Joe Strummer, fondatore, leader e chitarrista dei Clash, una delle storiche band del punk, è morto il 22 dicembre 2002 nella sua casa nel Sommerset, nell'ovest dell'Inghilterra. Era nato ad Ankara, in Turchia, nel 1953, vero nome John Graham Mellor. Figlio di un diplomatico britannico, Mellor adotta il nome di "Strummer" (letteralmente: "strimpellatore") dopo le improvvisate esibizioni del brano Johnny B. Good eseguite con l'ukulele nelle stazioni della metropolitana londinese. Alla metà degli anni Settanta, dopo l’esperienza come leader dei 101ers, Strummer diede vita ai Clash insieme a Michael "Mick" Jones, Paul Simonon e Tory Crimes, tutti provenienti dai London SS, nei quali milita anche Nicky "Topper" Headon.

Il gruppo si scioglierà ufficialmente nel 1989. La carriera di Strummer continuerà con i Big Audio Dynamite, progetti cinematografici e ancora musica  fino all’ultima band, i Mescalero, con la quale aveva tenuto l’ultimo concerto a novembre.

IGNORE ALIEN ORDERS


In Italia, nel bell’anno che fu il 1977, chi c’era, chi era vivo in quei giorni, ebbe un gran daffare.

Moltissime cose da sognare, ad esempio. Pallottole da schivare, ad esempio. Morti da piangere, radio libere, riunioni, assemblee, cortei, spazi da occupare per liberarli, riserve indiane da costruire, sindacalisti tibetani da cacciare dalle università, convegni a Bologna. Poi innamoramenti che sarebbero diventati divorzi, libri che portavano desideri, musica. E tantissime altre cose ancora,  che ognuno sa di che parliamo, visto che nel giardino dei semplici di quell'anno sbocciarono anche piante feroci: antiche, poetiche, psichedeliche, mortali.

Si ascoltavano allora anche monocordi cantautori successivamente zombizzati   dall’ impegno come mestiere, rock italico scarso che neanche vogliamo ricordarcelo e in classifica febbri del sabato sera e disco pre-lobotomica alla Giorgio Moroder.   Ma nell’aria giravano anche cose interessanti, come ad esempio gli Area, gli Stormy Six, il Nuovo Canzoniere del Lazio; tutti quelli che in ogni caso erano vicini al “movimento”: Lolli, Finardi, Camerini, molte forme di jazz italico e non.  In quell’anno, il no future che veniva d’oltremanica non era ancora risuonato tanto tra le nuove generazioni nostrane, assordate com’erano da tutto quello che abbiamo appena confusamente evocato.

 

No future: ovvero non c’è più alcun futuro possibile che possa dirsi umano.

Questa consapevolezza esiste nel movimento giovanile degli anni settanta: in Italia si manifesta dapprima in forma colorata e creativa, come ultimo assalto al cielo delle possibilità occultate dalla forma sociale capitalistica. In Gran Bretagna, negli stessi giorni, si manifesta con i colori scuri e i suoni urlati della disperazione lucida, della disillusione drastica, dell’autolesionismo del punk.

 

In Inghilterra, in quegli stessi giorni del ’77, c’è un ragazzo di ventiquattro anni che negli occhi ha ancora gli scontri di Notting Hill dell'anno precedente tra polizia e giovani della comunità nera, quando con la sua band compone una canzone: “White Riot”.

E sulla copertina di quello che sarà il loro primo singolo, il gruppo scrive: «Il vero scontro (clash) sociale non è tra vecchi e giovani ma tra governanti e governati». E’ il marzo del settantasette, lui è Joe Strummer e loro sono i Clash. Quando esce il loro primo album, l’8 aprile del 1977, il disco è una bomba: due facciate piene di pezzi energetici e brevi ma con precise rivendicazioni politiche. Aggressivi e militanti, con canzoni che esprimono il disagio di tutta una generazione e parlano di disoccupati perseguitati dalla polizia in città distrutte dalla crisi economica, i Clash diventano subito la voce politica del movimento punk, lasciando ai Sex Pistols ed al loro “no future” il simbolo tossico della distruzione.

 

Iniziano un po’ così storia, musica e geografia dell’incontro che in quegli anni, in Italia,  molti cuori desideranti  ebbero con i Clash. Che qui si parla di vero colpo di fulmine caduto nei petti di una generazione già predisposta, e da quell’anno particolarmente,  alla passione e all’innamoramento: e in questo caso, per i testi di Joe Strummer e per le chitarre dei Clash, che ci facevano incazzare e battere il cuore.

 

E poi la storia della  band continua, con lavori stupendi come London Calling (doppio album del dicembre 1979) dove i nostri danno corpo ad un capolavoro della musica inglese. In esso si svelano le profonde radici dei quattro musicisti: "London Calling", "Spanish Bombs" dove si canta di bandiere nere nella Spagna del ’36, e "Brand New Cadillac" sono tra i brani più entusiasmanti. Ancor più sorprendenti sono le ricerche di sonorità che anticipano di almeno dieci anni generi di tendenza degli anni '90 ("The Guns Of Brixton", "Train In Vain" e "Lost In The Supermarket"). L'aspetto rivoluzionario e la voglia di sposare cause "dure e pure" trova anche un riscontro commerciale di massa in tutto il mondo, Stati Uniti inclusi.

E ancora  Sandinista! (1980), triplo album venduto ad un prezzo inferiore di un doppio: la differenza è integrata dagli stessi Clash con royalties e parte degli incassi dei concerti.
Sarà una conferma che la formazione ha idee da vendere e gli elementi espressivi giusti per dare vitalità a tematiche complesse. Balla e difendi, far ballare cioè dando spunti per pensare, sembra essere lo spirito che pervade l'ambizioso e straordinario triplo disco nel quale convivono canzoni assai diverse tra loro: "Police On My Back", "The Magnificent Seven", "Rebel Waltz", "Washington Bullets". I Clash, con il disco Sandinista!, avrebbero sperimentato insolite collusioni tra rock e suoni latini. Ai tempi, nell' 80, quell'album sembrò quasi una sbandata o una botta di genio: in realtà era tutto normale. Quell'operaismo rockettaro e rivoluzionario che da sempre contraddistingueva i Clash non poteva non guardare ai suoni del sud del mondo, dopo che lo stesso Bob Marley aveva inciso Punky Reggae Party e dopo che a Londra, nel `77, punk e rasta si erano saldati.

L'uscita, nel novembre 1981, del 45 giri "This Is Radio Clash", mostra altre doti, estremizzando un suono capace di anticipare anche la musica rap/hip-hop. La conferma viene dal definitivo Combat Rock (1982), potente album contenente singoli straordinari quali "Should I Stay Or Should I Go?" e "Rock The Casbah", nonché icone beats come Allen Ginsberg e William S. Burroughs che leggono loro poesie, confrontandosi così con l’attacco sonoro dei Clash e con tutta una nuova generazione di hipsters. 

 

In Italia, tra la fine degli anni ’70 e l’inizio degli ’80, la meteora Punk, rivolta esistenziale a tutto campo, trova nella musica il principale mezzo d’espressione e nell’anarchia un riferimento immediato da reinventare. Questa tensione antiautoritaria si esprimerà nelle esperienze di autoproduzione culturale, nella creazione di reti di distribuzione alternativa, nell’occupazione e autogestione di spazi. Il panorama, per qualche anno fertile e vivo, contribuirà ad inserire “nuova linfa”, a volte conflittuale, nell’alveo dell’anarchismo. Punk anarchico quindi, non solo come rivolta dello stile ma come “sovversione totale / fuori dal fare politica e dalla banda giovanile /per essere anarchia e goderne”.

 

Alla bella fiammata del ‘77, seguirà un periodo di criminalizzazione politica e di ristagno culturale (nonostante le mode berlinesi, fredde e metropolitane, avessero già iniziato ad attecchire nell’immaginario di molti orfani del movimento) che porterà successivamente molti kids dell’epoca  ad identificarsi nel no future e nell’estetica tossica di un certo punk, fino a ritrovarsi da un giorno all’altro, grazie in primo luogo alla loro stessa coglionaggine autodistruttiva, avvelenati e schiavi.

In una parola: eroinomani. Man mano che i pericolosi desideri di una generazione crescevano,  i veleni che bisognava mettere nel vino per renderla invisibile, innocua, erano già pronti: da un lato il terrorismo, dall’altro l’eroina.

 

Ognuno ha le proprie colpe – certamente - e sicuramente chi ha sbagliato ha pagato con l’umiliazione di sé, con la galera, con la vita stessa, o sta continuando a pagare, in modo forse smisurato, le cazzate commesse allora, quando l’eroina era tutto e per l’eroina si sarebbe fatto (e magari si fece) tutto. Appunto per questo bisogna anche ricordare quanti, duri e puri, in quegli anni scavarono sempre più il fossato tra il “noi” militanti non drogati (anche se poi alcool e tabacco continueranno a consumarsi in quantità industriali) e “loro” disimpegnati e drogati tout-court,  sbattendo così le porte in faccia a qualsiasi forma non militante di appartenenza, alimentando oggettivamente l’equivoco droghe pesanti/droghe leggere così comodo alle mafie e alla repressione e togliendo alla fine ogni possibilità (di ascolto, di accoglienza, di confronto, di impegno, di comprensione, di guarigione forse) a quanti - aldilà della loro stessa fascinazione per l’autodistruzione assolutamente masochista e per niente eroica -  erano soltanto più deboli e AMMALATI e forse avrebbero meritata di averla, questa occasione.

Forse chi all’epoca, facendo di tutta l’erba un fascio sfanculava per una semplice canna,  forse, in qualche modo, esercitando questa rigidità senza cuore, ebbe la propria parte di oggettiva responsabilità nella solitudine e nell’ignoranza che avrebbero poi buttato tra le braccia della roba le potenzialità e la vita di molti ragazzi che, se come prima forma di pseudo-emancipazione approdavano senza criterio alle droghe, interpretandole fessamente come rivolta, al di là di tutto cercavano forse confusamente altro: sogni, possibilità di cambiare la vita, felicità, giustizia...

In quegli anni, l’eroina impestò persone strade piazze con storie lerce di facce sbattute in cronaca nera, con gli sguardi liquidi dei suoi schiavi, con la gioventù buttata nel cesso, con le marchette più infami.  Molti, svegliandosi un giorno pesti e come influenzati e con le ossa che fanno male, rimarranno di merda apprendendo la differenza tra influenza e astinenza; che sì, era capitato proprio a loro e che i coglioni che ci cascavano non erano solo gli altri come si era sempre pensato; che il farmacista che aveva la cura abitava nei bassifondi e che da quel momento in poi la roba avrebbe voluto in cambio TUTTO, vita compresa. Ognuno di noi sa,  o ha avuto amici, fratelli, compagni, amori che sanno di cosa stiamo parlando e di come spazi lasciati liberi o peggio ancora criminalizzati ciecamente siano poi diventati marciapiedi da battere, galere o cimiteri da abitare; ognuno di noi sa che a volte quando ci giriamo indietro, sono più i morti di chi c’è rimasto accanto. Perché quegli anni sono stati anche questo.

 

Ora, nonostante questi venticinque anni ormai trascorsi e digeriti, così numerosi che fa impressione solo a scriverli, questa storia non si può chiudere così, come se un infarto, oltre ad un cuore che cessa di battere, possa significare veramente la morte di uno spirito, di un’idea, di un sentire. Questa storia non si può chiudere così, nonostante il rock Usa, oggi più che mai, insegua quel punk londinese, lo cloni, lo omaggi e lo porti in classifica 25 anni dopo, provando a cellofanare a stelle e strisce lo spirito del settantasette.

 

In chi ha amato i Clash durante quell’anno fatale o in quanti altri li abbiano incontrati per strada dopo, i dardi di quell’innamoramento sono ancora rumorosamente vivi.

Ed è anche per questo motivo, in definitiva, che questa storia non si può chiudere così, con Joe Strummer che se ne va a neanche cinquant’anni, tre giorni prima di questo  stupido Natale del 2002.

“IGNORE ALIEN ORDERS” diceva l’adesivo sulla sua chitarra Fender Telecaster. Messaggio ricevuto, compañero.

Aldo Migliorisi ([email protected])

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