Colombia, un po' di storia.

Le paludi e le colline del Darièn, l’imbuto che unisce Panamà alla Colombia, furono il passaggio obbligato dei popoli che dal nord scende-vano verso l’America Meridionale.
Le più remote tracce umane sul territorio colombiano sono state però rinvenute lontano dal Darièn, a El Abra, a pochi chilometri da Zipaquirà, nella savana di Bogotà una volta sommersa dalle acque. Sulle rocce di El Abra si possono vedere figure di animali mastodontici e strumenti di difesa e di caccia  di circa 10mila anni fa (coltelli, martelli e raschietti di pietra).
A quell'epoca erano già popolate, sia le coste atlantiche che quelle pacifiche, da nomadi diretti a sud, verso le terre del futuro Perù.
A Puerto Hormiga, sull'attuale Canale del Dique, e a Monsù, nella pianura caraibica, sono stati trovati bracieri, depositi di conchiglie e altri oggetti di pietra appartenenti a cacciatori e pescatori e a raccoglitori di molluschi e di frutta: uomini se-dentari in una natura che sentivano poco ostile.
A Malambo, al sud di Barranquilla, e a Momil, sulle sponde della Ciènaga Grande, ci sono invece i ruderi dei primi villaggi, o "aldeas", abitati da agricoltori, che coltivavano manioca, fagioli e soprattutto mais, e da ar-tigiani che intrecciavano ceste, lavoravano tessuti e ceramica e comin-ciavano a esercitarsi con l'oro e l’argento.
Tra il 1500 a.C. ed il 600 d.C. si svilupparono  federazioni di villaggi strutturate socialmente in maniera sempre più rigida: un "cacicco" al vertice, poche famiglie di alto rango al potere politico, economico e religioso, uno strato intermedio di amministratori, sacerdoti, commer-cianti, guerrieri e infine, alla base, i servi.
Soltanto tre città si sono salvate  dall'oblìo in Colombia: San Agustìn e Tierradentro, nella parte centro-meridionale del paese, e Ciudad Perdida, sulla Sierra Nevada di Santa Marta. Dalla foresta sono emersi gli altari dove venivano adorati il Sole, la Luna e le altre divinità, i mercati dov'erano scambiati manufatti e i  prodotti della terra e soprattutto i sarcofagi, alcuni sontuosi, altri modesti, prova evidente di rilevanti dif-ferenze sociali.
San Agustìn, Tierradentro e Ciudad Perdìda sono luoghi archeologica-mente importanti e di grande fascino, anche se nettamente inferiori, per estensione e qualità monumentale, a quelli aztechi, maya e inca. Sulla terra colombiana, infatti, non è mai esistito un solo grande impero, ma hanno prosperato decine e decine di popoli che, quando non si sono combattuti, si sono ignorati. La gran parte dei popoli indigeni erano in-capaci perfino di intendersi, raggruppati com’erano  in sei grandi fami-glie linguistiche.
 

 Il sogno dell’Eldorado
Quando arrivarono i primi spagnoli esistevano solo due popoli, così evo-luti da avere una struttura semi-statale: gli ottocentomila  Muisca della savana di Bogotà e del Boyacà e i trentamila Tairona della Sierra Nevada di Santa Marta. Altri popoli avevano  una forte identità culturale e altri ancora una preponderante attitudine bellica,  come i Caribe della costa atlantica e  i Pijao dell’attuale Tolima.
Sebbene il paese porti il suo nome, Cristoforo Colombo non pose mai piede in Colombia. Forse vide dalla sua caravella, durante il suo terzo viaggio nelle Americhe, soltanto la costa nord-occidentale del golfo di Urabà: almeno così è scritto su una lapide di una roccia tra Capurganà e la spiaggia di La Miel. In compenso vi sbarcarono altri avventurieri come Alonso de Ojeda,  amico di Colombo e  di Vespucci, che nel 1510 fondò Santa Marìa La Antigua del Darièn  (i cui ruderi sono ancora vi-sibili nella foresta vicino alla foce del rìo Atrato), Vasco Nùñez che “scoprì” nel 1513 l’oceano Pacifico, Pedro de Heredia che fondò Cartagena nel 1533 e Rodrigo de Bastidas che due anni dopo fondò Santa Marta.
Dalla regione atlantica cominciarono a partire gruppi di conquistadores sempre più numerosi verso la “tierra dentro”, armati di un’audacia che rasentava la follia e accompagnati da cavalli e cani feroci che terrorizza-vano gli indigeni Tairona e Caribe. Altri, invece, navigarono  lungo le co-ste pacifiche e caraibiche a bordo di imbarcazioni costruite da falegnami improvvisati.
Il “Nuevo Reino de Granada” nacque dall’impresa di una spedizione di ottocento soldati, che scelsero di fuggire alla noia e all’ozio dell’accam-pamento di Santa Marta. Il piccolo esercito si spinse a sud, costeggiando il rìo Magdalena, agli ordini di  Gonzalo Jimènez de Quesada. Il sogno di tutti era l’ Eldorado, inventato e raccontato dagli indigeni della costa che speravano ingenuamente di liberarsi dei nuovi e crudeli padroni.
Dopo quasi un anno di  peripezie solo duecento sopravvissuti alle belve, ai serpenti, alle zanzare e agli indigeni, arrivarono nella terra  Muisca dove venne fondata, nel posto più alto della savana, il 6 agosto del 1538,  Bogotà. Il villaggio venne battezzato da don Gonzalo col nome di Santa Fè.
Per uno scherzo del destino, quasi contemporaneamente,  arrivarono nel costituito Reino de Nueva Granada, altre due pattuglie di conquistadores: una guidata dal tedesco Nikolaus Federmann, che era partito dal Venezuela e aveva attraversato gli immensi Llanos orientali, e l’altra guidata dallo spagnolo Sebastiàn de Belalcàzar, che venendo dal Perù aveva fondato lungo la strada Guayaquil, Popayàn e Santiago de Cali. Anche questi uomini erano attratti dal mito del Eldorado, che veniva sempre di più localizzato nella rotonda laguna di Guatavita. La vastità e la complessità del territorio spingevano i conquistadores a fondare una città dietro l’altra, disegnando così la geografia politica della futura Colombia, fatta di tantissime città e cittadine, governate illusoriamente da una capitale piazzata nel punto più alto dell’altopiano più esteso.
Il grande abbraccio
Jimènez de Quesada, Belalcàzar e Federmann andarono  insieme fino in Spagna per dirimere i loro litigi sulla ripartizione del nuovo regno, ma trovarono poco ascolto a corte. Le terre conquistate, oggetto della loro contesa, stavano portando nelle casse reali più sogni ed illusioni che oro e preziosi. Il regno “colombiano” fu perciò smembrato  e suddiviso in province e governatorati e passato d’ufficio alle dipendenze di Lima.
I creoli, che si sentivano sempre più americani e sempre meno spagnoli,  avrebbero aspettato quasi due secoli  prima che il re di Spagna procla-masse “vicereame” la loro nazione.
Furono due secoli di grandi cambiamenti. Prima di tutto tra gli uomini. Apparvero gli schiavi africani a rimpiazzare gli indigeni, stremati dai la-vori nelle piantagioni del sud e della zona atlantica  e nelle miniere di oro degli altopiani. Prima della fine del  18° secolo sulle terre colom-biane c’erano più neri che indios. Le tre razze, la bianca, la nera e l’indi-gena,  cominciarono ben presto a mischiarsi (non tanto come in Brasile, ma molto di più che negli Stati Uniti), dando vita a quella popolazione di mulatti e meticci che sarebbe diventata in futuro ampiamente maggiori-taria.
Nel corso dei due secoli cambiarono anche le città. Soprattutto  Santa Fè, che si riempì di università e di chiese e prese a sentirsi capitale (anche quando non lo era). E Cartagena, che diventò il porto commerciale per eccellenza di tutto il continente, da dove passavano mercanzie e schiavi, e per questa sua ricchezza si trasformò nel bersaglio preferito delle altre grandi potenze europee.
Durante questo periodo, sulla terra colombiana, si alzarono  i venti di ri-volta. Gli unici che rimasero drammaticamente sottomessi furono gli in-digeni: solo quelli che riuscirono a rifugiarsi nella foresta, come i Tairona che ripararono nella Sierra, mantennero immutato per secoli la loro identità di popolo libero. La foresta accolse anche i neri, che fuggivano dai loro padroni  e si organizzavano in villaggi, chiamati “palenques”,  dai quali spesso osavano attaccare i latifondi.
E cominciarono a ribellarsi i nuovi americani, che si sentivano sempre meno sudditi del re di Spagna. La Corona era accusata di inventare ogni giorno i balzelli più strani, di impedire il libero commercio dei prodotti locali e di farsi rappresentare da una schiera di funzionari arroganti e  corrotti. Molti latifondisti attaccavano leggi umanitarie, come le “Leyes de Indias”, che cercavano di limitare lo sfruttamento dei neri e degli in-digeni o, meglio, cercavano di organizzarlo in maniera più razionale.
Le ricchezze del Nuovo Mondo, intanto,  rimpinguavano i forzieri della corte di Madrid, le casse dei commercianti e dei banchieri tedeschi e fio-rentini e quelle del Vaticano che, con l’oro americano, finanziava  le guerre di religione.
Nella prima metà del 18° secolo il re ordinò finalmente la costituzione del Vicereame de Nueva Granada sulle terre delle attuali Colombia, Panamà, Venezuela ed Ecuador, con capitale Santa Fè di Bogotà. E, allo stesso tempo, impose nuove tasse per far funzionare un mastodontico apparato statale e sostenere la guerra economica e religiosa con l’In-ghilterra.
 
I venti di rivolta
La prima rivolta “popolare” scoppiò nel 1781 a Socorro, nell’attuale dipartimento di Santander. A fare da scintilla fu la lettura, nella piazza del mercato, di un editto con nuove tasse: un migliaio di persone armate di pietre, machetes e bastoni cacciò il banditore e la sua scorta armata, per poi dare l’assalto al carcere
e liberare i prigionieri.  La rivolta incendiò tutti gli altopiani. Si solleva-rono San Gil, Barichara, Sogamoso. A dirigerla erano i “comuneros”, ispi-rati  dai  rivoltosi della lontana Castiglia. Decine di migliaia di uomini marciarono sulla capitale gridando “Viva il Re, abbasso la corruzione”. Le autorità finsero di cedere: abbassarono le tasse, promisero di castigare il neo-governatore spagnolo,  concessero di assegnare ai creoli anche gli incarichi  più alti dell’amministrazione pubblica. Appena i rivoltosi si sciolsero per fare ritorno alle loro case, gli spagnoli stracciarono l’accordo (sottoscritto persino dall’arcivescovo di Bogotà) ed incarcerarono e im-piccarono i loro capi. Josè Antonio Galan, il comunero più famoso, venne giustiziato il 1° febbraio 1782 insieme ad alcuni suoi compagni. I corpi dei ribelli  furono squartati ed esibiti nei villaggi che si erano sollevati.
Il seme della rivolta, che aveva mostrato la debolezza del regime colo-niale, si era ormai sparso in tutto il vicereame. Rialzarono la testa anche gli indigeni che qualche anno dopo a Tùquerres, vicino a Pasto, lapidarono il prete che aveva letto dal pulpito l’elenco delle nuove imposte.
Il solco tra gli americani, di ogni classe e colore,  e i governanti spagnoli, spergiuri e crudeli, diventò incolmabile.
Prima timidamente, poi con sempre più forza, cominciarono ad agitarsi le università e i circoli intellettuali. Fino alla fine del 18° secolo le scienze e le arti erano state delle mediocri caricature europee.
Nel 1783 l’andaluso Celestino Mutis fondò la “Expediciòn Botànica”, un’istituzione che riuscì a classificare, con l’aiuto degli indigeni, migliaia di piante delle foreste del vicereame. Fu quell’impresa, enormemente più vasta e precisa degli studi delle scuole botaniche europee, a consa-crare la raggiunta autonomia intellettuale americana.
Le notizie che arrivavano in quel periodo dal vecchio continente scate-narono la ribellione, aperta e totale, contro il re di Spagna e non solo contro i suoi rappresentanti nelle colonie. L’Indipendenza degli Stati Uniti dall’Inghilterra, quella di Haiti dalla Francia e la Rivoluzione Francese accesero gli animi degli intellettuali del vicereame. Uno di questi, Antonio Nariño, tradusse la “Dichiarazione dei Diritti dell’Uomo e del Cittadino”, che fece stampare nella sua tipografia di Bogotà (chiamata significativamente “La Patriotica”): un’impresa che gli costò  una condanna di dieci anni di carcere duro in Africa.
Quando, nel 1808, Napoleone Bonaparte, convinto di conquistare il mondo,  impose suo fratello Giuseppe  sul trono spagnolo al posto di Fernando VII, le colonie americane cominciarono a insorgere. I  funzio-nari spagnoli persero sicurezza e autorità e i patrioti ne approfittarono. Il 20 luglio 1810 questi ultimi provocarono nel centro della capitale, nella Casa del Florero, a due passi dalla cattedrale, un tumulto  che riuscì a imporre la costituzione di una Junta Suprema de Gobierno, composta dai patrioti più famosi. In pochi giorni la Junta cacciò il vicerè, dando inizio al processo che sarebbe sfociato nella proclamazione dell’indipendenza. Il movimento di protesta era però confuso e composito: c’erano i partigiani del ritorno dei Borboni, c’era chi voleva più autono-mia per le colonie  e chi chiedeva la separazione totale dalla Spagna.
Altre città ed altre province costituirono le loro “giunte di governo”: Cartagena, Antioquia, Chocò, Socorro, Neiva, Tunja, Pamplona, Santa Marta furono le prime a seguire l’esempio di Bogotà.
Uniti quando si trattava di protestare genericamente contro la Spagna, i patrioti si divisero al momento di delineare il futuro della colonia. Quelli di Bogotà, quasi isolati, guidati da Antonio Nariño, cercarono di costituire uno stato centralista, con una costituzione marcatamente repubblicana. Quelli delle altre città più importanti, come Cartagena (la prima a pro-clamare l’Indipendenza, l’11 novembre 1811), Tunja, Pamplona, Popayàn, parteggiavano per il federalismo: guidati da Camilo Torres, costituirono il Congreso de las Provincias Unidas de Nueva Granada.
 
 La "patria scema"
Invece di preoccuparsi dell’annunciato ritorno delle truppe spagnole, desiderose di riscattare le colonie perdute, i patrioti cominciarono a combattersi tra di loro.  E, per aggiungere caos al caos, molte città pre-sero a guerreggiare per puro campanilismo. Santa Marta e Pasto diven-nero realiste per contrastare le repubblicane Cartagena e Popayàn. E i patrioti di Sogamoso si scontrarono con quelli di Tunja, i patrioti  di Giròn con quelli di Pamplona.  I particolarismi più stupidi e l’inespe-rienza dei nuovi governanti prevalsero a tal punto da far passare alla storia il primo tentativo repubblicano nell’ex Vicereame, durato dal 1810 al 1816, col nome di “Patria Boba” (patria scema). Fu du-rante questo periodo che apparve sulla scena Simòn Bolìvar.
Il giovane caraqueño era stato educato agli ideali di libertà e aveva studiato in Francia,  dove aveva assistito estasiato all’incoronazione, nella chiesa di Notre Dame, di Napoleone Bonaparte. Nei viaggi successivi alla morte della moglie Marìa Teresa, stroncata dalla febbre gialla, il gio-vane Simòn aveva conosciuto i rivoluzionari francesi e statunitensi. Tornato a Caracas, accesa dai primi movimenti nazionalisti, Bolìvar ri-spose  all’appello della neonata Junta de Gobierno . Nonostante le scon-fitte subite  nelle sue prime battaglie contro gli spagnoli non si perse d’animo. Il 15 dicembre 1812 andò a Cartagena ad invocare la forma-zione di un esercito di liberazione. Là rivolse un commovente proclama ai “cittadini della Nueva Granada”:“Finchè non centralizzeremo i nostri governi americani, i nostri nemici continueranno  a batterci. Sono le no-stre divisioni e non le armi spagnole a farci tornare schiavi”. Bolìvar era un convinto sostenitore di uno stato centralizzato ma, dato che il destino gli fece conoscere i capi federalisti di Cartagena,  il giovane generale si mise al servizio del  Congreso de las Provincias Unidas. Con un manipolo di neri di Cartagena e di mulatti di Mompòs cominciò a girare in lungo ed in largo il paese, sbaragliando le truppe spagnole in più punti  e arri-vando a Caracas, dove fu proclamato  El Libertador delle riunificate Venezuela e Nueva Granada. Bolìvar marciò anche su Bogotà, che con-quistò sconfiggendo i patrioti “centralisti” e  sottomettendoli al Congresso federalista. Il fascino che emanava  e la sua forte personalità  produce-vano però invidia e sospetti.  Gli stessi patrioti di Cartagena che lo ave-vano eletto qualche mese prima loro capo militare  gli negarono gli aiuti per attaccare la vicina città di Santa Marta, dominata dai realisti. Deluso, Bolìvar si autoesiliò in Giamaica.
Con queste divisioni nel campo patriottico, per la corona spagnola, che aveva intanto recuperato il trono sloggiando il Bonaparte, fu quasi un gioco riprendere le sue colonie. Re Fernando VII mandò in terra ameri-cana una spedizione di 15mila soldati, comandati dal maresciallo Pablo Morillo. Molte città, come Caracas e Santa Marta, accolsero gli spagnoli come liberatori. Altre opposero la più strenua resistenza. Cartagena re-sistette tre mesi prima di capitolare stremata dalla fame e dalla sete. Un abitante su tre morì durante l’assedio. Quattrocento tra vecchi, donne e bambini, che avevano lasciato le mura  confidando nella clemenza di Morillo (che si faceva chiamare “El Pacificador”), vennero sgozzati sulla spiaggia prospiciente le mura di quella che da allora venne chiamata “Ciudad Heroica”.
Colonne di soldati spagnoli ristabilirono l’ordine in tutte le province del vicereame. Per un paio d’anni le forche ed i plotoni d’esecuzione lavora-rono incessantemente: vennero uccisi uomini famosi, come Camilo Torres e donne rivoluzionarie, come Policarpa Salavarrieta e Antonia Santos.
 
Il castello di sabbia
Il “Règimen de Terror” non poteva durare a lungo. Sulle montagne cen-trali si rifugiarono i patrioti superstiti, i primi guerriglieri del paese, che  cominciarono ad attaccare i reparti spagnoli.
E sulla costa atlantica ricomparve Simòn Bolìvar, incapace di starsene a oziare in Giamaica. In una lettera aperta scritta a Kingston, nel settem-bre del 1816, El Libertador aveva delineato la sua utopia politica:“Io de-sidero più di qualunque altro di assistere alla nascita, in America, della più grande nazione del mondo, grande per estensione e ricchezza, ma ancora di più per libertà e gloria”.
Aiutato ed armato dal presidente di Haiti, Alejandro Pètion, Bolìvar con-quistò prima l’isola di Margarita, nel dicembre 1816, e poi diede batta-glia per quasi due anni nelle terre venezuelane all’esercito di Morillo, che contemporaneamente  era attaccato da sud, negli Llanos,  dalle truppe guidate da Francisco de Paula Santander.
Dopo aver valutato le difficoltà della guerra sulla costa atlantica,  Bolìvar e Santander decisero che era più conveniente concentrarsi nella più fa-cile  conquista del ricostituito vicereame de Nueva Granada. Passando di vittoria in vittoria (famosa quella del Puente de Boyacà del 7 agosto 1819, diventata festa nazionale in Colombia) l’esercito di liberazione sbaragliò l’apparato militare spagnolo ed entrò trionfante a Bogotà. Da qui vennero organizzate varie spedizioni per liberare tutta la Nueva Granada.
Preso dall’entusiasmo Bolìvar convocò nel dicembre dello stesso anno il Congresso a Angostura (chiamata ora Ciudad Bolìvar), dove proclamò la nascita della Repubblica di Colombia, comprendente l’attuale Colombia oltre al Venezuela e l’Ecuador, allora ancora spagnole, che  “El Libertador” era sicuro di liberare rapidamente. Impresa che si realizzò nel 1821, quando Bolìvar entrò a Caracas, e nel 1822  quando i suoi ge-nerali occuparono Quito, dopo avere sbaragliato la cittadella realista di Pasto.
Il fuoco dell’indipendenza era ormai acceso in tutta l’America. Nel 1824 capitolò anche il vicereame del Perù e vennero fondate le repubbliche del Perù e della Bolivia.
Mezza America era ormai unita. Ma mentre Bolìvar sognava già di arri-vare alla Patagonia e alla Terra del Fuoco,  il suo sogno inesorabilmente crollava: in un territorio immenso vivevano popoli con grandi differenze culturali, comandati da uomini ambiziosi,  poco propensi ad accettare l’autorità del Libertador. Quando si trattò di costruire il nuovo stato riemerse la solita contraddizione tra centralisti e federalisti. Bolìvar si schierò, come sempre, per uno stato forte e autoritario e i suoi nemici tentarono di ammazzarlo. Solo grazie all’intervento della sua amante più famosa, Manuela Sàenz, Bolìvar riuscì a salvarsi dai congiurati nel Palacio de San Carlos, a Bogotà, il 25 settembre 1828.
La nuova nazione cominciò a smembrarsi. L’Ecuador votò una carta costituzionale autonoma nell’agosto 1830. Un mese dopo proclamò la propria autonomia il Venezuela. Queste notizie furono delle pugnalate per il  Libertador che, deluso e gravemente ammalato di tisi, aveva abbando-nato il potere nel maggio precedente, prendendo per l’ultima volta la strada dell’esilio. Era il viaggio verso la morte che lo sorprese il 17 di-cembre sulla collina di Santa Marta. Simòn Bolìvar aveva 47 anni. Una settimana prima aveva scritto questa lettera:
 Ai popoli della Colombia
Siete stati spettatori dei miei sforzi per far nascere  la libertà dove esi-steva la tirrania. Ho agito con disinteresse, abbandonando le mie fortune ed anche la mia tranquillità. Ho abbandonato il potere anche se nessuno lo credeva possibile. I miei nemici hanno abusato della vostra fiducia ed hanno calpestato ciò che mi è più sacro: la reputazione e l’amore per la libertà. Sono stato vittima dei miei aguzzini che mi hanno portato sulla soglia del sepolcro. Io li perdono.
Prima di lasciarvi  voglio, per  l’amore che vi porto, manifestarvi i miei ultimi desideri. Non aspiro a nient’altro che al rafforzamento della Colombia. Voi tutti dovete lavorare per il bene inestimabile dell’Unione: i popoli ubbedendo all’attuale governo per liberarsi dell’anarchia, i ministri della chiesa dirigendo le loro preghiere al cielo ed i militari usando le spade per difendere le garanzie sociali.
Colombiani! I miei ultimi voti sono per la felicità della patria. Se sapessi che la mia morte servisse a far cessare le lotte intestine e a consolidare l’Unione, io scenderei sereno nel sepolcro.
Hacienda de San Pedro, Santa Marta, 10 dicembre 1830.
Simon Bolìvar
 
La guerra infinita
L’augurio profetico del Libertador non si compì.  Il resto del secolo tra-scorse tra una guerra civile ed una rivolta,  un colpo di stato ed un ba-gno di sangue. I centralisti si riunirono nel partito conservatore,  mentre i federalisti fondarono quello liberale. Ma gli uni e gli altri erano soliti risolvere le differenze d’opinione a fucilate piuttosto che attraverso di-battiti politici. Ci si ammazzava in nome di Bolìvar e di Santander,  tra clericali e radicali, tra commercianti e agrari, tra filo-americani e filo-statunitensi.
Fino al 1858 prevalsero i conservatori. Era il presidente a nominare i governatori delle province allora esistenti sulla terra colombiana, Antioquia, Bolìvar, Boyacà, Cauca, Cundinamarca, Magdalena, Panamà, Santander e Tolima.
Negli anni successivi prevalsero invece i liberali: nel 1963 fu proclamata  la “Constituciòn de Los Estados Unidos de Colombia”. Le province si tra-sformarono in stati, ognuno con amministrazione ed esercito propri. Il paese precipitò nel caos.
Nel 1886 ci fu un’altra sterzata centralista. Fu proclamata la Repubblica de Colombia. A Bogotà si governava con leggi eccezionali possibili grazie all’imposizione di uno “stato d’assedio” dietro l’altro.
I conservatori occupavano tutti i posti di comando del paese. Ai liberali non rimaneva altro che usare le armi. La crisi precipitò, alla fine del 19° secolo,   in uno dei periodi più tragici della storia colombiana, la co-sidetta “Guerra de los Mil Dìas” che provocò più di centomila vittime e si concluse con un armistizio tra i due partiti, che venne  firmato sulla nave statunitense Wisconsin.
Washington non era intervenuta in Colombia per spirito umanitario. Era dal 1839 che aveva inviato una spedizione per studiare la possibilità di aprire un canale interoceanico nella provincia di Panamà. Le pressioni sul governo colombiano si erano moltiplicate nei decenni successivi: vennero firmati trattati, ci furono ripensamenti “nazionalisti” di Bogotà fino al tentativo di realizzare un canale autonomo, finanziato dalla Francia.
Theodore Rooselvet calcolò che era arrivato il momento di agire in una Colombia stremata dalla guerra civile. Nel 1903 la Casa Bianca provocò una rivolta nella città di Panamà. I panameños filo-USA proclamarono la repubblica e (come  è successo tante volte nella storia lationoamericana) arrivarono i  marines a “difendere la democrazia e la libertà”. Per Bogotà fu un trauma. Nel 1914 Washington risarcì il “furto”con un assegno di 25milioni di dollari.
Nei primi decenni del secolo, le multinazionali statunitensi cominciarono a comprarsi estese zone del  paese. Mentre i due partiti tradizionali im-paravano lentamente a convivere, spartendosi più equamente il potere, nelle città e nelle campagne crescevano i conflitti di classe. A Barrancabermeja nel 1926 e sulla costa atlantica nel 1928, l’esercito fece stragi di operai della Tropical Oil e di braccianti della United Company.  Per distogliere l’attenzione dai problemi interni vennero proclamate un paio di guerre col Perù,  che stabilirono  la sovranità colombiana su una piccola fetta della selva amazzonica.
 
Rossi e azzurri
Il partito liberale, tornato alla guida del paese nel 1930, avviò la modernizzazione capitalistica del paese e realizzò alcune timide riforme so-ciali, volute soprattutto dal suo settore populista. Negli anni successivi crebbe il carisma di Jorge Eliecer Gaitàn, il deputato che aveva denun-ciato con maggiore veemenza i massacri di operai e contadini. Il suo pro-gramma politico, imperniato sulla riforma agraria e la difesa dei diritti dei lavoratori, non piaceva a nessun potente, civile o militare, liberale o conservatore. Il 9 agosto 1948 il capo  liberale venne ucciso nel centro di Bogotà, mentre si stava tenendo una riunione dei capi di stato americani.  Alcuni giornali  s’inventarono  un “complotto comunista”, ordito dal gio-vanissimo Fidel Castro, allora presente nella capitale colombiana.
Fu un omicidio mai chiarito con tutte le caratteristiche del “delitto di stato”.
La capitale fu messa a ferro e a fuoco dalla furibonda reazione popolare. Durante il cosidetto “bogotazo” furono distrutti molti edifici pubblici, compreso il Palacio Presidencial. A scendere in piazza erano  natural-mente i “rossi”, liberali di base che in molte zone si allearono e si con-fondevano con i comunisti. A contrastarli erano gli “azzurri”, clericali e filo-militari. La capitale venne ‘“pacificata” dopo qualche giorno con le mitragliatrici. Lo scontro si trasferì nel paese. A Barrancabermeja, dov’era più forte il movimento sindacale, e negli Llanos orientali ven-nero create giunte ed eserciti rivoluzionari.  “Rossi” ed “azzurri” cominciarono ad ammazzarsi senza misericordia. Interi villaggi vennero spaz-zati via dalla furia omicida dei due schieramenti. Non si risparmiavano nè le donne, nè i bambini: bastava vivere in una zona “liberale” per di-ventare la vittima delle atrocità dei conservatori e viceversa. L’assassinio di Gaitàn inaugurò un periodo chiamato “La Violencia”, du-rante il quale ci furono più di 300mila morti ed esodi massicci dalle campagne alle città.
Il potere attribuì la guerra civile  al “comunismo internazionale”: nel marzo 1949 furono interrotte le relazioni diplomatiche con l’URSS. Molte formazioni liberali ribelli si radicalizzarono a tal punto da dar vita negli anni successivi, alla guerriglia comunista delle Forze Armate Rivoluzionarie Comuniste (FARC).
La guerra civile stava distruggendo l’economia del paese. L’oligarchia costrinse all’accordo liberali e conservatori. Poi, visto che il caos continuava, favorì nel 1953 un colpo di stato che portò al potere il generale Gustavo Rojas Pinilla. Il suo era un programma populista-riformista, da vero “caudillo”. Dopo qualche anno di governo forte (durante i quali una parte della guerriglia abbandonò le armi) riesplosero acute tensioni sociali: ci furono scioperi e manifestazioni  represse nel sangue e vennero compiuti attentati tre-mendi e  “oscuri”, come l’esplosione di un camion di dinamite a Cali, nel 7 agosto 1956, che causò quasi 2mila vittime.
Quando il generale Rojas Pinilla fu costretto a dimettersi, un plebiscito consacrò un regime bipartitista liberal-conservatore nel paese. I vari settori della borghesia trovarono, dopo decenni di guerra, un accordo che sancì la nascita del “Frente Nacional”: i due partiti tradizionali decisero di spartirsi equamente tutti i posti di potere, lottando insieme  contro qua-lunque altro movimento d’opposizione.
La grande abbuffata
Da allora nulla o quasi ha differenziato i liberali dai conservatori: stesso programma politico, stessi interessi economici, stessa prosopopea.
Persino i termini “liberale” e “conservatore” hanno perso via via signifi-cato.
Un liberale come Julio Cèsar Turbay Ayala (ex ambasciatore in Vaticano e protagonista e vittima di centinaia di barzellette sulla sua famosa gof-faggine) è stato il presidente più reazionario degli ultimi decenni, pro-motore di quel “Estatuto de Seguridad”, che provocò migliaia di assassinii e sparizioni tra gli oppositori. Il suo successore,  il conservatore Belisario Betancur,  è stato invece il presidente più riformista ed illuminato che, ad esempio,  avviò il dialogo con le varie formazioni guerrigliere del paese.
 L’ammucchiata di liberali e conservatori ha solo apparentemente dato stabilità al paese. In realtà il regime ha perso consenso tra la gente. Si capisce dalle astensioni che raggiungono, a ogni elezione, punte del 70% e dal successo clamoroso che ottengono tutti coloro che appaiono “diversi” o “alternativi” agli occhi degli elettori: quello di M-19, un mo-vimento formato da poche centinaia di ex-guerriglieri, che alla loro prima partecipazione,  nelle elezioni del 1991, ottennero il 27% dei voti, o quello  dell’attuale sindaco di Bogotà, Antanas Mockus, stravagante le-ader di un movimento civico pressochè inesistente. Successi però quasi sempre effimeri perchè in Colombia le opposizioni o sono risucchiate dal regime bipartitista,  diventando  inutili come  l’M-19 ( che nelle ele-zioni presidenziali del 1995 ha incassato un umiliante 4% dei voti) o sono sterminate scientificamente, nel caso volessero fare un’opposi-zione non di facciata, come è successo al movimento di sinistra Uniòn Patriòtica.
Un regime autoritario,  al di là di alcuni recenti cambiamenti di colore (come la presenza nel parlamento di un paio di leaders indigeni, di un rappresentante delle comunità nere,  di qualche protestante e di una santona del movimento meta-politico), che ha contribuito alla crescita numerica e all’espansione  territoriale della guerriglia comunista.
Pur contando su 15mila uomini, divisi in 120 fronti militari, sparsi in tutto il paese, comprese le periferie delle grandi città, le FARC e l’ELN (l’Esercito di Liberazione Nazionale) non rappresentano però un vero pericolo per  il regime,  anche se tengono in apprensione  i 250mila sol-dati e poliziotti colombiani. Sono invece una spina nel fianco nell’eco-monia colombiana: soltanto con gli attentati agli oleodotti (realizzati più che altro per ottenere il regolare pagamento delle tangenti da parte delle compagnie petrolifere) i ribelli hanno fatto perdere finora al paese  lo 0,4% del suo prodotto interno lordo.
Dopo 40 anni di esistenza,  la guerriglia colombiana, organizzata nella Coordinadora Guerrillera “Simòn Bolìvar” e comandata da Manuel Marulanda, detto “Tirofijo”, un arzillo settantenne (forse il “politico” più longevo del paese) appare conservatrice, nei programmi, nel linguaggio e persino nell’attività militare, quanto il regime che combatte. Accusata dal governo di essersi trasformata in  un’organizzazione criminale dedita esclusivamente al sequestro e al traffico di droga, la guerriglia sembra interessata più che altro alla sopravvivenza  e al consolidamento del potere nei vastissimi territori rurali che controlla.
Non a caso, in passato,  qualche spregiudicato esponente politico ha fatto una proposta,  nient’affatto paradossale, di far diventare le FARC e l’ELN  una specie di polizia rurale che garantisca l’ordine pubblico in centinaia  di municipi e  magari controlli anche le migliaia di chilometri di oleodotti che percorrono il paese.
La novità mafiosa
La vera novità della storia contemporanea colombiana sono i narcos. Tutto o quasi ha girato, negli ultimi 15 anni, intorno alle loro imprese e  ai loro soldi. Col loro immenso potere economico hanno corrotto rilevanti settori del ceto politico, hanno stretto alleanze di  classe con latifondisti e  militari nelle  zone strategiche del paese ed hanno fatto accordi “di convivenza” con alcuni fronti guerriglieri nelle zone emarginate, dove coltivano e raffinano la coca ed il papavero.
Per alcuni anni i mafiosi sono cresciuti d’amore e d’accordo con i potenti del paese. I pochi snob, che  si azzardarono a sbarrare loro l’accesso nei club esclusivi,  dovettero subito pentirsi e chiedere scusa. Tra gli estima-tori di Pablo Escobar, il boss indiscusso del cartello di Medellìn, nei primi anni ‘80 c’erano politici, tra i quali vari ex-presidenti della repubblica, alcuni dei prelati più importanti e tradizionalisti del paese, i vertici mili-tari e le grandi famiglie economiche. Tutti sapevano quale fosse l’origine delle ricchezze degli astri nascenti, ma tutti facevano finta di niente. Le denunce delle autorità statunitensi sulle montagne di cocaina, che co-minciavano a piovere  sulle spiagge della Florida, ingiallivano nei cas-setti del ministro degli Esteri.
Finchè i narcos si limitarono a pagare le campagne elettorali di liberali e conservatori, nessuno si lamentava. Poi Escobar ed altri delinquenti, come il bizzarro Carlos Lehder (proprietario di un’isola delle Bahamas, che per anni funzionò da scalo tecnico per gli aerei della droga), si mi-sero a far politica con capitali enormi e con metodi rozzi, ma efficaci. Fu un’intrusione non gradita, soprattutto perchè coronata da successo. Alla gente comune i narcos non sembravano più corrotti degli altri can-didati. Anzi, personaggi come Escobar, che aveva riempito di campi da pallone la periferia di Medellìn e aveva dato un migliaio di appartamenti ai miserabili che vivevano  nelle baracche vicine alla discarica dei rifiuti, si erano dimostrati molto più generosi dei politici tradizionali.
Escobar fu ovviamente eletto deputato. Del partito liberale, non di un partitino qualunque. Ma la sua vanità cominciò a creargli problemi. Faceva di tutto per mettersi in mostra. Si fece persino inserire nella de-legazione che andò in Spagna a festeggiare l’elezione di Felipe Gonzales nel 1982. Era inevitabile che qualcuno si mettesse a spulciare nel suo passato di ladro e di narco. A rivelare quello che tutti   sospettavano fu il giornale liberale “El Espectador”. Il governo in carica non poteva conti-nuare a fare finta di niente.
Il ministro della Giustizia, Rodrigo Lara Bonilla, spiccò un mandato di cattura  contro di lui e scovò il più grande laboratorio di raffinazione della coca mai trovato al mondo. I mafiosi si sentirono  traditi.
Il 30 aprile 1984, due ragazzini in moto ammazzarono il ministro a Bogotà: furono i primi sicari adolescenti della storia colombiana.
 Da quel giorno, i mafiosi vennero considerati dei delinquenti, anche se nessun poliziotto, nè nessun agente della DEA si azzardò a mettersi seriamente sulle loro tracce.
A quel tempo, il nemico principale erano ancora i comunisti.
Se l’ossessione di Ronald Reagan, allora presidente degli Stati Uniti, fu-rono i sandinisti, per lo Stato colombiano furono i guerriglieri filo-cubani dell’ELN, quelli superortodossi delle FARC; e soprattutto quelli di M-19, dei Robin Hood tanto audaci militarmente da realizzare azioni clamo-rose come l’occupazione del Palazzo di Giustizia di Bogotà del 6 novem-bre 1984. I ribelli volevano ingenuamente processare lo Stato, accusato di non rispettare la tregua in corso. L’esercito decise autonomamente di bombardare l’edificio.  Alla fine di una battaglia, durata 33 ore, ci furono 113 vittime, tra morti e scomparsi (guerriglieri e camerieri della caffetteria del Tribunale, che furono trascinati fuori dall’edificio vivi dai militari e che non furono mai più ritrovati).
L’episodio del Palazzo di Giustizia (seguito, 5 giorni dopo, dalla tremenda esplosione del vulcano Nevado del Ruìz, che provocò 23mila morti) riaffermò la “centralità della lotta alla guerriglia”.
Mentre si fingeva di dar loro la caccia (e l’ambasciatore statunitense a Bogotà, Lewis Tambs, annunciava la nascita della“narcoguerriglia, nuovo flagello dell'Occidente"), in realtà gli USA e la Colombia utilizzavano i mafiosi per alcuni “lavori sporchi” contro i loro nemici principali.  Prova ne fu lo scandalo-Contras, quando la relativa commissione d’in-chiesta accertò che il colonnello Oliver North, uomo di fiducia di Reagan, comprava da Escobar la cocaina con la quale pagava le armi per i merce-nari anti-sandinisti in Honduras. In Colombia, invece, i vertici locali del-l’esercito si alleavano coi narcos per dar vita a quel movimento “paramilitare” che eliminò, nella metà degli anni ‘80, migliaia di per-sone accusate di appoggiare la guerriglia comunista nel Magdalena Medio ed in altre zone del paese. Ogni tanto i mafiosi facevano fuori qu-alche magistrato che tentava di intralciare i loro affari, ma lo Stato si gu-ardava bene dallo scatenare contro di loro la guerra. L’odio anticomuni-sta era più forte di qualunque inchiesta giudiziaria.  I narcos non pote-vano che schierarsi contro la guerriglia: riciclando i loro immensi guada-gni, si erano trasformati in latifondisti, industriali, costruttori, entrando nel mirino dei “muchachos”, sempre a caccia di ricchi da sequestrare. Nel 1987 Pablo Escobar venne giudicato il 14° uomo più ricco del mondo: le riviste economiche specializzate statunitensi, “Fortune” e “Forbes”, gli attribuirono un guadagno annuo di 3mila milioni di dollari. Nonostante fosse teoricamente pluriricercato, il boss riusciva a curare magistralmente  i suoi affari.
La vera guerra
Il crollo dei regimi dell’Est europeo, avvenuto alla fine degli anni Ottanta, stava lasciando improvvisamente gli Stati Uniti senza un ne-mico. Dopo un primo momento di panico, il governo di Washington dichiarò guerra alla mafia della droga, soprattutto a quella colombiana che controllava il commercio mondiale della cocaina. Era il 1989.
Giornali e televisioni di tutto il mondo furono mobilitati nella “nuova crociata”. I governi occidentali (come quello italiano del socialista Bettino Craxi) misero la “lotta alla droga” al primo posto dei loro programmi.
Gli Usa aumentarono del 900% gli aiuti militari al governo colombiano e lo costrinsero a fare sul serio, soprattutto a  usare l’arma dell’estradi-zione, l’unico spauracchio per  i mafiosi, che da sempre dichiaravano: “E'  meglio una tomba in Colombia che una cella negli Stati Uniti”.
Iniziò la vera caccia a Escobar e agli altri capi del cartello di Medellìn. I boss si sentirono ancora una volta traditi: dopo avere finanziato e parte-cipato alla “guerra sporca” contro la sovversione credevano di meritare ben altro. Al contrario, vennero loro addebitati tutti gli omicidi at-tuati nel paese, non solo di giudici e poliziotti, ma anche delle centinaia di militanti di sinistra che continuavano ad essere sterminati un pò ovunque.
Una parte dello Stato, che non era coinvolta nel progetto paramilitare, cominciò a indagare sulle “trame oscure” colombiane. Scoprirono carichi di armi, istruttori e mercenari israeliani e inglesi, i campi di addestra-mento, le  fosse comuni. Ovviamente tutte le colpe ricaddero soltanto su una delle componenti del paramilitarismo: i narcos.
Escobar, preoccupato per la brutta piega presa dagli avvenimenti, iniziò una trattativa segreta con alte personalità statali: offriva lo smantella-mento dei laboratori di raffinazione e la consegna di tutte le armi in cambio della fine di ogni operazione di polizia e della dichiarazione di in-costituzionalità dell’estradizione. Erano però i tempi meno adatti per un simile negoziato: George Bush stava per lanciare i marines a invadere Panamà per arrestare il generale Antonio Noriega, ex collaboratore della CIA trasformato  improvvisamente in dittatore criminale e narcotraffi-cante.
A spazzare via qualunque ipotesi di trattativa fu l’assassinio di Luis Carlos Galàn, il candidato presidenziale liberale, avvenuto il 18 agosto 1989, durante un comizio elettorale nella periferia di Bogotà: un omici-dio che venne immediatamente attribuito a Escobar e soci, anche se dopo tanti anni è generalizzato il sospetto che si sia trattato del più classico “delitto di stato”, rimasto ovviamente impunito. Di provato c’è solo la montatura fatta dai capi della polizia nazionale,  con prove false e testimoni comprati, per incastrare degli innocenti, che sono stati liberati dopo quattro anni di carcere. La morte di Gàlan scatenò la guerra in Colombia.
Da quel 18 agosto fino al 15 dicembre, quando venne ammazzato il nu-mero 2 del cartello di Medellìn, il fanatico anti-comunista Gonzalo Rodrìguez Gacha, detto “El Mexicano”, il paese piombò nel caos. Quasi ogni giorno venivano organizzate clamorose retate dell’esercito (che era stato mandato a combattere i narcos, nonostante i mugugni dei suoi ge-nerali), e realizzati terribili attentati della mafia di cui i più clamorosi furono ai danni di un aereo in volo(107 morti) e di un co-mando di polizia a Bogotà (80 morti).
Pochi giorni dopo l’uccisione di Rodrìguez Gacha, i marines invasero Panamà e qualcuno del Dipartimento di Stato nordamericano, nell’eufo-ria della “vittoria”,  minacciò di invadere anche  la Colombia per annien-tare completamente  i narcotrafficanti, provocando un levata di scudi nazionalista nel paese latinoamericano.
Impauriti dalla caccia scatenata dallo Stato, cominciarono ad arrendersi molti narcos. I primi furono i tre fratelli Ochoa, appartenenti alla cupola del cartello di Medellìn. Anche Escobar propose di consegnarsi alle au-torità se gli fosse stata garantita la non estradizione negli Stati Uniti. Capiva di essersi fatto troppi nemici: lo Stato nel suo complesso, soprat-tutto i capi delle varie polizie che lo odiavano per la guerra in atto a Medellìn (nel 1991 si contarono in città quasi 6mila omicidi), i paramili-tari di estrema destra che non lo giudicavano un anti-comunista come il defunto  Rodrìguez Gacha, la DEA e la CIA, e soprattutto i narcotrafficanti di Cali, cresciuti nell’ombra, raffinati, intelligenti, lungimiranti, perfetta-mente integrati col potere politico e economico della loro città.
Nella primavera 1990 vennero ammazzati  i due candidati  presidenziali della sinistra, Bernardo Jaramillo dell’Uniòn Patriòtica e Carlos Pizarro del gruppo M-19, che da pochi mesi aveva abbandonato  le armi. Le autorità, come al solito,  incolparono Escobar, che negò sdegnato.  Jaramillo venne ucciso nella sala d’attesa dell’aeroporto di Bogotà, Pizarro addirittura su un aereo di linea in volo: la polizia non riuscì mai a spiegare come fu possibile per i sicari far passare le armi, evitando i controlli particolarmente severi in  quel periodo.
Le elezioni vennero vinte dal liberale Cèsar Gaviria, uno dei pochi candidati sopravvissuti.
La farsa e la tragedia
Così com’era cominciata la guerra finì. Non perchè fosse terminato il traffico di droga, che anzi dimostrava una totale autonomia dalle alterne fortune dei boss. E  nemmeno perchè fossero stati smantellati i cartelli.  Ma semplicemente perchè gli USA avevano scoperto un nuovo nemico, pericoloso quasi quanto il comunismo: il presidente irakeno Saddam Hussein che, ai primi di agosto del 1990 aveva spedito i suoi carri armati a invadere il Kuwait e  i suoi pozzi di petrolio.
Senza il fiato di Bush sul collo, la Colombia decise di farla finita con la guerra. Il 16 agosto, nove giorni dopo l’insediamento a Palacio Nariño del nuovo presidente Cèsar Gaviria, un tribunale nordamericano assolveva il sindaco di Washington, Marion Barry, scoperto a fumare il terribile “crack”. Per Gaviria era la migliore delle notizie possibili,  la giustifica-zione morale agli accordi di là da venire, palesi e segreti, con i mafiosi. Il governo offrì a Escobar rilevanti sconti di pena in cambio della sua resa. Il Congresso Costituente, votato nel dicembre 1990, sancì, un po' per convinzione, un po' a causa dei ricatti mafiosi, l’incostituzionalità dell’estradizione.
Escobar si costituì dopo mesi di trattativa, il 19 giugno 1991. Era rag-giante. Sapeva di avere prenotato per sè e per una quindicina di suoi luogotenenti un “hotel a cinque stelle”, dove poteva entrare di tutto, dalle armi alla droga, dalle giovanissime prostitute agli amici (solo nei primi due mesi vennero a visitarlo 308 persone, tra i quali il famoso portiere della nazionale Renè Higuita). Dalla Catedral  poteva control-lare  perfettamente i suoi affari disponendo di decine di linee telefoni-che, fax e computer.
Il colmo era che la sua prigione era stata costruita su un terreno di sua proprietà: Escobar riceveva quindi un regolare affitto dallo Stato colombiano.
Dopo qualche mese si cominciò a parlare delle vasche di idromassaggio, delle sale di biliardo e di festini porno.
Agli inizi del 1992 presero a passare a bassa quota sulla dimora di don Pablo aerei della DEA. Escobar non si sentiva più sicuro nemmeno nel suo carcere.
Vinta la guerra con Saddam, gli USA erano ritornati ad occuparsi del loro “cortile di casa”. Nè a loro, nè ai tantissimi nemici colombiani di Escobar, andava giù quella detenzione da barzelletta.
Nel maggio 1992 circolarono voci su presunti processi ed esecuzioni di traditori del cartello avvenuti dentro il recinto della Catedral. Per il presidente Cèsar Gaviria fu impossibile continuare a fare finta di niente. Il 21 luglio ordinò il trasferimento di Escobar e dei suoi uomini in un carcere vero. Mille soldati circondarono il piccolo edificio, ma non riusci-rono ad impedire la fuga dei delinquenti. Qualche porzione di pasta-sciutta ed una valigia piena di pesos (non ci fu neppure bisogno di spre-care dollari) bastarono a corrompere un gruppetto di militari di guar-dia al boss.
Il mondo rise di Cèsar Gaviria e della Colombia. La Casa Bianca non rise affatto, ma minacciò sanzioni e impose la linea dura. Venne organizzata la più feroce caccia mai fatta ad un uomo. Per catturare Escobar fu costituito un esercito di oltre  2mila rangers, chiamato “Bloque de Bùsqueda”. Sulla testa del  boss venne messa una taglia mi-liardaria. In Colombia arrivarono mercenari e bounty-killer da tutto il mondo. E per non lasciare niente di intentato venne creato un gruppo clandestino parallelo, “Los Pepes”,  formato da ufficiali di polizia, para-militari e delinquenti del cartello di Cali,  che si specializzò negli omicidi di avvocati, familiari e  amici di Escobar.  Ovviamente le autorità dice-vano  di condannare “Los Pepes”, ma non potevano che apprezzare l’effi-cacia del loro lavoro.  Nonostante tutto Escobar pareva inafferrabile.
Nella primavera del 1993 scoppiarono micidiali autobombe a Bogotà che fecero decine di morti. Governo e giornali diedero la colpa a Escobar.  Gli attentati ebbero l’unico effetto di bloccare le nuove trattative per la resa del boss che alcuni suoi avvocati stavano intessendo da mesi col Fiscal General, la massima autorità giudiziaria del paese. Era l’obiettivo  di tutti quelli che volevano Escobar morto: i vertici delle varie polizie, la DEA e la CIA, i mafiosi di Cali.
Il 2 dicembre 1993, un aereo-spia USA intercettò una telefonata di Escobar che stava protestando, da un appartamento di un quertiere popolare di Medellìn, contro la mancata concessione del visto di en-trata in Germania alla moglie ed ai suoi due figli. La caccia era finita: il boss venne ucciso insieme ad una sua guardia del  corpo da un com-mando di rangers. Al suo funerale parteciparono, nonostante il coprifuoco, decine di migliaia di per-sone.
La grande illusione
Il paese tirò un sospiro di sollievo. Ma le illusioni provocate dalla morte di Escobar durarono poco. Il governo di Washington dichiarò subito che la “guerra alla droga” non era finita, e per questo chiese la  rein-troduzione dell’estradizione e invitò bruscamente il presidente Gaviria a inviare il “Bloque de Bùsqueda” a Cali per distruggere il locale car-tello. Vennero sbandierati vecchi e nuovi rapporti della DEA, dai quali risultava che la mafia comandata da Gilberto Rodrìguez Orejuela era responsabile dell’80% del commercio della cocaina mondiale e si stava ac-caparrando anche una fetta importante di quello dell’eroina.
Gli astutissimi narcotrafficanti di Cali,  gente discreta che ha sempre preferito corrompere i potenti piuttosto che ammazzarli, risposero chie-dendo la “formula Escobar”: ampi sconti di pena in cambio della resa.  Lo Stato sembrò aver dimenticato il contributo che loro avevano dato alla caccia e all’eliminazione di Pablo Escobar. E an-che quelli di Cali si dissero traditi.
La patata bollente passò comunque da Cèsar Gaviria, alla scadenza del suo mandato, all’altro liberale Ernesto Samper, eletto presidente della Repubblica  nella primavera del 1994 con poco di più del 50% dei voti espressi (e cioè raccogliendo,  all’incirca, il favore del 15% dei co-lombiani).
 Ma sin dal giorno successivo al voto, Samper si è mostrato un presidente debolissimo per il sospetto, via via sempre più provato, che egli avesse ri-cevuto un cospicuo finanziamento elettorale proprio dai boss di Cali.  Ciò ha generato un’ondata di accuse che si è riversata anche sui collaboratori di Samper, mandando in galera per un paio d’anni, tra gli altri, il ministro della Difesa Fernando Botero, figlio dell’omonimo famoso pittore e scultore.
Ad ogni modo, la guerra a “los caleños” è stata portata avanti nel più assoluto scetticismo di un’opinione pubblica abituata a vedere trattati coi guanti i boss in doppiopetto. Durante il1995 sono stati arrestati quasi tutti i capi del cartello di Cali, a cominciare da Gilberto Rodrìguez Orejuela, tanto astuto e intelligente da essere chiamato “Lo Scacchista”.
La guerra ai narcos di Cali rivela, ancora più di quella al cartello di Medellìn, il grado di corruzione esistente in Colombia: la gran parte dei giudici e dei poliziotti della capitale del dipartimento del Valle è stata rimossa dal suo incarico proprio perchè sospettata di collusione con la mafia.
L’incredibile scandalo dei finanziamenti mafiosi nell’ultima campagna elettorale ha condizionato tutta l’ultima presidenza di Ernesto Samper, che si avvia ad essere la più sanguinosa e antipopolare degli ultimi decenni.

(tratto da “Colombia” di Guido Piccoli -Clup edizioni).
 


 
 
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