Musica. Cuore spezzato, passioni, basse fedeltà: P.J. Harvey torna a casa

POLLY JANE NON SI ACCONTENTA

 

Fa tutto da sola, o quasi, Polly Jane Harvey nel suo ultimo cd “Hu Huh Her” (2004). Titolo improponibile, che si poteva serenamente evitare e che fa sciattamente il paio con una scontata copertina alla Tarantino (una di quelle foto con tanto d’occhiali scuri per l’autista e smorfia cattiva sfigata della nostra in primo piano): forse la prossima volta sarà meglio non lesinare soldi per grafico e copywriter. Ma si sa come la pensano queste teste calde dell’alt-rock, appena gli metti in mano un quattro piste.

 

Tacchi a spillo e cattive compagnie

Rabbia, angoscia, aggressione, amore sono i sentimenti scritti nel songbook di PJH, espressi con il linguaggio di una giovane donna che sa anche giocare con ruoli e look: a Polly J. piace sperimentare con la propria immagine così come con la musica. E in più Miss Harvey scrive parole che sanno farsi spazio: mestruazioni, puttane, omosessualità e quant’altro si usa per definire - e quindi affettare - persone, sentimenti e passioni.

 

Tacchi a spillo, minigonna e rossetto sbavato: la ragazza non si è fatta mancare niente, dalle copertine in topless sul New Musical Express alle foto quasi da drag-queen, dai baci appassionati con quello spostato di Nick Cave all’ amicizia con sbandate come Bjork o Marianne Faithfull. Le nefaste conseguenze che queste rovinose compagnie hanno avuto sulla produzione artistica della nostra gentile fanciulla, è facile quindi immaginarle: basti soltanto dire che Kurt Cobain, nome che è tutto un programma, considerava il primo lp di P. J. Harvey uno dei suoi preferiti di tutti i tempi.

 

Con tali premesse, non deve sorprendere che Miss P. J. abbia fatto meritato colpo anche dalle nostre parti: isola e penisola. L’originale P. J. Harvey ha visto subito un fiorire di ferventi imitatrici e devoti ammiratori: fiore fra tanti, una giovane cantante e musicista, la volenterosa Carmen Cunsolo d’Acireale (CT) la quale, nonostante l’aperta devozione alle varie Santuzze del rock e a dispetto degli occhiali da sole di Janis Joplin esibiti tipo ex-voto a Sant’Agata, ha ancora troppe Caterine Caselli da digerire per potersi dire riottosamente originale.

 

Teste calde e cuori infranti

In “Hu huh her” le canzoni scorrono con andamento essenziale e sincero; inutile intravedere fantasmi nella musica di P. J. Harvey. Gli echi oscuri che potrebbero far pensare ad altri amanti delle ombre e della ruvidezza, o un certo evocare Patti Smith (“Patti chi?” pare abbia risposto la ragazza all’ennesimo giornalista che tirava in ballo l’Icona) non rappresentano l’essenza del lavoro di PJH, che è fatto di discorsi profondamente personali - sesso, rabbia, dio, angoscia, amore –, non autobiografici  e innestati su un’attitudine elettrica, poetica, oscura, femminile.

 

Il riff pesante e intriso di blues della prima traccia,  “The life and death of Mr. Badmouth”, introduce un disco a bassa fedeltà dove le chitarre picchiano e se ne fregano delle buone maniere. Le parole impiccano alle corde degli strumenti elettrici tutti i bugiardi e le loro bugie, amore giustizia o terra promessa che dir si voglia. “La tua bocca cattiva ha ucciso tutto quello che avevamo” dice amaramente PJH a Mr. Badmouth, uno dei tanti venditori di fumo col sorriso di plastica che, ahinoi, pervicacemente esistono ad inconfutabile prova dell’inesistenza di Dio.

 

“La vergogna è l’ombra dell’amore” canta un’ intensa P. J. Harvey in “Shame”, ballata dinamica ed essenziale dove il ritmo ha il battito del dolore: ancora bugie e vergogna come tenebre dell’amore. Una fisarmonica e un rullante suonato con le spazzole sono gli unici strumenti da contrapporre alla chitarra e al cuore spezzato di Polly Jane. Che però, da brava testa calda, non è tipo da arrendersi alla malinconia: il brano successivo, “Who the fuck?”, è infatti torrida sfanculata nonché santa rivendicazione del proprio corpo e della propria identità. Riff potente, di quelli che ti rintronano felicemente per giorni, e che la nostra focosa chitarrista sostiene con un cantato incazzato. Il suono sporco fa il resto, immortalando questo brano come definitivo inno per rivoltose ragazze in crescita.

 

“Pocket knife” è un bel testo che con cembali e chitarra acustica trova atmosfere  pressoché folk per raccontare questa storie di donne. Ballata quasi gotica che rammenta ad ogni brava e sensata ragazza in età da marito la necessaria risposta da dare a qualsiasi ignobile proposta di matrimonio: un’ affilata lama di coltello puntata sulla pancia del pretendente.

E poi c’è carne al fuoco in “The Letter”: chitarre serrate, cantati tosti e parole che fanno diventare una lettera, la scrittura, quasi un oggetto sessuale. Con la sua voce Polly J. accarezza la curva dolce della g, la busta da leccare, gli occhi blu e la di lui penna bellissima…

 

In questo appassionato, sentimentale e ruvido canzoniere che è “Hu huh Her”, una traccia forse non tanto riuscita è the “The slow drug”. La droga di cui si parla è ancora una volta amore e la nostra Polly non è molto felice mentre ci racconta quest’altra storia, trattata esclusivamente a tastiere sintetiche dispari e avvolta in nebbie islandesi. A seguire, il minuto di “No child of mine” fa presagire sfracelli elettrificati e palchi pestati per bene; il testo –appena quattro versi- è un ulteriore colpo di maglio su schiavizzanti ruoli materni e castranti pregiudizi parentali. “Non sei mio figlio” urla in faccia ad un ingenuo maschietto una snaturata e liberatoria PJH, qua in truce versione Medea folk-punk.

 

“The end” è l’unica traccia strumentale di questo cd, una frase ripetuta di armonium su accordi minori di chitarra. Appena un minuto, quasi un paesaggio autunnale intravisto dal finestrino di un treno che porta nel Regno Disperato dell’Amore: “Desperate Kingdom of Love” è canzone che scioglie rossetti, mascara ed occhi bistrati per restituirci un’artista nuda davanti alle proprie emozioni. La registrazione in bassa fedeltà diventa centro emozionale della traccia, amplificando la drammaticità intelligente di questa canzone bella e sentita.

 

Sindromi cosmetiche e rustiche leggende

La sindrome dell’ultimo brano colpisce “Darker days of me and him”, cosmetizzandolo con l’inevitabile ed inutile colpo di rossetto apposto su un cd che manifesta invece altre vocazioni. Tastiere tipo giapponesi, glasse, carta da parati e altre cose poco chiare rimbecilliscono una canzone che risparmiata da arrangiamenti meno appiccicosi avrebbe sicuramente guadagnato in profondità.

 

La leggenda di Polly Jane –rustica giovinetta di campagna nasce da genitori hippies amici del pianista dei Rolling Stones per urlare il blues- può suscitare qualche dubbio, ma quello che la ragazza suona è indiscutibilmente convincente. Ricco di parole turbinose che descrivono Amore che torce i cuori e le sue catene, “Hu huh her” è un’immersione nel lato più basso e sporco della musica, pieno di passione per le molte ombre del blues. Soffuso di scabrosi riff di chitarra, suoni devianti su voci sofferte e sincere che sanno usare ogni volta il giusto tono per le storie da cantare, l’album è in netto contrasto con il precedente, il cristallino ”Stories from the city, stories from the sea”, cd che sembra quasi una sorta di diario scritto in bella calligrafia rispetto a questo “Hu huh her”. Lavoro che è invece un ritorno a casa, alle origini: quelle del low-fi autosufficiente, del maligno blues, del folk più rissoso, del punk più rozzo e appassionato.

 

Aldo Migliorisi ([email protected])

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