vestiti firmati che prima mi riempivano di malinconia.

Sono qui a fissare il soffitto vuoto del mio spazio cerebrale alla ricerca della giusta risposta al delitto più grande: quello di essermi negata la vita per anni. E nel vuoto del mio essere conosco già la risposta. Mai tè mi era sembrato più dolce. Prendo il telefono e prenoto un posto sul volo di domani per le Canarie, classe di lusso. Più tardi chiamerò la vecchia dama per sentirne la forza ed imitarne lo stile. Eppure so che tornerò là per lui, direttore generale degli alberghi del gatto. Credo di non dovere niente a nessuno, qui. L’unico uomo che mi mancherà sarà Gianni che sono certa si è reincarnato nel felino di sua madre.

E amo, amo. Non so quanto e quando, ma mi sono innamorata ... della vita.

 

GELATO FRAGOLA E LIMONE

Dondolava avanti e indietro sulla poltrona girevole in pelle dell’ufficio osservando il soffitto e la vetrata alternativamente.

Gelato fragola e limone o crema e cioccolata? Meglio appoggiare i piedi sulla scrivania e giocherellare un poco con il tagliacarte d’argento e cristallo. Meglio tenere spento il computer e occupate le linee del telefono per un po’.

Soffitto e vetrata, vetrata e soffitto ... una lunga unghia laccata di rosso, staccata dalla mente, cliccò l’interfono. La segretaria perennemente sul chi vive avrebbe confermato l’ordine alla boutique: abito rosa confetto con gonnellina di toulle in tinta. E gelato fragola limone crema cioccolata e liquirizia. E un croccante. E le scarpe rosa come il vestito. E informarsi subito sui voli per Parigi per andare a EuroDisney durante il week-end. Una persona.

La segretaria esterefatta non credeva all’interfono che aveva parlato così. Era molto tempo che non accadeva: cinque gusti di gelato ed un croccante! ...

Almeno un anno. E un vestito da Barbie al posto della cena all’ambasciata! Ne era certa. Sarebbe andata alla festa alla casa Sociale, con gli assistenti dei malati di AIDS e qualche tossico; un paio di suore e un assessore impettito, le amiche in adorazione continua della sua bellezza e della sua eccellente posizione; il bastardino scodinzolante e pieno di pulci del giovanotto cappellone in Dyane sgangherata ... Tutto al posto di una cena di gala con il fior fiore della società cittadina. E il suo innocente sorriso avrebbe convinto tutti che la festa era "un impegno urgente, inderogabile".

La lunga unghia laccata di rosso stava tamburellando una guancia mentre i piedi liberati dalle scarpe facevano giocherellare le dita. Direttrice responsabile dopo una lunga, sofferta scalata al successo, cioè alla realizzazione piena della sua vita e delle sue aspirazioni. Auto sportiva, vestiti firmati, moderni arcobaleni dopo lunghe piogge di lacrime e di tormenti. Perché lottare tanto e non accontentarsi di una vita comune?

Serate entusiasmanti con un fiume di amici, mazzi di fiori dalla crema della società dopo ore, giorni, anni di serate concentrate sui libri mentre una parte di sé deglutiva un nodo formatosi in gola.

Le amiche andavano in discoteca ma lei ... non aveva tempo. E ciò che costava di più era l’espressione del viso seria e convincente: era determinata e felice delle sue scelte. Ma un pugno chiuso in fondo al cuore urlava che no, non era vero, era solo una rotella della mente, piccola piccola, a comandare e ad imporre a tutto l’essere di essere accontentata, subito.

Ed era lì, la rotella, adesso, sventolata da stuoli di servitori, ossequiata per la sua bravura, per avere avuto ragione. Arrivata. Dove arrivano solo gli eroi di questo nostro tempo, dove arriva solo il sogno e l’immaginazione. Riuscita ad essere sogno lei stessa e ad entrare con un poderoso colpo di coraggio nella sua immaginazione per viversi.

Eureka! La rotella stava dando una mano al pugno che un tempo era chiuso nel cuore ed insieme formavano un girotondo saltellante. Le dita dei piedi sembravano impazzite e il sorriso era giunto alla laccata unghia tamburellante mentre gli occhi dardeggiavano "Brava" tra soffitto e vetrata, vetrata e soffitto.

Gioia, gioia, gioia! Aveva conquistato se stessa, aveva conosciuto ogni aspetto di sé, era diventata perfetto gestore di ogni sua aspirazione nel modo migliore perché ...

Toc, toc. La segretaria allucinata portava un gigantesco gelato ad uno strano essere stravaccato nel suo ufficio che le strizzava furbescamente un occhio dai riflessi magici.

... perché, sì, perché nella sua scalata al potere su se stessa, al successo di se stessa; nella sua immensa tela di lauree, master e diplomi, ... era rimasta bambina.

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