Articolo di Anton Giulio Mancino

Questo articolo e' stato pubblicato sulla rivista di cultura cinematografica "Cine Critica" a cura del sncc anno III - n° 12 dell' ottobre-dicembre 1998.
Crediamo sia interessante leggerlo, anche se in alcune parti non ci troviamo completamente d'accordo con l'autore. Se per caso l'autore dell'articolo o la rivista non sono d'accordo sulla presenza del medesimo in queste pagine, ce lo comunichino, e provvederemo a toglierlo.
 

 

Maurizio Merli, Callaghan tricolore

L'immaginario italiano di massa degli anni Settanta e stato più suggestionato dai "poliziotteschi" di Maurizio Merli che dai film di Rosi e Bellocchio. Per quanto scadenti, nella stragrande maggioranza dei casi, quei film hanno convogliato e rappresentato qualcosa, in termini ideologici e antropologici, di un decennio quanto mai difficile e controverso, su cui sarebbe opportuno interrogarsi.

di ANTON GIULIO MANCINO


Il poliziesco all'italiana, ribattezzato con evidente senso dispregiativo "poliziottesco", che tanto ha imperversato negli anni Settanta, non è stato certo un fenomeno cinematografico di cui andar fieri, eppure non si può far finta che non sia esistito o che all'improvviso i suoi numerosissimi estimatori siano d'un tratto scomparsi o ci sia stato un ricambio in positivo nei gusti del pubblico degli ultimi vent'anni. E' soltanto accaduto che la moda dei film polizieschi italiani ha registrato da un giorno all'altro una drastica battuta d'arresto, cosicché non se ne son fatti più e sono stati mandati a spasso o riciclati attori, produttori, registi e maestranze varie che quel sottogenere, seppure casualmente, l'avevano tenuto a battesimo e coltivato finché ha fruttato.
Per quanto scadenti, nella stragrande maggioranza dei casi, i poliziotteschi italiani hanno convogliato e rappresentato qualcosa, in termini ideologici o molto più probabilmente antropologici e psicoanalitici, di quel decennio difficile e controverso, su cui sarebbe opportuno interrogarsi. Non si tratta di rivalutare l'ennesimo filone casereccio, cosa che siamo certi prima o poi qualcuno provvederà a fare nei modi che gli sono più congeniali, ma di svolgere delle semplici riflessioni. Anche perchè l'immaginario italiano di massa, borghese-proletario, degli anni Settanta è stato suggestionato più da Maurizio Merli che da Francesco Rosi, da Umberto Lenzi e Dario Argento più che da Elio Petri e Marco Bellocchio, così come lo è stato più da Edwige Fenech che da Marco Ferreri. E di questo, al di là di qualsiasi valutazione, occorrerebbe tener conto. Poi, naturalmente, i personaggi, gli attori e gli autori più compromessi con quella temperie sottoculturale non sono riusciti a riciclarsi, nel senso che non sono stati abbastanza abili, divenendo dei perfetti capri espiatori. Come Maurizio Merli, ad esempio, scomparso nel 1989, ma inattivo già dal 1980, a parte un paio di occasionali film (Notturno di Giorgio Bontempi nel 1983 e Tango blu di Alberto Bevilacqua nel 1987), dopo essere stato per quasi dieci anni il poliziotto cinematografico più amato dagli italiani.

 

Maurizio Merli è stato certamente il Clint Eastwood italiano, più di qualsiasi altra piccola star del poliziottesco nazionale, come Enrico Maria Salerno, un po' il precursore del gruppo, Franco Gasparti, Luc Merenda, Marcel Bozzuffi o Fabio Testi. Il paragone in realtà riguarderebbe i soli Enrico Maria Salerno e Franco Gasparri il quale, si sa, dopo l'incidente che lo paralizzò fu costretto a non vestire più i panni del poliziotto Mark, mentre i vari Merenda, Bozzuffi o Testi (ai quali andrebbero aggiunti numerosi altri attori che si improvvisarono "bracci violenti della legge") furono occasionalmente poliziotti o non lo furono mai, pur svolgendo mansioni private di uomini d'ordine ed emblemi vigorosi e decisi, nondimeno inquietanti, della maggioranza silenziosa italiana degli anni Settanta. Diversamente da tutti loro, Merli rappresentò un' istituzione, il suo volto e i suoi metodi fuori ordinanza si identificarono peffettamente con il personaggio pressocché fisso prima nei film di Franco Martinelli, Umberto Lenzi e Giuseppe Rosati (Roma violenta, nel 1975, Roma a mano armata, Italia a mano armata, Paura in città e Napoli violenta nel 1976, Il cinico, l'infame, il violento l'anno successivo), poi in quelli, di gran lunga migliori, di Stelvio Massi (Poliziotto sprint, Poliziotto senza paura e Il commissario di ferro nel 1977, Un poliziotto scomodo e Sbirro, la tua legge è lenta... la mia no! nel 1978, Poliziotto, solitudine e rabbia nel 1980). Durante tutta la seconda metà del decennio, Maurizio Merli si era in pratica trasformato nel testimonial di un'indiretta campagna pubblicitaria per l'arruolamento nelle forze di Polizia ("Per me fare il poliziotto è una ragione di vita. E loro lo sanno bene", confessava all'inizio di Napoli violenta) nonché per l'Alfa Romeo, e questo nonostante la sua cronica insofferenza per le strategie blande adottate dalle forze dell'ordine nei confronti dell'offensiva criminale, isolata o organizzata, e per l'eccessivo garantismo della legge, i troppi diritti civili concessi ai presunti delinquenti, che in questi film non smentivano anzi riconfermavano il ricorso "obbligato" alla linea dura. In Napoli violenta il commissario replicava al questore che cercava di tenerlo a freno: "Lei dimentica che la malavita lavora a tempo pieno. E forse è l'unica a farlo in Italia. Il confronto è perduto con i metodi tradizionali". Questo la diceva lunga sull'atteggiamento di sfiducia e scetticismo tutto italiano che rendeva l'imitazione nostrana incompatibile nei contenuti di fondo con l'idealismo americano, sia pure espresso in termini amari da una caterva di antieroi comunque pronti a ribadire lo stato di salute dell'Unione. Ciò non toglie che Merli sia il Clint Eastwood del sottogenere nostrano, e Massi il suo degno Don Siegel. Si tratta ovviamente né più né meno che di una constatazione ideologica, senza con questa voler implicare un giudizio di merito sulla complessità artistica del cinema di Eastwood o, in generale, sulla problematicità dei suoi eroi. Il tipo di poliziotto interpretato da Maurizio Merli, con più successo e credibilità dei suoi colleghi cinematografici, era stato modellato sull'esempio dell' Harry Callaghan così come veniva presentato nel film pilota della serie, Ispettore Callaghan: il caso Scorpio è tuo! (Dirty Harry, Don Siegel, 1971): il personaggio Callaghan (Callahan nell'originale) agiva senza farsi eccessivi scrupoli sull'impiego della violenza in chiave espressamente privata, vendicativa e punitiva, in quanto reazione del tutto giustificata dalle circostanze e condotta con mezzi appropriati alla pericolosità incondizionata dell'antagonista, il cui sadismo sarebbe proseguito all'infinito, reiterandosi ed inasprendosi gratuitamente, se non fosse stato prontamente fermato con un atto deciso, duro e responsabile. Il film di Siegel ovviamente non si esauriva in questo schema reazionario, forte della sua inconfondibile vena anarcoide, pessimista ed irrazionale. Invece gli epigoni italiani, in quanto sottoprodotti, costretti perciò alla brutale esemplificazione del discorso, esacerbarono la matrice destrorsa insita nell'ambiguità eastwoodiana e siegeliana, radicalizzandone l'impianto ritorsivo . Esasperando la crudeltà reciproca e spingendo alle estreme conseguenze lo scontro diretto tra il poliziotto individualista e l'intero mondo criminale con il quale s'era impegnato in una spietata ed implacabile lotta senza quartiere ("Questo vuol dire che la faranno franca?", chiedeva un collega al commissario Betti di Napoli violenta. E il: "E chi ha detto questo? La grazia la da' il Presidente, io sono un semplice poliziotto, figurati un po'"), non si desiderava altro che configurare uno scenario apocalittico e irreale, onde sfruttarne al massimo le potenzialità spettacolari e azione allo stato puro che poco o niente c'entravano con le implicazioni poliziesche e demenziali, pretestuose e infondate nei film di Lenzi e compagni. Maurizio Merli era un tutore dell'ordine inviso ai superiori (pronti all'occorrenza a divertirsi, in forma strettamente sibillina o ufficiosa, alla sua filosofia, come Alberti in Napoli violenta o Kennedy in Roma a mano armata) e puntualmente crocifisso da una stampa non si sa bene se insoddisfatta dai scarsi risultati ottenuti dalla polizia lotta al crimine o dei principi spregiudicati, ancorché efficienti cui il protagonista la conduceva.

 

Ma, in definitiva, osteggiava il poliziotto Merli ma non riusciva a decidersi su quel che davvero voleva: era l'espressione di un pensiero debole, evidentemente troppo vicina agli ambienti dell'opposizione ed orientata su posizioni progressiste, e scarsamente pragmatiche. Troppo a sinistra insomma, come accadeva con John Wayne nei tardi anni Sessanta e in tutti gli anni Settanta, per convenire con la spietata linea repressiva del nostro poliziotto. Solo che John Wayne non aveva sempre la richiesta di dimissioni in tasca, non avrebbe mai gettato nella polvere la stella da sceriffo e non sarebbe mai passato al contrattacco clandestinamente, come invece si vede obbligato il tutore della legge merliano, perennemente con le mani legate. Ma c'era una cosa che lo avvicinava a John Wayne, ibridandolo con la cruenza incanaglita del personaggio interpretato da Charles Bronson nel-la famigerata serie inaugurata da Il giustiziere della notte (Death Wish, Michael Winner, 1974), piuttosto che ad Eastwood o ai coevi Gene Hackman de Il braccio violento della legge (The French Connection, William Friedkin, 1971) e Il braccio violento della legge n. 2 (The French Connecrion II, John Frankenheimer, 1975) e dello Steve McQueen di Bullitt (id., Peter Yates, 1968). Ed era la rettitudine completa, la bontà indiscutibile, l'adesione ad un sistema di valori sano e per niente turbato, se non in modo del tutto occasionale e transitorio, da nevrosi e inclinazioni devianti. Pur restando un taciturno idealista solitario, sconvolto dall'ultra-violenza e dal caos metropolitani, Merli non assomigliava né si confondeva con la feccia a cui dava la caccia, alla maniera di Eastwood o Hackman, né lo si sarebbe potuto scambiare per un individuo culturalmente eclettico ed altemativo come McQueen o l'Al Pacino di Serpico (id., Sidney Lumet, 1974). Maurizio Merli sorrideva apertamente distendendo quei baffi che gli garantivano un aspetto maturo da funzionario integerrimo e non da belloccio aitante, si inteneriva alla vista dei bambini indifesi, dava manforte alle donne e agli uomini di buona volontà, proletari o piccolo-borghesi, pronto coerentemente a serrare mascella rabbiosa per render loro giustizia ("Non si preoccupi, il fatto non avrà nessuna pubblicità. Quanto a lasciar impuniti quei criminali, dovrebbero ammazzarmi. Questo glielo posso garantire", così rassicurava una delle vittime di Napoli violenta), poiché non esisteva creatura innocente ed indifesa in quei film se non in funzione di gravi torti su-biti e da lavare con il sangue.

 

Se dunque un elemento rendeva e rende tutt'oggi quasi inguardabili le pellicole di Lenzi, Girolami e Rosati soprattutto, e in parte quelle di Massi, è la ferocia dimostrativa e pretestuosa dei personaggi: nessuno, nemmeno l'eroe appariva come sorretto da una dimensione caratteriale ed umana autonoma, la loro presenza sullo schermo procedeva di pari passo con una serie di sollecitazioni violente provenienti dall'esterno. I buoni erano lì soltanto per cadere sotto i colpi dei cattivi o per sopravvivergli con esiti spesso macabri. Addirittura "buoni" li si ebbe potuti definire soltanto in funzione di questa rigida impostazione speculativa. Tutto ciò serviva a far risaltare e con incredibile indulgenza, senza cioè soffermarsi più di tanto sui problemi reali ("Dappertutto è la solita storia. Sempre più violenze", constatava pretestuosamente in Napoli violenta) o sulle contraddizioni interne della società e della politica, la risoluzione radicale, che coincideva con un inseguimento forsennato e rocambolesco destinato proficuamente a chiudersi in una ridondante e tribale mattanza liberatoria. In questo senso venivano ripescate, copiate o riadattate le performance mozzafiato e iperrealistiche degli Eastwood, Hackman e McQueen, e per l'esattezza le sparatorie seriali di Callaghan per sventare "accidentalmente" rapine, sequestri, stupri e comuni atti di vandalismo, l'inseguimento impossibile e sfrenato con cui Popeye Doyle ne Il braccio violento della legge a bordo di un automobile riesce a non lasciarsi sfuggire un convoglio della metropolitana, come risulta dalla sequenza pressocché analoga di Napoli violenta, o l'interminabile inseguimento automobilistico del tenente Bullitt, all'origine di quello, ma non solo, che conclude Roma a mano armata, in cui il commissario Tanzi riesce a star dietro all'allegro e gobbuto pluriomicida interpretato da Tomas Milian.

 

Ma se i successivi film di Stelvio Massi riconfermarono il personaggio abbastanza delineato, in quelli di un Lenzi, in realtà, cercarono di migliorarlo sul piano umano. Non bastava più riempire i buchi della trama con le solite mascalzonate alle quali il commissario Merli provvedeva con solerzia encomiabile (in pratica costruendo su misura le cause scatenanti, in funzione degli effetti). Stavolta lo sforzo fu quello di arricchirlo e approfondirlo, per quanto possibile, senza cioè tradire le prerogative dinamiche, ovvero lo schema elementare di azione/reazione su cui si fondava il conge-gno narrativo del poliziottesco. Massi e Merli raggiunsero un livello alle volte discreto (Poliziotto sprint, il meno cruento di tutti, e soprattutto Un poliziotto scomodo), collaborando tra l'altro, in una fase in cui il filone stava esaurendosi e con esso la credibilità di un'azione a tappeto, per debellare sistematicamente l'aggressione malavitosa. Il primo film del sodalizio, Poliziotto sprint, non solo non grondava sangue da tutte le parti come un po' tutti i poliziotteschi (in questo senso più vicini alla tradizione orrorifica italiana, sulla falsariga di Bava, Argento e Fulci, il cui sce-neggiatore Dardano Sacchetti aveva peraltro sceneggiato Roma a mano armata e Il cinico, l'infame, il violento, mentre lo stesso Fulci si era reso responsabile di un incursione diretta nel filone con Luca il contrabbandiere del 1980, teatro di ogni eccesso orripilante, ma conteneva un paio di battute molto divertenti: quando il criminale professionista, rivolto a un poliziotto anziano sospirava "Ah, di uomini come noi non ne nascono più!", gli veniva risposto "Beh, se devono essere come te, è meglio che non nascano"; e quando invece dichiarava snobisticamente di leggere sui giornali solo le pagine sportive, gli si replicava: "Tanto la cronaca nera la fai tu!". Per quanto riguarda Merli, si profilava l'urgenza di rinnovare gli schemi collaudati dai vari Lenzi, Marino Girolami, Rosati, Caiano, Dallamano, Martino, Castellari (Enzo Girolami, nel prestare più attenzione al privato del protagonista (e non solo per darlo in pasto agli eventuali malviventi che con i loro attacchi mirati alla sfera affettiva del poliziotto ne preparavano le rappresaglie finali), e al muro di incomprensione, indifferenza e isolamento che si costruiva attorno. La vita del superpoliziotto Merli nei film di Massi non si riduceva ad un continua serie di interventi maneschi e armati contro i responsabili "certi" delle più svariate nefandezze. L'eroe si umanizzava, pur non rinunciando ai suoi numeri da ammazzasette, ma il suo margine d'azione si restringeva, la cooperazione, sia pure dialettica e conflittuale con i diretti superiori, era quasi azzerata: non c'era più verso in lui di rimuovere la convinzione che i criminali più pericolosi, e cioè gli uomini d'affari, gli uomini politici di spicco, gli alti funzionari, sarebbero riusciti, e infatti riuscivano, sempre a farla franca, vantando coperture che nemmeno un commissario della Mobile si sarebbe potuto sognare di sventare, e non c'era verso di inseguirli sui tetti o in automobile a tutta velocità, affrontarli in campo aperto, con le armi in pugno o a mani nude. La prima parte di Un poliziotto scomodo si risolveva in un fallimento per il protagonista, il quale non solo vedeva l'uomo a cui dava la caccia eclissarsi con un aereo personale, ma per errore uccideva un metronotte dopo averlo scambiato per un sinistro attentatore. Così, sebbene in maniera piuttosto incredibile (non avrebbe dovuto essere sospeso dal servizio, sottoposto ad una commissione giudicante e magari condannato per omicidio?) veniva trasferito da Roma in una zona meno calda come la città marchigiana di Civitanova. Era evidentemente una soluzione di ripiego, che per Massi assumeva una valenza autobiografica (essendo nato a Civitanova, Massi ha co-sceneggiato il film, mentre il soggetto porta la firma di Danilo Massi), in cui confluivano una certa dose di malessere, nostalgia e amarezza, accompagnata al bisogno di appartarsi, riflettere e fare au-tocritica in un luogo meno spettacolare, cruciale e rappresentativo dell'Italia tutta. Una città che non fosse la solita Roma, Milano, Napoli o Torino, capitali riconosciute di un certo fermento cittadino e con esso di un elevato tasso di criminalità (molto "aggiornate" nella loro inarrestabile degenerazione). Sebbene anche a Civitanova il poliziotto sventava un traffico illegale di armi e si lasciava alle spalle la proverbiale scia di cadaveri, al termine di un drammatico salvataggio di un'intera scolaresca presa in ostaggio dal facoltoso capo della banda (ennesima riminiscenza eastwoodiana), la rivincita era ben poca cosa rispetto all'atmosfera malinconica del film (a tratti persino spiritosa, specie quando Merli chiedeva ironicamente al collega a cosa servisse un'antenna televisiva rivolta verso il mare aperto, e questo gli rispondeva, cogliendo l'allusione all'attività losca dei finti pescatori, "Sarà per i pesci!"). L' anno seguente, in Sbirro, la tua legge è lenta... la mia no!, il nostro poliziotto non riusciva a sconfiggere il potente camorrista Mario Merola, dovendosi alla fine rassegnare all'eliminazione effettuata fuori campo dal boss mafioso Francisco Rabal. E il successivo Poliziotto, solitudine e rabbia, l'ultimo film del filone che vantava un titolo di per sé esplicativo, costringeva il buon Merli ad uscire dai confini nazionali, oramai troppo angusti o anacronistici per le sue leggendarie gesta.

 

Se un barlume di verità questi film contenevano, o comunque una rivendicazione appropriata, questa riguardava l'uso strumentale che veniva fatto dai vertici dello Stato dei soggetti polizieschi inclini a comportamenti di stampo fascista. Benché in questi film il poliziotto, specialmente quelli di Merli, fosse mostrato come il rappresentante ideale dell'uomo comune e probo, che poteva far comodo anche, o forse soprattutto, nei suoi eccessi esasperati da un potere e una burocrazia intenzionati a farsene scudo, era inevitabile che gli stessi poliziotti venissero prima impiegati con e per queste mansioni, salvo essere all'improvviso disinnescati e abbandonati quando cominciavano a scottare troppo. Senza nulla togliere ai film in questione una totale indifferenza alla società e alla politica italiane, che una volta tanto, anziché tradursi in teoremi metafisici, ostentavano un falso realismo proteso soltanto all'intrattenimento bieco e viscerale.

 

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Ultimo aggiornamento: 18/07/99

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