QUEL CAPODANNO QUANDO ROSA BALISTRERI
CHIESE DI ACCENDERE IL REGISTRATORE
Com’è
strano a volte, il destino di una canzone. C’è un pezzo antichissimo della
tradizione siciliana che parla della
Morte. In questo canto (alcuni dicono che sia originario dei minatori di
Favara, per i quali il termine “cannuni”
non significherebbe “cannone”, bensì l’ingresso della miniera) un
teschio - na crozza supra nu cannuni-
risponde così, “con gran dolore”, alle domande di chi è
ancora illuso, vivo: “Morii senza tocco
di campana / I miei anni se ne sono andati / andati non so più dove / Se non li sconto qua i miei peccati /
li sconterò nell’altro mondo / Oh scellerato! Preparatemi il letto che ormai
sono tutto mangiato dai vermi / Ora che sono arrivato agli ottant’anni / chiamo
la vita e la morte mi risponde”. Com’è che
una canzone che ha questi versi può diventare una marcetta per carillon
da carrettino siciliano?
Una
delle prime volte che questo canto popolare esce dal suo contesto “regionale” è
nel 1950, grazie al film “Il cammino della Speranza” di Germi, sceneggiatura di
Fellini e Pinelli. In questo film Renato Terra interpreta un personaggio che
era stato inventato da Fellini: Mommino il chitarrista, quello che canta “Vitti
na crozza”. Ma Renato Terra era doppiato: a cantare veramente era un certo
Peppino Ferrara. Il film fu anche girato in Sicilia, e - tutto torna- tra i minatori di Favara.
“Il
cammino della speranza”, pur rimanendo uno dei films più amati dallo stesso
Germi, ebbe accoglienze tiepide e subì vari tentativi di censura politica. Ma
ciò nonostante, quella canzone, cantata (si fa per dire) da Renato Terra,
incominciò a girare. E i discografici non persero tempo: la prima incisione di
questo canto popolare risale al 1951 e nell’etichetta del 78 giri si legge
testualmente “Vitti na crozza trascrizione F. Li Causi - canzone siciliana
inserita nel film Il cammino della speranza - Quartetto Francesco Li Causi -
Canta Michele Verso”.
Cercando
il colpaccio, grazie anche al ritorno promozionale dovuto al film di Germi -
diligentemente sfruttato nell’etichetta del disco - la canzone è arrangiata con
un 2/4 “allegro andante” (e già qua si può intravedere il peccato originale:
quanto di questo testuale “allegro andante” imposto alla prima versione
discografica ha contribuito a snaturare la percezione futura di questo brano?).
Gli strumenti musicali impiegati sono tre: chitarra, mandolino e basso suonato
da un musicista dell’Orchestra Angelini (secondo indizio: cosa c’entra un
turnista dell’orchestra Angelini con quest’antica canzone di minatori
siciliani, tutta intrisa di Morte?). Terzo indizio, estremamente speculativo:
la registrazione fu effettuata a Torino negli studi della “Cetra” (e questo
risponderebbe alla domanda precedente: l’incisione nasceva in un contesto
assolutamente estraneo per intenti ed habitat allo spirito della composizione
originale).
Nonostante
sia vero solo nel breve termine, c’è da dire che il delitto paga: l’operazione
biecamente commerciale andò bene e subito dopo quell’incisione, Michelangelo
Verso fu ingaggiato da managers italo-americani e partì per l’America. “Vitti
na crozza”, col suo tralallallero da cartolina era ormai diventata un successo
internazionale, nonché simbolo della Sicilia. Tanto successo fu però
accompagnato da diverse interpretazioni sia della musica sia del testo: ci fu
chi trasformò il ritmo, chi il testo, chi tentò di registrarla alla SIAE a
proprio nome. Negli anni ‘60 e ‘70 molti la incisero: da Domenico Modugno che
l’aveva fatta diventare un canto da carrettieri, al napoletanissimo Toni Bruni,
a Rosanna Fratello nel 1973 che ne fece un suo successo personale, per finire
ai giorni nostri con Carmen Consoli, che recentemente l’ha interpretata in un
programma televisivo comico-calcistico a mò di cazzeggio/omaggio alla
sicilianità. Contenta lei...
Ma
tutte queste versioni furono, e sono tuttora, altrettante coltellate piantate
nella schiena della canzone in questione, lame distrattamente affondate fino al
manico da prezzolati interpreti di passaggio. Tutti (arrangiatori e cantanti)
guardando “Vitti na crozza” con il paraocchi del luogo comune folkloristico -
tanto simile al pregiudizio - e correndo tutti, allo stesso tempo, dietro alla
facile carota dell’ ”allegro andante” scritto abusivamente sull’etichetta della
prima incisione. Contenti loro...
Quello
che invece non era contento era l’agrigentino Francesco Li Causi, il
trascrittore dal tralallalero facile: negli anni settanta mise sfacciatamente
su un’azione giudiziaria invocando la “usurpazione di paternità” (traduz: i
diritti d’autore) di questa canzone. Il processo fu celebrato a Catania, inizio
anni ’70, e si concluse una decina d’anni dopo. Il tempo è galantuomo e il
delitto, a lungo termine, non paga (Silvio, ravvediti!): Li Causi è morto prima
di poter vedere l’asinesca sentenza che
lo ha riconosciuto come “il padre” di “Vitti na crozza”. I minatori Favaresi
ringraziano...
Rusidda
‘a licatisa e la sua chitarra (così si faceva chiamare nei suoi primi 45 giri
degli anni ’60 incisi per la Tauro Records) questa canzone, invece, non aveva
mai voluto cantarla in pubblico, consapevole com’era delle storpiature che man
mano l’avevano stravolta. Troppo forte ed evidente lo scempio che era stato
fatto di tutto quello che rappresentava: un testo che parla di morte, della
vita come inferno che c’imprigiona e che nonostante tutto si cerca mentre si
sente sfuggire, trasformato in un canto da gita fuoriporta. Quanta amarezza,
dentro questo testo. Tutto però azzerato, travisato da versioni offensive,
umilianti, ad uso d’irresponsabili canterini dediti al ballo del qua qua
spacciato per tarantella. Tutto, fuorché il rispetto per l’anima imprigionata
in quei versi dolorosi.
Rosa
Balistreri c’era abituata, a queste
cose: nascere in Sicilia alla fine degli anni ’20, nascere povera e nascere
donna, sintetizzavano dolorosamente la condizione di vinti, ed abituavano ad
una frequentazione invasiva con il dolore. E chissà, forse la confidenza con il
dolore fa meglio capire quello che si canta, quando si cantano certe parole.
Lei questi On li aveva già tutti
sospesi al momento della nascita, ma non per questo si deve cedere alla
tentazione Romantica del Dolore che crea l’Arte. C’è dolore e dolore. C’è il
dolore dell’artista, che magari attraverso libri che sono solo riverberi, sente
intellettualmente su di sé il dolore del mondo e c’è poi il dolore di chi, ad
esempio, per sopravvivere è costretto a fuggire. Fuggire dalla propria
dolorosissima storia personale che non si è scelta -soltanto subita- per
diventare quello che si è. Al di là delle violenze, della fame, del carcere,
degli omicidi, dei suicidi: ribellarsi all’inferno al quale si è condannati.
C’è dolore e dolore. E c’è il dolore che quasi ci ara, scavando solchi
profondi, e da questi solchi possono nascere timbri di voce, modi di cantare,
di scrivere, idee, fatti. Dignità.
Nei
primi anni sessanta, dopo che nel ’49 era fuggita -più che emigrata- a Firenze
dove per la prima volta aveva trovato anche rispetto e serenità, la Balistreri incontra Ignazio Buttitta e
Ciccio Busacca. Dopo aver assistito al concerto di Busacca, Rosa è come
folgorata: “Anch’io ero una cantastorie, come Busacca, e in lui mi sono
rispecchiata” così ricorda quest’incontro in un’intervista raccolta da Giuseppe
Cantavevere nel libro ”Rosa Balistreri” (La Luna edizioni, 1992). Impara a
suonare la chitarra - “Canta, Rò!” le diceva Buttitta “Tu devi imparare a
suonare la chitarra, perché tu sarai la cantatrice del Sud” – e inizia le prime
serate in Toscana, grazie alle quali conoscerà Dario Fo.
Ed
ecco come la Balistreri, nel libro di Cantavenere, racconta il suo esordio con
Fo, nello spettacolo “Ci ragiono e ci canto” del 1966: “La prima sera alla Pergola. In sala c’erano mia madre, le
mie sorelle, Manfredi, gli amici fiorentini. Mi sono detta: Rò, ricordati del porcile
di via Martinez, di Iachinuzzu, della violenza della vetreria, del prete
malandrino di Palermo. La fame, le ingiustizie, il carcere...Le ho gridate,
queste cose. (...) Quella sera sono diventata Rosa Balistreri”.
E
così c’era stato un periodo, tra la fine degli anni sessanta e i primi
settanta, che Rosa era divenuta qualcuno.
Prima l’incontro con Dario Fo e con Ciccio Busacca; poi era ritornata in
Sicilia e i suoi amici palermitani erano Marcello Carapezza, Guttuso, Sciascia,
Buttitta, Cesare Terranova, Pio La Torre, Roberto Leydi. Partecipa a Sanremo
nel 1973 (la canzone che presentava, “Terra ca nun senti”, fu esclusa perché
non inedita; ma in compenso, per la gioia di Mike Bongiorno che presentava
quell’edizione, vinse Peppino Di Capri con “Un grande amore e niente più”);
partecipa anche ad una contestatissima edizione di Canzonissima nel 1974;
esegue concerti nei teatri di grandi città. Nonché tournèe all’estero: Svezia,
Germania, Stati Uniti. Tournèe che le facevano dire, a proposito delle comunità di emigranti che incontrava: “Pareva di essere in Sicilia. Ma non la
Sicilia che avevo conosciuto da ragazza, quella che ti sfrutta. Una Sicilia
generosa, dal cuore grande”.
In
quegli anni Rosa aveva cantato cose belle, e importanti: in parte prese dalle
raccolte di Alberto Favara, musicologo trapanese della fine 800; in parte
ripescati da vecchie canzoni dell’entroterra siciliano, in parte proprie
composizioni, alternate a quelle -uno tra tanti- di Ignazio Buttitta. E aveva
anche fatto teatro: con Maurizio Scaparro, e poi “La lupa” con Anna Proclemer,
“La lunga notte di Medea” con Piera Degli Esposti ed altro ancora. Era stata paragonata ad Amalia Rodriguez,
era diventata la voce della Sicilia e nel suo canto intravedevi colori, odori;
sentivi il sale, lo zolfo, il fuoco dell’Etna e del mare che lo circonda.
Furono quegli anni in cui le tradizioni popolari, anzi il “folk”, come si
diceva allora, era diventato di moda, nonché argomento e scusa per intellettuali
con la coscienza sporca. Attenzione di massa pelosa, che dopo pochi anni
sarebbe scemata, abbandonando tradizioni ed interpreti per rivolgersi ad altre
voghe.
Rosa,
negli ultimi anni della sua vita, quella dimenticanza la stava pagando tutta.
Alla fine degli anni ottanta i suoi amici palermitani erano morti quasi tutti,
così come era scomparsa la madre alla quale era legatissima. Era rimasta senza
più soldi, e aveva bisogno di lavoro ed amici.
A
quel periodo risale la registrazione della sua prima ed unica versione di
“Vitti na crozza” e di quello che lei stessa definiva il suo testamento
spirituale : “Quannu moru”. Rosa non aveva mai voluto neanche inciderla quella
canzone, fino a quel Capodanno, uno dei suoi ultimi, trascorso a casa di Felice
Liotti, uno dei pochi amici rimastole. Solo allora, dopo il pranzo -lei come al
solito non aveva mangiato quasi niente e aveva fumato tanto- prese la chitarra, chiese di mettere in
funzione il registratore e cantò “Vitti na crozza”. Anzi: la rielaborò. Innanzi
tutto tagliò quel ritornello da carrettino siciliano, il trallallero da
cartolina. Poi rallentò il tempo e si lasciò andare ad un’interpretazione da
brividi. Il respiro che spezzava il verso, le modulazioni quasi arabe del
canto, la sua voce scura, profonda, antica, vibrante, ridavano finalmente
dignità e significato a quella canzone, restituendola a se stessa. Domanda sul
dolore e sulla vita cioè, e nessuna risposta: solo la consapevolezza della
violenza dell’inferno sulla terra.”Vitti ‘na crozza” ritornava così di nuovo un
canto di dolore, di sconfitta per la morte che si avvicina.
Quel
Capodanno Rosa sembrava avesse incontrato per la prima volta quella canzone e
da come la cantava, sembrava che quelle parole disperate le risuonassero dentro
quasi come un presagio.
Da
lì a poco, nel settembre del novanta, a causa di un ictus cerebrale che
l’avrebbe colpita durante uno spettacolo in Calabria, sarebbe morta a sessantatre anni in un ospedale a Palermo,
spegnendosi dietro ad un vetro che gli negò per sempre gli sguardi attoniti dei
pochi amici presenti.
“Quannu iu moru / pinsatimi ogni tantu / ca pi sta terra ncruci / iu moru senza vuci”. Posseduta dalla voce della sua terra, così cantava Rosa Balistreri, siciliana ribelle al proprio destino di schiava.
Aldo Migliorisi ([email protected])
P.S.- “Vitti na crozza” e “Quannu moru”, insieme ad altre, si possono trovare nel cd di Rosa Balistreri dal titolo “Rari ed Inediti” prodotto nel 1997 dalle edizioni Teatro del Sole di Francesco Giunta.