Oggi, mercoledì 22 gennaio 1997, la Corte di Cassazione giudica
il ricorso del processo per l'omicidio del commissario Calabresi, commesso
a Milano il 17 maggio del 1972, quasi venticinque anni fa. Quasi nove anni
fa è cominciata questa vicissitudine giudiziaria, con la "confessione"
e la chiamata di correo di Leonardo Marino. Quello di oggi è il
settimo giudizio nel processo: se la condanna fosse confermata, sarebbe
l'ultimo. Sofri, Bompressi e Pietrostefani andrebbero in carcere per ventidue
anni. Marino è fuori dal processo: per lui è stata da tempo
pronunciata la prescrizione del reato.
Il primo processo si concluse con la condanna, confermata nel processo
d'appello (Sofri, che aveva deciso di non ricorrere in appello, fu coinvolto
nei giudizi ulteriori per "trascinamento" della posizione dei
coimputati). Le Sezioni Unite della Suprema Corte di Cassazione annullarono
nel 1992 la condanna, rinviando la causa alla seconda Corte d'Assise d'Appello
di Milano. Qui, il nuovo dibattimento si concluse con l'assoluzione di
tutti gli imputati (Marino compreso). Il giudice relatore, che aveva verbalizzato
il proprio contrasto con la sentenza, volle tuttavia stendere le motivazioni
della sentenza stessa, e lo fece con la deliberata intenzione di renderla
così incongrua e contraddittoria da provocarne l'annullamento in
Cassazione. Il giudice si chiama Ferdinando Pincione, la sentenza fu unanimemente
definita "suicida". La Prima Sezione della Cassazione l'annullò,
rinviando a un nuovo Appello, alla Terza Corte d'Assise d'Appello milanese.
Qui, nel sesto giudizio, si arrivò a una nuova condanna: è
il verdetto che viene preso oggi in esamei.
QUESTA PUBBLICAZIONE
Un gruppo di persone solidali con Adriano Sofri, Ovidio Bompressi e
Giorgio Pietrostefani, ha chiesto al quotidiano Il Foglio di acquistare
un inserto speciale nel quale pubblicare, coi tagli imposti dallo spazio,
le note scritte da Adriano Sofri sulla sentenza del terzo appello milanese.
Queste note furono scritte nello scorso aprile, immediatamente dopo il
deposito della motivazione della condanna, redatta dal Presidente della
Corte milanese, Giangiacomo Della Torre. Esse circolarono allora in modo
privato, e vennero d'altra parte allegate ai motivi di ricorso presentati
in Cassazione dalla difesa di Sofri. Pensiamo che sia utile a tutti avere,
in una scadenza così drammatica, il termine di confronto offerto
da questi appunti.
Naturalmente, essi sono parziali, e richiedono di essere integrati dalla
conoscenza dei precedenti, soprattutto in un caso così complesso
e annoso. Gli stessi testi di Sofri, pubblicati, come la Memoria al primo
processo (Sellerio 1990) e quella alle Sezioni Unite della Cassazione ("Il
futuro anteriore. Come si scrivono le sentenze", Millelire 1992),
possono servire a questo fine; così come altre pubblicazioni, a
cominciare dal saggio di Carlo Ginzburg, "Il giudice e lo storico",
Einaudi 1991.
L'INDAGINE A BRESCIA SULLE VIOLAZIONI TESE A IMPORRE LA CONDANNA
In apertura dei suoi appunti, Sofri ricordava di aver denunciato le
violazioni commesse nell'ultimo processo, di cui era venuto a conoscenza;
e segnalava un legame di successione non solo cronologica, ma anche logica
e causale, fra la "sentenza suicida" che aveva voluto annullare
l'assoluzione nel processo d'appello precedente, e la condanna pregiudiziale
che aveva concluso l'ultimo processo d'appello. Sofri scriveva di aver
presentato la denuncia nelle sedi appropriate, e di non voler parlarne
se non una volta che fosse stata presa in esame in quelle sedi. Si trattava
in particolare della denuncia contro il Presidente Della Torre, accusato
di aver espresso la propria intenzione di condanna prima e fuori della
sede giudiziaria, e di aver svolto illecitamente pressioni per incitare
alla condanna membri non togati del collegio giudicante prima dell'apertura
del dibattimento, nel suo corso, e durante lo svolgimento della Camera
di Consiglio finale. La denuncia circostanziata veniva trasmessa per competenza
alla Procura di Brescia, dove il Sostituto Fabio Salamone apriva un'indagine
formale, indagine tuttora in corso. Nel frattempo, inchieste giornalistiche
-soprattutto gli articoli scritti per il Corriere della Sera da Gian Antonio
Stella- rivelavano l'esistenza di testimoni e giudici popolari che confermavano
circostanziatamente il contenuto della denuncia di Sofri. Inoltre emergeva,
attraverso inchieste giornalistiche, che il Presidente Della Torre era
stato oggetto di un procedimento giudiziario a Bergamo per dubbi rapporti
con persone della malavita organizzata di cui era stato giudice, che il
procedimento era stato frettolosamente (e arbitrariamente, dovendo essere
trasmesso anch'esso a Brescia) archiviato a Bergamo, e che era comunque
valso al magistrato una sanzione di incompatibilità da parte del
Consiglio Superiore della Magistratura.
L'indagine bresciana si estendeva alla questione della "sentenza suicida",
per la quale Sofri ha fornito elementi altrettanto circostanziati di prova
del deliberato tradimento, nella motivazione della sentenza, della volontà
espressa dal collegio giudicante e conclusa con l'assoluzione di tutti
gli imputati.
Il giudizio della Cassazione si svolge dunque oggi mentre è aperta
l'inchiesta bresciana, in una situazione drammatica quanto paradossale.
Un altro procedimento si è aperto dopo che la buriana estiva sulla
scia dell'inchiesta sull'omicidio Rostagno ha portato alla luce un documento
allegato agli atti di quell'inchiesta nel 1992. In esso il capitano dei
carabinieri del Ros di Trapani, Dell'Anna, riferiva di aver ricevuto dal
giudice Lombardi Giudice Istruttore per l'omicidio Calabresi
rivelazioni riservate sulla responsabilità di "Lotta Continua"
nell'omicidio Rostagno. Denunciato da Sofri, il documento, all'origine
di una sequela di ignobili insinuazioni, si dimostrò immediatamente
un falso fabbricato dolosamente.
I gruppi di informazione e solidarietà con gli imputati del processo Calabresi
PROMEMORIA SU UNA SENTENZA
di Adriano Sofri
DALLA "SENTENZA SUICIDA" ALLA CONDANNA PRECONFEZIONATA
Queste note hanno una premessa essenziale: la sentenza qui discussa era stata deliberata prima ancora che si aprisse il processo. Ho avanzato e argomentato questa gravissima denuncia nelle sedi che ritenevo proprie, e la renderò pubblica a tempo debito. Qui la richiamo solo perchè essa è la chiave di lettura decisiva delle intere motivazioni, che, lungi dal costituire i motivi che precedono e spiegano la condanna, le tengono dietro, cercando di fornirle il pretesto e la giustificazione a posteriori. Si ricordi che se a questa sesta sentenza si è arrivati, è perchè il verdetto del precedente processo d'appello, di assoluzione piena per tutti gli imputati, Marino compreso, è stato slealmente tradito e rovesciato nelle motivazioni "suicide" redatte da un giudice togato al fine deliberato di provocare l'annullamento in Cassazione. Dunque la condanna precostituita dell'ultimo processo compie e perfeziona il lavoro inaugurato dalla sentenza suicida del precedente.
LE LINEE DI FONDO DELLA SENTENZA
Questa sentenza è, per il nostro caso, la sesta. La sua prima
caratteristica è di tornare, come in un gioco dell'oca coi dadi
truccati, alla casella di partenza. Alla casella di partenza noi eravamo
già condannati. Il fondamento della condanna era la beatificazione
dell'unica pretesa fonte di prova, il "pentito" Marino. Di lui
si diceva che non era un chiamante in correità come altri, ma un
unico, un esempio senza pari di conversione morale e di ansia di espiazione.
Questa sentenza torna a quella indebita esaltazione morale di Marino, e
la spinge fino alla superstiziosa e fanatica attribuzione di un'accusa,
che andava pesata col codice penale, ai "duemila anni di cristianità
del nostro paese", all'influenza benefica di una "famiglia tradizionale"
e di un'"istruzione salesiana".
Una simile premessa, insistita e roboante (fino all'impiego, questo senza
precedenti, della parola: mistica), esenta il giudice dal prendere in serio
esame prove e confutazioni. I fatti sono verificati o falsificati dalla
parola del "pentito", non viceversa. Questo è esplicitamente
enunciato, anche per quelle circostanze -l'esecuzione del delitto, i rapporti
di polizia contemporanei, le testimonianze raccolte nell'immediatezza degli
eventi- che dovrebbero considerarsi obiettive.
Allo stesso modo, una universale e aprioristica invalidazione tocca a tutti
i testimoni contrari o scomodi per l'accusa. Dei testimoni del fatto si
dà per scontata l'inaffidabilità "fisiologica"
dovuta allo choc, all'emozione, o all'insipienza. Dei testimoni delle difese
-decine di cittadini italiani di vario sesso, età, residenza e professione-
si dà per scontatissima l'inattendibilità, quando non la
falsità esplicita, dovute alla loro simpatia per gli imputati e
per le idee che un giorno professarono. Con ciò è soppressa
la nozione stessa di testimone.
Come già altre sentenze, pur non avendo osato imputare formalmente
a Lotta Continua una responsabilità collettiva, associativa -e anzi
averla apertamente esclusa- la sentenza dà, arbitrariamente e illegalmente,
per scontata la responsabilità dell'Esecutivo Nazionale di Lotta
Continua nella decisione dell'omicidio. Ciò le consente oltretutto
di fabbricare una successione logica e giudiziaria che va dall'Esecutivo,
alla costituzione di una struttura clandestina organica da esso dipendente,
a una serie di rapine come attività precipua di quella struttura,
all'omicidio come sbocco di quell'attività.
La sentenza pullula di strafalcioni, a volte davvero madornali, che saranno
indicati partitamente. Inoltre manipola rozzamente le contraddizioni più
clamorose del processo, contro ogni logica indotta dallo svolgersi delle
cose, e con un ricorso impudente alla tautologia. "Perchè sì"
-è il suo motto. Così facendo, irride le considerazioni e
raccomandazioni delle Sezioni Unite, che pure fa mostra di richiamare.
La sentenza ignora spesso del tutto, e deforma sempre, gli argomenti difensivi
riguardanti le posizioni dei singoli imputati, che diventano una mera appendice
automatica del credito stentoreamente concesso a Marino. I testimoni e
le prove interne a proposito del preteso colloquio fra me e Marino alla
fine del comizio pisano, che avevano costituito un ostacolo insormontabile
per l'accusa -la quale ha dovuto reimpastare da capo a fondo la propria
tesi in aula, e ricorrere ad espedienti artificiosi in sentenza, come nella
"sentenza suicida", che aveva scelto la via di non passare nemmeno
all'esame delle posizioni singole- sono qui grottescamente contraffatti,
o addirittura neanche nominati.
Nella sua conclusione, dovendo motivare il rifiuto opposto alla richiesta
subordinata di una difesa di riconoscere la prevalenza delle attenuanti
sulle aggravanti, la sentenza si è spinta a vergare un giudizio
sprezzante sull'intera condotta di vita degli imputati, che non solo è
vergognoso, ma corrisponde alla progressiva essenza di questa tormentosa
vicenda processuale: la denigrazione civile e personale degli imputati,
della loro storia passata e della loro identità presente.
SAN MARINO
Il primo punto di rilievo riguarda la "genuinità e spontaneità
della confessione di Leonardo Marino", rispetto alla quale la sentenza
simula, senza neanche mascherare l'intento strafottente, di seguire "le
precise indicazioni della Suprema Corte" a proposito dell'esame "non
compiutamente eseguito dai primi Giudici" e gli "aspetti ambigui...
non adeguatamente approfonditi" della confessione. (Pp.116 segg.)
Recedendo dalle ebbrezze della prima sentenza d'appello, che si era spinta
fino a proclamare dimostrata la colpevolezza degli imputati a prescindere
dall'accusa di Marino (!), la sentenza scrive (p.118):
"Va' [sic!] ribadito e sottolineato che l'accusa... trova la sua prima
fonte di prova nella confessione e nelle accuse di Leonardo Marino, sicchè
oggetto del giudizio non potranno che essere le sue dichiarazioni auto
ed etero assolutorie".
La sentenza procede poi escludendo l'opportunità e la legittimità
di un'analisi della "personalità del confitente", con
argomenti condivisibili, salva una curiosa inversione. L'attendibilità
dell'accusa, dice la sentenza, non potrà mai riferirsi unicamente
alla personalità dell'accusatore, tant'è vero che dovrà
sempre essere sorretta da riscontri esterni. E' vero, a condizione che
non se ne faccia una ragione per ignorare o falsare quanto emerge sui comportamenti
e le motivazioni dell'accusatore. Se i riscontri esterni fossero prove
autosufficienti, non occorrerebbe altro: quando non lo sono affatto -com'è
ovviamente nel nostro caso- la conoscenza obiettiva, più che della
"personalità", di comportamenti -parole, azioni, rapporto
fra parole e azioni- dell'accusatore è rilevante. Soprattutto, è
impensabile che si faccia discendere da un'introspezione presunta della
"personalità" l'attendibilità dell'accusatore,
investito di una veridicità moralmente fondata. E' esattamente quello
che nel caso di Marino gli inquirenti hanno fatto, fin dall'esordio dell'indagine,
con l'unica interruzione segnata dai criteri illustrati nella sentenza
delle Sezioni Unite della Cassazione. Per questo come per altri punti essenziali,
la sentenza ultima -la sesta- torna alla casella di partenza e, dopo aver
speso molte frasi sull'inconoscibilità della personalità,
non senza cenni demagogici ripetuti al fatto che la povertà non
è causa di discredito personale (ci mancherebbe!) torna imperturbata
alla versione iniziale: Marino è un campione del pentimento sincero
e disinteressato, dettato dall'educazione cristiana e più esattamente
dalla "consuetudine con i Salesiani e con la Confessione" (sic!).
MARINO E IL DISINTERESSE
Per tornare alla beatificazione di Marino, la sentenza deve naturalmente
espungere, o fraintendere caricaturalmente, tutti gli elementi di fatto
-cioè non le illazioni psicologiche, bensì i comportamenti,
i rapporti concreti fra parole e azioni- che disturbano il quadro mistico.
A pag.121 la sentenza ha bensì scritto che:
"Ove emergessero dubbi che il soggetto possa essere una persona spinta
da scopi di guadagno, di rivalsa, di vendetta, l'indagine sulle motivazioni
e finalità della confessione e delle accuse avrebbe il massimo rilievo
e solleciterebbe il giudice all'esame degli specifici parametri dell'attendibilità,
ossia la spontaneità, il disinteresse, l'assenza di intenti calunniatori".
Ma l'ipotesi non dev'essere sembrata reale al giudice. Non una parola dedica
alla provata menzogna di Marino, che sostiene con gli inquirenti di avermi
cercato, nella seconda metà degli anni '80, per effondere con me
la pena e il rimorso per l'omicidio compiuto, salvo dover ammettere, una
volta che io l'abbia detto e provato, di essere venuto per chiedermi aiuto
finanziario (e averlo avuto). Non si trattava là di un'omissione
-che Marino avesse dimenticato di dire perchè mi avesse cercato-
bensì di un'inversione piena della verità, al fine di calunniarmi,
facendomi passare per cinico e brutale ("Mi disse di seppellirmi i
rimorsi nella coscienza"...). L'ignoranza di questo episodio, che
avevo puntigliosamente illustrato, mostrando la successione cronologica
e logica degli "aggiustamenti" di Marino, non può essere
casuale. Essa è resa ancora più indecente dall'insistenza
con cui ennesimamente io vengo citato contro me stesso, a proposito delle
frasi benigne su Marino e il suo disinteresse, da me pronunciate durante
il primo (e ultimo) interrogatorio in istruttoria -inizio agosto dell'88,
otto anni fa!- quando ancora niente di questa mostruosa fabbrica di denigrazione
era affiorato. Per esempio, appunto, la versione falsa e calunniosa che
Marino aveva dato delle ragioni dei nostri incontri, del suo interesse
al denaro, del disinteresse del mio aiuto, e del suo carattere pubblico
e sereno. Sentite con che sublime indulgenza, a p.479, la sentenza descriverà
la cosa:
"Si sostiene che Marino non volesse parlare di politica, ma di aiuti
economici ed in effetti Marino dopo le precisazioni di Sofri, ha subito
ammesso di averlo avvicinato due volte per ottenere un finanziamento...
In ogni caso nessuna deduzione contro la credibilità del confitente
si potrebbe trarre da un'affermata sua reticenza sugli ultimi contatti
con Sofri".
Che non di reticenza, ma di falso a fini di calunnia -volevo parlargli
di rimorsi, lui mi rigettò cinicamente- si trattasse, solo il giudice
non vede. Le stesse considerazioni valgono quanto all'assenza di "scopi
di rivalsa o di vendetta": nessuna menzione fa la sentenza di frasi
messe a verbale da Marino nei suoi primi interrogatori, assurde per il
contenuto quanto eloquenti per il livore e il risentimento.
Nel primo verbale, Marino (o chi per lui) disse:
"[Bompressi] come me fu uno strumento nelle mani di coloro che come
Sofri Pietrostefani e gli altri dell'Esecutivo Politico indirizzavano decine
e decine di giovani verso gravissime azioni delittuose, ponendo le premesse
per una situazione generale che s'è poi aggravata e ampliata con
la nascita di formazioni eversive di estrema pericolosità ed in
particolare Brigate Rosse e Prima Linea, confluendo nelle prime molti militanti
di Lotta Continua ed essendo la seconda una specifica derivazione della
nostra organizzazione".
Ignobilmente false, queste frasi sono traboccanti di un odio livido e calunnioso.
UNA PERSONA NON RICERCATA
C'è un altro punto che la sentenza si guarda bene dal considerare. Essa fa come se il problema si riducesse a quello di spiegare come mai una persona incensurata e non ricercata -anzi, per usare il linguaggio grottescamente idilliaco della sentenza, di vita tranquilla e onorata...- si induca ad accusarsi e accusare di un delitto grave, a rischio di conseguenze terribili. Ma è del tutto improbabile che le cose stiano così, come ho argomentato assai ragionevolmente: senza perciò guadagnarmi l'attenzione dei giudici.
QUANDO I PEDINATORI SI RIVELARONO CARABINIERI
Il colpo di scena più clamoroso del primo processo fu l'incidente,
durante l'interrogatorio del parroco di Bocca di Magra, che costrinse la
Corte a convocare i carabinieri che avevano incontrato Marino, dal maresciallo
locale al capitano della Spezia al colonnello di Milano, e a far loro dire
che i contatti con Marino non erano cominciati, come fino allora -dunque
per oltre un anno- si era sostenuto, il 21 luglio del 1988, bensì
il 2 luglio: venti giorni di contatti stretti, di incontri notturni, taciuti
e non verbalizzati. (Ce n'era abbastanza per invalidare l'intero processo:
ma il Presidente si incaricò di rattopparlo impudentemente).
L'episodio mostrava una pervicace capacità di menzogna di Marino
- che aveva cominciato la sua deposizione in aula proprio confermando "i
tempi e le modalità" dei suoi rapporti coi carabinieri; mostrava
l'adesione a quella menzogna da parte dei carabinieri, che avevano almeno
omesso di dire a quando effettivamente risalissero i loro rapporti con
Marino, e come si fossero svolti; mostrava la copertura di quella menzogna
da parte del Pubblico Ministero, Pomarici, che per di più aveva
dapprima dichiarato di non averne saputo niente. Tutto questo faceva intravvedere
uno sfondo torbido e manipolato all'origine della "confessione"
di Marino, inficiandone la pretesa "spontaneità". Ma,
come rilevai subito, ricevendone in seguito ulteriori conferme, faceva
soprattutto immaginare un itinerario ben diverso da quello ufficiale, secondo
cui Marino era andato dai carabinieri: i carabinieri erano andati da Marino.
Nel qual caso, tutto quello che Marino aveva progressivamente detto, apparteneva
a una persona messa alle strette.
NON E' MARINO CHE VA DAI CARABINIERI, MA I CARABINIERI DA MARINO
Una possibilità era che Marino fosse stato colto sul fatto di
una di quelle imprese, come le rapine a scopo di lucro privato, che avrebbe
poi confessato, e per le quali sarebbe stato processato: compresa una,
l'ultima -a suo dire, almeno- nel 1987 inoltrato, cioè a ridosso
dell'esplosione del "caso Calabresi", e nel pieno della sua pretesa
crisi spirituale. (Memorabile la giustificazione che di quella partecipazione
alla rapina nel 1987 Marino formulò al Giudice Istruttore: "La
rapina avrebbe dovuto fruttare un bottino ingente, nell'ordine di circa
800 milioni, di cui 100 erano stati promessi a me; io mi ero lasciato coinvolgere
perchè in quel periodo versavo in difficile situazione economica").
Ma non era affatto necessario rifarsi a una simile genesi della "confessione",
peraltro plausibile. C'erano indizi nitidissimi di un altro itinerario
possibile. Marino, sempre in cerca di soldi e appoggi, era andato a parlare,
in quanto iscritto al Pci, con l'ex-senatore della zona, e vicesindaco
comunista di La Spezia, Bertone, al quale aveva raccontato a suo modo i
propri trascorsi politico-illegali in Lotta Continua. La convivente di
Marino, Antonia Bistolfi, era andata a sua volta, l'anno prima, a parlare
con un avvocato spezzino, Zolezzi, consigliere comunale e dunque collega,
oltre che amico personale, di Bertone. I due, del tutto inverosimilmente,
dissero di non essersi parlati dei reciproci incontri. Bertone cercò
di evitare di comparire -anche dopo che io l'ebbi fatto interpellare per
richiederne la testimonianza- e Marino si sforzò a sua volta tenacemente
di evitare di farne il nome: che feci io, cosicchè il tribunale
lo convocò. Questo avvenne un anno e mezzo più tardi.
MARIS E BERTONE
A distanza di tempo, emerse anche che Bertone, già collega, oltre
che di partito, di senato del difensore di Marino, Maris, si era consultato
con lui fin dall'inizio: cosa che Maris aveva negato sdegnatamente quando
l'avevo denunciata. Ricostruisco sommariamente questo desolante capitolo.
Io avevo saputo del colloquio fra Marino e Bertone da due fonti: i giornali
locali dello spezzino, che ne avevano accennato poco dopo il nostro arresto;
e, indirettamente, dal figlio stesso di Bertone, che ne aveva parlato con
persone del luogo. Al dibattimento di primo grado, alla fine dell'udienza
in cui Marino si era tenacemente rifiutato di farne il nome, avevo io nominato
Bertone, che fu così escusso. Durante la deposizione di Bertone,
alla mia difesa che chiedeva se ci fossero stati contatti fra Maris e Bertone,
Maris replicò gridando frasi come: "Si spara alle spalle e
si calunnia. Questo è il sistema difensivo". Alla fine dell'udienza,
quando gli domandai se fosse vero o no che aveva avuto contatti telefonici
con Bertone, Maris rispose: "A Sofri dico che la sua è un'organizzazione
di spionaggio e di prevaricazione dei testi. Li porti in aula, i suoi testimoni"
(Cito dal Corriere della Sera, 27 gennaio 1990). Ebbene, quasi quattro
anni dopo, nel corso del quarto processo (il secondo d'appello) a Milano,
l'avv.Maris nella sua arringa dice testualmente: "Vi dirò una
cosa che forse è scorretta: io pregai Leonardo Marino di dire pure
che aveva fatto questa sua confidenza al parroco di Bocca di Magra ma di
non dire che aveva fatto questa confidenza a Bertone. Non mi piaceva. Non
mi piaceva, anche se Bertone aveva informato altre persone, preferivo lasciarlo
fuori da questa vicenda". Ne fui esterrefatto. Nel 1994 Maris dice
disinvoltamente che quello che lui e Bertone hanno detto, fuori e dentro
il processo, era falso: e, difendendo quella bugia, mi aveva accusato di
essere un calunniatore e uno sparatore alle spalle, un titolare di reti
di spionaggio eccetera! La verità dunque è che Maris non
si limitò a tacere di essere stato a conoscenza del precedente Marino-Bertone,
ma suggerì addirittura a Marino di occultarlo. Non gli piaceva":
ma perchè? La risposta è ovvia.
In tutto questo guazzabuglio di contatti e reticenze, del resto solo meschine,
ciò che contava era la spiegazione logicamente inevitabile, e perfino
ragionevole, se non fossero intervenuti silenzi e falsità a intorbidarla:
che Bertone, messo di fronte a racconti più o meno credibili, ma
comunque gravi e allarmanti (tanto più perchè provenienti
da un militante del suo partito, già addirittura segretario di una
sezione valdostana: tale era stato Marino negli anni precedenti, oltre
che rapinatore valligiano) avesse provveduto ad avvisare i carabinieri
che accertassero di che persona e di che storie si trattasse.
Perchè una cosa così normale avrebbe dovuto poi essere così
pervicacemente negata e contraffatta? Perchè essa ormai contrastava
stridentemente con la versione -ora appurata falsa- di Marino che, in preda
a un pentimento soverchiante, varcava la soglia della caserma dei carabinieri
del suo paese, per dire tutta la sua verità. Dunque, non Marino
che andava dai carabinieri, ma i carabinieri che andavano da Marino. E
non Marino che effondeva la propria verità in seno ai carabinieri
e al magistrato, bensì i carabinieri -compresi gli altissimi in
grado, e remotissimi dalla zona e dalle circostanze ufficialmente dichiarate,
come il colonnello Bonaventura- che lo interrogavano a più riprese,
in drammatici incontri notturni a Bocca di Magra e a Milano, non verbalizzati,
e senza l'intervento del giudice istruttore da anni incaricato dell'indagine
sull'omicidio Calabresi.
QUELLO CHE NON SA ANTONIA, E QUELLO CHE NON SA MARINO
Non solo la sentenza che stiamo leggendo non considera questo intreccio di episodi, ma presenta l'incontro fra la Bistolfi e l'avv.Zolezzi, e quello fra Marino e l'ex sen.Bertone, tenendoli del tutto indipendenti, come autentici riscontri della verità e sincerità dell'accusatore, e dell'attendibilità della testimonianza della convivente. Quest'ultima non saprebbe niente della partecipazione di Marino, e tanto meno di Sofri e Pietrostefani, all'omicidio Calabresi, e va a sfogare presso lo sconosciuto avvocato lo spavento che le ha suscitato il fortuito incontro con Bompressi presso il Comune di Sarzana (nonostante che nel frattempo abbia in realtà incontrato Bompressi in una quantità di circostanze, gli abbia fatto visita a casa sua, sia andata a trovarlo nella libreria in cui lavorava, se ne sia avvalsa insieme a Marino come testimone a favore in una causa di lavoro eccetera)! E Marino, che sarebbe così affezionato a Bompressi da non riuscire a farne il nome ancora dopo aver accusato tutto e tutti, e storpiarlo in "Bompessi", o "Pombessi" (sic!) è andato, per suo conto e a insaputa della convivente, a confessarsi dal sen.Bertone facendogli i nomi di Sofri e Pietrostefani. Da sedici anni vivono sotto lo stesso tetto, con due figli in comune, una donna che ritiene di sapere che l'omicida di Calabresi è Bompressi, per aver così interpretato il cenno e la frase agitata di una sua antica ospite, e un uomo che di quell'omicidio è l'autista: a insaputa l'uno dell'altra, quindici anni dopo, lei va da un avvocato a fare il nome di Bompressi, lui va da un dirigente di partito a fare il nome di Sofri e Pietrostefani. Fantastico. E questo vaudeville è per la sentenza il duplice riscontro all'autenticità dell'accusa! Degli incroci, falsificazioni, smentite, reticenze che ho sommariamente rievocato sopra, la sentenza non fa parola.
COMPLOTTO? PEGGIO: LA CONGIURA DEL PARTITO PRESO E DELL'ERRORE
Se l'avesse fatto, avrebbe dovuto prendere atto di due cose essenziali. La prima, che non c'è nessun bisogno di invocare "complotti" per spiegare l'origine di un maligno garbuglio. La seconda, che comportamenti illeciti, reticenti, manipolatori, da parte di attori diversi, autorità pubbliche e inquirenti compresi, non hanno bisogno di essere spiegati evocando complotti, perchè basta a farlo la più imbattibile delle congiure, quella del partito preso e della difesa a oltranza dell'errore e del pregiudizio, una volta che se ne sia imboccata la strada.
IL DIAVOLO FA LE PENTOLE, MA NON I COPERCHI
Sento già l'obiezione: "Ma allora tu ipotizzi che i carabinieri
non abbiano detto la verità?"
Non lo ipotizzo affatto. Ne sono certo. E' successo. E' agli atti. I carabinieri
non hanno detto la verità per un anno e mezzo. Intanto Marino diceva
il falso, e i magistrati lo accreditavano perentoriamente, pur sapendo
essi stessi che mentiva. Che i carabinieri abbiano davvero creduto al racconto
cui sono approdati insieme a Marino (e, dopo di loro, alcuni magistrati),
è perfino probabile, ma non cambia in niente la questione.
I carabinieri sono autorizzati a difendersi dicendo: "Nessuno ci ha
mai chiesto come fossero andate davvero le cose"? No. Erano tenuti
a dirlo, formalmente, fin dal primo momento. Che non l'abbiano fatto, contribuisce
a rendere insoddisfacente la loro versione tardiva. Quella versione è
venuta, ripetiamolo, loro malgrado; e non perchè il Presidente nel
primo grado, Minale, abbia voluto lui accertare la verità, ma perchè
gli è capitato un incidente non voluto. Durante l'interrogatorio
del parroco di Bocca di Magra, ha cercato di fargli dire che aveva notato
individui sospetti che controllavano la casa di Marino: nelle intenzioni
del Presidente, sarebbero stati i compagni e fautori di imprese criminali
che ricattavano e minacciavano Marino. Il parroco rispose energicamente
di sì, che li aveva notati, e ben prima della data ufficiale della
"confessione" di Marino: e che li aveva identificati -precisò
con orgoglio- come carabinieri in borghese!
Il diavolo, infatti, fa le pentole, ma non i coperchi.
A PROPOSITO: DUECENTO MILIONI
So da fonte certa, benchè non possa provarlo, che Marino ricevette nel primo periodo della sua "collaborazione" la somma di duecento milioni. Lo dico, benchè non possa provarlo: carabinieri e magistrati che si ritenessero offesi da questa notizia possono loro denunciarmi.
MANLIO MINALE, E LA QUESTIONE DELLA CARRIERA UNICA
Da allora in poi, il problema del Presidente fu di pilotare il processo fuori dal discredito di carabinieri e inquirenti. Quel Presidente, Manlio Minale, stava giudicando il suo ultimo processo: infatti, prima che il processo si aprisse, era stato destinato alla Procura milanese come Procuratore aggiunto. In quella veste, sarebbe diventato, all'indomani della sentenza, superiore e collega di quei magistrati della Procura, Pomarici in testa, che avevano condotto l'accusa in istruttoria e al dibattimento, e che si erano così massicciamente e vistosamente esposti contro gli imputati. Ecco un caso insuperabile di sovrapposizione viziosa dei ruoli tra magistratura d'accusa e giudicante. Qualsiasi cosa si pensi della separazione delle funzioni o delle carriere -io continuo a non aderire a nessuna idea generale- qui avemmo un esempio limite della confusione: un viceprocuratore capo in pectore che giudicava l'operato della propria imminente procura. Era così clamoroso che io non volli prendere in considerazione l'idea di far valere le ovvie obiezioni. Un giudice in una condizione simile, pensai, starà ancora più attento a salvaguardare la propria serenità e obiettività -"terzietà", si dice tecnicamente. Fu uno degli innumerevoli errori che ho commesso nel corso di questa vicenda.
LA FALSITA' E L'IPOCRISIA
Fuori e dentro del tribunale, io ho parlato molto francamente. Ho detto
di non avere mai avuto con Marino il colloquio di cui miserabilmente mi
accusa. Ho detto che mai alcuna istanza di Lotta Continua ha discusso,
e tanto meno deliberato, di uccidere Calabresi, o chiunque altri. Ho detto
che Marino mentiva sia accusando se stesso della partecipazione all'omicidio,
sia accusando gli altri.
Non ho mai detto che fossimo, noi allora, contrari politicamente al ricorso
alla violenza, nè che non gli fossimo personalmente disposti. Ho
detto il contrario. Non ho mai detto che l'attentato contro Calabresi non
potesse essere l'opera di militanti di sinistra: ho pensato, caso mai,
il contrario. E' grottesco che in questo ignobile processo, imperniato
su una doppia falsità -che in quell'atto ci fosse una responsabilità
politica di Lotta Continua, fino alla bravata, appena riconfermata da quest'ultima
sentenza, di ascriverlo a un voto a maggioranza nell'Esecutivo di Lotta
Continua; e che noi ne fossimo gli autori- mi sia sentito addebitare di
aver rinnegato o edulcorato la verità di quel che credevamo e facevamo
allora, nel momento stesso in cui all'opposto mi si rinfaccia, e mi si
vuol far pagare in soldo giudiziario, di non essermi dissociato dal me
stesso, e dai noi stessi, di allora. Fuori dal tribunale, queste pretese
possono dipendere solo da ignoranza, o da cattiva fede. Dentro, dipendono
dall'ambizione di condannare attraverso il codice penale un movimento politico.
CHIAMARSI GIORGIO DI FATTO...
Torniamo alla sentenza, e alla parte in cui essa simula di corrispondere
alla raccomandazione delle Sezioni Unite, di premettere l'esame della personalità
di Marino a quello dell'attendibilità intrinseca del suo racconto,
e dei riscontri esterni. La risposta, tautologica, è che "non
è consentito dedurre alcun elemento negativo concreto, rilevabile
dai suoi atteggiamenti, dalla sua vita anteatta sino al delitto, e successivamente
sino ad oggi, per affermare che egli è un mentitore...".(P.123)
Comincia qui una edulcorazione della vita di Marino che fa stropicciare
gli occhi al lettore. Vediamone il crescendo.
P.124: si ricorda, per la milionesima volta, che Marino stimava e ammirava
tanto Sofri e Pietrostefani da chiamare coi loro nomi i propri due figli.
Ma, per secondario che sia il dettaglio, la notizia è vera solo
a metà, come una quantità di testi, Marino compreso, ha spiegato
da anni: e cioè che il secondo figlio di Marino si chiama Giorgio
non per simpatia per Pietrostefani, ma del tutto indipendentemente, e precisamente
per amicizia con un torinese di nome Giorgio Merlo. L'equivoco -pittoresco:
i due figli coi nomi dei due mandanti...- segue la nostra storia dall'inizio,
dalle dichiarazioni dei carabinieri, e si ripete ciclicamente, ignorando
la smentita. Questa sentenza compie un piccolo capolavoro: prende in conto
la smentita, ma ripete lo stesso la storia, e sentite come:
"...Amici e compagni di ideali, due dei quali Sofri e Pietrostefani,
tanto stimati e ammirati, da aver chiamato il proprio primogenito Adriano,
e, di fatto, Giorgio il secondo, anche se a suo dire per motivi diversi
e non specificamente per Pietrostefani".
Dunque: benchè Marino non abbia chiamato suo figlio Giorgio per
Pietrostefani, di fatto suo figlio si chiama Giorgio. Conclusione della
sentenza: "Marino non è dunque malato di mente o mitomane".
Lui no, forse.
IL CONOSCITORE D'ANIME
P.125: viene citato il parroco di Bocca di Magra, Regolo Vincenzi. Costui è un pover'uomo, che venne in dibattimento, nel primo grado, e si coprì di ridicolo. Il Presidente non potè fare a meno di sottolinearlo, e anzi calcò la mano, ammonendolo contro le conseguenze di testimonianze false o impapocchiate, e arrivando -con pessimo gusto, peraltro- a rinfacciargli un atteggiamento siciliano-omertoso. Però i pasticci imprevedibili di don Regolo non gli impedirono appunto di introdurre per incidente nel processo la sconfessione della versione fino ad allora data sui tempi e i modi dell'incontro fra Marino e carabinieri. Si rilegga l'intero verbale della deposizione del parroco, per avere un'idea adeguata di questo caricaturale don Abbondio. E si legga ora la sentenza, che, per accreditare l'intimo travaglio di Marino ecc., scrive così: "Il parroco... certamente conoscitore di uomini in tale sua veste /l'abito fa il monaco, ndr/, non fosse altro che per il sistematico esercizio di confessore dei propri fedeli". Abbiamo qui due sciocchezze in una. La prima, la nobilitazione di un testimone viceversa confuso, contraddittorio e maldestramente furbesco. La seconda, l'attribuzione di una qualità positiva a un testimone grazie alla sua categoria, per così dire, professionale, nel nostro caso, di prete. Se ne tenga conto oltretutto quando ci si troverà di fronte alla sistematica e categorica svalutazione dei testimoni a difesa, o comunque sfavorevoli alla tesi di accusa, come "partigiani" o smemorati o mentalmente confusi.
DEL DENARO NON SI PARLA PROPRIO
A p.128 la sentenza ricapitola così i "sentimenti predominanti di Marino nella vicenda: il rimpianto, la delusione, il risentimento, il rimorso e il desiderio di catarsi". Intanto, non trova spazio in questo catalogo il disperato desiderio di denaro. Singolare omissione, per uno che, dovendo giustificare la propria partecipazione a una rapina nel bel mezzo del proprio preteso travaglio intimo, dichiara, come abbiamo visto, di "versare in difficile situazione economica". Per uno che a domanda risponde che, se avesse vinto alla lotteria, probabilmente avrebbe fatto a meno dei rimorsi. Per uno che dichiara di essere venuto a cercarmi per parlarmi dei suoi rimorsi, ed è falso, e non dice che è venuto per chiedermi aiuto finanziario, com'è vero e provato. Per uno di cui è documentato negli atti il comportamento scorretto, anche con le persone più benevole (vedi il caso Deichmann), per fame di soldi. Per uno che arriva a riferire, al processo, che la decisione finale di prendere la strada della caserma dei carabinieri gli viene da una richiesta di aumento dell'affitto. Dunque, senza essere particolarmente severi, sembra che fra i "sentimenti dominanti" di Marino si possa difficilmente omettere l'ossessione per il denaro.
DUEMILA ANNI DI PRATICA RELIGIOSA CRISTIANA
"I sentimenti di rimorso, e il desiderio di emenda, sono radicati nelle coscienze della nostra gente da duemila anni di pratica religiosa cristiana". (p.131) Ho detto del gioco dell'oca. Siamo tornati qui alla impudente retorica di otto anni fa, quando l'avvocato di Marino ne faceva il campione di "duemila anni di Eucaristia". La frase qui consacrata in una motivazione di sentenza è per sè vergognosa: alla "nostra gente" appartengono persone non cristiane, non credenti, o credenti in altre fedi; e le appartengono purtroppo anche i cattivi effetti di una fede cristiana malintesa. Le appartiene anche l'imprudenza fanatica di un giudice che premette alla motivazione di una iniqua sentenza di condanna in un tribunale dello stato l'accreditamento di un accusatore attraverso duemila anni di pratica religiosa cristiana! Tutto ciò è doppiamente blasfemo.
LA "FAMIGLIA TRADIZIONALE", I SALESIANI
Questi gli argomenti del giudice estensore: "Non si dimentichi
che egli è stato educato oltre che da una famiglia tradizionale
/sic!/ ed onesta quale interno in un Istituto dei Salesiani di Torino,
presso il quale ha compiuto gli studi sino alla terza media".
Vorremo commentare? E che idea ha codesto giudice della mia famiglia, e
dei miei studi? E di quelli dei miei coimputati? A quale altra storia "della
nostra gente" appartiene la nostra incallita criminalità?
A p.136, si torna alle "leggi dell'evoluzione psicologica", e
al lento affiorare del rimorso nella coscienza umana, "sotto la spinta
della morale, insita in ciascuna persona civile, per il vissuto secolare
di sentimenti religiosi, convincimenti etici, esempi famigliari, scolastici,
sociali". E (p.136) si conclude di nuovo:
"Si ricorda, ancora una volta, che il Marino è stato per anni
interno in un Istituto di Salesiani a Torino e ciò non può
che avere lasciato tracce indelebili sulla sua personalità morale".
E' lecito motivare così le sentenze?
IL "RIAVVICINAMENTO MISTICO"
A p.188, tornando al punto (la ripetizione tautologica è il meccanismo
retorico della sentenza, e sono costretto a rincorrerlo) la sentenza tocca
il cielo della mistica, e mostra definitivamente dove può arrivare
la confusione bigotta fra codice penale e apologetica confessionale.
"Per una persona come Marino, cresciuta e formata in un Istituto Religioso
dall'infanzia all'adolescenza, ossia presso i Salesiani di Torino, con
costante consuetudine alla confessione, non si può escludere anzi
è doveroso considerare anche un suo riavvicinamento di carattere
mistico, nella specie dimostrato dal suo contatto con il Parroco di Bocca
di Magra, Don Regolo Vincenzi e la frequenza della Chiesa locale".
Io credo che debba esserci una Cassazione che rigetti l'impiego di un simile
linguaggio in una motivazione giudiziaria. Tanto più che è
in calce a queste frasi inconsulte che si legge:
"Per tutte le considerazioni che precedono, la confessione del chiamante
in correità viene ritenuta da questa Corte sincera, spontanea e
disinteressata".
NESSUNO E' PERFETTO
A p.132, dopo essersi spinta così oltre, la sentenza aveva fatto
un piccolo passo indietro verso "la protratta sia pur sporadica /sic!/
commissione di rapine al solo scopo di ottenere lucro personale".
Le difese degli altri imputati, secondo la sentenza, non sanno capire che
"ravvedimento e comportamento illecito" possono convivere. La
benevola comprensione del giudice culmina, quanto alle rapine, nel seguente
passo (p.136):
"Del resto le ultime rapine cui ha partecipato come basista, non come
esecutore materiale, risalgono agli anni 1981-82, se si esclude il tentativo
fallito alla RAI di Torino del gennaio '87. Dopo di allora per oltre otto
anni egli ha mantenuto sino ad oggi una condotta irreprensibile".
Roba forte.
La faziosità fondamentalista della sentenza eccede l'immaginazione.
Le rapine, "molto diluite in un arco di tempo che va dal 1971 al 1987
(cinque-sei in oltre sedici anni)", sono ininfluenti, e basta.
"E' doveroso poi sottolineare che dall'epoca della morte del proprio
padre, quando era adolescente, il Marino non ha mai smesso un giorno di
lavorare onestamente con le proprie mani..."!
Iperbole laudativa in cui anche i giorni di rapina a scopo di lucro privato
("sporadici", del resto, "diluiti") trovano il loro
onesto riconoscimento.
DEL BUON USO DI UNA CARTOLINA
A p.140 viene introdotto un tormentone della sentenza, rivelatore per
eccesso della malafede del giudice. Si tratta di una cartolina della Bistolfi.
Nel processo di primo grado avevo prodotto una lettera a me indirizzata
da Antonia Bistolfi, a dimostrazione della delirante mitomania di cui mi
faceva oggetto. Con puntiglio maligno quanto vano, il Presidente aveva
scavato sulle frasi demenziali e magniloquenti della lettera per cercarvi
chissà quale allusione ai fatti in causa. (Cfr. il testo della lettera
nella mia Memoria, pp.196-197). Avevo spiegato in quella circostanza che
la Bistolfi -che fin lì l'aveva negato- usava inondarmi di una corrispondenza
bislacca, che avevo sempre lasciato senza risposta, e spesso senza lettura;
e avevo citato fra l'altro lettere che mi aveva spedito nel 1987, allo
scopo di sollecitare il mio aiuto, chiesto contemporaneamente da Marino;
per circostanziare il ricordo e la data, avevo detto che mi aveva raccontato
dei guai occorsi a una sua figlia del primo matrimonio, che andava a visitare
a Cecina, dove era ricoverata, ed era arrivata ad accludere alle sue lettere
una della figlia, diretta alla madre, in cui la giovane si impegnava a
non mettersi più nei guai e insomma formulava propositi benintenzionati.
Avendo trovato, parecchio più tardi, fra le mie vecchie cartoline,
di cui sono fedele collezionista, una cartolina illustrata a me indirizzata
dalla Bistolfi proprio in quel frangente, da Cecina, il 30 aprile del 1987,
l'ho esibita alla Corte di quest'ultimo processo. Oltre che confermare
il mio racconto, la cartolina forniva un esempio ulteriore della vena spinta
della Bistolfi fin dall'indirizzo: era infatti indirizzata a "Aelius
Hadrianus Imperator" /sic!/. Bene, questa cartolina viene citata molte
volte nella sciagurata sentenza che sto commentando, come un elemento a
mio carico. La prima volta è appunto a p.140:
"Rancore della Bistolfi, per quanto riguarda Sofri, smentito dalla
stessa cartolina esibita dall'imputato nel corso del presente giudizio,
inviatagli il 30 Aprile 1987 da Marina di Cecina, sulla quale a lui si
rivolgeva come ad 'Adrianus Imperator' e contenente una frase letteraria
(Shakespeare) rivelante profonda stima, grande simpatia, se non addirittura
affetto, o propensione sentimentale"!
UNA COPPIA IN AMBASCE
Alle pp.150 segg. la sentenza simula di rispondere alla raccomandazione
delle Sezioni Unite, che aveva ritenuto "non spiegate e non sufficientemente
giustificate le paure e le angosce asserite dall'imputato e dalla moglie
Antonia Bistolfi". La sentenza si affretta a dichiarare "sorrette
da logica e coerenza" le dichiarazioni dei due. Quanto a Marino, la
sentenza trova che gli avvertimenti -neanche: "il palese timore"-
espressi a Marino da Olivero e Dell'Amico, giunti fino alla minaccia nei
confronti della moglie, tanti anni prima, nel 1981, fossero spiegazioni
sufficienti della paura che nel 1988 porta Marino alla confessione. Basti
osservare a questo riguardo, oltre alla insensatezza di questa paura a
effetto ritardatissimo, che è stato lo stesso Marino, messo in difficoltà
durante l'interrogatorio al dibattimento, a negare inequivocabilmente ogni
nesso fra questo episodio e la genesi prossima della "confessione".
Ancora più incongrua è la giustificazione che la sentenza
imbastisce per la paura della Bistolfi. La quale aveva dichiarato di essere
stata gettata nell'allarme e nella disperazione dall'incontro con Bompressi
al Comune di Sarzana. Ecco che cosa scrive la sentenza (p.152):
"La donna ha riferito, esprimendosi con difficoltà, ma con
chiaro senso letterale, che gli occasionali incontri con il Bompressi dopo
il trasferimento a Bocca di Magra, da ultimo quello in un ufficio pubblico
di Sarzana, avevano fatto riemergere in lei il ricordo delle allusioni
e confidenze della Vigliardi Paravia, fatte... a Torino nel 1972".
Si tratta di un'argomentazione, oltre che del tutto illogica, del tutto
falsa: gli "occasionali incontri" sono viceversa incontri intenzionali,
comprese visite famigliari e domestiche, e una visita alla libreria in
cui Bompressi lavorava, conclusa dalla richiesta di essere accompagnata
da Massa a Bocca di Magra, e, in suo luogo, di un piccolo prestito. La
Bistolfi non aveva solo visto più volte, e senza ambasce di alcun
genere, Bompressi, ma l'aveva cercato. (Della visita della Bistolfi alla
libreria massese non ha riferito solo Bompressi, ma, al processo, il proprietario
della libreria, Senise). Questo è il fondamento che la sentenza
riconosce all'angoscia suscitata nella Bistolfi dall'incontro fortuito
con Bompressi, causa a sua volta della visita allarmata all'avv.Zolezzi.
Per credere a questa storiella, e credere che la visita della Bistolfi
all'avv.Zolezzi sia senza rapporto con le iniziative di Marino, bisogna
essere molto credenti. Almeno così credenti (p.153):
"Osserva questa Corte che alla luce di tali fatti, obbiettivamente
provati, entrambi i coniugi avevano fondati motivi per essere angosciati
e spaventati e che il loro stato d'animo giustificava pienamente il desiderio
del Marino di aprirsi con Don Regolo Vincenzi, parroco del suo luogo di
residenza e con il Senatore Bertone del P.C.I., partito cui aveva aderito,
divenendone responsabile di Sezione a Morgex, in Val d'Aosta, e della Bistolfi
con l'Avv.Zolezzi di La Spezia, legale di fiducia di una conoscente".
La sentenza non si cura di provare a mettere in rapporto questi "fatti
obbiettivi" con le dichiarazioni di don Regolo, che pure cita: "Mi
disse che era pedinato da persone che potevano fargli del male e che lo
avevano minacciato e volevano per forza coinvolgerlo nuovamente nella vita
di criminalità che egli aveva abbandonato", e simili.
IL GIUDICE NON HA CAPITO NIENTE DELLA PIAZZA DELLA CANONICA
Ma la buona volontà non manca mai alla sentenza. Il più
clamoroso incidente dell'accusa, cioè il tentativo di identificare
"pedinatori" di Marino concluso con l'identificazione di carabinieri
in borghese appostati di fronte alla sua casa "un mese, quindici giorni"
prima della data dichiarata della "confessione", viene fatto
passare nella sentenza (p.158-59) come "un normale servizio di pattugliamento".
Qui i limiti della impudenza sono superati d'un balzo.
"La presenza di una vettura dei Carabinieri, una sera, nei pressi
della Canonica di Don Vincenzi, peraltro soltanto a due settimane di distanza
dall'arresto del Marino /la sentenza fa lo sconto al "mese-quindici
giorni", ndr/ non ha riguardato affatto il confitente, ma caso mai
il Sacerdote /sic!/... In realtà si è trattato di un normale
servizio di pattugliamento, in borghese, senza alcun contatto con il Parroco,
perchè non sono stati i Carabinieri a rivolgersi a Lui /tutte le
maiuscole sono dell'estensore, ndr/ bensì il Sacerdote ad avvicinarli
per sapere chi sostava nei pressi della Chiesa". Conclude la sentenza:
"Attribuire ad un 'complotto' una sosta momentanea per strada di una
pattuglia dell'Arma è semplicemente assurdo ed insensato e l'argomento
non merita ulteriore trattazione".
Qui siamo in piena surrealtà. Ogni volta che deve scavalcare una
difficoltà, la sentenza attribuisce alle difese l'idea di un complotto.
Non so poi se si debba imputare più alla mala fede dell'estensore,
o alla sua sciocchezza, la mancata menzione del fatto che la sosta accanto
alla canonica metteva i carabinieri in grado di controllare l'abitazione
di Marino. Di questo nella sentenza non si trova traccia, sicchè
imputati e difensori, oltre che maniaci del complotto, diventano anche
degli stravaganti che vogliono collegare con Marino le soste normali dei
carabinieri accanto alle canoniche.
Si può inclinare a spiegare la cosa, come in altri punti, con l'ignoranza
o il travisamento degli atti da parte del Presidente-estensore Della Torre,
a stare a quanto sulla questione dei carabinieri e della canonica si dice
-è la terza volta che se ne tratta su una ventina di pagine- a p.181.
"Nè si comprende quale significato potesse avere la sosta di
una vettura dei Carabinieri nei pressi della Canonica di Bocca di Magra,
sempre i primi di luglio 1988, quando il Marino non vi si trovava e vi
era stato sei mesi prima. A meno che si voglia sostenere, assurdamente,
che i Carabinieri anzichè raccogliere la sua diretta confessione
volessero ottenerla tramite Don Regolo. Tale tesi è smentita dai
fatti e dalle testimonianze assunte. La sosta era verosimilmente dovuta
ad attività di normale pattugliamento".
Da questo grottesco passo sembra appunto di poter desumere che il giudice
non si è affatto accorto che la questione era sorta dal fatto che
la Canonica era prospiciente l'abitazione di Marino, sicchè il posto
scelto dai Carabinieri serviva a tener d'occhio la casa di allora di Marino
(ora ne ha un'altra, nel centro di Sarzana, comprata).
Ignaro -nella migliore delle ipotesi- di questo dato essenziale, il giudice
è così spiritoso da attribuirci l'idea che i carabinieri
controllassero la canonica in attesa che Marino andasse a confessarsi,
e che il prete passasse loro, per competenza, la confessione. Ahimè.
CHI E' ANDATO DA CHI
A p.160 la sentenza scrive:
"Nè vi sono agli atti elementi di prova per sostenere che sono
stati i Carabinieri a spingerlo alla confessione. Costoro non avevano mai
appreso direttamente nè da Don Regolo, nè dal Senatore Bertone
delle confidenze ricevute dal Marino".
Come abbiamo visto, ciò che è agli atti induce a ritenere
del tutto implausibile che non vi sia stato un passaggio di notizie tra
l'avv.Zolezzi, il sen.Bertone (i due sono colleghi al consiglio comunale,
e stretti amici personali, per loro ammissione), e i carabinieri. Dice
la sentenza:
"L'avv. [sic!] Bertone, l'avv.Pelegatti, e l'avv.Zolezzi non hanno
mai riferito di avere avuto colloqui e contatti con i Carabinieri".
E' vero: ma le cose che costoro non avevano riferito, finchè non
sono stati costretti a farlo, sono molte di più, compreso il colloquio
fra Bertone e Marino, occultato con cura fino al dibattimento di primo
grado, e lì emerso solo per mia iniziativa. La sentenza non se la
sente di accontentarsi del mancato racconto esplicito di Bertone ecc.,
e ammette a denti stretti la possibilità dell'itinerario opposto,
da me argomentato. Lo fa così: "Ma se anche fosse vero che
siano stati i Carabinieri ad avvicinare Marino, ciò avrebbero fatto
dopo che egli si era presentato spontaneamente a Don Vincenzi e al Senatore
Bertone, mentre la moglie separatamente si era già recata dall'avv.Zolezzi,
per cui non muta il carattere di spontaneità delle rivelazioni del
Marino".
Bisogna fermarsi attentamente su questo brano impressionante. Marino parla
con il prete, gli dice di essere oppresso da rimorsi, e di essere spaventato
da pedinatori e minacciatori che vogliono farlo tornare a delinquere (poi
negherà di averlo detto). Marino, sfruttando la propria qualifica
di iscritto al Pci -Bertone dirà di non averlo saputo, ma sarà
un'evidente bugia- va da Bertone, a chiedergli aiuto, e vanta, o lamenta,
con lui il proprio piccante passato politico-criminale, facendo un nome
ghiotto come il mio. Sono credenziali per ottenere appoggio, o che cos'altro?
Bertone, qualunque tramite ulteriore si immagini, non tiene certo per sè
una notitia criminis che riguardi addirittura un omicidio politico. Per
giunta, quel Marino che è venuto a fargli le sue rivelazioni ha
in tasca la tessera del Pci, ciò che non può non impensierire
ulteriormente l'anziano dirigente comunista. Il quale si consulta con il
suo avvocato, e chissà con chi ancora. (Aspetto, per pura curiosità,
che qualche alto dirigente dell'allora Pci me lo faccia sapere). Dopo di
che trova il modo di mandare i carabinieri da Marino. Si ricordi anche
la prossimità cronologica del colloquio con Bertone -maggio 1988-
e dell'approdo all'Arma dei carabinieri. Per almeno venti giorni -se si
vuole benevolmente accogliere la tardiva e riluttante versione dei carabinieri-
i carabinieri tengono sotto torchio Marino, fino a tirargli fuori il racconto
dell'omicidio Calabresi.
Tutto questo, secondo la sentenza, "non muta il carattere di spontaneità
delle rivelazioni del Marino".
I CAPELLI DI BOMPRESSI E LE SCOPERTE DELLA BISTOLFI
A p.161 la sentenza si dichiara ancora certa che la Bistolfi sapesse
(per via dell'antico cenno della sua ospite all'identikit di uno che non
poteva essere Bompressi, come lo stesso processo ha dimostrato: "Non
vedi che è lui?") che Bompressi era l'assassino di Calabresi,
e non sapesse che Marino vi fosse coinvolto, nè Sofri e Pietrostefani.
Se per il resto le cose stessero come la sentenza ha stabilito, questo
sarebbe del tutto implausibile. (Non è un caso che la stessa Bistolfi
abbia dichiarato, su questo punto, tutto e il contrario di tutto). Se le
cose stessero come la sentenza dice sul punto specifico di quello che la
Bistolfi credeva di sapere, e credeva di ignorare, avremmo comunque un
bandolo del garbuglio dell'elaborazione dell'accusa-confessione.
Proviamo a immaginare questo svolgimento. La Bistolfi, interpretando a
suo modo l'eccitazione spaventata con cui la Vigliardi Paravia le indica
una somiglianza presunta fra Bompressi -in quel momento presente nella
casa- e l'identikit pubblicato su un giornale del presunto assassino di
Calabresi, si convince che l'amica le abbia fatto la rivelazione di qualcosa
che sa. (Ripetiamo che, oltretutto, è provato che quell'identikit,
compilato sulla descrizione dell'acquirente di un ombrello a Milano, fornita
da una commessa, il 13 maggio, giorno in cui Bompressi era accertatamente
in Toscana, non poteva appartenere a Bompressi. Cioè: Bompressi
assomiglia all'identikit di un presunto killer di Calabresi, anzi, più
esattamente, a un acquirente di ombrello, che non poteva essere lui. Questo
è un punto chiave del processo, e rivelatore di meccanismi suggestivi.
Ancora in aula gli accusatori si sono lasciati andare ad additare la "straordinaria
somiglianza", con un seguito di brividi nel pubblico, benchè
quella somiglianza non potesse corrispondere a nessuna realtà).
La Bistolfi sostiene addirittura che Bompressi, così somigliante
all'identikit, gli è ancora più somigliante per essersi schiarito
i capelli: sciocchezza, questa di Bompressi che per passare inosservato
si sarebbe ossigenato i capelli, col risultato di avvicinarsi alla descrizione
del "biondino" dell'attentato, e di diventare lo zimbello della
sua piccola concittadinanza, sulla quale se ne sono sentite, nel corso
dei successivi processi, di tutti i colori davvero. Nel tentativo di tenere
in piedi la storiella, una sentenza è arrivata a scrivere che il
passare degli anni ha scurito i capelli di Bompressi! Ora, il dettaglio
dei capelli imbionditi di Bompressi sarebbe una mera sciocchezza senza
seguito se non fosse un indizio ulteriore della derivazione da Antonia
a Marino: Marino pasticcia la sua versione sul Bompressi dai capelli schiariti,
cui fonte iniziale è la Bistolfi.
UN PIATTO FREDDO
Sentenza, p.162: "Nè l'Autorità Giudiziaria, nè le Forze di Polizia si stavano più occupando da anni del caso Calabresi". E' falso. L'autorità giudiziaria milanese ha ricorrentemente cercato di addebitare a Lotta Continua l'omicidio Calabresi, variando irresponsabilmente i candidati autori (si veda l'inaccettabile episodio dell'imputazione a mezzo stampa di Marco Fossati), e girando attorno ai nomi "grossi", come il mio e quello di Boato, emersi nell'episodio dell'"avviso" sul nostro arresto nell'estate dell'anno precedente. Marino non è andato a fornire ai carabinieri e ai magistrati una versione inedita e sorprendente, bensì la versione cui da sempre miravano, su due punti essenziali: la responsabilità di Lotta Continua, e la mia personale.
UN ACCANIMENTO STUPEFACENTE
Aggiungerò, benchè sia mortificante doverne parlare, che l'ipocrisia con cui durante tutta questa vicenda, e ancora in questa ultima sentenza, si affetta meraviglia per l'ipotesi che potesse premere a qualcuno di potersela prendere nel 1988 con Lotta Continua -sciolta da 12 anni- e con me personalmente, è vergognosa. Inquirenti e parte del pubblico hanno rivelato nel corso di questi anni una tenacia e virulenza di vecchi odii e risentimenti che mi hanno lasciato stupefatto. Quanto alla mia persona, l'avversione e l'autentico odio che riesco a suscitare è altrettanto stupefacente. Nel corso del processo, via via che gli anni passavano, esse non si sono attenuate, ma caso mai inasprite. L'imputazione di mandato di omicidio è diventata il sostegno attorno a cui far arrampicare una universale denigrazione del mio intero modo di essere, senza arretrare neanche davanti alla moltiplicazione -in un'aula di tribunale! ad alta voce!- delle accuse più infamanti, fino all'insinuazione di aver avuto parte nell'assassinio del mio caro Mauro Rostagno. Nell'88, probabilmente, qualcuno fu soprattutto ingolosito dall'eventualità di prendere all'amo, attraverso me, Claudio Martelli, di cui ero notoriamente amico -amico, non "consigliere"- e che era allora un pesce grosso. Otto anni dopo, la mia amicizia con Martelli è stata ancora citata in Camera di Consiglio come una ragione per negarmi -grazie a Dio, del resto!- le attenuanti; ma soprattutto sono stato dipinto, rozzamente in Camera di Consiglio, più ipocritamente nella sentenza, come un delinquente abituale e inemendato. La domanda: "Chi crede di essere?" è la più puntuale spiegazione dell'accanimento che una parte dei giudici hanno messo nella mia persecuzione. Dietro quella domanda inviperita c'è il motto che questi giudici hanno inciso sul loro scranno: "Lei non sa chi sono io".
"I CARABINIERI NON AVREBBERO SMENTITO..."
Di illazione in illazione, la sentenza scrive (p.163):
"Se fossero stati artefici o coinvolti nel complotto /ancora!/ i carabinieri
certamente non avrebbero mai smentito, al dibattimento di primo grado,
il Marino sui tempi dei colloqui avvenuti e sull'inizio della sua collaborazione,
essendo per loro certamente più agevole e più logico confermare
le dichiarazioni del confitente, senza possibilità di essere smentiti".
Così si rovescia spericolatamente la realtà. Quando arrivano
in aula, i carabinieri sono già stati smentiti: dal passo falso
nella deposizione di Don Regolo.
"P.- Nei giorni precedenti l'incontro con Marino, ha visto in paese
persone estranee, persone nuove? T.- Ho visto persone che, in macchina,
erano in posizioni strategiche... Allora, mi ha mostrato un tesserino di
forza pubblica e a quel punto li ho lasciati". E pagg.791-92: "Avv.Gentili-
Di quelli che mostrarono il documento, che erano delle Forze dell'ordine.
Questo episodio in che momento si colloca? T.- Prima dell'arresto del Marino.
Avv.Gentili- Prima dell'arresto del Marino. P.- Molti giorni prima? Più
o meno? Questo però è un episodio... T.- Forse un mese prima.
Quindici giorni un mese prima. Avv.Gentili- Ricorda a quali forze dell'ordine
appartenevano? Cioè, se erano carabinieri o poliziotti? T.- Carabinieri".)
Chi rilegga l'andamento del processo di primo grado (si rilegga anche,
sul punto, la magistrale ricostruzione nel libro di Carlo Ginzburg, Il
giudice e lo storico, Einaudi) capisce senza dubbi che il Presidente Minale,
interrogato Don Regolo, e visto il clamore suscitato dal suo scivolone,
si persuade di non poter passare sotto silenzio la smentita già
avvenuta. Decide di convocare i carabinieri, cosa che altrimenti si sarebbe
guardato dal fare. Quando i carabinieri arrivano in aula, è assolutamente
chiaro che il Presidente Minale è stato già dettagliatamente
informato della versione che stanno per fornire, e che si prenderà
cura di far quadrare. Può esserci un dubbio solo sul fatto che Minale
sapesse fin dall'inizio della balla di Marino (quando Marino esordisce
dicendo "Confermo modalità e tempi della mia confessione...
" e Minale gli chiede: "Modalità e tempi cosa significa?")
o che viceversa ne fosse stato tenuto anche lui all'oscuro, fino alla imbarazzante
gag di don Regolo. Sappiamo molto di più. Sappiamo che il Sostituto
Procuratore, P.M.in aula, Pomarici, dichiara a sua volta pubblicamente
-e i giornali lo trascrivono- di non aver saputo niente della seconda versione
sui rapporti Marino-carabinieri, e mente, come poi emergerà chiaramente.
Lo stesso Pomarici riferisce alla stampa, senza che si trovi niente da
eccepire, che i carabinieri si sono rivolti a lui -parte in causa, cioè
accusatore pubblico- per avvertirlo della decisione di smentire la versione
di Marino nella prossima deposizione in aula, e che lui, Pomarici, si è
consultato con il suo capo, Borrelli!
Tutta questa sequela di torbide irregolarità si trasforma, nella
sentenza ultima, nella considerazione che sarebbe stato "più
agevole e più logico per i carabinieri confermare le dichiarazioni
del confitente, senza possibilità di essere smentiti".
"NULLA DI PIU'"
A p.168, dopo aver citato qualche mozzicone di frase rivolta da Marino
al Maresciallo Rossi -"Mi disse: le vorrei parlare di alcuni problemi
abbastanza delicati", ecc.- la sentenza scrive:
"Nulla di più disse al Sottoufficiale, al Capitano Meo, al
Colonnello Bonaventura sino a quando non fu presentato a Milano al Magistrato
della Procura Dr.Pomarici il 21 Luglio 1988".
Nulla di più: così si cancella con un solo tratto tutta la
ricostruzione delle "confessioni" rese da Marino a Bonaventura,
e invano negate da quest'ultimo, tradito oltre che dai subordinati, e dalle
ammissioni del colonnello Nobili nella conferenza stampa successiva al
nostro arresto, dai propri stessi lapsus. Il colonnello -intervenuto del
resto proprio perchè titolare antico dell'indagine su Calabresi:
arbitrariamente infatti la sentenza dice che il colonnello Bonaventura
era "il superiore di Milano" del capitano Meo, che con Milano
non aveva niente a che fare- aveva appreso ben prima di interpellare il
magistrato e verbalizzare i colloqui che la questione di cui si trattava
con Marino era l'omicidio Calabresi. (Un fatto gravissimo... avvenuto in
Milano... nel 1972: altro che "nulla di più"). Cfr.
Con aria ingenua, la sentenza scrive: "Basta leggere tutti i verbali
delle trascrizioni dibattimentali da pg 1580 a pg 1723". Infatti,
sarebbe bastato. "Contestata allo stesso Marino la divergenza sulla
data del contatto con i Carabinieri... egli ha praticamente ammesso di
avere sbagliato...".
Così la umanissima sentenza, p.172.
"Non è stato tuttavia in grado di dare una spiegazione plausibile
del fatto, trincerandosi in espressioni vaghe e frammentarie che, in sostanza,
rappresentano il patema, l'ambascia, la preoccupazione, le paure di quei
venti giorni in attesa della confessione".
Non è stato in grado di dare una spiegazione, dunque era sincero.
A p.175, a proposito della mancata relazione da parte dei Carabinieri alla
Autorità Giudiziaria dei contatti con Marino fra il 2 e il 19 luglio
1988, la sentenza si spinge a scrivere: "Si può soltanto dire
che è stata un'omissione inopportuna". Galateo.
"Marino appariva loro uno dei tanti cittadini che si recano dai Carabinieri
per uno sfogo di carattere morale". Sic! Qui, il Presidente estensore,
quello dei Duemila anni di cristianesimo, confonde un po' fra Stazioni
della Via Crucis e Stazioni dell'Arma.
CHE COSA CERCAVA MARINO, E CHE COSA HA TROVATO
P.183: "La tesi della difesa di Bompressi, secondo la quale era
per Marino prevedibile la prescrizione del reato è totalmente infondata".
A parte la promessa esplicita di impunità che il P.M.Pomarici si
avventurò a fare dall'inizio, non solo a Marino, ma a tutti noi
-a me personalmente, per esempio- è formidabile che una previsione
formulata otto anni fa dalle difese, secondo cui Marino non avrebbe fatto
un solo giorno di carcere, essendosi pienamente adempiuta, venga a posteriori
solennemente dichiarata "totalmente infondata". Marino non ha
fatto un giorno di carcere, e ha risolto i suoi problemi di soldi. Forse
non era quello che voleva, forse, come sostiene appassionatamente il giudice,
voleva solo emendarsi ed espiare, e ci troviamo di fronte a un caso particolarmente
forte di eterogenesi dei fini: cercava galera ed espiazione, e ha trovato
casa in proprietà, nuovo furgone, liquidi, e fotografie su "Panorama"
con indosso la maglietta della squadra di calcio sponsorizzata col titolo
"Le crepes di Marino". L'uomo propone, la giustizia premiale
dispone.
I CORPI DI REATO DISTRUTTI: NEANCHE NOMINATI
In un appello precedente il P.G.aveva giustificato la distruzione di
tutti i corpi di reato con la frase: "Milano non è Ginevra".
In Svizzera, insomma, non sarebbe successo. Ma non si può optare
per un tribunale svizzero, così come si va a farsi operare in una
clinica parigina. Nell'ultimo processo il P.G. ha evocato i topi che occupano
i depositi dei corpi di reato. Questo non può, direi, ritorcersi
contro i pazienti, cioè gli imputati. Ma resta da spiegare perchè
la ricerca dei corpi di reato non fu affatto svolta prima delle richieste
della difesa: semplicemente, perchè la si riteneva inutile. La parola
di Marino bastava a tutto, e sostituiva tutto. In nome della domanda: "Perchè
Marino dovrebbe mentire?", si evitò di porsi la domanda: "Marino
mente?"
Si noti, ora, che la sentenza non spende una parola sulla distruzione di
tutti i corpi di reato.
MARINO FA TESTO. SACRO.
Viceversa, la sentenza pretende che siano elementi a favore dell'attendibilità di Marino quelli in cui la sua versione non coincide, e magari contraddice quella già nota per la ricostruzione della polizia o i racconti dei testimoni diretti. Strano criterio generale, dato che fra le versioni di testi oculari o le ricostruzioni eseguite in prossimità del fatto, e la versione fornita da un confesso-accusatore di cui va provata, a vent'anni di distanza, l'attendibilità, ci si aspetterebbe che siano le prime a far da riferimento. (La sentenza enuncia candidamente questo criterio, come a p.266: "Al riguardo si osserva che analizzando i dati obbiettivi e comparando i due racconti, la versione di Marino risulta più conforme agli elementi di fatto categoricamente accertati ed alla logica di accadimento dell'attentato, rispetto alla ricostruzione dell'Autorità di Polizia, in taluni particolari addirittura incompatibile con le risultanze concrete"!)
LA FARSA DELLA VIA DI FUGA
Il primo esempio viene dall'apprezzamento impudente che la sentenza
formula della indicazione di Marino sulle vie di fuga. Chi ha seguito questa
vicenda ricorderà l'enorme svarione in istruttoria di Marino, e
del P.M. e del G.I. che lo verbalizzano e lo elogiano, quando, richiesto
di descrivere la via di fuga dopo l'attentato, ne descrisse una opposta
a quella effettivamente seguita dagli attentatori. Pronti a giurare in
verba Marini, gli interroganti non se ne accorsero nemmeno, e si premurarono
di elogiare l'esattezza di Marino... nella descrizione della via di fuga.
Dopo che, resi pubblici gli atti, ebbi denunciato il grossolano svarione,
i magistrati ci misero una maldestra toppa sostenendo che a Marino era
stata sottoposta la cartina stradale della zona "alla rovescia".
Giustificazione ridicola, e smentita dal confronto fra i due opposti itinerari
(a parte l'amenità del concetto di "cartina rovesciata").
Ebbene, ora quella toppa peggiore del buco è diventata una carta
di credito di Marino: "L'indicazione delle vie di fuga secondo un
percorso esatto, ma rovesciato sulla mappa stradale a lui mostrata, per
cui si deduce che egli conosceva il percorso effettuato, ma non i nomi
delle strade, com'è logico e naturale per chi ha compiuto l'azione,
ma non ha studiato la mappa e le strade di Milano".
(Si veda la ripetizione compiaciuta dell'argomento in molti altri punti,
per es. p.251: "A maggiore certezza, quando è stata mostrata
/a Marino/ una carta stradale rovesciata, ha sbagliato nell'indicare i
nomi delle vie, ma è stato esatto nel segnare il tracciato seguito,
sino all'angolo dove è stato abbandonato il veicolo". E ancora,
p.379: "La genuina e convincente ricostruzione delle vie di fuga in
base alla mappa stradale, sia pure rovesciata"...).
A questa prima perla, segue la seconda: l'errore di Marino sul colore dell'auto
dell'omicidio prova la sua sincerità. Esso è "impensabile
per un mitomane preparato". Così, errori o cose azzeccate sono
allo stesso modo prove della attendibilità di Marino. (Se avesse
azzeccato il colore dell'auto rubata per l'omicidio, si sarebbe esposto
come "un mitomane preparato"?) La perla migliore è la
terza:
"Marino ha contrastato e smentito tutte le dichiarazioni fasulle dei
primi testi ascoltati dagli inquirenti la mattina del delitto ed assunti
immediatamente a verbale. Nei raffronti obbiettivi egli è uscito
vincitore".
Potè più lui, che i testimoni tutti. I quali non sono solo
invalidati in blocco, ma sprezzantemente liquidati con quell'insolito aggettivo:
fasulle.
"La genuinità del racconto del Marino si deduce anche dalle
sue incertezze, inesattezze e rettifiche nella successione delle varie
deposizioni, mentre i resoconti calunniosi sono normalmente monolitici,
categorici, univoci, perfetti nella loro struttura". (P.195)
La prossima volta che mi capiterà di dovermi difendere da una calunnia,
sosterrò che è monolitica, senza falle, perfetta nella sua
struttura, e che non ho nulla da obiettarle. Forse me la caverò.
IL PIETROSTEFANI SCOMPARSO
Grazie a questa teoria delle contraddizioni come conferme di attendibilità,
la sentenza riesce a trasformare in un paragrafetto marginale un punto
essenziale della difesa mia e di Pietrostefani. Si tratta della sfilza
di versioni successive attraverso cui Marino, che ha cominciato sostenendo
di essere stato avvicinato a Pisa da me e da Pietrostefani, che gli avremmo
impartito il mandato omicida, procede facendo impallidire la partecipazione
di Pietrostefani al colloquio, poi ricordandone la sola presenza, poi non
ricordandone la presenza, infine rammaricandosi di non ricordarne con precisione
l'assenza... Tutto ciò perchè, nel frattempo, Pietrostefani
ha, grazie a una coincidenza imprevista da Marino, dimostrato di non essere
stato a Pisa.
L'episodio mostrava fin dalle radici la menzogna del racconto di Marino;
inoltre, la sua prontezza, assecondata dolosamente dai magistrati, a riaggiustare
le versioni successive sulle smentite ricevute. (E' successo su tutti i
punti della sua accusa). Doveva bastare a far cadere immediatamente l'accusa
relativa al preteso colloquio pisano del 13 maggio 1972. E' scandaloso
che non sia stato così. Ma sentite come ora la questione viene disinvoltamente
riconfezionata dall'ultima sentenza:
"Il 21 luglio '88 al P.M. il Marino aveva detto che a Pisa, al termine
del Comizio /maiuscole sempre dell'estensore, uomo sensibile alle maiuscole,
ndr/ di Sofri, era stato avvicinato da questi e da Pietrostefani. Poi il
21 luglio successivo /sic!/ al G.I. e al P.M: precisava di avere parlato
soprattutto con Sofri, perchè Pietrostefani l'aveva incontrato spesso
a Torino e non ne aveva la necessità. Il successivo 17 Agosto al
G.I. ribadiva il colloquio con Sofri, pur ricordando la presenza di Pietrostefani.
Il 16 Settembre 1988, in sede di confronto con Sofri, dichiarava di non
poter affermare con certezza la presenza di Pietrostefani. Infine al dibattimento
di 1° grado riferiva di essersi convinto della presenza di Pietrostefani
a Pisa il 13 Maggio 72, ma di non averne memoria". Prego intanto di
soffermarsi su quest'ultima frase: "Riferiva di essersi convinto della
presenza di Pietrostefani... ma di non averne memoria".
Siamo nel capitolo aperto dalla originale dichiarazione che la memoria
umana non è un apparato elettronico. Dunque, che altro si vuole?
Un argomento decisivo della mia difesa è stato così liquidato.
Non siamo stati io e Pietrostefani ad avvicinare Marino per farne un omicida,
ma è stato Marino ad avvicinare me, in assenza di Pietrostefani,
per chiedermi di farne un omicida: che differenza volete che faccia? Per
la sentenza, non ha fatto alcuna differenza. Ha solo rubato tredici righe
e mezza della prosa memorabile dell'Estensore: "Era convinto della
presenza, ma non ne aveva memoria".
GLI SFORZI MNEMONICI
P.199: "La complessità della narrazione, e il tempo trascorso
dai fatti, avvenuti dai quindici ai diciotto anni prima delle deposizioni,
giustificano pienamente le inesattezze, anzi ci si dovrebbe meravigliare
del contrario, sapendo che Marino è un lavoratore manuale, non dedito
a una professione intellettuale".
Nella stupidità faziosa di questo giudice, c'è anche qualcosa
di personalmente offensivo: contro i lavoratori manuali, per esempio. Lo
si considererà un lapsus rivelatore del vero animo dell'estensore,
la cui demagogia giunge viceversa a questa prosa (p.221):
"Va tenuto conto del notevole squilibrio culturale, dialettico ed
emotivo esistente fra il Marino, già operaio della Fiat ed ora venditore
ambulante e i suoi contraddittori, laureati, manager aziendali, professori
universitari, confortati da avvocati di chiara fama ed elevata capacità
professionale".
"Le graduali correzioni del Marino non sono state la conseguenza di
specifiche contestazioni dei Magistrati, o dei difensori dei coimputati
e neppure sono derivate da nuove emergenze processuali. Esse in realtà
sono state il frutto di sforzi mnemonici del dichiarante, tutte rese nel
corso di consecutivi interrogatori, sospesi per necessità logistiche,
ma che possono essere considerati unitariamente, come una sola deposizione"
(p.200).
Non è possibile dubitare della mala fede di un simile passo, riferito
alle successive versioni del Marino sulla "presenza perfettamente
ricordata", e "l'assenza non perfettamente ricordata" di
Pietrostefani a Pisa.
Nel tentativo di svalutare il senso di una proposizione netta e perentoria
come quella :"Al termine del comizio fui avvicinato da Sofri e da
Pietrostefani", la sentenza così, incredibilmente, la commenta
(p.201): "Da tali dichiarazioni si deduce soltanto che fino a quel
momento era stato prevalentemente il Bompressi a parlargli dell'omicidio
Calabresi, e poi in alcuni incontri Pietrostefani" (sic!). Poichè
è difficile crederci, prego di controllare il testo della sentenza.
In primo luogo, gli "sforzi mnemonici" derivano dal fatto che
nel frattempo Pietrostefani ha documentato la propria assenza e le sue
ragioni -la latitanza per i mandati di cattura per un'apologia di reato.
In secondo luogo, i "consecutivi interrogatori" sospesi per necessità
logistiche -il buio, non so, la necessità di rifocillarsi e dormirci
sopra?- se vanno dal 21 luglio 1988 al 29 luglio 1988, serbano indiscussa
la presenza a Pisa di Pietrostefani. Se vanno fino al 17 agosto 1988 (per
limitarsi agli interrogatori, in cui la presenza di Pietrostefani è
sempre ricordata), o fino al 16 settembre 1988 (se si include il confronto
con me, in cui non è più ricordata) o addirittura fino al
dibattimento, un anno dopo e oltre, dove è dimenticata definitivamente,
è chiaro che non si può sostenere che le correzioni siano
indipendenti dalle smentite esterne: a partire dalla tempestiva dimostrazione
della difesa di Pietrostefani.
STRAPPARSI LE VESTI
In appendice a un simile ragionamento, la sentenza arriva anche a scrivere che "non è stata provata con certezza l'assenza di Pietrostefani a Pisa": Marino l'ha sconfessata concludendo di "non averne memoria", Pietrostefani l'ha motivata con un episodio fortuito interamente sfuggito agli investigatori, tutti i testimoni pisani, manifestanti e poliziotti, e i rapporti di polizia, non fanno cenno di una presenza di Pietrostefani -e questo vuol dire che "non è stata provata con certezza l'assenza". Conclusione della sentenza, a p.201: "Non è consentito quindi strapparsi le vesti per le rettifiche del Marino in proposito, nè sopravvalutarle". Fin qui arriva la faziosità.
LE FELICI CORREZIONI DI MARINO
Ci sono altri casi, meticolosamente documentati, che mostrano con piena
evidenza la successione di versioni contraddittorie da parte di Marino,
e il loro carattere doloso di aggiustamento progressivo alle prove altrui.
Ne ho fornito, riguardo alla mia situazione personale, più esempi:
1. La versione secondo cui Marino, dopo il preteso colloquio con me dopo
il comizio pisano, saluta e parte ("Salutai il Sofri e ripartii per
Torino"); corretta una prima volta, al confronto con me, di fronte
alla mia opposta ricostruzione, nella versione per cui era possibile che
fosse venuto quella sera, dopo cena, a casa mia a Pisa; corretta una seconda
volta, al dibattimento, nella versione dettagliata della visita fatta,
la sera, a casa mia.
2. Le successive versioni sulle ragioni che avevano spinto Marino a cercarmi
negli anni recenti, 1986-87: dall'unico incontro dettato dall'ansia morale
di parlare del passato, ai più incontri, perchè da me riferiti
e provati, con i testimoni romani, i miei assegni bancari ecc., riconosciuti
come intesi a chiedermi aiuto in denaro.
3. Le successive, addirittura comiche, versioni sul preteso incontro con
me a Massa al comizio del 20 maggio 1972, quando gli avrei detto di essere
arrivato in treno, guardato a vista dalla polizia (sic!); io spiego di
essere venuto in auto da Pisa, e fornisco i nomi di chi mi ha accompagnato,
e allora Marino corregge dicendo che posso essere arrivato in auto a Massa,
ma ero arrivato in treno a Pisa (!); ultima versione (oltretutto grottescamente
autodenunciatoria, perchè Marino e inquirenti si sono dimenticati
di aver già verbalizzato una correzione, e dichiarano questa come
la prima correzione, dovuta a un improvviso ritorno di memoria) in cui
Marino si è ricordato non solo che sono venuto in auto da Pisa,
ma che gli ho detto di aver prima pranzato con la mia famiglia a Pisa.
(Alle pp.266 segg., la sentenza prova ad affrontare la correzione di Marino,
formulata per rincorrere la mia precisazione, scrivendo questa grottesca
frase: "Relativamente alle pretese incongruenze, esse in verità
riguardano soltanto il tragitto in auto da Pisa a Massa, perchè
da Roma a Pisa, in entrambi gli interrogatori Marino parla di viaggio in
treno". Prego di rileggere. Marino dice: Sofri è venuto da
Roma a Massa in treno. Sofri dice: sono venuto da Pisa a Massa in auto.
Il giudice dice: da Roma a Pisa tutti dicono che Sofri è andato
in treno). Sono solo alcuni degli esempi possibili, inequivocabili. E la
sentenza -che li ignora o li deforma strumentalmente- dichiara che non
c'è che lo sforzo mnemonico di Marino, e che le "graduali correzioni"
non dipendono da specifiche contestazioni o emergenze processuali!
CATEGORICAMENTE CERTO E SICURO
Dell'ultima versione di Marino in dibattimento circa Pietrostefani a
Pisa, la sentenza si dimentica tout court, salvo scrivere (p.204): "Tutte
le dichiarazioni sopra riportate sono state integralmente confermate al
dibattimento di primo grado"! La sentenza fa di più. Dovendo
dire che una conclusione è certa e inevitabile, e cioè che
Marino ha detto di essere stato avvicinato da Pietrostefani a Pisa, e poi
ha dovuto rimangiarselo, la sentenza scrive così:
"Come si può dedurre dall'esame comparato delle deposizioni
dei due coimputati, nonostante le loro divergenze nel racconto, un dato
essenziale rimane categoricamente certo e sicuro: Marino e Sofri si sono
incontrati dopo il comizio di Pisa".
Ora: io e Marino non ci incontrammo dopo il comizio di Pisa, e dunque questa
asserzione è falsa da capo a piedi. Tutta la mia difesa ne ha mostrato
la falsità -non la mancata provatezza: la provata falsità-
con una dovizia di argomenti diversi insuperabile. Ma qui voglio solo sottolineare
il modo di procedere della sentenza, che asserisce una falsità peraltro
decisiva quanto alla mia posizione, accompagnandola prodigalmente con attributi
come categorico, certo, sicuro, facendola derivare dalle parole con cui
Marino ha progressivamente smentito se stesso!
Perchè fingere di fare processi ed esaminare prove, se ciò
che è da provare -e che è stato contraddetto oltre ogni dubbio-
diventa prova di se stesso?
"Il viaggio da Torino di Marino aveva come scopo ricevere la conferma
che il suo Capo (sic!) Adriano Sofri, era d'accordo con la decisione dell'Esecutivo
Nazionale di Lotta Continua, di agire in relazione all'omicidio Calabresi".
(P.204).
Chiaro, no?
L'ESECUTIVO, NON IMPUTATO, E CONDANNATO
A pp.215 segg. si elogia la "perfezione" della logica interna
di Marino, l'assenza di ritrattazioni, la costante conferma e arricchimento
delle dichiarazioni ecc. Si è già visto come questo corrisponda
a scivolate come la presenza di Pietrostefani a Pisa ecc.
Fermiamoci però su un punto, importante quanto maltrattato in questo
come nei precedenti processi, nonostante l'avvertimento esplicito delle
Sezioni Unite: la questione della responsabilità dell'Esecutivo.
Questione particolarmente odiosa, prima di tutto perchè successive
Corti, che non si sono trovate di fronte un'imputazione associativa, come
sarebbe stato doveroso se davvero di una responsabilità dell'Esecutivo
si fosse trattato, hanno arbitrariamente scritto in sentenza che la decisione
dell'omicidio era venuta (addirittura con voto a maggioranza!) dall'Esecutivo
di Lotta Continua, che non avevano avuto il coraggio o la possibilità
di imputare. Odiosa, perchè in questo modo surrettizio si era fatta
passare una responsabilità politica e materiale di Lotta Continua
-dunque non di suoi eventuali singoli militanti, o frange, o gruppi- nella
decisione e nell'organizzazione di un attentato omicida. Ricordo che, in
istruttoria, i magistrati erano stati appassionatamente tentati dall'ipotesi
di incriminare l'Esecutivo di Lotta Continua in quanto tale -ed era inevitabile
che lo facessero, finchè mostrassero di prendere sul serio l'idiozia
del voto sull'omicidio- e per questo avevano emesso avvisi di reato, più
o meno a casaccio, secondo le parole in libertà di Marino. (Uno
di quegli avvisi era arrivato a Mauro Rostagno). Poi si erano spaventati
della propria stessa ingordigia, e si erano tirati indietro. Si erano giustificati
così: che Marino in realtà non aveva nozione diretta della
decisione dell'Esecutivo, avendone saputo de relato. L'aggiustamento non
andava del tutto liscio, dato che nelle prime verbalizzazioni di Marino
l'enfasi sull'Esecutivo -incoraggiata senz'altro da carabinieri e magistrati,
come mostrano i rispettivi verbali- era colossale: al punto che Marino
aveva dichiarato di essere venuto a Pisa a cercare da me la conferma che
l'Esecutivo fosse davvero d'accordo con l'attentato. In dibattimento, Marino
stesso aveva docilmente ridimensionato e annacquato le sue menzioni dell'Esecutivo.
Così, un po' per salvare il loro beniamino, un po' per togliersi
di dosso il sospetto di condurre un processo politico all'intera Lotta
Continua, i giudici avevano proclamato di non perseguire reati associativi,
ma solo responsabilità personali, e avevano lasciato da parte la
criminalizzazione dell'Esecutivo. (Nè ebbero seguito le denunce,
come quelle di Boato, di Viale e altri, che chiedevano di indagare su una
propria responsabilità, se si fosse provata la storiella del voto
sull'omicidio, o sulla calunnia, se si fosse provato il contrario). Però,
dopo esser corsi ai ripari, alcuni dei giudici successivi non rinunciarono
a dare per scontata, nelle sentenze, la responsabilità dell'Esecutivo,
così facendo passare alla storia per una illecita via giudiziaria
la qualificazione di Lotta Continua come organizzazione omicida.
Sentite come questa ultima sentenza tratta la questione (p.216): "Per
tutto il corso del procedimento... Leonardo Marino ha sempre e senza esitazioni,
attribuito la decisione dell'omicidio Calabresi all'Esecutivo Nazionale
di Lotta Continua ed ai suoi Capi e Dirigenti /maiuscole, al solito/ Sofri
e Pietrostefani".
Questa presunta costanza è anzi un'altra delle prove dell'attendibilità
di Marino.
A p.225, con tranquilla sicurezza, la sentenza scrive: "La sua eliminazione
/di Calabresi/ era stata decisa dall'Esecutivo Nazionale di Lotta Continua
in una specifica riunione a Milano". E a p.226 che Marino venne a
Pisa perchè "voleva essere rassicurato che la decisione fosse
stata presa dall'Esecutivo Nazionale". A p.470 culmina nelle parole:
"... Parte dalla decisione dell'esecutivo, con il voto favorevole
di Sofri e Pietrostefani, ed altri partecipanti, non potuti identificare...".
In cui non solo si ribadisce la versione dell'omicidio messo ai voti nell'Esecutivo,
ma si arriva a sostenere che gli altri partecipanti al voto non sono stati
perseguiti e condannati solo perchè "non potuti identificare":
ciò che è scandaloso, e falso, dato che i nomi esatti dei
membri dell'Esecutivo sono stati forniti proprio da noi!
Alle pp.238-39 la sentenza si fa bella delle prove acquisite sull'esistenza
di un Esecutivo Nazionale di Lotta Continua nel 1972, citando il mio primo
(e unico) interrogatorio in istruttoria in cui avevo detto di non poter
ricordare le date di esistenza di quell'organismo. Ora, le prove, cioè
tutte le testimonianze rintracciabili nella nostra stampa e in altri documenti
dell'epoca, erano state raccolte ed esibite da me al processo. Come la
sentenza possa perciò insinuare che dei testimoni ("Brogi,
Boato, Morini") abbiano negato l'esistenza dell'Esecutivo in quel
periodo in quanto "clamorosamente e manifestamente falsi ed inattendibili,
animati soltanto dal desiderio di favorire i vecchi compagni di milizia
politica", è difficile capire: a parte la triviale oltraggiosità
del linguaggio.
Quanto alla icastica conclusione: "Sul punto Marino ha detto la verità",
essa è una sciocchezza, autorizzata solo dal deliberato fraintendimento.
Marino ha sbagliato, e mentito, quanto alla composizione dell'Esecutivo,
indicando nomi di persone che non ne hanno mai fatto parte: errore non
veniale, dato che quelle persone sono state indiziate di omicidio; e ha
mentito non dicendo che nell'Esecutivo c'era sempre stata una partecipazione
-addirittura numericamente maggioritaria- di operai. Dimenticanza non lieve,
dato che anche quegli operai avrebbero dovuto "votare" sull'omicidio
di Calabresi, secondo la grottesca calunnia di Marino, fatta propria dalla
sentenza.
PIOGGIA
Alle pp.240 segg. si torna a discutere della pioggia pisana del 13 maggio:
cioè si finge di rifarlo. Su questo tema ogni colmo di ridicolo
era stato sorpassato da tempo. La sentenza attuale procede così:
a-bisogna attenersi ai dati meteorologici ufficiali, dunque pioggia debole
continua; b-le testimonianze dei presenti -numerosissime, ed estensibili
fino alle migliaia- devono cedere di fronte ai dati meteorologici generali;
c-l'entità della pioggia non fu tale da impedire un colloquio (neanche
un'alluvione l'avrebbe impedito; forse: ma il punto era tutt'altro, e cioè
che Marino, dimentico della pioggia, aveva descritto una nostra comune
passeggiata dalla piazza a un bar dopo il comizio, con gran seguito di
persone, poi la consumazione al bar, poi l'uscita e il colloquio, Pietrostefani
a parte); d-che non si può negare che effettivamente piovve (la
sentenza concede una parentesi di sei parole: "Vedi fotografie agli
atti del processo" /sic!/, all'imponente documentazione fotografica
della piazza con ombrelli, striscioni grondanti sulle teste, gente bagnata
dalla testa ai piedi); neanche una parola la sentenza riserva alle cronache
del tempo (La Nazione, il Manifesto, Umanità Nuova, che scrissero
di pioggia battente, pioggia insistente, pioggia continua, di persone che
restarono in piazza nonostante la pioggia fitta, eccetera). La sentenza
prende la minuziosa ricostruzione del dopo comizio, fornita da me e da
un gran numero di testimoni -il conciliabolo sotto il palco, sull'affissione
della lapide, l'invito a fissare altri comizi ecc.- invece che come una
prova delle cose come andarono, opposta al racconto di Marino, come una
prova del fatto che dei colloqui ci furono, dunque anche quello detto da
Marino. La sentenza semplicemente cancella la lettera della testimonianza
di Augusto Moretti e di Guelfo Guelfi, che stette sempre con me e mi accompagnò
a visitare Ceccanti: testimonianza insuperabile da tutte le successive
versioni escogitate dall'accusa, salvo dichiarare anche Guelfi mentitore.
Il P.G. degli ultimi due processi, nell'impossibilità di far quadrare
i testimoni con l'accusa, e tenuto dalle Sezioni Unite a non liquidare
i testimoni all'ingrosso come falsi, era arrivato al ridicolo paradosso
di ipotizzare che, durante il capannello sotto il palco, io, inosservato,
fossi sgattaiolato al bar, di lì a chiacchierare di omicidi con
Marino, poi fossi rientrato, sempre non notato, nel capannello, per poi
allontanarmi con Guelfi alla volta della casa di Ceccanti. La sentenza
attuale, semplicemente, ha abolito il problema. Così facendo, è
arrivata -qualche pagina più in là, del tutto en passant-
a un riconoscimento che, trasferito nelle sentenze precedenti, o preso
sul serio anche in questa, basterebbe a chiudere la questione:
"Questa Corte dà poi pieno credito al racconto di Sofri, relativo
al suo allontanamento dalla zona con Guelfo Guelfi ed alla visita in casa
dell'amico Ceccanti dopo il comizio, ma ritiene che esso non sia incompatibile
con qualche minuto di colloquio con Marino, prima di lasciare la piazza"
(pp.248-49). Così si dà pieno credito a un racconto, salvo
dichiararlo compatibile con il suo contrario.
L'esatta testimonianza di Guelfi, che non si è mai allontanato da
me dalla discesa dal palco all'allontanamento dalla piazza, non c'è
più -nè gli altri, evocati a sproposito da Marino, come Brogi,
che quel giorno era a una pubblica manifestazione a Sampierdarena. In compenso,
la sentenza attuale si premura di negare che la pioggia non ricordata significasse
che Marino non era a Pisa (p.244): "Se poi si vuol dire che Marino
non era al Comizio, perchè non ricorda la pioggia..."! Nessuno
ha mai negato che Marino fosse al comizio, a cominciare da me, che (a differenza
dello stesso Marino, che aveva costruito la sua calunnia su quella prima
versione secondo cui era stato avvicinato da me e Pietrostefani) ricordai
che era venuto nella mia casa pisana quella sera: ciò che Marino
fu costretto ad ammettere, dopo aver detto a verbale che, dopo il preteso
colloquio nella piazza alla fine del comizio, "salutai il Sofri e
ripartii per Torino". Ora si gusti questo frutto singolare dell'intelligenza
del giudice estensore (p.245):
"Proprio guardando con attenzione le fotografie pubblicate, prodotte
dalle difese, si noterà che al comizio di Pisa alcuni dei partecipanti
avevano l'ombrello aperto, uno si riparava sotto un telo nei pressi del
palco, mentre lo stesso Sofri parlava protetto da un ombrello, sorretto
da un compagno, ma numerosi altri militanti, ascoltavano tranquillamente
il discorso privi di ripari, sia sul palco, sia nella piazza San Silvestro".
Chissà che quelli corsi ai ripari stessero già predisponendosi
l'alibi per vent'anni dopo. Ora, è impossibile aver ragione del
pregiudizio; quando il pregiudizio si allea con l'imbecillità, non
c'è niente da fare.
Solo tardi ci fu segnalata la cronaca che della giornata pisana del 13
maggio 1972 aveva fatto il settimanale anarchico Umanità Nova, (Anno
52, n.18, 20 maggio 1972). Scherzammo allora sul fatto che un giornale
anarchico sarebbe stato dichiarato inattendibile per definizione... Sta
di fatto che in quella cronaca ("Pisa. Comizio per Franco Serantini")
si scriveva che "un migliaio di compagni affollavano la piazza nonostante
la pioggia fitta". Una formulazione più di ogni altra corrispondente,
come si vede, al ricordo dei testimoni: una pioggia così forte da
far sottolineare che le persone restassero in piazza, e implicitamente
da confermare lo scioglimento rapido una volta concluso il comizio. Per
esempio, Guelfi: "P- Lei prima ha detto, dice: 'Pioveva e non c'era
da fare che rimanere o andarsene'. T- Certo. Secondo me era così".
Per esempio ancora, Boato: "Ovviamente... sarebbe ridicolo che noi
andassimo a fare una manifestazione per protestare per l'assassinio di
un ragazzo, e poi, perchè pioveva, ce ne andassimo; quindi è
ovvio che abbiamo aspettato la fine del comizio, e poi ce la siamo squagliata".
Ricapitolando la sua tesi, la sentenza, che fa il bello e il cattivo tempo,
scrive testualmente che "con assoluta certezza... non vi fu nessuna
pioggia battente": usando inavvertitamente le stesse parole, pioggia
battente, che i giornali del giorno dopo impiegarono facendo la cronaca
della manifestazione. Così viene "provato" il colloquio
fra me e Marino, e il mio mandato di omicidio.
IL BREVISSIMO COLLOQUIO
Il ridicolo ulteriore, già abbracciato da precedenti sentenze,
di dichiarare che dopotutto si trattava di un brevissimo colloquio, "essendo
già entrambi al corrente dell'operazione", è un ornamento
in più. Si ripercorra tutto quello che Marino ha successivamente
preteso di infilare dentro quel presunto colloquio -notizie sulla decisione
dell'omicidio, e le sue ragioni, il rapporto con l'uccisione di Serantini
ecc., istruzioni su come comportarsi in caso di "caduta", assicurazioni
circa l'avvocato e l'assistenza alla famiglia, notizie su un "industriale
di Reggio Emilia" (sic!) che si sarebbe accollato i costi dell'assistenza,
dichiarazione di fiducia in lui e l'"Enrico"-Ovidio, istruzioni
sul ritorno a Torino e l'attesa di una telefonata da parte di un "Luigi"-
e tutto ciò anche escludendo che sia io che Marino, che non ci vedevamo
da più di un anno, non ci dicessimo almeno come stai, come stanno
i figli, accidenti come piove, eccetera.
Provate a recitare di seguito questi argomenti in forma di dialogo, e cronometrate
la durata: dopo averlo fatto, leggete quello che la sentenza scrive a p.471:
"Marino... voleva soltanto avere il 'sì' del suo capo... Per
questo, basta un brevissimo incontro, lo scambio di poche parole".
Applausi. (Termina, la p.471: "L'obiezione della difesa non merita
pertanto considerazione").
Dunque, quello che nella sentenza si dice del dopo-comizio pisano (non
a caso evitato con maligna attenzione dalla sentenza suicida precedente,
decidendo la quale in camera di consiglio il Presidente aveva pronunciato
la frase testuale: "Se poi si passa a esaminare le posizioni personali,
non c'è la minima prova, anzi...") è la dimostrazione
palmare del pregiudizio di questo processo. Alla conclusione del quale,
dissi al Presidente Della Torre -avendo ben visto che non di un processo
si era trattato, ma di un agguato- che, redigendo le motivazioni di una
eventuale condanna, avrebbe potuto ricorrere a un solo argomento: "Si
condanna, o di riffa, o di raffa". Così è.
LE MENZOGNE IN FLAGRANTE: LA SENTENZA NON SE N'E' ACCORTA
Arrivò una prova flagrante, fra altre, della calunnia di Marino
quando, nell'interrogatorio al processo di primo grado, essendo venuta
a mancare la presenza a Pisa di Pietrostefani, il giudice chiese a Marino
di spiegargli chi mai avesse potuto dirgli che avrebbe dovuto tornare a
Torino e aspettare una telefonata di convocazione da parte di un tal "Luigi".
Infatti Marino aveva appena negato che io gli avessi detto niente del genere;
inoltre, io, che venivo da Roma per la manifestazione pisana, non sapevo
-secondo la stessa accusa- che l'avrei incontrato; nè ero a parte
degli aspetti organizzativi dell'attentato. Si rilegga -lo menziono per
l'ennesima volta- il verbale dell'interrogatorio, Marino che tace confuso,
balbetta qualche parola senza senso, e alla fine, non avendo altra via,
dice che gliel'ho detto io, e il giudice che lo avverte che ha già
detto che non potevo essere stato io, e conclude ironicamente: "Va
be', gliel'ha detto Sofri".
La sentenza non se ne occupa!
In compenso, risolve con uno zelo più marinista di Marino la scivolata
connessa a quella: Marino dice che torna a Torino e il giorno dopo riceve
in sede la telefonata. Nel pomeriggio, gli pare, e aggiunge che era solito
andare in sede nel pomeriggio, dopo il cambio turno alle fabbriche. Si
scopre che il giorno dopo era domenica, non c'era nessun turno alle fabbriche,
e nel pomeriggio di domenica di norma la sede restava chiusa. Si raccolgono
testimonianze su questo dettaglio, confermato dai verbali di polizia torinese:
non una domenica pomeriggio risulta l'apertura della sede dall'inizio del
1971 al 1973! Nell'arco di quei due anni e mezzo solo in due circostanze
è segnalata una presenza domenicale in sede, e sempre solo di mattina.
La sentenza scrive il falso, e lo accompagna con illazioni di logica triviale
che Marino non si era neanche sognato di escogitare. Sentite (p.252):
"E' del tutto normale l'apertura di una Sede Politica di Domenica
/maiuscole dell'Estensore, al solito/ quando i lavoratori e gli studenti
sono liberi da impegni ed occupazioni, essendo i militanti del Movimento
in prevalenza proprio studenti ed operai. /Chissà se si potrebbe
completare l'argomento, deducendo che la Sede Politica fosse chiusa nei
Giorni Feriali, ndr/. Del resto sul punto nessuna testimonianza è
stata introdotta dalle difese dei coimputati ossia per affermare che quel
giorno la sede era chiusa. Ciò senza contare che il Marino... poteva
benissimo avere le chiavi dei locali per accedervi a suo piacimento".
Partiamo dal fondo. Marino poteva avere le chiavi? Certo: solo che non
le aveva, e non ha mai detto di averle avute. Piuttosto, altri, interrogati
come testi, hanno riferito chi aveva le chiavi della sede. L'estensore
non se ne è accorto. Quanto alle testimonianze, ce ne sono di fatto
state -ignorate dall'estensore- sulle abitudini domenicali dei militanti
torinesi; se l'osservazione della sentenza si riferisce alle testimonianze
su quella specifica domenica pomeriggio, è semplicemente ridicola.
Quale ragione, al di là di una coincidenza rara, avrebbe potuto
portare a ricordare un dettaglio simile su una domenica qualunque di vent'anni
prima? Se testimoni in questo senso fossero venuti, la sentenza li avrebbe
ingiuriati entusiasticamente come bugiardi e complici. Avrebbe bensì
potuto esserci un rapporto di polizia, se la sede fosse stata aperta: ma,
appunto, non ce n'è traccia.
ANCORA SUI CAPELLI CHIARI
A p.255, la sentenza torna sui capelli ossigenati di Bompressi, ed enuncia principii come questo: "Se una persona è bruna di capelli deve cercare di apparire di colore opposto, ossia chiara, bionda"... Solo che nel nostro caso le cronache fin dal giorno dopo descrivono l'assassino come biondo, e dunque schiarirsi i capelli, e tenerseli ossigenati fino alla fine del mese -cioè per due settimane!- come la sentenza pretende che facesse Bompressi, è demente. Tant'è vero che la sentenza dà Bompressi come "schiarito" a Massa il 20 maggio: ma, a parte Marino (la cui fonte, abbiamo visto, è una suggestione di Antonia Bistolfi; e che a Massa il 20 maggio non c'era affatto), nessuno ha visto Bompressi imbiondito a Massa il 20 maggio, quando a vederlo furono migliaia di persone che lo conoscevano benissimo; e al contrario hanno escluso che potesse esserlo, da testi come Pegollo, secondo il quale se ne sarebbero fatte risate crasse, a testi come il commissario Costantino, che dichiara che l'avrebbe certamente notato.
LA SENTENZA ALZA IL GOMITO: IL 20 MAGGIO A MASSA
Vediamo a p.268 un nuovo capolavoro di malafede intrecciata a stupidità.
Io dico -e una quantità di testi con me- di non avere visto, e tanto
meno parlato, con Marino il 20 maggio a Massa, dove tenevo un comizio.
Tendo a escludere che Marino fosse fisicamente presente, e tendono a escluderlo
anche testimonianze come quella del commissario Costantino, sul controllo
attuato sulle auto affluite quel giorno nella città. (La zelante
sentenza supera d'un balzo la questione dicendo che Massa è piccola,
e Marino poteva parcheggiare in periferia, e arrivare poi in centro: solo
che i controlli erano stati fatti sulle strade di accesso, tanto più
per le auto con targa esterna; ed è lo stesso Marino a dichiarare
di aver parcheggiato nei pressi della piazza!)
Ecco la sentenza (p.268):
"Rilevante è appurare la presenza contemporanea di Marino e
Sofri a Massa per il Comizio del 20 Maggio, presenza riferita dagli stessi
interessati, e clamorosamente provata da documenti ineccepibili e da testi
di assoluta fede (Commissario Costantino-Giornali dell'epoca) per quanto
riguarda Sofri, testimonianze Bistolfi Vigliardi Paravia, per quanto riguarda
Marino".
Leggete con attenzione, per favore. La "presenza contemporanea...
riferita dagli stessi interessati", in italiano -tranne che in quello
martoriato dall'estensore- vuol dire che io ho riferito della presenza
contemporanea mia e di Marino, mentre io l'ho negata. O il giudice semplicemente
mente, o, tradito dalla debole padronanza della lingua, voleva dire che
"gli interessati" riferiscono ciascuno -o, almeno, io- della
propria presenza. Come equivoco, non c'è male. Il colmo arriva subito
dopo, quando la mia presenza al comizio tenuto da me (!) viene dichiarata
"clamorosamente provata".
(Infine, quanto a Marino, la Vigliardi Paravia non ha testimoniato affatto
della sua presenza, sicchè anche su questo punto la sentenza dice
il falso: e lo fa dicendo che la Vigliardi Paravia è, per antonomasia,
teste falsa). Si associno queste scempiaggini a quello che, sulla stessa
circostanza massese del 20 maggio, si è ricordato sopra a proposito
delle successive rincorse delle versioni di Marino sul mio arrivo a Massa
(in treno da Roma; in auto da Pisa, forse; in auto da Pisa, senz'altro,
compresi dettagli sul mio pasto consumato a Pisa prima di venire, infine).
Per abbondare nelle giustificazioni di Marino, la sentenza (p.268) "sottolinea"
che "il Marino riferisce i particolari del viaggio da Roma, "de
relato", per averli appresi da altri (Sofri o altri militanti) non
per asserita scienza propria". Allora: "per scienza propria"
qui non potrebbe significare se non che è stato Marino, e non io,
a fare il viaggio. Bellissima è poi la noncurante parentesi in cui
si attribuisce, a piacere, a "Sofri o altri militanti" la notizia
su come avrei viaggiato. Nessun "altro militante" è mai
stato evocato, nè da Marino nè da altri: invenzione del giudice.
Mettiamo poi che fossi stato io a dire a Marino che ero arrivato da Roma
in treno ecc.: dunque la versione di Marino, "de relato", lo
rende incolpevole della falsità (sono stato io a dirgli il falso...),
ma come si spiega poi che, a tempo debito, si ricordi addirittura che gli
ho detto di aver pranzato in famiglia a Pisa? Conclusione della sentenza:
"Quindi nessuna menzogna clamorosa da parte di Marino, ma piena credibilità
sul punto".
GLI AGGIUSTAMENTI E LE RETRODATAZIONI DI MARINO SUL MIO VIAGGIO A MASSA IL 20 MAGGIO 1972, SECONDO I VERBALI
Trascrivo la sequenza delle carte: è impressionante.
Marino, 21 luglio: "Sofri, in occasione del comizio di Massa del 20
maggio 1972, mi disse che egli era giunto da Roma in treno praticamente
controllato a vista da funzionari e agenti di polizia".
Sofri, 3 agosto: "Osservo infine che conto di mostrare che mi recai
a Massa al comizio del 20 maggio 1972 di cui si è lungamente parlato,
non in treno da Roma, ma in auto -non guidata da me: io non guido- da Pisa".
(Appunti integrativi all'interrogatorio, 3 agosto 1988).
Marino, 17 agosto: "Per quanto concerne la presenza del Sofri al comizio
di Massa, non escludo che egli possa essere venuto da Pisa in auto, in
quanto egli in quella città aveva la famiglia; confermo però
che il Sofri a Massa mi disse che il viaggio da Roma a Pisa lo aveva fatto
in treno controllato da funzionari di P.S.". (Pag.14 dell'interrogatorio
al P.M.).
Sofri, 10 settembre: "Secondo Marino gli avrei detto che ero venuto
da Roma in treno, e che il treno era pieno di poliziotti che mi seguivano.
Non mi fermo su quest'ultimo dettaglio, che non solo è falso (ero
arrivato da Pisa in auto) ma è un'evidente baggianata".
Teste Giovanni Buffa, 14 settembre: "Prima di partire per Massa alle
16 ricordo di aver visto precedentemente nella stessa giornata l'Adriano,
probabilmente prima di pranzo, nella sede di L.C.di Pisa... Non so se l'Adriano
era venuto a Pisa ove aveva la famiglia, proveniente da Roma, quello stesso
giorno o in precedenza.
L'unica cosa che posso dire è che io lo vidi nella sede di L.C.
poco prima di pranzo e in quell'occasione presi accordo con lui e con altri
per partire per Massa alle 16". (Foglio 23 del G.I.).
Marino, 15 settembre (il giorno dopo!): "Ho chiesto di essere nuovamente
interrogato in quanto devo precisare due circostanze. La prima è
questa: a pag.14 dell'interrogatorio reso al P.M. ho riferito che Adriano
Sofri prima del comizio di Massa mi disse che la situazione era incandescente
e che egli era venuto in treno da Roma, controllato a vista da funzionari
di P.S. Mi precisò che aveva viaggiato in treno da Roma a Pisa,
dove si era fermato a pranzo presso la sua famiglia e poi nel pomeriggio
era stato accompagnato a Massa. Ho voluto fare tale precisazione in quanto
dalla verbalizzazione della pag.14 poteva apparire che egli era venuto
direttamente da Roma a Massa. In effetti mi sono ricordato del particolare
che si era fermato a pranzo presso la sua famiglia a Pisa e, volendo essere
preciso e dettagliato su ogni particolare, mi è sembrato giusto
fornire tale dettaglio". (Foglio 4 dell'interrogatorio al G.I.).
TESTIMONI? NO, GRAZIE
A p.273 la sentenza inaugura una parte dedicata alla "Attendibilità
dei testimoni". E la risolve subito, richiamandosi alla sentenza di
primo grado, così:
"E' stata correttamente ritenuta, in generale, l'inaffidabilità
per così dire fisiologica, dei testi oculari dell'omicidio, episodio
improvviso, sconvolgente e fulmineo del suo accadimento".
Dunque: testi oculari, sconosciuti agli imputati, fisiologicamente inattendibili.
Conclusione:
"Soltanto il racconto di Marino appare coerente e sicuro, confortato
da dati obbiettivi ineccepibili e da una stringente logica dei fatti"
(p.290). Andiamo avanti:
"E' stato tenuto il debito conto delle collocazioni famigliari, amicali,
di frequentazione, di colleganza ideologica, di militanza politica fra
testi ed imputati".
Dunque: testi conosciuti agli imputati, "ideologicamente, per sentimenti
di amicizia, per spirito di colleganza e per coerenza politica, propensi
agli imputati", cioè falsi o comunque inattendibili.
Con un'eccezione: Antonia Bistolfi, la cui "collocazione famigliare"
di convivente di Marino (imputato anche lui, benchè la sentenza
ci passi sopra) non le impedisce di essere una testimone verace per eccellenza.
Dunque, in pieno spregio del dettato delle Sezioni Unite sulla valutazione
dei testimoni, la sentenza li enuncia a priori nulli, e non avvenuti.
SEZIONI UNITE? NO, GRAZIE
A p.302, tornando, nel suo allegro girotondo, alla questione dell'Esecutivo
Nazionale, dopo aver ricordato che le Sezioni Unite non avevano messo in
dubbio l'esistenza dell'Esecutivo (da nessuno negata, e da noi imputati
dettagliatamente e documentatamente descritta in primo grado) bensì
raccomandato l'esame adeguato della sua "struttura, delle funzioni
svolte e dei reali poteri esercitati", la sentenza rovescia bellamente,
e senza curarsi di darne alcuna giustificazione, l'indicazione delle Sezioni
Unite:
"L'esame della Corte deve essere dunque diretto, non tanto alla definizione
della struttura 'Esecutivo Nazionale' nei suoi elementi costitutivi, quanto
alla sua esistenza reale, che rappresenta un valido riscontro obbiettivo
al racconto di Marino".
Deridendo l'argomentazione delle Sezioni Unite, la sentenza afferma dunque
che "l'esistenza dell'Esecutivo", da nessuno negata, è
"un valido riscontro obbiettivo" a Marino. Tanto varrebbe scrivere,
coi timbri di una Corte d'Appello, che se Marino riferisce dell'esistenza
della Spezia, questo gli fa da riscontro.
LOTTA CONTINUA TERRORISTA
In tutti i primi interrogatori la parte che Marino attribuisce all'Esecutivo
è essenziale e maniacale: l'Esecutivo ha deliberato la struttura
clandestina, l'Esecutivo progetta l'omicidio nel '71, l'Esecutivo ne decide
l'attuazione nel '72 -con favorevoli e contrari!-, non solo: ma Marino
dichiara di venire a Pisa a cercare la conferma che "la decisione
provenisse dall'Esecutivo". Dopo tante altre smentite, al mio interrogatorio
in dibattimento io dirò anche: "Qualunque persona che mi abbia
conosciuto... non può immaginare che io dica qualcosa a nome di
un Esecutivo politico. Che io invochi l'autorità di un organismo
dirigente, parlando con qualcuno, tanto più con Marino... E' impensabile,
una cosa del genere". Marino aveva detto, in istruttoria: "Risposi
che intendevo prima parlare con qualcuno dell'Esecutivo Politico... Subito
dopo il comizio il Sofri ed il Pietrostefani mi avvicinarono: ricordo che
ci recammo prima a bere qualcosa in un locale pubblico e poi ci appartammo
a discutere per la strada. Essi mi confermarono che la decisione proveniva
dall'Esecutivo Politico" (foglio 8 P.M.); "Preciso che mi ero
recato a Pisa anche per parlare con qualcuno dell'esecutivo in ordine all'attuazione
del progetto di eliminare Calabresi. Ricordo perfettamente che, dopo il
comizio, mi appartai a parlare con Sofri e Pietrostefani/.../ Volevo la
certezza che fosse stato l'esecutivo a decidere l'azione" (foglio
3 del G.I.). "Con il Sofri invece che gravitava all'epoca sull'asse
Roma/Napoli mi era impossibile parlare dell'azione ed oltretutto io volevo
la conferma da lui che era d'accordo l'Esecutivo e lui stesso ad uccidere
Calabresi. E' per questo motivo pertanto che mi recai ai comizi..."
(foglio 12 del G.I.); eccetera eccetera. Ebbene, al dibattimento Marino
dice testualmente (pagg.70-71):
"A domanda del Presidente- /A Pisa, a Sofri/ lei ha fatto la specifica
domanda: 'Ma è stato deciso dall'esecutivo politico?', o ha detto
soltanto: 'Ne sei a conoscenza?'
I. No. Io a Sofri ho soltanto chiesto se era a conoscenza e se era d'accordo.
/.../
P- Quindi, non ha chiesto se c'era stata una decisione dell'esecutivo politico?
Praticamente, tutto questo non le interessava?
I- No, questo discorso qui con Sofri non lo feci".
GLI ARTICOLI DI GIORNALE SONO IL RISCONTRO CONTRO DI ME
La parte dedicata dalla sentenza alla lettura di testi politici -giornale di L.C., documenti pubblici- è, oltrechè un'arbitraria forzatura di scritti politici a un'interpretazione penale, un ridicolo esercizio di incompetenza e di ignoranza. Questo era già avvenuto abbondantemente nelle precedenti sentenze. A p.461 si legge: "Gli articoli comparsi sul giornale di Lotta Continua del 18-20-28 Maggio 1972, valgono quale riscontro per tutti gli imputati, ma in particolar modo per Sofri".
DEL DOPPIO USO DELLE RAPINE
Abbiamo detto del peso attribuito, come in altri gradi, alle rapine, usate come un anello della catena che va dall'"organizzazione illegale" all'omicidio: per giudicare dunque di un omicidio non provabile attraverso delle rapine. Valgano osservazioni già fatte in passato, e motivate del resto nella sentenza delle Sezioni Unite. Le rapine non sono, nè possono essere, un riscontro all'omicidio. Si aggiunga, per esempio nel mio caso, che io non sono stato imputato di alcun rapporto con una sola rapina. Emerge evidente la strumentalizzazione delle imputazioni per rapine dalla differenza fra il loro esito in processi stralciati, come quelli celebrati a Torino o ad Aosta per le rapine "postpolitiche" di cui Marino si è accusato e ha accusato altri, nei quali tutti i chiamati in correità da Marino sono stati assolti con sentenze passate in giudicato. Il contrario è avvenuto nel nostro processo.
RIALZA IL GOMITO
Tanto va il giudice estensore al lardo dell'ultra-accreditamento di Marino, che ci lascia lo zampino. Così a pp.332-33, dove corregge la data, nell'estate 1970, ricordata da me e da Enzo Piperno, di un viaggio a Reggio Calabria cui partecipò Marino. Essa avvenne, dichiara la sentenza, "indiscutibilmente", nell'estate 1971: tant'è vero che il 29 agosto 1971 avvenne "lo spostamento di Marino da Torino a Massa, ossia direzione Sud, in occasione della rapina alla Nuova Pignone": "riscontro perfettamente valido"! A parte la coincidenza secondo Della Torre fra uno spostamento "in direzione Sud" e un viaggio a Reggio Calabria, quest'ultimo è esattamente riferito, nel 1970, nelle carte di polizia della Questura torinese. Infortunii.
LE POSIZIONI PERSONALI: GLI STRAFALCIONI SU BOMPRESSI
Viene poi la parte dedicata alle situazioni personali degli imputati:
mi occuperò naturalmente -l'ho già fatto, in gran parte,
tenendo dietro al girotondo della sentenza- della mia. Non senza notare
alcune enormità riferite a Bompressi.
La prima, riguarda il ragionamento svolto sui testi della presenza a Massa
di Bompressi nella tarda mattinata del 17 maggio 1972: testi, si decreta,
parziali e dunque falsi. E' difficile capire come mai testi così
affezionati da dire concordemente il falso non abbiano procurato allo stesso
Bompressi un alibi ancora più ferreo, collocando le loro false testimonianze
nelle ore più precoci della mattina. La sentenza accredita testimonianze,
come quella di Tognini -p.408; peraltro, quando Tognini dà fastidio
all'accusa, diventa inattendibile anche lui- che dicono di non poter riferire
della presenza di Bompressi in sede la mattina. Bene: ma se avessero detto
il contrario, sarebbero state categoricamente tacciate di falsità.
La conseguenza è inevitabile: qualunque cosa sostenessero, le testimonianze
sarebbero state condannate all'invalidità e alla denigrazione del
giudice.
Il quale va strepitosamente allo sbaraglio su un punto cruciale come la
data in cui emersero le testimonianze sulla presenza di Bompressi in un
bar di Massa fra le 12 e le 13 del 17 maggio: addirittura deplorando la
"tardività" di quelle testimonianze, l'estensore della
sentenza le ritiene (p.414) successive di un anno all'arresto! Si è
sbagliato di un anno pieno. E' incredibile: sentite. Scrive la sentenza:
"Il collegamento fra la notizia apparsa sulla stampa (Giornale "Repubblica
del 29 luglio 1989 -sic!), dopo che era stata presentata la deduzione istruttoria
del 24 luglio 89, ed i testi escussi dal Magistrato Inquirente e quelli
introdotti in dibattimento..." ecc. Ma la notizia era uscita su Repubblica
un anno prima, il 29 luglio 1988, cioè del giorno dopo l'arresto
nostro e di Bompressi: in una corrispondenza da Massa dell'inviato Paolo
Vagheggi, che aveva raccolto le dichiarazioni dei testimoni. A simili strafalcioni
arriva una sentenza di condanna, ricamandoci su anche le proprie disquisizioni.
Con la stessa noncuranza, la sentenza (p.411) salta a pie' pari la questione
della possibilità di Bompressi, se si fosse trovato in via Cherubini
all'ora del delitto, e alla stazione di Milano all'ora riferita da Marino,
di raggiungere Massa entro l'ora in cui i suoi testimoni hanno ricordato
di averlo visto e di aver parlato con lui, dichiarando: "E' più
aderente alla realtà dei fatti accettare il racconto della permanenza
di Bompressi a Milano dopo l'attentato, ospite di Luigi" (p.411).
Solo che qui le testimonianze da liquidare non sono solo quelle dei tre
avventori del bar all'ora di colazione del 17 maggio, bensì la moltitudine
di altri che ricordano Bompressi attivo nei giorni precedenti il 20 maggio
nella preparazione del mio comizio massese. Per eccesso di zelo, o cattiva
conoscenza degli atti, il giudice non ha arretrato davanti all'assurdo.
E ha ribadito lo svarione quando scrive (p.415) che nessun testimone "lega
il proprio ricordo a un fatto particolare dell'attività svolta da
Bompressi quel mattino, o in quei giorni, nell'ambito del Movimento di
Lotta Continua": mentre tutti i testimoni lo fanno, da quelli che
parlano del volantinaggio del 17 maggio, a quelli che parlano della preparazione
del comizio del 20 maggio.
MARINO RISCONTRATO DA MARINO
Sulla mia posizione: si dice che le telefonate intercettate fra la mia
compagna e miei amici, Deaglio, Boato ecc., non possono costituire riscontro
alle accuse, ma provano il grande affetto che gli interlocutori avevano
per me, e dunque l'inattendibilità delle loro testimonianze. Non
c'è male.
Si dice (p.453) che il "valido riscontro obbiettivo" all'accusa
di Marino sta nel racconto dell'ex senatore Bertone, al quale Marino aveva
fatto il mio nome come responsabile della decisione sull'omicidio Calabresi.
Bello, che Marino che mi accusa nel luglio 1988 sia riscontrato da Marino
che mi aveva accusato nel maggio 1988. Tanto più se si pensa che
sia Marino che Bertone hanno fatto di tutto perchè del loro incontro
non si sapesse, e fui io a renderlo noto in tribunale.
DOPO IL FUNERALE
A p.472 la sentenza addebita, in pieno delirio, a Soriano Ceccanti di
aver "confuso platealmente" il comizio di Sofri con quello di
qualche giorno prima per il funerale di Serantini. Niente del genere è
avvenuto, e di plateale c'è solo l'ottusità del giudice estensore.
Ecco che cosa scrive: "Dice infatti il teste: 'si ci fu un comizio
dopo il funerale di Franco Serantini. Un comizio, una manifestazione. Presidente:
In che epoca siamo? In che anno? teste: Maggio 72. Presidente: Il giorno
non lo ricorda? teste: il 13. Ebbene il 13 Maggio non vi è stato
alcun funerale di Serantini".
Che si possa essere così stupidi, è difficile credere. "Dopo
il funerale di Serantini" non vuol dire affatto, per Ceccanti, che
peraltro segue la traccia della domanda del Presidente -il quale non si
sogna nemmeno di equivocare- il giorno del funerale: interpretare le sue
parole come fa Della Torre equivale letteralmente a interpretare la formula
"dopo Cristo" come se si trattasse della notte della sepoltura
di Gesù. A Ceccanti che ricorda esattamente una manifestazione e
un comizio il 13 maggio, il Presidente di una Corte d'Assise d'Appello
obietta trionfante che il 13 maggio non vi fu "alcun funerale di Serantini"
(espressione, oltretutto, cinicamente volgare: come se vi fossero stati
molti funerali di Serantini).
La falsificazione continua attribuendo a Ceccanti di non aver precisato
"neppure approssimativamente" quando sarebbe andato via dalla
piazza del comizio. (Ceccanti dice di essere andato via prima della fine
del comizio, e di essere arrivato a casa "fra le 7 e le 7,30"-
p.1535 dibatt.).
DIRITTI DELLA DIFESA? NO, GRAZIE
E veniamo ai miei numerosi testimoni del dopo-comizio. La sentenza scrive
che "tutti sono stati aderenti di Lotta Continua". Già:
era difficile che venissero a quel comizio dei democristiani di Avellino.
Aggiunge che "tutti sono stati escussi dopo il deposito degli atti
processuali": ciò che è un pieno e insindacabile diritto
della difesa, e per di più coincise con la decisione, pubblicamente
motivata, di non collaborare più con l'istruttoria dopo che il giudice
istruttore si fu dimostrato ad abbondanza fazioso e ostile a tutto ciò
che intralciasse la sua frettolosa dichiarazione di colpevolezza. Sentite
l'appendice delle obiezioni della sentenza ai testimoni:
"Non è quindi logicamente sostenibile che proprio costoro spontaneamente,
andassero a riferire all'Autorità Giudiziaria circostanza negative
ed esiziali per l'imputato" (sic, tutto!- p.474).
CARTE FALSE, TESTIMONI SMARRITI
Culminante falsificazione:
"Il ricordo dei testi non ha per oggetto una circostanza positiva
ossia 'un incontro' bensì una negativa, ossia il 'non incontro'.
Ebbene per escluderlo costoro avrebbero dovuto tenere costantemente sotto
controllo Adriano Sofri, mentre nessuno di loro, sfollando dal comizio
ha dichiarato di averlo seguito pedissequamente, minuto per minuto. Anche
questa obiezione non merita pertanto accoglimento".
Nessuno di loro: ecco cancellato Augusto Moretti, ecco cancellato Guelfo
Guelfi. Tetimonianza Moretti, pagg.1503-1504 del dibatt.1° grado: "Ho
partecipato a questa discussione /sulla lapide/ e contemporaneamente c'era
un altro problema. Dicevo erano due quelli fondamentali. E cioè,
era un problema di mandati di cattura che ci erano stati comunicati fossero
stati spiccati nei confronti di vari esponenti di Lotta Continua di Pisa,
in riferimento alla manifestazione del 5 maggio... Questa notizia ci fu
portata, arrivò esattamente più o meno nel momento in cui
si discuteva di questa cosa della lapide...
P- Va beh, Moretti, quindi si discusse anche di questo con Sofri.
T- No,no. Non con Sofri. Non credo con Sofri. Si discusse di queste cose
qui e c'era anche il Sofri. Il Sofri intervenne semplicemente su quel problema
della lapide, ma diciamo, marginalmente...
P-Lei vide allontanarsi Sofri?
T- Sì, Sofri si era allontanato già prima che noi finissimo,
insomma, tutte queste discussioni. Si era allontanato con Guelfo Guelfi...
P- E quindi, in questo lasso di tempo, lei non ha visto o sentito dei compagni
di Massa parlare con Sofri per qualche altro problema?
T.-Sì, sì. Non solo compagni di Massa. C'erano compagni di
varie sedi... che richiedevano a Sofri di andare nelle loro città
a tenere comizi".
Per giustificare l'escogitazione che io mi fossi allontanato due volte
dal capannello sotto il palco, la prima volta, non notato, per andare al
bar, a parlare con Marino ecc., e poi rientrare (!) il P.G. in aula si
era spinto a sostenere che nessuno dei testimoni avesse seguito l'insieme
degli argomenti di cui si era parlato sotto il palco, e che ciascuno si
fosse limitato a riferire di un singolo tema: così da lasciare il
varco in cui infilare la disperata invenzione della mia andata e ritorno
dal capannello. In questa spericolata toppa finale, il P.G. dimenticava
fra l'altro che non una delle molte versioni di Marino -da "Pietrostefani
e Sofri mi avvicinarono", a quella in cui io lasciavo la piazza seguito
da un codazzo di "dirigenti di Lotta Continua", poteva adattarsi,
neanche a martellate, con l'ipotesi del P.G. (Si confronti la versione
di Marino, al confronto con me: "A richiesta di precisazione del Sofri,
dico che io e il predetto ed altre persone andammo prima in un bar a bere
qualcosa e poi io e lui ci appartammo e parlammo in strada di quanto sopra
detto... Quel giorno a Pisa c'era moltissima gente e c'erano anche molti
dirigenti nazionali di Lotta Continua. Quando noi ci allontanammo tutti
questi compagni dirigenti di altre città seguivano Adriano").
Infine, a parte tutto ciò, la testimonianza di Moretti mostra letteralmente
che è falso che nessuno abbia riferito di tutta la discussione.
Ancora più drasticamente, Guelfo Guelfi, a sua volta, non solo ha
testimoniato di non avermi mai perso di vista, ma ne ha spiegato anche
la particolare ragione. (Voleva parlarmi del suo desiderio di tornare a
Pisa da Gela, dove era andato a fare il militante politico). Così
il responsabile di una sentenza abroga -non confuta: semplicemente li fa
sparire- due testimoni chiave, contro i quali si erano invano accanite
le accuse nei processi successivi.
NON NE AVEVA BISOGNO...
Veniamo all'incontro serale nella casa pisana della mia famiglia, da
Marino prima negato ("salutai Sofri e ripartii per Torino"),
poi ammesso, infine perfettamente ricordato... La sentenza argomenta che,
per passare la sera a farmi visita, Marino doveva avermi già incontrato
e parlato, se no non avrebbe potuto sapere che mi avrebbe trovato a casa.
Non rispondo io; lascio rispondere Marino stesso (nel confronto con me:
è agli atti, quegli atti che il giudice non ha avuto la pazienza
di leggere):
"Non escludo che io mi possa essere recato a casa del Sofri a Pisa
la sera del comizio; d'altronde non avrei avuto bisogno di chiedere il
permesso a lui perchè era una cosa usuale che tutti i compagni andassero
a trovare Sofri a casa...".
Se Marino fosse venuto per una ragione così vitale, e dunque temendo
di non riuscire a parlarmi -che cosa avrebbe fatto per esempio se io fossi
ripartito immediatamente per Roma scendendo dal palco?- avrebbe cercato
di avvicinarmi prima del comizio. (Marino, verbale del primo grado, pag.64:
"Si arrivò a Pisa nel primo pomeriggio...").
Per confutare Guelfi -che avrebbe voluto parlarmi, e infatti lo fece, della
sua intenzione di rientrare da Gela a Pisa- la sentenza di primo grado
(pag.615) aveva insinuato che avrebbe dovuto venirmi a parlare prima del
comizio... Allora: Guelfi sì, e Marino, che avrebbe avuto ben altra
urgenza, no?
I VERBALI SULLA VISITA SERALE DEL 13 MAGGIO
Marino, al confronto con me: "Ci salutammo ed io tornai a Torino".
Io, al confronto: "Alla fine del comizio Marino non andò a
Torino, ma da qualche parte a Pisa che non so, e poi venne a casa mia".
Marino, al confronto: "Non escludo che io mi possa essere recato a
casa del Sofri a Pisa la sera del comizio".
Marino, al dibattimento: "Poi... siamo rimasti un po' a Pisa. Evidentemente,
siamo andati a mangiare qualcosa, e poi...
[...] Poi, prima di partire per Torino, andammo a casa del Sofri per salutarlo".
LIGGINI AVEVA SEMPRE AVUTO CINQUANT'ANNI
Eccoci ora a un vero scoop della sentenza. Viene esaminata la testimonianza
di Marco Liggini -che è morto: il pubblicista (è stato il
principale artefice della ricerca sulla "Strage di stato") che
incontrai vicino alla redazione del giornale la mattina del 17 maggio 1972,
e da cui appresi la notizia dell'attentato a Calabresi. Comincia la sequela
di menzogne e svarioni della sentenza. Prima menzogna: Sofri al Magistrato
inquirente "aveva riferito che era stato avvisato dell'omicidio da
'un giovane' di cui però non si ricordava nè il nome, nè
le circostanze del colloquio". Non è vero; non ho mai detto
di non ricordare nome e circostanze. Ecco lo svarione: "Al Dibattimento,
quel giovane diventava il cinquantenne giornalista Marco Liggini... Ed
allora come può corrispondere all'immagine di un 'giovane' militante
una persona nata il 29.11.1940, ossia di due anni più anziana dell'imputato
e che al momento della deduzione istruttoria (20 febbraio 90) aveva già
quasi 50 anni?" Allora: in effetti, al dibattimento il giovane era
diventato cinquantenne, per la rara ragione che dal 1972 al 1990 erano
trascorsi 18 (in lettere: diciotto) anni! Quel giorno del 1972 Liggini
era un giovane trentaduenne. Il giudice estensore, nella sua perspicuità,
mi ha colto in fallo per non aver dichiarato nel primo verbale del 1988
di aver incontrato nel '72 un cinquantenne del 1990.
(Nelle righe che seguono, si dice falsamente che Liggini non ricordò
una sola parola di commento mio alla notizia: è vero il contrario).
LA PASSIONE PER LE MAIUSCOLE
"Il teste ha riferito di avere avuto notizia dell'omicidio Calabresi
da più telefonate, di colleghi e avvocati, mentre il capo indiscusso
di Lotta Continua ha dichiarato che quel mattino non aveva ricevuto nessuna
informazione... Non appare assolutamente credibile che un Uomo Politico
un Giornalista-Direttore di un quotidiano di tanto rilievo, non avesse
avuto una radio, non avesse ascoltato nessun notiziario e fosse completamente
isolato dal mondo".
Delirio, appunto. Venivo, a piedi come sempre, al giornale, con la mia
compagna, e col nostro cane. Sono onorato delle Maiuscole postume di cui
la sentenza mi gratifica: ero una persona poverissima e contenta, abbastanza
giovane, senza telefono, e innamorata. Non ero isolato dal mondo, col cui
destino mi identificavo fervidamente: semplicemente, ero a qualche isolato
dalla redazione, e mi alzavo tardi.
L'INDUSTRIALE DI REGGIO EMILIA: SCOMPARSO
Così sono stato condannato di nuovo. Altre cose, tormentosamente e malignamente trascinate nei processi precedenti, sono d'incanto scomparse. L'industriale di Reggio Emilia, per esempio: scomparso. Nel processo precedente, quello concluso con l'assoluzione e la truffa della sentenza suicida, avevo completato la ricostruzione e lo svergognamento della calunnia sull'"industriale di Reggio Emilia". Bene. Non se ne parla più.
DELINQUENTI ABITUALI
Non mi occupo di argomenti per i quali la mia conoscenza e competenza è minima, come il contesto dell'esecuzione del delitto, benchè veda che in questa parte la sentenza ha accumulato alcune fra le più temerarie tesi. Delle "Considerazioni finali", destinate in sostanza a motivare la mancata concessione delle attenuanti prevalenti sulle aggravanti, chiesta "in estremo subordine" da alcuni difensori, va sottolineato il succo: e cioè che gli imputati non sono stati solo assassini efferati nel 1972, ma sono rimasti delinquenti impuniti per tutta la vita. Altro che gli editoriali alla Montanelli sul fatto che "gli imputati non sono più le stesse persone": Pietrostefani "non risulta aver mai ripudiato, nè con scritti nè verbalmente, il Movimento eversivo, del quale è stato esponente di spicco". "Non una sola parola di recriminazione per l'omicidio e di commiserazione per la vittima". "Assenza di qualsiasi segnale di resipiscenza, di rimorso, di confessione da parte degli imputati". "Anche nel corso della presente fase del giudizio non una sola parola di esecrazione del crimine o di comprensione verso la vittima ed i figli superstiti è stata pronunciata dai tre prevenuti". "Nessuna indicazione concreta di lodevoli condotte susseguenti, nessun richiamo a qualità personali meritevoli di considerazione è stata fatta nel caso in esame, mentre non risulta aliunde segnalata od è emersa dagli atti processuali".
Così il giudice estensore, Presidente di Corte d'Assise d'Appello, Giangiacomo Della Torre, ha concluso la fatica di motivare una condanna che aveva già dolosamente pronunciato prima di dichiarare aperto il processo.