A trent’anni dal loro esordio discografico gli Area rimangono pericolosamente attuali

La musica rende schiavi

 

Ad esempio, si potrebbe iniziare dai fatti. E trent’anni sono un fatto, oltre ad essere tanti. In trent’anni, può crollare un impero, possono estinguersi animali, morire minimo due papi e mezzo, nascere milioni di bambini. Può succedere di tutto: trent’anni non sono pochi per nessuno, figuriamoci per un disco. Ma se nel disco in questione ci sono musiche ed argomenti che ancora oggi vibrano di stringente attualità, identificando utopie e desideri di un’intera generazione antagonista, allora questo è un disco pericolosamente attuale. 

Stiamo parlando dell’esordio degli Area per la Cramps: “Arbeit macht frei “ (il lavoro rende liberi, slogan scritto all’ingresso dei lager nazisti), un disco che sin dal titolo non può certo dirsi solare o consolatorio. 37 minuti scarsi di musica, grafica e foto, che segneranno a lungo l’immaginario di una generazione intera. Quella degli “anni di piombo”, per capirci, laddove per piombo s’intendeva, oltre alla cappa che sembrava azzerare ogni desiderio, anche il piombo delle pallottole. Ma la musica dell’epoca se n’era accorta?

 

Quel marzo del 73, quando uscì il primo lp degli Area International POPular Group (questo il nome completo), gli scaffali dei negozi di dischi abbondavano di fate, maghi, carrozze, voli magici, tastiere e synth a tonnellate spalmate su concept album tremendi. Valga per tutti l’incredibile titolo di un coevo album dei De De Lind, uno dei tanti inutili gruppi prog dell’epoca: “Io non so da dove vengo e non so dove mai andrò. Uomo è il nome che mi hanno dato”. Insomma, non è che si stesse molto bene. L’italico baraccone pop dei primi anni settanta, impegnato a scimmiottare i tronfi suoni d’oltremanica con le sue Felone e Sorone da seghe adolescenziali, se ne fotteva di quello che succedeva per le strade. Rock progressive, si diceva allora, ma a quale progresso si riferisse, tuttora, non s’ è ancora ben capito...

Gli Area irrompono in questo museo delle cere con una copertina che è un pugno: simil-burattini lucchettati, piedi sporchi, kefiah, foto di lager nazista, falce martello e angeli bizantini, facendo così immediatamente piazza pulita di tutte le buone maniere estetiche del cosiddetto pop italiano.

E a contraddistinguerli immediatamente sarà la radicalità dei contenuti e del linguaggio da loro adottato: una visione assolutamente nuova e sincretica, perfetta raffigurazione sonora del periodo accoppiata ad una radicale attacco al concetto di musica sciacquapalle. Quella che è schiava del mercato e che rende schiavi del divismo, delle illusioni, della resa spacciata per disincanto, dell’utopia svenduta alla quotidianità. Critica che sarà rivolta anche al ruolo di musicista-star  che non si mette in gioco, non scende per strada e quando lo fa è solo per magnaccesche logiche di mercato.

 

Con “Arbeit Macht frei”, il buongiorno si vede dal mattino. Dai testi, densi ed estremi, ad opera del boss della Cramps, il Frankstein/Gianni Sassi già partecipe del gruppo Fluxus italiano, alla musica che si muove sulla strada del superamento delle singole esperienze artistiche per approdare ad un suono totale. Il disco contiene brani d’altissimo livello: tutti densi di richiami al folklore mediorientale, trasfigurati da esperienze concreto-contemporanee, dal free jazz, perfino da echi pop. Caratteristica e componente fondamentale nel suono degli Area sarà la voce di Demetrio Stratos, le cui sperimentazioni vocali non hanno tuttora, a 24 anni dalla sua morte, uguali nel nostro paese. Stratos sviluppò una tecnica vocale straordinaria comprendente l’utilizzo di diplofonie e di armonici vocali, nonché un’estensione quasi inarrivabile: 7000 Htz. Al suo fianco, in questo primo lavoro, la batteria possente e fluidissima dell’eccezionale Giulio Capiozzo; il dinamico pianismo free di Patrizio Fariselli; la chitarra alla Derek Bailey, stravolta d’elettronica, di Paolo Tofani; le straordinarie e creative ance di Victor Busnello; il funzionale basso di Patrick Djivas.

 

La critica, spiazzata da questo esordio così fulminante, si troverà costretta ad inventarsi una definizione per questa musica: Arbeit macht frei sarà definito “radical music”. Demetrio Stratos in una sua intervista del ‘78 la chiamerà invece ”musica di fusione di tipo internazionalista”, aggiungendo che “si tratta di comunicare utilizzando come veicolo il suono, non solo il testo”. E il suono degli Area comunicherà anzichenò. Valga per tutti l’ultimo brano di questo lp: il sinistro e provocatorio “L’abbattimento dello Zeppelin”, dove le indicazioni di Berio sull’abbinamento voce-musica elettronica trovano consapevole attuazione.

 

L’introduzione del disco è memorabile: una voce femminile recita alcuni versi in arabo un attimo prima che si scateni la melodia bellicosa e levantina di “Luglio, Agosto, Settembre (nero)” dove in soli quattro minuti si sintetizzano le varie anime della band.

E poi il titolo del brano, tanto per incominciare. Appena sei mesi prima, nel settembre 72, Settembre Nero compie una delle sue azioni più eclatanti. Sono in corso le Olimpiadi e un commando di guerriglieri s’introduce nel villaggio olimpico di Monaco, uccide due componenti del team israeliano e ne sequestra otto atleti. In cambio degli ostaggi Settembre Nero chiede la liberazione di duecento arabi detenuti nelle prigione israeliane, nonchè di Ulrike Meinhof, Andreas Baader ed altri ancora. La sera del giorno dopo, la tragedia si compie: durante il trasferimento all’aeroporto per salire sul Boeing 727 richiesto dai sequestratori, l’inferno si scatena. 500 soldati circondano l’aeroporto, tiratori scelti appostati ovunque. Appena il gruppo di guerriglieri è sotto il tiro dei militari tedeschi, inizia un bagno di sangue che durerà un’ora: cinque componenti del commando uccisi, tre catturati, tutti gli ostaggi ammazzati. Israele risponderà con i più pesanti bombardamenti aerei sui campi profughi in Siria e in Libano dalla guerra del 1967.

 

E sei mesi dopo, il primo brano del primo album degli Area si chiamerà “Luglio Agosto Settembre (nero)”. Il testo sembra scritto appena ieri nei Territori occupati: “Non è colpa mia se la tua realtà mi costringe a fare guerra all’umanità…”. L’attualità di questo brano, oltre che al merito degli Area, si deve anche ai crimini di chi continua a credere che le “esecuzioni mirate”, le ruspe che abbattono le case, i muri e i fili spinati siano l’unica soluzione del problema palestinese...

 

Ora, se fossimo dei critici seri, colti, assennati,  diremmo che sì la musica è pure un aspetto della situazione socio culturale  ecc. ma che l’arte è sempre l’arte e la sua natura è quella estetica e quindi cosa c’entra la musica con i metalli e tanto meno con il piombo e le pallottole ecc. Cazzate. Le categorie tanto universali quanto neutrali evaporano di fronte ad una quotidianità così presente arrogante esplicita come quella dei primi anni settanta, così forte da poter trasformare ogni gesto/strumento artistico in una spranga.

E gli Area allegheranno al loro primo disco, guarda caso, una minacciosa pistola, benché di cartone. Né si fermeranno certo a questo provocatorio gadget: nel loro secondo album un brano, “Lobotomia”, sarà dedicato ad Ulrike Meinhof.  Il loro unico 45 giri, una dirompente  versione de “L’internazionale” (1974), servirà a finanziare le spese legali sostenute per la difesa di Giovanni Marini, anarchico. Un loro disco bello e importante, “Crac”, si aprirà con una lunga citazione di Buenaventura Durruti: “Le rovine non le temiamo erediteremo la terra...”. E molte altre cose ancora: dai concerti in solidarietà per il Cile,  al concerto terapeutico all’Ospedale Psichiatrico di Trieste (quello di Basaglia, per intenderci), solo per ricordarne un paio. “Il mio mitra è un contrabbasso che ti spara sulla faccia ciò che penso della vita” canterà Demetrio Stratos in “Gioia e rivoluzione”. Appunto.

 

Aldo Migliorisi ([email protected])

 

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